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Strumenti in Psico-Oncologia

RIVISTA SEMESTRALE

Numero 8, Maggio 2012

Marco Bonanno, Domenico A. Nesci, Céline Mégégaze, Simona Sica
TRANSFERT E CONTROTRANSFERT IN UN SETTING ISTITUZIONALE: UNA SCENA CLINICA.


A cura di Pamela Banchi

Segnaliamo in questo numero di Strumenti in Psico-Oncologia un lavoro che è stato pubblicato sulla rivista telematica www.doppio-sogno.it n. 2 Giugno 2006, ringraziando l’Editore (The InternationalInstitute for Psychoanalytic Research and Training of Health Professionals - IIPRTHP) per l’autorizzazione. Il lavoro prosegue il tema delle dinamiche transferali nella relazione d’aiuto, introdotto nell’intervista del Dr. Musti, psicologo e infermiere, mostrando come questi fenomeni siano universali e non riguardino solo lo psicoanalista e l’analizzando nella stanza d’analisi ma coinvolgano chiunque svolge una professione sanitaria.


Transfert e Controtransfert in un setting istituzionale:

una scena clinica.

Dal 1999 è operativa, di fatto, un’area della Psico-Oncologia all’interno del Servizio di Consultazione Psichiatrica (Responsabile il Prof. Pietro Bria) del Policlinico “Agostino Gemelli” di Roma, anche grazie alla presenza di numerosi tirocinanti che frequentano i Corsi di Perfezionamento in Psico-Oncologia dell’Università Cattolica e la Scuola Internazionale di Psicoterapia nel Setting Istituzionale (S.I.P.S.I.).

Nel corso di questi anni è stato così possibile strutturare una modalità di intervento fondata sull’accompagnamento al paziente durante tutto il periodo necessario per le cure in ospedale in quei Reparti che ne hanno fatta richiesta esplicita. In modo particolare, è in atto da anni una stretta collaborazione con il Reparto di Ematologia (Direttore il Prof. Giuseppe Leone) dove cerchiamo di farci carico di ogni nuova situazione fin dal momento della diagnosi, seguendo, di conseguenza, tutte le fasi del processo terapeutico (chemioterapia, radioterapia, eventuale trapianto di midollo, remissione, eventuali recidive o fase terminale). Quando riusciamo a costruire, nel tempo, una buona relazione con il paziente, diventa così possibile gestire con efficacia i momenti di crisi, anche grazie alla piena integrazione con il consulente del Servizio di Consultazione Psichiatrica del Policlinico, che è uno psicoanalista.

L’obiettivo primario del lavoro è offrire al paziente ed alla famiglia un contenimento rispetto all’angoscia di morte, alla rabbia ed alla depressione che la malattia oncologica provoca inevitabilmente. Un contenimento efficace ed una relazione “sufficientemente buona” (Winnicott, 1951) nel tempo ci permettono di accompagnare il paziente nella ricerca di un senso personale e privato da dare alla malattia oncologica la quale è vissuta, all’inizio, con estrema angoscia.

La descrizione della scena clinica e della cornice in cui si svolge il nostro lavoro è scritta in prima persona perché appartiene all’esperienza clinica diretta dello psicoterapeuta psico-oncologo che ha seguito il paziente (il Dr. Marco Bonanno) e che ha preso nota dei suoi vissuti mano a mano che questi affioravano nel corso della vicenda che si è svolta nella Sezione Trapianti dell’Ematologia (Responsabile la Prof.ssa Simona Sica).


La cornice del campo osservativo

Una volta a settimana accompagno, con uno o due psicologi tirocinanti, il personale medico durante “il giro” delle visite, nel reparto. In questo modo abbiamo la possibilità di avere molte informazioni sia sull’effettivo stato di salute dei pazienti e sulle terapie in corso, sia siamo in grado di conoscere immediatamente le nuove diagnosi con i relativi piani di cura. In base alle esigenze dei pazienti ricoverati ed all’andamento delle attività assistenziali nel reparto, ci organizziamo, in seguito, per effettuare dei colloqui nell’arco della settimana, al letto del paziente, ed eventualmente anche con i familiari, nella stanza di degenza oppure nei corridoi, o in una stanza temporaneamente resa disponibile per noi, nel reparto stesso.

L’estrema flessibilità del nostro approccio psico-oncologico, che non ci vede mai soli sulla scena, consente facilmente l’introduzione di risorse umane inaspettate, attirate nel nostro Policlinico sia dai Corsi in Psico-Oncologia che dal tirocinio nell’area psico-oncologica della nostra Scuola di Specializzazione in Psicoterapia.

L’anno scorso sono stato affiancato nel Reparto di Ematologia da una studentessa di psicologia straniera, che era venuta in Italia con la precisa finalità di effettuare un tirocinio di osservazione in Psico-Oncologia presso una struttura ospedaliera. Il tirocinio è durato circa quattro mesi. Questo le ha dato la possibilità di osservare un paziente dal momento della diagnosi fino ai vari cicli di chemioterapia necessari per portare in remissione la malattia ematologica.

Il paziente di cui parlerò, e che chiamerò “Z”, é un uomo di quarantacinque anni, affetto da Leucemia Mieloide, sposato e con una figlia di 10 anni. Ha, inoltre, un fratello ed una sorella che sono stati molto presenti in ospedale. I genitori erano morti, deceduti tutti e due di cancro.

Z ha sempre accettato gli incontri proposti, cercando spesso di monopolizzare il nostro tempo e la nostra attenzione. Parlava molto ma, quasi sempre, restando ad un livello estremamente superficiale. Quando cercavo di fare domande per comprendere meglio il suo vissuto emotivo o i suoi sentimenti nei confronti della moglie e, soprattutto, della figlia, che era costretto a non poter vedere perché di età inferiore ai quattordici anni, cercava di spostare la discussione su tematiche più generali. Durante i molti incontri che abbiamo avuto, Z esprimeva spesso sentimenti di svalutazione nei confronti del personale medico ed infermieristico, dicendo, ad esempio, che non erano abbastanza chiari nelle comunicazioni o, delle volte, deliberatamente evasivi se non, addirittura, incompetenti. Li utilizzava, cioè, come un capro espiatorio o, meglio, come dei pharmakoi, come dei farmaci viventi, in una prospettiva etnopsicoanalitica (Nesci, 1991).

Con me Z mostrava degli atteggiamenti di sfida che miravano a svalutare le mie competenze nell’ambito della Psico-Oncologia, cercando spesso di invertire i ruoli tra lui (paziente) e me (psicologo). Sicuramente, l’aspetto “paranoide” legato alla malattia oncologica vista come “aggressore interno” (Fornari, 1985; Nesci e Poliseno,1997) era stato proiettato verso il personale medico ed infermieristico, ed io ero stato escluso da questa dinamica, anche se, indirettamente, ne avvertivo il peso ascoltando i racconti che Z faceva..

Abitualmente, durante i vari colloqui, avevo l’abitudine di posizionarmi “fisicamente” tra Z e la tirocinante, che chiamerò “O” visto che aveva come mandato quello di osservare silenziosamente. Z, molto spesso, cercava, provocatoriamente, di far parlare la tirocinante, rivolgendole domande insistenti e che riguardavano, delle volte, la sua sfera personale. Anche se avevo cercato di chiarire con Z il ruolo di osservatrice silenziosa di O, questi tentativi non sortivano gli effetti desiderati. Questo aspetto di insistenza verso l’osservatrice silenziosa aveva dato modo a me e a O di riflettere sulle dinamiche paranoidi di Z, proiettate, oltre che sui vari membri dell’équipe curante, sul silenzio di cui O era portatrice e che Z non era capace di non cercare di farle infrangere.


La scena clinica

Durante un incontro accadde una situazione particolare: quel giorno ero molto affaticato, così decisi, una volta entrato nella stanza di Z, di sedermi su una sedia e parlare con lui da un’altra posizione, più lontano, rispetto al mio modo abituale di lavoro, accanto al letto del paziente. Dopo pochi minuti dall’inizio del colloquio Z cominciò in maniera molto insistente ed invadente a fare domande ad O di natura personale, mettendola in difficoltà dato il suo ruolo di osservatrice e non potendo, dunque, rispondere alle sue provocazioni.

Usciti dalla stanza O era visibilmente irritata contro di me. Il tono della sua voce e l’espressione del suo volto facevano trasparire un sentimento di rabbia. O, rivolgendosi a me, chiese spiegazioni sul motivo per il quale non l’avevo difesa da tutti quegli attacchi fatti a lei da Z. Cercai di “difendermi” affermando che a Z era stato detto più volte che il ruolo di O era di osservatrice e che quindi non poteva aspettarsi delle risposte ma questo non sembrò tranquillizzarla. Qualche minuto dopo, usciti dal Reparto di Ematologia, ho chiesto ad O di riparlare di quanto accaduto. Ci siamo seduti in una stanza del Servizio di Consultazione Psichiatrica, quindi in una situazione più familiare e più protetta per entrambi, cercando di comprendere i suoi sentimenti e che cosa li aveva provocati.

Dopo qualche minuto di discussione e di confronto fu chiaro che ci trovavamo di fronte ad un potente meccanismo di transfert e di controtransfert. Il primo elemento rilevante è stato senza dubbio il cambiamento improvviso di un elemento del setting, la posizione diversa dal solito tra me ed il paziente. Nel momento in cui avevo deciso di sedermi su di una sedia e non restare in piedi, come avevo sempre fatto, avevo indotto un cambiamento del campo che non ero stato capace di valutare durante il colloquio e che aveva modificato la relazione tra me, Z e l’osservatrice. O, infatti, si era trovata esposta agli attacchi aggressivi del paziente non avendo più me come filtro. La rabbia della tirocinante contro di me era l’espressione controtransferale della rabbia che il paziente aveva proiettato transferalmente su O. Il paziente, infatti, nel momento in cui il campo era stato modificato, con un’operazione di transfert aveva potuto proiettare la sua rabbia, incapace di essere contenuta, sull’osservatrice. O, non potendo rispondere spontaneamente a questa rabbia, perché il suo ruolo di osservatrice non lo permetteva, aveva proiettato, a sua volta, questo sentimento su di me, come se fosse un prodotto della sua mente e non la sua emozione controtransferale indotta da Z.

Questo episodio ci ha dato la possibilità di riflettere sul vissuto del paziente e su un aspetto che fino a quel momento non era emerso in modo così evidente nel rapporto con lui. Z probabilmente si sentiva molto arrabbiato: era arrabbiato con se stesso, con la malattia, con i medici e con le terapie che stava facendo. Il paziente, però, era anche incapace di dare un nome a questa emozione. Attraverso un cambiamento di setting che io ho inavvertitamente provocato si è modificato il campo e si è aperta la possibilità, per Z, di proiettare i suoi “elementi β” (Bion, 1962), non digeriti, sull’osservatrice silenziosa, resa più visibile sulla scena. Il colloquio avvenuto dopo, tra me e la tirocinante osservatrice, in un tempo/spazio diverso da quello del Reparto di Ematologia, ha consentito l’elaborazione degli “elementi β” (Bion, 1962) trasformandoli in “elementi α, digeribili e quindi capaci di essere elaborati” (Bion, 1962).



Un’altra scena

Qualche mese dopo, durante una lezione al Corso di Laurea triennale in “Infermiere”, che svolgevo insieme al Dr. Nesci, titolare dell’insegnamento di Psico-Sociologia, ho portato come esempio clinico di transfert e controtransfert l’episodio appena descritto. Durante la narrazione della scena clinica mi è venuta in mente una frase, detta dalla Collega osservatrice durante la nostra seduta di rielaborazione dell’accaduto, che al momento non avevo preso in considerazione. O durante il nostro colloquio mi aveva detto: “Z ha fatto la stessa cosa che fanno i miei parenti, cioè cercare di farmi parlare a tutti i costi!”. Questa frase cambiava in maniera significativa l’interpretazione che avevo dato all’evento ribaltando, in qualche modo, l’attribuzione dei meccanismi di transfert e controtransfert alla collega ed al paziente. In questa nuova prospettiva O avrebbe proiettato inconsciamente e transferalmente su Z un suo desiderio o bisogno profondo di materializzare un’imago genitoriale (transfert dell’analista) inducendo così in lui lo stesso comportamento che i suoi familiari erano soliti avere con lei quando restava in silenzio (Racker, 1970). Probabilmente O e Z si sono incontrati e riconosciuti, ad un livello inconscio profondo, in una modalità che appartiene ad entrambi e che per entrambi genera un pathos molto forte, tale da potere o dovere essere agito in situazioni che tendono a farlo affiorare.



Riflessioni conclusive

Questo episodio, avvenuto ed elaborato in setting istituzionali diversi, consente l’avvio di alcune riflessioni.

Innanzitutto, appare evidente che la modificazione di un elemento del setting può provocare un cambiamento del campo che avrà ripercussioni sulla relazione tra tutti gli “oggetti” presenti in quel campo. Inoltre, tutti gli “oggetti” presenti nel campo (paziente, psico-oncologo, osservatrice-tirocinante) lo influenzano. La tirocinante, che per mandato istituzionale doveva essere una osservatrice silenziosa e quindi non influenzare (in modo del tutto utopico… ) la relazione, nel momento in cui ha fatto ingresso nella stanza del paziente, fin dal primo momento, ha immediatamente indotto un nuovo campo e modificato il setting dell’incontro e quindi la relazione stessa.

Infine, si può concludere sottolineando il fatto che è fondamentale avere un luogo terzo dove poter rielaborare delle scene cliniche. Io e la tirocinante abbiamo potuto elaborare quello che era successo soltanto dopo l’accaduto, vale a dire quando siamo usciti dal reparto di Ematologia e siamo entrati nel Servizio di Psichiatria di Consultazione. Successivamente io ho potuto rielaborare di nuovo l’episodio grazie ad un altro contenitore, ad un altro “tempo/spazio protetto e programmato” (Nesci, comunicazione personale, 2005), dove si è potuto dare un nuovo significato alla scena clinica.

Una domanda del Dr. Nesci, durante il mio lavoro di scrittura, ha consentito un’altra riflessione imprevista. Mi sono chiesto cioè se il mio posizionarmi tra il paziente e la giovane tirocinante, il mio inconsapevole non fargliela vedere, non fosse un agito che ripeteva, nel setting dell’incontro, il divieto istituzionale di far accedere alla camera sterile la figlia di dieci anni… E continuiamo (il Dr. Nesci ed io) ad interrogarci sui molteplici orizzonti di senso (transfert istituzionale e controtransfert dell’operatore) che questa osservazione potrebbe schiudere alla vista, arricchendo la nostra capacità di comunicare sia con pazienti e familiari che con gli altri membri dell’équipe curante.

Bibliografia:

- BION W.R. : 1962, Aux Sources de L’Experience, Presses Universitaire de France, Paris, 1979.

- BION W.R.: 1970, Attenzione e Interpretazione, Armando Editore, Roma, 1996.

- BONANNO M., NESCI D. A., POLISENO T. A.: 2002, Il contenimento in Oncologia Pediatrica, in Problematiche Psico-Oncologiche negli interventi educativi e psicopedagogici per l’integrazione degli alunni ospedalizzati, Anicia srl, Roma.

- FORNARI F.: 1985, Affetti e cancro, Raffaello Cortina Editore, Milano.

- FREUD S.: 1914, "Ricordare, ripetere e rielaborare", in “Opere” vol. VII, Boringhieri, Torino 1990, p. 355-56.

- FREUD S.: 1917, Introduzione alla Psicanalisi, Bollati Boringhieri, Torino, 1995

- FREUD S.: 1938, La scissione dell'Io nel processo di difesa, Bollati Boringhieri, Torino, 1999.

- NESCI D. A.: 1991, La Notte Bianca – studio etnopsicoanalitico del suicidio collettivo. Armando Editore, Roma.

- NESCI D. A.: 2005, comunicazione personale.

- NESCI D.A., POLISENO T.A.: 1997, Metamorfosi e Cancro (Studi di Psico-Oncologia), Società Editrice Universo, Roma.

- RACKER H: 1970, Studi sulla tecnica psicoanalitica, Armando Editore, Roma.

- WINNICOTT D. W.: 1951, Transitional objects and transitional phenomena: A study of the first not-me possession. Int. J. of Psychoan, 34, 89-97.



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