Riassunto
Questo lavoro si inserisce nel filone di ricerca relativo al considerare la "coppia terapeutica" come "altro" riguardo ai singoli componenti e, come tale, bisognosa di metodi di studio più specifici. Pur avendo un'identità propria e pur essendone riconosciuti valori e processi autonomi interni, continua a essere terribilmente difficile focalizzate gli studi su quello che succede all'interno di essa, senza ricadere nella differenziazione transfert-controtransfert e ancora di più trovare metodi di misurazione empirica che non ricadano in questa dicotomia terapeuta-cliente, che non siano cioè relativi a uno dei due poli della coppia.
Con un breve riferimento ai testi di due filosofi di formazione fenomenologica, Edith Stein ed Emmanuel Lévinas, la proposta consiste nel provare a spiccare questo salto, considerando, come prima riflessione, ['"empatia" come elemento fondativo della relazione. Questi sono termini forti proprio perché si vuole considerare ['"incontro" terapeutico come un tipo particolare di esperienza, che ha una sua struttura e che può modificare la struttura della personalità. In questo senso può essere valutata come un indicatore di cambiamento.
Perché i risultati di questa ipotesi di lavoro siano poi riversabili sulla clinica è necessario che la ricerca renda evidente questa struttura mostrandone i nodi e le articolazioni, per iniziare a scolpire lo scheletro e la forma caratteristica dell'esperienza psicoterapeutica come esperienza empirica e poterla poi confrontare con altri indicatori di cambiamento.
Parole chiave: Empatia, Struttura, Fondazione, Incontro.
Summary
This work abides research regarding therapeutic couple as "another" something else of each single, and as it is needing particular study's systems. Even having ones identity and admitted values and own interior processes, keep on being very harded to research on what happen inside of it, without relapse transference-countertransference's differentiation and to found empirical measure methods.
With a short reference to Edith Stein's and Emmanuel Lévinas's texts, two phenomenological philosophers, the proposal consists try to do this bound, regarding, as first afterthought, empathy as relationship's based element. These are loud terms just because it's would consider therapeutic "encounter" as an experiential particular pattern, having one's structure and may modify personality' structure. So it is possible to evaluate this as a change' pointer.
Because this hypothesis' outcome being reflect on clinical its behove that empirical research put obviousness this structure and show nodes and joints, for beginning to grave psychotherapeutic experience's as empathic experience and after to compare with others change pointers.
Keywords: Empathy, Structure, Foundation, Encounter
Introduzione
Da un po' di tempo si sente parlare di empatia.
Sia negli ambiti psicoanalitici che in quelli psicologici e sociali e anche in quelli strettamente di competenza della ricerca empirica questa parola echeggia un po' misteriosa, un po' inquietante.
E opportuno allora cominciare a chiedersi in modo più approfondito che cosa intendiamo per empatia.
Empatia è la traduzione della parola inglese "empathy" coniata per tradurre il termine tedesco "Einfuhlung", ma ha anche un'altra origine: dal greco empatheia; già questa differenziazione crea una serie di confusioni, dal concetto di "immedesimazione", che sottende un processo di identificazione, vicino al termine tedesco, al concetto, più relazionale, di entrare nella sofferenza dell'altra persona, letteralmente dal greco.
Potremmo anche azzardare un parallelo con l'evoluzione del concetto di empatia dall'estetica tedesca del XIX secolo, dove costituisce un'esperienza di romantica fusione dell'anima con la natura, esperienza, dunque, dove esiste una sensibilità soggettiva e una realtà obiettiva, al concetto di empatia di Theodor Lipps, che in un saggio del '900 la definisce come una funzione psicologica fondamentale per l'esperienza estetica, e dove la sensibilità umana è proiettata nelle forme con gli atti costruttivi dell'occhio e dellinterpretazione visiva.
Non ci addentriamo, evidentemente, in questa ricerca etimologica e teorica per passare a un breve e ridottissimo excursus storico sull'uso del termine in psicologia e in psicoanalisi.
L'accezione più comune del termine "empatia" è quella che troviamo nella definizione di Lichtenberg (1983) come atto di "entrare nello stato mentale dell'altra persona" che diventa poi "modo di percepire lo stato mentale dell'analizzando".
Rogers e la sua scuola (1980) la definiscono come capacità da parte del terapeuta di entrare nel mondo personale del cliente in modo così intimo da percepirne anche la parte inconsapevole, o inconscia, e comunicarla in un linguaggio sintonizzato sul suo, considerando così l'empatia una delle tre condizioni necessarie e sufficienti per il cambiamento psicologico.
Anche Freud parla di Einfuhlung, in Psicologia delle masse e analisi dell'io (1921) per citare un passo noto, nei termini di un processo, che la psicologia chiama "immedesimazione". Questa ci permette di intendere l'io estraneo di altre persone, e non è considerata di per sé un fattore terapeutico, ma un importante prerequisito dell'interpretazione.
Sarà poi Kohut (1959-1981) con la psicologia del sé a dare all'empatia un'importanza centrale e a definirla come strumento per comprendere 11 sé del paziente dall'interno, in opposizione al comprendere astratto derivato dalle teorie.
Kohut parla di immersione empatica e di introspezione vicariante per definire la nostra capacità di pensare e sentire noi stessi nella vita inferiore di un'altra persona, di provare ciò che un'altra persona prova. L'esempio è quello della madre che deve provare i medesimi sentimenti del bambino, anche se in modo meno intenso, altrimenti non potrebbe calmarlo.
In Kohut appare l'idea che l'empatia, per la sua semplice presenza, abbia un effetto benefico sia nella situazione analitica sia nella vita in genere. Egli ritiene che la presenza di rapporti empatici nell'infanzia garantisca uno sviluppo sano poiché questi rapporti forniscono alcune funzioni indispensabili quali il rispecchiamento, l'esperienza di oggerto-sé idealizzato e l'esperienza di gemellarità, ma per quanto riguarda in particolare i rapporti terapeutici, ritiene che il cambiamento avvenga attraverso altri meccanismi, quali per esempio l'apertura di un canale di empatia tra sé e oggetto-sé.
Saranno i successori di Kohut a sviluppare il concetto di empatia come fattore terapeutico: Terman (1988) ritiene che il legame empatico sia l'elemento curativo centrale, allo stesso modo Bacai (1990) con il termine di "responsività ottimale" definisce il rapporto empatico come l'esperienza dell'analista che risponde con modalità che facilitano il rafforzamento, la crescita e la vitalità del sé nel cliente.
Fosshage (1997) introduce un aspetto più intersoggettivo mettendo in luce l'importanza per il paziente, in certi momenti, anche di comprendere e sperimentare il punto di vista dell'altro. Weiss e Sampson (1986) hanno messo in luce altri aspetti dell'esperienza empatica parlando dell'atteggiamento "proplan" del terapeuta, che viene incontro al desiderio inconscio del paziente di disconfermare le credenze patogene.
Feiner e Kiersky (1994) propongono un modello sulla natura dell'empatia per la maggior parte condiviso in ambito clinico: il processo empatico consisterebbe in una fase iniziale in cui una serie di percezioni sensoriali genera una risonanza affettiva, basata sulla capacità umana innata di accedere agli stati affettivi ed esperienziali di altri esseri umani, e in una seconda fase in cui complesse operazioni cognitive e affettive contribuiscono alla costruzione dei si significati. Stolorow (1992) parla di analogie tra i principi organizzatori di chi osserva e quelli della persona osservata; Correale (1999) fa riferimento all'intervento dei processi immaginativi; Fonagy (1995) definisce madre empatica colei che riesce a comprendere gli stati mentali del bambino come entità separata, cioè che possiede una "teoria della mente". Levine (1997) nota che in gran parte della letteratura contemporanea l'empatia è indistinguibile dal contro transfert, cioè da quelle aree esperienziali in cui i pensieri e i sentimenti passeggeri sperimentati da una persona le permettono di registrare sensazioni sulle esperienze e sul mondo interno di un'altra persona e di provare quindi una comune comprensione empatica.
Ulteriori studi sono in atto anche riguardo ai correlati biologici che il rapporto empatico comporta, ma non abbiamo purtroppo il tempo e lo spazio per approfondire tutti questi aspetti.
Possiamo così riassumere che l'empatia, così come è stata finora interpretata, consista principalmente nell'ascoltare e comprendere l'esperienza del paziente dall'interno della sua prospettiva; dunque ascoltare e comprendere nell'accezione più vasta del termine, sintonizzarsi con i bisogni del paziente, accettarlo profondamente, coinvolgersi affettivamente, monitorando continuamente il proprio atteggiamento. Tutti questi aspetti concorrono a far sì che l'empatia sia un fattore terapeutico specifico della psicoterapia e non (ovvero comune a più trattamenti), principalmente per una serie di caratteristiche positive che potremmo così, altrettanto brevemente riassumere seguendo gli autori citati prima: aspetto di contenimento, condivisione emotiva, accettazione da parte di una figura idealizzata, rafforzamento della coesione del sé, esperipensa emotiva correttiva, formazione di nuovi principi organizzatori, ecc.
L'empatia intesa come "struttura" e come elemento "fondativo" dellesperienza psicoterapeutica
Arrivati a questo punto vorremmo azzardare però un piccolo salto riguardo a questa concezione di empatia così come è stata finora descritta.
Per fare questo siamo stati costretti, o forse meglio, ci siamo piacevolmente concessi di attingere alla filosofia e ad alcuni termini più specifici di questa disciplina. Rileggendo infatti alcuni testi di autori quali Edith Stein e Emmanuel Levinas, ci siamo trovati a condividere questa tesi che vi proponiamo e che crediamo sia strettamente in relazione all'argomento che vorremmo affrontare.
Edith Stein è stata una pensatrice di formazione fenomenologica che poi ha preso la via della mistica. Ha chiamato empatia l'atto mediante il quale l'essere umano si costituisce attraverso l'esperienza dell'alterità, cioè del rapporto con l'altro.
Qualcosa dunque di molto radicale.
L'empatia dice la Stein è l'atto paradossale attraverso cui la realtà di "altro", di ciò che non siamo, non abbiamo ancora vissuto o che non vivremo mai e che ci sposta altrove, nell'ignoto, diventa elemento dell'esperienza più intima cioè quella del sentire insieme.
Credo che al di là dei termini che più o meno risuonano nella nostra mente durante l'esperienza quotidiana di psicoterapeuti, quindi sentire insieme, immedesimarsi, partecipare all'esperienza del paziente, intesa nel vero significato questa esperienza dell'empatia sia veramente inquietante.
Dobbiamo infatti intenderla come "esperienza dell'esperienza dell'altro", attraverso cui si costituisce la soglia della soggettività, ma soggettività che nello stesso tempo si abbandona, per andare incontro all'altro.
In altri termini nell'incontro con l'altro inteso in questa modalità rondativa accade un imprevisto che mette radicalmente in questione l'unità di ciò che comunemente viene chiamato io.
O ancora, l'esperienza empatica è quella che fa uscire dai confini dell'io, non è: Provare insieme ma: Allargare la propria esperienza cosi che sia in grado di accogliere l'esperienza dell'altro.
Sembra facile, ma in effetti questo rendersi conto, giocato sul confine tra interno ed esterno, di qualcosa che è davanti a noi e ci si oppone, si presenta allora come una rottura della continuità della nostra esperienza, ma è dell'aspetto fondativo e strutturale che permette di dare all'esperienza empatica il valore di atto di coscienza, permettendo lo scambio di senso.
Parlare di fondazione e di struttura è un invito ad attuare una presa di coscienza anche etica e ci costringe a prendere in considerazione la vera struttura caratteristica, lo scheletro, di questa fantomatica sconosciuta esperienza empatica.
Apro ora una piccola parentesi, perché mi rendo conto di essermi lanciata in un'impresa complicata e che può sconfinare o essere mal intesa come un cattivo minestrone di psicoanalisi, misticismo, filosofia; d'altra parte, credo che sia importante in questo momento storico del nostro lavoro come psicoterapeuti interrogarci sul senso, appunto, di quello che stiamo facendo; intendo dire sull'autenticità del nostro operare, tanto più se questo comporta effettivamente dei cambiamenti in noi stessi e nei nostri pazienti; interrogarci quindi sul senso di questo incontro.
Quindi, in un convegno sulla ricerca in psicoterapia, questo vuoi dire considerare l'esperienza empatica come possibile indicatore di cambiamento; per fare questo dobbiamo far entrare l'empatia dalla porta principale, e non considerarla un semplice supporto di ogni incontro ben riuscito.
Un'altra osservazione per avvalorare l'attualità di uno studio a questo riguardo, viene dal costatare che sempre di più negli ultimi anni si parla di psi coterapie a orientamento analitico nelle istituzioni pubbliche; e ben sappiamo che questo tipo di psicoterapie, erroneamente considerate "psicoanalisi di serie B" dagli operatori stessi e purtroppo anche dagli utenti, comportano al contrario la necessità di avere professionisti specificamente preparati e attrezzati. Per quello che riguarda il rapporto empatico sembra infatti che questo tipo di psicoterapia sottoponga terapeuti e utenti al maggior rischio di essere scoperti e impreparati (a differenza forse del rapporto classico psicoanalitico).
Citiamo allora un altro pensatore fenomenologo della prima metà del novecento: Emmanuel Lévinas, il quale, pur in un ambito di riflessioni filosofiche e teologiche, arriva a parlare dell'incontro con l'altro, con quello che definisce "visage d'autrui", come di una sorta di paradosso, una "deportazione", l'instaurarsi cioè di un rapporto stra-ordinario, completamente asimmetrico, concepito come un rischioso "andare fuori di se stessi", che provoca un'esplosione di ipseità, una frantumazione del cerchio chiuso dell'interiorità e dell'egoità.
Lévinas parla di una relazione interpersonale come spazio in cui è possibile fare esperienza di un'alterità che sfugge a qualsiasi tentativo di riduzione; l'altro che mi sta di fronte non può "entrare in me", non può essere da me "compreso", ne confluisce insieme a me in un sistema omnicomprensivo (la ragione, la storia, le teorie psicoanalitiche potremmo aggiungere).
Si tratta allora di un intreccio, che si dipana nello scenario umano, strutturandosi come relazione etica, come invito ad andare "responsabilmente" verso l'Altro.
Solo nella relazione erica dice Lévinas nelleccomi, detto al prossimo, si realizza l'imperativo categorico che chiama "me" alla responsabilità per l'altro, che mi ordina di resistere alla tentazione di uccidere l'altro uomo e di adoperarmi invece responsabilmente affinché egli viva. Di derivazione pascaliana (ogni io è il nemico di tutti gli altri e vorrebbe esserne il tiranno. Pascal 1978), per quello che ci riguarda, questo può significare la possibilità di dare all'incontro terapeutico il senso di un evento di apertura all'altro e sull'altro e, per entrambi i partecipanti a questo evento, la possibilità di diventare "autentici", contrapposta al perdersi e a scomparire nell'anonimato; la possibilità, cioè, di trascendere la nostra individualità.
Che questo comporti un'esperienza di angoscia è confermato da A. Caracciolo (1965) che riprendendo Heidegger ci dice che il rapporto strutturale con lo spazio della trascendenza cioè con l'andare "oltre" fa sorgere nell'uomo lo stupore metafisico che è all'origine dell'interrogarsi, ma provoca anche una tremenda angoscia segnata da "timore" e "tremore", che è fonte di inquietudine, di invocazione e di richiesta di giustificazione e di senso.
Lo spazio-intersoggettivo si configura, alla luce di queste osservazioni, come un non-luogo, ma allo stesso tempo come il luogo, l'evento appunto, in cui si concreta la relazione interpersonale tra me e l'Altro, lo spazio che permette e costringe la trascendenza, cioè l'andare oltre, o, potremmo ancora dire, lo spazio/tempo infinito e discontinuo che permette il divenire, cioè di uscire da una circolarità chiusa di tipo narcisistico.
Questa visione dell'empatia capovolge dunque i termini classici e si allontana decisamente dalla possibile confusione e assimilazione ad altri termini, quali simpatia, identificazione con l'altro eccetera.
Dalla ricerca euristica alla ricerca empirica
Ci rendiamo conto a questo punto che il discorso diventa ancora più difficile, ma se vogliamo tentare una misurazione empirica di questo aspetto all'interno del processo terapeutico, dovremo indirizzare la nostra attenzione su quegli elementi che caratterizzano l'incontro con il paziente nei termini di un'esperienza empatica tutt'altro che contenitiva, rilassante, compartecipante e via dicendo. Dovremo invece, riprendendo per esempio Ogden (1994), parlare di parte buia, permeabilità del confine lo-Tu tra analista e analizzando, senso di smembramento, lotta di contrari, delicatissimo equilibrio tra comprensione e separazione, e considerare per esempio il "rispecchiamento", non come una relazione di identità ma di relativa uguaglianza (quindi di relativa differenza), ovvero ciò che permette di vedersi come Altro, che significa vedere se stessi da una certa distanza.
E poi ancora dovremo parlare di esperienza di angosciosa estraneità, di perdita del proprio fondamento antropocentrico, di sprofondamento nel nulla, un nulla non inteso nel senso di un annichilimento mortifero ma, al contrario, come luogo misterioso dove può scaturire il senso autentico dell'essere, nostro, come terapeuti, e dei nostri pazienti.
In altre parole ancora, potremmo considerare l'empatia come un processo dialettico, dove le contraddizioni hanno la parte principale, o considerarla un evento (un accadere) traumatico che come tutti i traumi che si rispettino contiene in sé vissuti di ferita, morte, separazione, ma anche di nascita, vita e ricostruzione, e, soprattutto, sorpresa.
Ne usciamo un po' spaventati da questo impegno ma forse anche altrettanto affascinati dall'idea che l'altro, cioè il nostro paziente, nella sua individualità irriducibile, "abbia un significato" e forse anche confortati dall'idea che il processo terapeutico sia un cammino interpersonale che da senso a entrambi, che ci sia cioè attraverso l'empatia una circolazione di senso.
Per tornare allora alla nostra ricerca, altrimenti rischiamo di perderci, è chiaro che stiamo parlando di qualcosa che va ben oltre i concetti di transfert e controtransfert e che ci stiamo muovendo in uno spazio al limite del virtuale, lo spazio empatico intersoggettivo, che comporta notevoli difficoltà a essere misurato in modo replicabile con procedure codificate e condivise come si conviene a una metodologia della ricerca che si rispetti. Che farne allora per quello che riguarda l'empatia della ricerca, o meglio della ricerca concettuale che come dice Anna Dreher (2000) ha il duplice obiettivo di definire con chiarezza i concerti psicoanalitici, e filosofici potremmo aggiungere, e di ampliarne le basi probatorie empiriche clinicamente orientale? E questo l'unico modo con cui può essere mantenuto il contatto con la ricerca clinica?
E qui che noi crediamo sia importante portare a evidenza determinare circostanze significative di ordine strutturale dell'esperienza empatica. Con le parole esperienza e struttura si circoscrive infarti lo spazio dell'indagine, che a questo punto diventa di tipo fenomenologico, nel senso di una dottrina dell'esperienza che ha come tema il soggetto che fa esperienza. In questo caso il soggetto è la coppia terapeutica, o lo spazio intersoggettivo.
Parlare di costituzione e di struttura, oltre ad aprire tutto il discorso della teoria della tecnica nel processo analitico, ci riavvicina inoltre alla ricerca empirica.
Si tratta infatti di far entrare l'empatia tra gli indicatori che corrispondono a ciò che noli è direttamente osservabile e si stabiliscano "norme di correlazione" costanti e condivise tra gli indicatori e i concetti teorici cui si riferiscono, concerti teorici che necessitano a priori, di definizioni molto accurate con la specifica di quali operazioni e passaggi vadano compiuti per arrivare a ritrovare e isolare, in modo affidabile e riproducibile, gli osservabili che corrispondono ai concetti stessi. Teniamo sempre presente, inoltre, che l'indicatore non può coincidere con ciò che è indicato, ma se l'indicatore mantiene il suo statuto epistemologico ci sono buone possibilità perché si arricchiscano le nostre conoscenze (E. Fava, 2000).
Questo per quanto riguarda la ricerca qualitativa.
Si sta affermando negli ultimi anni anche in Italia l'importanza della ricerca qualitativa che integri i metodi quantitativi e ne aiuti a superarne i limiti.
Io credo che questa possa anche essere una strada fruttuosa per avvicinare la ricerca empirica alla clinica.
Ricordiamo che "qualitativo" è, come ben definisce S. Di Nuovo (2000), un approccio epistemologico diverso, da cui deriva un diverso modo di concettualizzare la ricerca, di raccogliere dati, codificarli e analizzarli. Secondo l'assunto fondamentale della ricerca qualitativa, il "senso" del fenomeno Studiato non va ipotizzato a priori dal ricercatore ma piuttosto scoperto, attraverso metodologie che ne facilitano l'emergere, e ricercatore e soggetti producono assieme questa emergenza di significati questa costruzione di senso.
Non solo ma esistono già parecchi studi di autori come McKenna, Todd (1997) e altri, sempre citati da S. Di Nuovo, che hanno dimostrato la capacità dei clienti di discriminare per esempio tra l'efficacia di diversi episodi che avvengono in terapia, o la capacità di narrare ciò che avviene e ancora che le percezioni dei pazienti rispetto alla terapia e ai suoi effetti siano fondate su teorie implicite della personalità di cui occorre avere conoscenza.
È già stata anche sottolineata l'importanza di ciò che i pazienti pensano della loro terapia e il conseguente passaggio, importante e più che mai attuale, da utenti passivi ad attori principali di ciò che succede nel processo psicoterapeutico (Fava e altri, 1998).
Alla luce di queste osservazioni non sembra quindi troppo velleitario poter contare su strumenti di ricerca quale per esempio il Client Change Intervieni Protocol di Elliott {Intervista sul cambiamento terapeutico- tradotta e adattata da S. Di Nuovo) che abbinata a un adattamento di questionari come il Common Care Questionnaire {Studio internazionale sui percorsi evolutivi degli psicoterapeuti l'edizione italiana è a cura di S. Freni), esplorano l'esperienza terapeutica da entrambe le parti.
Se inoltre sarà considerata valida l'ipotesi che questa esperienza empatica sia qualcosa di strutturalmente costitutivo sia per il cliente che per il terapeuta e che sia fondata su un'esperienza di rottura, nei termini in cui abbiamo cercato di delinearne gli aspetti più significativi, andrà operata una sorta di rivoluzione che consiste nel considerare in modo diverso quelli che possono essere denominati "sintomi negativi" in senso lato, forse erroneamente inclusi prima nel "controtransfert negativo" o in una cattiva disposizione da parte del cliente.
In altre parole andranno correlati, per esempio, i dati di interviste come quelle citate sopra con i dati di scale che valutano l'alleanza terapeutica", e considerato se a un basso punteggio in questa scala corrisponda effettivamente l'assenza di un "rapporto empatico". O al contrario, alla presenza di un rapporto empatico ma con le caratteristiche di evento traumatico di cui parlavamo prima e che, nella nostra accezione, acquista un carattere diverso.
La questione tra alleanza terapeutica ed empatia non è tuttavia, così frettolosamente risolvibile.
Il problema aperto è, infatti, se l'alleanza è una condizione, perché avvenga un buon lavoro, o un effetto, di un lavoro terapeutico ben condotto.
In altri termini, la questione è se l'alleanza di lavoro è un aspetto della relazione terapeutica diversa dal transfert e dalla relazione interpersonale tra terapeuta e paziente, tesi sostenuta da Greenson (1967); o se invece l'alleanza di lavoro è una sorta di prodotto dell'evoluzione del transfert, come sostiene Greencre (1968), che quindi facilita il processo terapeutico.
E evidente che queste due posizioni comportano diverse modalità di approccio con il paziente e diverse modalità di indagine.
Altre variabili interessanti e significative riguardo alla misurazione empirica dell'alleanza di lavoro risultano inoltre segnalate in letteratura riguardo agli aspetti personali del terapeuta e all'affinità tra terapeuta e paziente.
Anche in questi casi si parla di empatia nel senso di rispetto, cordialità e sincerità (Patterson, 1983; Lambert - Bergin, 1983; Beutier, 1986; Horvarth - Symonds, 1991). Si parla di autenticità del terapeuta anche come capacità di contatto con sé e con la propria realtà esistenziale (Pancheri, Bonucci, 1999), mentre l'affinità tra terapeuta e paziente verrebbe indicata da una serie di convergenze sulle modalità di interpretare il problema, di descriverlo e di narrarlo, ecc. (Fava, Masserini).
Altre correlazioni sono individuabili con lo studio sull'assetto emozionale della coppia terapeutica attraverso la Metodologia del Dizionario delle Emozioni di Dahi e con lo studio dell'Attività Referenziale della Bucci.
Per quanto riguarda il concetto di "empatia" e quello di "alleanza" vanno comunque sottolineate alcune peculiarità. Tenendo presente la differenziazione tra alleanza di aiuto, di lavoro e terapeutica (Verga MC e altri, 1999), potremmo ipotizzare che la situazione empatica vada "oltre" o forse sarebbe meglio dire preceda l'alleanza.
L'empatia riguarda infatti la fase della creazione di un contratto, prima di tutto con se stessi, riguardo la situazione di ciascuno di noi, sul come e quanto si è in grado o si è disponibili a rinunciare alla propria soggettività.
Solo in base a questo, e premesso questo, è possibile creare un'alleanza, buona o cattiva che sia.
Questa operazione di rinuncia, o meglio, questa "funzione" che comporta vissuti di vuoto e di destabilizzazione, a favore della possibilità dell'incontro (quindi di creare quello che abbiamo chiamato spazio o evento empatico), è "in fieri" sia nel terapeuta che nel cliente, è un progetto inconsapevole.
Lo sviluppo di questa funzione, forse, concorrerà a decidere il processo e l'esito della terapia.
Le relative scale, o questionari, dovranno quindi indagare questa dimensione specifica ed essere poi confrontate con le altre scale già in uso.
Rileggendo questo scritto a posteriori, (dopo l'entusiasmo del convegno), sorgono parecchie perplessità sulla possibilità di avvicinare la clinica e la ricerca empirica su un argomento così complesso. Mi rimetto allora alle parole di altri autori, come Gabbard (1999) (citato da Lingiardi e Gazzillo, 2001), riguardo alla sempre attuale difficoltà del dialogo tra clinici e ricercatori: La maggior parte degli analisti non conosce un gran che di ricerca; i clinici tendono a vedere la ricerca come superficiale, grossolana e ipersemplificata. Dal loro punto di vista è come se le ricerche ponessero domande semplici e ovvie che richiedono però una quantità incredibile di lavoro metodologico, spesso minuzioso e pedante. In effetti, dovere del ricercatore è quello di valutare ipotesi definite in modo chiaro, precise e non ingolfate da eccessive complicazioni. Per il clinico, invece è proprio la complessità del processo (psicoanalitico) l'elemento più attraente e coinvolgente. Oppure Bollas (1999) (ibid.), che ritiene che la costruzione di teorie empiricamente fondare chiede di rinunciare alla dimensione misteriosa dell'animo umano. Concludiamo con le parole di Bion (1974) (ibid.), più che mai adatte all'argomento che abbiamo tratta to: Nella psicoanalisi, quando ci si accosta all'inconscio cioè a ciò che non sappiamo - è inevitabile, tanto per il paziente che per l'analista, essere turbati. In ogni studio di analista dovrebbero essere! due persone piuttosto spaventate: 11 paziente e lo psicoanalista. Se non sono spaventati, c'è da domandarsi perché si prendono il disturbo di scoprire quello che tutti sanno.
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