Riassunto 
  Viene presentato lo stato attuale della ricerca
  empirica sulla psicoterapia dei disturbi di personalità tramite un breve
  riassunto di quattro recenti revisioni della letteratura: la meta-analisi di
  Perry, Banon & Ianni del 1999 sull'American
  Journal of Psychiatry, il capitolo di Perry & Bond nella Review
  of Psychiatry annuale del 2000 della American
  Psychiatric Press, la review di
  Bateman & Fonagy del 2000 sul British
  Journal of Psychiatry, e la review
  di Gabbard del 2000 sul Journal of
  Psychotherapy Practice and Research. Queste quattro review sono concordi nel ritenere che, contrariamente a una diffusa
  opinione secondo la quale non vi sarebbero evidenze empiriche nella
  psicoterapia dei disturbi di personalità, essa invece è efficace, anche se
  vi sono limitazioni e problemi che impongono cautela nella interpretazione dei
  dati. In particolare, secondo Perry et
  al. la psicoterapia in media accelera di sette volte il naturale
  miglioramento dei disturbi di personalità; Bateman
  & Fonagy affermano che vi sono dati in favore della efficacia di
  interventi con determinate caratteristiche, anche se sono cauti sulla
  possibilità di trarre conclusioni definitive dati i pochi studi controllati e
  i numerosi problemi aperti; Gabbard, tra le altre cose, sottolinea la cost-effectiveness della psicoterapia dei disturbi di personalità,
  dimostrata anche da studi su terapie psicodinamiche. 
  Parole chiave:
  psicoterapia, disturbi di personalità, evidenze empiriche, ricerca, review.
  Summary 
  The state
  of the art of psychotherapy research on personality disorders is briefly
  presented. Four recent reviews are summarized: the 1999 meta-analysis by Perry,
  Banon & Ianni in the American
  Journal of Psychiatry, the chapter by Perry & Bond in the 2000 annual Review
  of Psychiatry published by American Psychiatric Press, the 2000 review by
  Bateman & Fonagy in the British Journal of Psychiatry, and
  the 2000 review by Gabbard in the Journal
  of Psychotherapy Practice and Research. These four reviews all agree that,
  despite a common contemporary opinion, psychotherapy of personality
  disorders is a promising treatment, although several methodological problems
  persist: Perry et al. conclude that
  psychotherapy of personality disorders may be associated with up to a
  sevenfold faster rate of recovery in comparison with the natural history of
  disorders; Bateman & Fonagy
  state that, despite some limitations, there is reason to feel cautiously optimistic
  about treating personality pathology, especially if the
  interventions are well structured and clearly focused; Gabbard, among other
  things, emphasizes interesting data on cost-effectiveness. 
  Keywords:
  psychotherapy, personality disorders, empirical research, evidence, review.
  
    
  Contrariamente
  ad una opinione abbastanza diffusa secondo la quale non vi sarebbero chiare
  evidenze empiriche sulla efficacia della psicoterapia dei disturbi di
  personalità, una attenta revisione della letteratura mette in luce che invece
  determinati tipi di interventi psicologici possono avere un effetto sul loro
  decorso, anche se, come vedremo, vi sono limitazioni e problemi che impongono
  molta cautela nella interpretazione dei dati. Nell'ultimo decennio è stata
  pubblicata una decina di revisioni della letteratura sulla psicoterapia dei
  disturbi di personalità: Shea (1993), Reich & Vasile (1993), Roth &
  Fonagy (1996), Sanislow & McGlashan (1998), Target (1998), Perry et
  al. (1999), Perry &
  Bond (2000), Bateman & Fonagy
  (2000), e Gabbard (2000). Verranno qui prese in rassegna le revisioni
  più recenti, le due di Perry (sia la review
  meta-analitica di Perry et al.
  [1999] che la revisione, un anno dopo, di Perry & Bond [2000]), quella di
  Bateman & Fonagy (2000), e quella di Gabbard (2000). 
  1. Le review di Perry et
  al. (1999) e di Perry & Bond (2000) 
  Perry
  et al. (1999), in una
  meta-analisi pubblicata sull'American Journal of Psychiatry, hanno esaminato 15 studi pubblicati
  tra il 1974 e il 1998 che rispondevano a criteri minimi di inclusione: tra
  questi studi vi erano 3 studi randomizzati controllati (Alden, 1989; Linehan et
  al., 1994; Winston et al.,
  1994), 3 paragoni randomizzati di terapie diverse (Liberman & Eckman,
  1981; Hardy et al., 1995; Monroe-Blum & Marziali, 1995), e 9 studi non
  controllati (Woody et al., 1985;
  Karterud et al., 1992; Stevenson
  & Meares, 1992; Diguer et al.,
  1993; Fahy et al., 1993; Hoglend,
  1993; Monson et al., 1995; Budman et
  al., 1996; Rosenthal et al.,
  1999). Erano rappresentate terapie psicodinamiche, cognitivo-comportamentali,
  miste e supportive, e la diagnosi prevalente era di disturbo borderline (5
  studi su 15), ma erano rappresentate anche altre diagnosi (disturbo
  schizotipico, evitante, antisociale, e tipi misti). I pazienti erano quasi
  tutti ambulatoriali (13 studi su 15), uno studio era su pazienti in day
  hospital e uno su pazienti ricoverati. 
  I
  risultati emersi mostrano che la psicoterapia dei disturbi di personalità
  risulta efficace sia con misurazioni di self-report
  (effect size medio 1.11) che con
  misurazioni osservazionali (effect size
  medio 1.29). In 4 studi su 15 il 52% dei pazienti che sono rimasti in terapia
  è "guarito" (nel senso che non erano più soddisfatti i criteri
  diagnostici) in media dopo 1.3 anni di trattamento. Sulla base di questo dati,
  si può calcolare che per ogni anno di terapia il 25.8% dei pazienti con
  disturbi di personalità guarisce, tasso che è sette volte maggiore di quello
  della storia naturale di questi disturbi, dove ogni anno guarisce il 3.7% dei
  pazienti (cioè guarisce il 50% in 10.5 anni di follow-up). In conclusione, questa review meta-analitica di Perry et
  al. (1999) suggerisce che la psicoterapia accelera, in media, di ben sette
  volte il normale tasso di miglioramento della storia naturale dei disturbi di
  personalità. Ovviamente sono necessari ulteriori studi per dimostrare
  l'efficacia di terapie specifiche per disturbi specifici. 
  Un anno
  dopo la pubblicazione di questo lavoro, Perry & Bond (2000) riprendono il
  discorso in un capitolo della Review of
  Psychiatry annuale della American
  Psychiatric Press, esaminando vari studi tra cui anche la propria
  meta-analisi dell'anno prima, ma senza includere le review di Bateman & Fonagy
  (2000) e di Gabbard (2000), di cui si parlerà dopo, perché non erano ancora
  state pubblicate. Riassumendo le conclusioni già raggiunte nel precedente
  studio, ribadiscono che in media gli effetti della psicoterapia dei disturbi
  di personalità sono consistenti, da due a quattro volte maggiori di quelli
  visti nei gruppi di controllo, anche se si può dire che gli studi controllati
  siano ancora pochi. La gravità del disturbo (ad esempio nel caso si tratti di
  un disturbo del cluster B piuttosto
  che C - cioè che si tratti, ad esempio, di una personalità borderline
  piuttosto che ossessivo-compulsiva) è una variabile che limita molto l'outcome. Il tasso di drop-out
  varia dal 10% al 20%, a seconda della durata della terapia (cioè del fattore
  di attrition ["attrito"]
  dovuto al passaggio del tempo, che fa perdere pazienti) e si sa ancora
  abbastanza poco delle caratteristiche dei pazienti che si perdono perché
  spesso gli studi si concentrano su coloro che completano il trattamento. Pare
  comunque che sia il cluster B quello
  più soggetto a drop-out. Tra le
  variabili del processo, viene ribadita l'importanza della alleanza terapeutica
  e dell'enfasi che i futuri manuali di psicoterapia dovrebbero darle. 
  2. La review di Bateman
  & Fonagy (2000) 
  Bateman
  & Fonagy (2000), in un recente articolo sul British Journal of
  Psychiatry, hanno fatto una revisione della letteratura esaminando 1.814
  abstracts e 80 articoli selezionati
  con Medline e PsychLit tramite precise parole chiave, tra cui hanno selezionato
  25 lavori che rispondevano a criteri minimamente accettabili (chiare
  descrizioni dei trattamenti, specifiche misure di outcome,
  esclusione di diagnosi in asse I, durata del follow-up, ecc.). Gli studi di outcome sono stati suddivisi, a seconda del contesto terapeutico, in tre
  categorie: (1) pazienti ricoverati, (2) pazienti in day hospital,
  e (3) pazienti ambulatoriali. E' stata poi fatta una ulteriore suddivisione
  tra (1) studi di coorte e (2) studi controllati. Questi ultimi consistono
  soprattutto in pacchetti di trattamento, e pochi sono i Randomized
  Clinical Trial (RCT) di trattamenti specifici;
  dato che vi è una sovrapposizione tra questi due tipi di studi, quelli che
  studiano principalmente il follow-up a
  lungo termine dopo un intervento relativamente aspecifico sono stati inclusi
  tra gli studi di coorte. Vediamo brevemente i risultati di questa review
  di Bateman & Fonagy
  (2000). 
  2.1.
  Pazienti ricoverati 
  2.1.1.
  Studi di coorte. I principali studi in
  questa categoria sono i seguenti: Tucker et
  al. (1987), Najavits & Gunderson (1995), Blatt & Ford (1994),
  Copas et al. (1984), McGlashan
  (1986), Stone (1993), Rosser et al.
  (1987). In genere si tratta di ricoveri lunghi, esaminati con studi
  naturalistici pre-test-post-test,
  dove nella grande maggioranza dei pazienti
  si è quasi sempre rilevato un netto
  miglioramento nei sintomi, nel funzionamento globale, e nei comportamenti
  autodistruttivi. Tutti questi studi sono difficili da interpretare, dato che
  il lungo follow-up aumenta la
  probabilità che altri life events
  significativi possano aver influito sul risultato, per cui vi è il rischio
  che questi studi documentino semplicemente il decorso a lungo termine di
  questo disturbo. 
  2.1.2.
  Studi controllati. Vi è uno studio
  di Barley et al. (1993) sulla efficacia
  della Dialectical Behavior Therapy (DBT)
  della Linehan (1993a, 1993b) in pazienti ricoverati, paragonati a pazienti di
  un altro reparto in terapia standard. I miglioramenti sono stati
  significativi, ma il campione non era randomizzato e non è stata specificata
  con esattezza quale era la terapia standard, dato che pare dimostrato che producono
  benefici anche altre terapie ospedaliere
  strutturate, tipo "gruppi di benessere e stile di vita"
  in cui si discutono hobbies (Springer
  et al., 1996) o terapie di insight
  (Liberman & Eckman, 1981). 
  Un altro
  lavoro (Dolan et al. 1997) ha
  studiato 137 pazienti (di cui 70 ricoverati e 67 non ricoverati per motivi
  clinici o economici) dove i pazienti non ricoverati sono stati usati come
  gruppo di controllo, usando come scala la Borderline
  Syndrome Index (BSI) di Conte et al.
  (1980), e ha mostrato un miglioramento dopo un anno di follow-up nel gruppo dei ricoverati dove era stata praticata una
  terapia specializzata. Ma uno studio inglese che ha usato la Personality
  Assessment Schedule di Tyrer et al.
  (1988) ha trovato che la BSI di Conte et
  al. mancava di validità (Marlowe et
  al., 1996). Alcuni dati, seppur limitati (Dolan et
  al., 1996), suggeriscono che il ricovero abbassa in modo significativo i
  costi, soprattutto per coloro che hanno una storia di problemi con la legge. 
  In
  sintesi, non è chiara l'utilità del ricovero a lungo termine per i pazienti
  con disturbi di personalità, anche se si può dire che i pazienti che
  traggono maggior beneficio sono quelli che mostrano: (1) abuso di sostanze;
  (2) alto rischio di suicidio; (3) problemi con la legge; (4) passeggere
  difficoltà nell'esame di realtà; (5) assenza di risposta a ripetuti ricoveri
  brevi e terapie ambulatoriali; (6) prove che i comportamenti autodistruttivi e
  la mancanza di speranza (hopelessness)
  fanno ormai parte della personalità. 
  2.2. Pazienti in day
  hospital 
  2.2.1.
  Studi di coorte. Vi sono pochi studi su trattamenti specifici. Si possono
  citare i seguenti tre: Karterud et al.
  (1992), con una terapia psicodinamica in day
  hospital, hanno notato un certo miglioramento in pazienti con disturbi di
  personalità, soprattutto di tipo ansioso-evitante, e modesti miglioramenti in
  pazienti con il disturbo borderline; Dick & Woof (1986), sempre con una
  terapia psicodinamica in day hospital,
  hanno trovato un aumento di utilizzo dei servizi psichiatrici, il che
  possibilmente dimostra che questi pazienti necessitano di ulteriore terapia;
  Krawitz (1997) ha notato notevoli miglioramenti con una terapia psicodinamica
  orientata in senso femminista e socio-politico. 
  2.2.1.
  Studi controllati. Piper et al.
  (1993) hanno trovato un miglioramento con 18 settimane di day hospital in un gruppo di 79 pazienti con disturbi dell'umore e
  di personalità, paragonati a un gruppo di controllo costituito da pazienti
  trattati successivamente; i risultati si sono mantenuti a un follow-up
  di 8 mesi. Bateman & Fonagy (1999), in uno studio controllato su 38
  pazienti con disturbo borderline assegnati a caso per 18 mesi a un day
  hospital orientato psicoanaliticamente e alla terapia tradizionale (Treatment
  as Usual [TAU]), hanno riportato un miglioramento consistente nelle aree
  di parasuicidio, automutilazioni, umore, sintomi e ricoveri; il drop-out era del 12%, e il miglioramento avvenne relativamente
  tardi; non è ancora disponibile il follow-up
  né una analisi su quale aspetto dell'intervento possa essere responsabile del
  miglioramento (la terapia, il milieu,
  il rapporto con lo staff, ecc.). 
  Data la
  limitatezza dei dati disponibili, le conclusioni che si possono trarre dagli
  studi sui pazienti in day-hospital
  sono incerte, simile a quella dei pazienti ricoverati. 
  2.3. Pazienti
  ambulatoriali 
  2.31.
  Studi di coorte. I dati degli studi di coorte sulla terapia
  cognitivo-comportamentale e psicodinamica provengono soprattutto da casi
  singoli o da metodi teoricamente orientati, per cui è difficile fare
  generalizzazioni. Lo studio sul follow-up
  trentennale di Wallerstein (1986) su 42 pazienti seguiti con terapie dinamiche
  alla Menninger Foundation suggerisce
  che alcuni pazienti migliorano mentre altri peggiorano, soprattutto se
  presentano comorbilità. Stevenson & Meares (1992, 1999) hanno mostrato la
  utilità di un anno di terapia psicodinamica bisettimanale in 48 pazienti con
  disturbo borderline, dei quali alla fine della terapia il 30% non
  soddisfacevano più i criteri diagnostici, e il follow-up era positivo anche dopo 5 anni. Davidson & Tyrer
  (1996) hanno mostrato l'utilità di una terapia cognitivo-comportamentale di
  10 settimane in pazienti antisociali e borderline. Turkat & Maisto (1985)
  hanno trovato invece che solo 16 pazienti su 35 migliorano con la terapia
  cognitivo-comportamentale. Tutti questi dati ovviamente vanno presi con
  cautela, non essendo controllati. 
  2.3.2.
  Studi controllati. Il noto studio
  controllato randomizzato della Linehan et al. (1991) sulla DBT ha mostrato una sua efficacia in 22 donne
  borderline rispetto alle 22 donne del gruppo di controllo. Le automutilazioni
  dopo un anno di terapia non solo erano meno severe, ma erano 1.5 in media
  mentre nel gruppo di controllo erano 9. Inoltre si è abbassato il numero di
  ricoveri. Il drop-out è stato del
  16% (quindi abbastanza basso per questo tipo di pazienti), ma non vi sono
  state differenze tra i due gruppi, anche a un anno di follow-up, riguardo alla depressione, al senso di mancanza di
  speranza e di senso nella vita. 
  Uno studio
  preliminare del gruppo di Kernberg (Clarkin et
  al., 2001) su 10 pazienti per un anno ha mostrato certi benefici della Transference-Focused
  Psychotherapy (TFP: Clarkin
  et al., 1999), anche se gli
  antisociali erano quelli che miglioravano meno. Monroe-Blum & Marziali
  (1995) invece hanno trovato una somiglianza tra gli effetti di una terapia
  dinamica e di una terapia di gruppo di gestione delle relazioni (la Relationship
  Management Psychotherapy [RMP] di Dawson, 1988), il che suggerirebbe il
  bisogno di una analisi costi-benefici. 
  La
  personalità evitante pare che tragga beneficio da terapie sia dinamiche che
  comportamentali (per una review,
  vedi Roth & Fonagy, 1996). Vi sono dati (Beutler et
  al. 1991; Alden & Capreol, 1993) che suggeriscono che i pazienti
  evitanti arrabbiati, sfiduciati o resistenti traggono maggior beneficio da
  terapie non direttive, mentre quelli non assertivi possono migliorare con
  entrambe. 
  In
  conclusione, non vi sono ancora dati decisivi sulla utilità di terapie
  ambulatoriali per il disturbo borderline,
  soprattutto se i pazienti sono a basso funzionamento. Il più citato studio di
  efficacia, quello della Linehan et al.
  (1991) sulla DBT, che le ha fatto meritare l'ingresso ufficiale in alcuni
  elenchi degli Empirically
  Supported Treatments (EST) (vedi ad
  esempio DeRubeis
  & Crits-Cristoph, 1998, e Chambless
  & Ollendick, 2001), è deludente
  per la limitata efficacia al follow-up.
  Si sa solo che certi pazienti evitanti possono migliorare con tecniche
  dinamiche o comportamentali. 
  3. La review
  di Gabbard (2000) 
  Gabbard,
  in una review sul Journal
  of Psychotherapy Practice and Research del 2000, descrive in dettaglio i risultati di vari studi sulla efficacia della
  psicoterapia dei disturbi di personalità, esaminati anche dalle review
  precedenti, e, in sintesi, conclude che si può avere un cauto ottimismo sulla
  trattabilità dei disturbi di personalità, che invece in genere vengono
  considerati intrattabili dalle agenzie assicuratrici. Naturalmente siamo
  ancora in un periodo pionieristico in questo campo, afflitto da vari problemi
  che confondono i risultati, come la frequente mancanza di randomizzazione e
  controllo, concomitanti ospedalizzazioni e farmacoterapie, comorbilità in
  asse I, possibilità che il miglioramento sia dovuto a life events
  accaduti durante il periodo del trattamento, ecc. Inoltre i pazienti con
  disturbi del cluster A (paranoide,
  schizoide e schizotipico) raramente vengono studiati perché quasi mai
  richiedono una terapia: ad esempio, in uno studio su 100 pazienti che avevano
  fatto domanda di trattamento al Columbia
  Psychoanalytic Center (Oldham & Skodol, 1994), al Personality
  Disorder Examination (PDE) solo 4 risultarono paranoidi, 1 schizoide e
  nessuno schizotipico. 
  Tra le
  conclusioni tratte da Gabbard (2000), si possono citare le seguenti: alcuni
  dei principali sintomi della personalità evitante possono migliorare con social
  skills training e tecniche cognitivo-comportamentali (Alden, 1989; Cappe
  & Alden, 1986; Marzillier et al.,
  1976; Stravynski et al., 1982;
  Hofmann et al., 1995; Mersch et
  al., 1995; Feske et al., 1996); i pazienti antisociali depressi e dipendenti da
  oppioidi, contrariamente a quanto si credeva prima, possono migliorare con
  tecniche psicodinamiche (Woody et al.,
  1985); i pazienti borderline possono diminuire notevolmente i tentativi di
  suicidio con sedute monosettimanali di DBT, sia individuali che di gruppo,
  anche se migliorano poco nel loro vissuto soggettivo di hopelessness (Linehan et al.,
  1991); i sentimenti di depressione e scoraggiamento dei borderline possono
  invece migliorare con una terapia psicodimanica (Stevenson & Meares,
  1992), soprattutto se associata a day-hospital
  (Bateman & Fonagy, 1999). 
  Molta
  enfasi viene posta da Gabbard (1997, 2000) alle implicazioni di questi studi
  riguardo alla bilancia costi-benefici: nello
  studio della Linehan et al. (1991) i
  giorni di ricovero dei pazienti trattati erano stati in media 8.46
  all'anno, paragonati ai 38.86 giorni di ricovero all'anno per i pazienti del
  gruppo di controllo; inoltre nel gruppo
  trattato si era abbassato notevolmente il numero di automutilazioni, per cui
  è stato calcolato che la psicoterapia può far risparmiare circa 10.000
  dollari all'anno per paziente. Simili risultati sono stati trovati
  anche dallo studio australiano di Stevenson
  & Meares (1992) sulla efficacia della terapia psicoanalitica, dove è
  stato dimostrato che la terapia ha ridotto di metà le spese di
  ospedalizzazione: nell'anno precedente alla psicoterapia i costi di
  ospedalizzazione del campione di 30 pazienti erano stati di 684.346
  dollari australiani, con un range
  che andava da 0 a 143.756 dollari per paziente, mentre nell'anno successivo
  alla psicoterapia i costi di
  ospedalizzazione erano stati di 41.424 dollari australiani, con un
  range che andava da 0 a 12.333
  dollari per paziente, quindi con un risparmio medio di 21.431 dollari all'anno
  per paziente. Se si calcola che la psicoterapia costa 13.000 dollari all'anno
  per paziente, il risparmio sarebbe di 8.431 dollari all'anno per paziente.
  Altri studi (ad esempio quello di Bateman & Fonagy, 1999) non hanno fatto
  questi calcoli, ma è probabile che la bilancia costi-benefici sia simile. 
  Un altro
  importante fattore terapeutico discusso da Gabbard (2000) è la durata della
  terapia: non ci si può fare illusioni sul fatto che nei pazienti con disturbi
  di personalità la terapia deve essere necessariamente molto più lunga che
  per i disturbi in asse I. Vari studi hanno approfondito il rapporto
  dose-effetto delle psicoterapia (Howard et
  al., 1986; Kopta et al., 1994;
  Hoglend, 1993; Waldinger & Gunderson, 1987; ecc.), e tutti hanno concluso
  che, se sono presenti sintomi del carattere, un rapporto terapeutico stabile
  nel tempo e impegnato a tenere il paziente nonostante le molte difficoltà e
  gli alti e bassi che si possono incontrare, è molto più efficace di un
  rapporto breve o intermittente. 
  4. Problemi aperti 
  Tra
  i tanti problemi che rimangono aperti, vediamo quelli presi in rassegna da Bateman & Fonagy (2000): (1)
  identificazione dei casi, (2) comorbilità, (3) randomizzazione e controllo,
  (4) specificità delle psicoterapie, (5) misurazioni usate e follow-up
  (per una discussione critica sui problemi della ricerca empirica in
  psicoterapia, vedi anche Westen, 2001, e Migone, 1989,
  1996, 2001,
  2002). 
  4.1.
  Identificazione dei casi. Vi sono grossi
  problemi nel modo con cui vengono identificati i casi studiati, perché spesso
  le categorie diagnostiche individuate non hanno valore predittivo. In genere
  vi sono i metodi descrittivi (come il DSM-IV o l'ICD-10), e quelli guidati
  dalle teorie che hanno il difetto di essere meno descrittivi ma che permettono
  di perfezionare la classificazioni puramente descrittive. Gli approcci
  dimensionali sono poco utilizzabili per gli studi di outcome.
  Forse può essere promettente il metodo SWAP-II recentemente suggerito da
  Westen & Shedler (1999a, 1999b; Shedler, 2002; Shedler &
  Westen, 1998), basato sull'uso del Q-set,
  che è significativo in senso sia
  psicometrico che clinico (Lingiardi & Gazzillo,
  2002; Lingiardi & Abbate, 2003) 
  4.2.
  Comorbilità. Quasi sempre i pazienti
  presentano più disturbi in asse II simultaneamente, e spesso anche disturbi
  in asse I. Questo crea problemi perché ad esempio un miglioramento del
  disturbo in asse I può essere confuso, nelle misurazioni, con un
  miglioramento del disturbo in asse II e viceversa. 
  4.3.
  Randomizzazione e controllo. Anche qui vi sono
  grossi problemi. Ad esempio è molto costoso e logisticamente difficile
  continuare uno studio controllato randomizzato per lungo tempo. Il fattore di
  attrito (attrition), cioè il numero di
  pazienti che vengono persi mano a mano che si allunga lo studio, è molto
  alto, anche se può essere abbassato con tecniche specifiche che innalzano la compliance
  (ad esempio prestando attenzione al contratto e alla alleanza terapeutica).
  Inoltre in questi pazienti è frequente il trattamento intermittente, e questo
  confonde le misurazioni di follow-up.
  Anche la randomizzazione è difficile a causa delle aspettative dei pazienti
  che a volte sono alte e hanno un importante ruolo nella terapia stessa. Le
  liste d'attesa, per ovvi motivi, non possono essere usate per studi di lunga
  durata. 
  4.4.
  Specificità delle psicoterapie. Vi è una
  tale variabilità all'interno di ogni singolo approccio, e un tale overlapping
  tra approcci, che gli effetti differenziali spesso sono mascherati. Per
  innalzare la specificità, come è noto, sono stati costruiti i manuali, che
  però hanno i loro problemi (poca flessibilità, maggiore distanza dalla
  pratica clinica reale, innalzamento della efficacia e abbassamento della
  efficienza, ecc.; vedi Migone, 1996,
  2001, 2002).
  I principali manuali sono quelli psicodinamico della TFP (Clarkin
  et
  al., 1999),
  cognitivo-comportamentale della DBT (Linehan, 1993a, 1993b), e quello non
  direttivo di gestione delle relazioni interpersonali in gruppo della RMP (Dawson,
  1988), mentre quello della Cognitive Analytic Therapy
  (CAT) di Ryle (1997) non è stato ancora testato. Attualmente a Stoccolma si
  sta facendo un importante studio comparativo tra due anni di TFP e due anni di
  DBT, ma non si conoscono ancora i risultati. 
  4.5.
  Le misurazioni usate e il follow-up. In genere
  le misurazioni sono su sintomi, comportamenti e funzionamento sociale, ma non
  sulle sindromi. Spesso (come ad esempio nei pazienti che hanno compiuto atti
  criminali) si guarda al numero di arresti, ma non è affatto detto che sia una
  misura appropriata. Alcuni guardano alla riduzione del numero dei criteri
  diagnostici. Occorrerebbe sempre avere una prospettiva sia del paziente che
  dell'osservatore, e occorrono anche nuovi e migliori strumenti (ad esempio è
  possibile che in futuro si usi l'Adult Attachment Interview
  [AAI] della Main et al., 1985 [George
  et al., 1985]). Infine è
  importante un lungo follow-up, perché
  non sempre l'effetto della terapia è già visibile alle dimissioni. 
  5. Conclusioni 
  Si
  può dire che, alla luce dei problemi elencati
  finora (definizioni, specificazione del tipo di trattamento, controlli,
  dimostrazione della efficacia sulla struttura della personalità e non solo
  sui sintomi, ecc.), occorre molta cautela prima di affermare con certezza che
  la psicoterapia dei disturbi di personalità è efficace, anche se disponiamo
  di dati promettenti (si pensi solo a quelli, molto interessanti, che
  suggeriscono che i benefici sono altamente cost-effective
  [Gabbard, 1997, 2000]). 
  Bateman
  & Fonagy (2000), alla fine della loro review,
  affermano che i trattamenti efficaci hanno
  questi ingredienti: (a) sono ben strutturati; (b) si sforzano di innalzare la compliance;
  (c) hanno un chiaro focus (ad esempio i
  comportamenti autolesivi o certi pattern
  comportamentali); (d) sono teoricamente coerenti; (e) sono a lungo termine;
  (f) incoraggiano una forte alleanza terapeutica tra paziente e terapeuta dove
  il terapeuta gioca un ruolo abbastanza attivo; (g) sono ben integrati con gli
  altri servizi nella comunità. Anche Perry (1993; Perry et
  al., 1999; Perry & Bond, 2000) sottolinea l'importanza della alleanza
  terapeutica. Bateman & Fonagy
  (2000) aggiungono che un elemento centrale
  della efficacia di una terapia è il fatto che il paziente si coinvolga in un
  rapporto attento, ben strutturato, coerente e duraturo con il terapeuta (e con
  un équipe di professionisti nella
  comunità) in un processo che poi può permettere la interiorizzazione di
  determinate funzioni cognitive prima deficitarie (come la funzione riflessiva
  o metacognitiva [Fonagy, 1991; Fonagy & Target, 1993-2000;
  Fonagy et al., 2000], il cui mancato sviluppo rappresenterebbe un fattore di rischio per lo
  sviluppo di varie psicopatologie adulte, soprattutto di tipo borderline).
  Questo tipo di esperienza interpersonale può essere presente in tutti gli
  approcci psicoterapeutici, e si può argomentare su base empirica che è
  proprio questa esperienza che è mancata a molti pazienti nel corso del loro
  sviluppo psico-affettivo. 
  Per
  quanto riguarda le implicazioni cliniche che si possono trarre in generale
  dalle evidenze empiriche nella psicoterapia dei disturbi di
  personalità, vi sono prove sulla
  efficacia di terapie per il disturbo borderline, in genere di tipo
  cognitivo-comportamentale e psicodinamico. I trattamenti ospedalieri, rispetto
  a quelli in day hospital e
  ambulatoriali, sono più indicati per i pazienti che fanno uso di sostanze,
  presentano un alto rischio di suicidio, e che non fanno progressi con ripetuti
  ricoveri o in terapia ambulatoriale. I limiti consistono nel fatto che gran
  parte delle prove che abbiamo sono descrittive o qualitative, basate più su
  studi di coorte che su studi controllati. Secondo Bateman
  & Fonagy (2000), dovranno passare vari
  anni e essere completati molti altri studi prima di raggiungere vere e proprie
  evidenze empiriche sulla efficacia della psicoterapia dei disturbi di
  personalità, per cui i tempi non sarebbero ancora maturi per fare
  review quantitative più sistematiche,
  incluse le meta-analisi. 
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      Personalità" al VIII Congresso Nazionale della  Società Italiana di Psicopatologia (SOPSI), Roma, 25 febbraio-1 marzo 2003
 
    - -
      Paolo
  Migone, Via Palestro 14, 43100 Parma, Tel./Fax
  0521-960595, E-Mail <migone@unipr.it>
 
   
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