Riassunto
Viene presentato lo stato attuale della ricerca
empirica sulla psicoterapia dei disturbi di personalità tramite un breve
riassunto di quattro recenti revisioni della letteratura: la meta-analisi di
Perry, Banon & Ianni del 1999 sull'American
Journal of Psychiatry, il capitolo di Perry & Bond nella Review
of Psychiatry annuale del 2000 della American
Psychiatric Press, la review di
Bateman & Fonagy del 2000 sul British
Journal of Psychiatry, e la review
di Gabbard del 2000 sul Journal of
Psychotherapy Practice and Research. Queste quattro review sono concordi nel ritenere che, contrariamente a una diffusa
opinione secondo la quale non vi sarebbero evidenze empiriche nella
psicoterapia dei disturbi di personalità, essa invece è efficace, anche se
vi sono limitazioni e problemi che impongono cautela nella interpretazione dei
dati. In particolare, secondo Perry et
al. la psicoterapia in media accelera di sette volte il naturale
miglioramento dei disturbi di personalità; Bateman
& Fonagy affermano che vi sono dati in favore della efficacia di
interventi con determinate caratteristiche, anche se sono cauti sulla
possibilità di trarre conclusioni definitive dati i pochi studi controllati e
i numerosi problemi aperti; Gabbard, tra le altre cose, sottolinea la cost-effectiveness della psicoterapia dei disturbi di personalità,
dimostrata anche da studi su terapie psicodinamiche.
Parole chiave:
psicoterapia, disturbi di personalità, evidenze empiriche, ricerca, review.
Summary
The state
of the art of psychotherapy research on personality disorders is briefly
presented. Four recent reviews are summarized: the 1999 meta-analysis by Perry,
Banon & Ianni in the American
Journal of Psychiatry, the chapter by Perry & Bond in the 2000 annual Review
of Psychiatry published by American Psychiatric Press, the 2000 review by
Bateman & Fonagy in the British Journal of Psychiatry, and
the 2000 review by Gabbard in the Journal
of Psychotherapy Practice and Research. These four reviews all agree that,
despite a common contemporary opinion, psychotherapy of personality
disorders is a promising treatment, although several methodological problems
persist: Perry et al. conclude that
psychotherapy of personality disorders may be associated with up to a
sevenfold faster rate of recovery in comparison with the natural history of
disorders; Bateman & Fonagy
state that, despite some limitations, there is reason to feel cautiously optimistic
about treating personality pathology, especially if the
interventions are well structured and clearly focused; Gabbard, among other
things, emphasizes interesting data on cost-effectiveness.
Keywords:
psychotherapy, personality disorders, empirical research, evidence, review.
Contrariamente
ad una opinione abbastanza diffusa secondo la quale non vi sarebbero chiare
evidenze empiriche sulla efficacia della psicoterapia dei disturbi di
personalità, una attenta revisione della letteratura mette in luce che invece
determinati tipi di interventi psicologici possono avere un effetto sul loro
decorso, anche se, come vedremo, vi sono limitazioni e problemi che impongono
molta cautela nella interpretazione dei dati. Nell'ultimo decennio è stata
pubblicata una decina di revisioni della letteratura sulla psicoterapia dei
disturbi di personalità: Shea (1993), Reich & Vasile (1993), Roth &
Fonagy (1996), Sanislow & McGlashan (1998), Target (1998), Perry et
al. (1999), Perry &
Bond (2000), Bateman & Fonagy
(2000), e Gabbard (2000). Verranno qui prese in rassegna le revisioni
più recenti, le due di Perry (sia la review
meta-analitica di Perry et al.
[1999] che la revisione, un anno dopo, di Perry & Bond [2000]), quella di
Bateman & Fonagy (2000), e quella di Gabbard (2000).
1. Le review di Perry et
al. (1999) e di Perry & Bond (2000)
Perry
et al. (1999), in una
meta-analisi pubblicata sull'American Journal of Psychiatry, hanno esaminato 15 studi pubblicati
tra il 1974 e il 1998 che rispondevano a criteri minimi di inclusione: tra
questi studi vi erano 3 studi randomizzati controllati (Alden, 1989; Linehan et
al., 1994; Winston et al.,
1994), 3 paragoni randomizzati di terapie diverse (Liberman & Eckman,
1981; Hardy et al., 1995; Monroe-Blum & Marziali, 1995), e 9 studi non
controllati (Woody et al., 1985;
Karterud et al., 1992; Stevenson
& Meares, 1992; Diguer et al.,
1993; Fahy et al., 1993; Hoglend,
1993; Monson et al., 1995; Budman et
al., 1996; Rosenthal et al.,
1999). Erano rappresentate terapie psicodinamiche, cognitivo-comportamentali,
miste e supportive, e la diagnosi prevalente era di disturbo borderline (5
studi su 15), ma erano rappresentate anche altre diagnosi (disturbo
schizotipico, evitante, antisociale, e tipi misti). I pazienti erano quasi
tutti ambulatoriali (13 studi su 15), uno studio era su pazienti in day
hospital e uno su pazienti ricoverati.
I
risultati emersi mostrano che la psicoterapia dei disturbi di personalità
risulta efficace sia con misurazioni di self-report
(effect size medio 1.11) che con
misurazioni osservazionali (effect size
medio 1.29). In 4 studi su 15 il 52% dei pazienti che sono rimasti in terapia
è "guarito" (nel senso che non erano più soddisfatti i criteri
diagnostici) in media dopo 1.3 anni di trattamento. Sulla base di questo dati,
si può calcolare che per ogni anno di terapia il 25.8% dei pazienti con
disturbi di personalità guarisce, tasso che è sette volte maggiore di quello
della storia naturale di questi disturbi, dove ogni anno guarisce il 3.7% dei
pazienti (cioè guarisce il 50% in 10.5 anni di follow-up). In conclusione, questa review meta-analitica di Perry et
al. (1999) suggerisce che la psicoterapia accelera, in media, di ben sette
volte il normale tasso di miglioramento della storia naturale dei disturbi di
personalità. Ovviamente sono necessari ulteriori studi per dimostrare
l'efficacia di terapie specifiche per disturbi specifici.
Un anno
dopo la pubblicazione di questo lavoro, Perry & Bond (2000) riprendono il
discorso in un capitolo della Review of
Psychiatry annuale della American
Psychiatric Press, esaminando vari studi tra cui anche la propria
meta-analisi dell'anno prima, ma senza includere le review di Bateman & Fonagy
(2000) e di Gabbard (2000), di cui si parlerà dopo, perché non erano ancora
state pubblicate. Riassumendo le conclusioni già raggiunte nel precedente
studio, ribadiscono che in media gli effetti della psicoterapia dei disturbi
di personalità sono consistenti, da due a quattro volte maggiori di quelli
visti nei gruppi di controllo, anche se si può dire che gli studi controllati
siano ancora pochi. La gravità del disturbo (ad esempio nel caso si tratti di
un disturbo del cluster B piuttosto
che C - cioè che si tratti, ad esempio, di una personalità borderline
piuttosto che ossessivo-compulsiva) è una variabile che limita molto l'outcome. Il tasso di drop-out
varia dal 10% al 20%, a seconda della durata della terapia (cioè del fattore
di attrition ["attrito"]
dovuto al passaggio del tempo, che fa perdere pazienti) e si sa ancora
abbastanza poco delle caratteristiche dei pazienti che si perdono perché
spesso gli studi si concentrano su coloro che completano il trattamento. Pare
comunque che sia il cluster B quello
più soggetto a drop-out. Tra le
variabili del processo, viene ribadita l'importanza della alleanza terapeutica
e dell'enfasi che i futuri manuali di psicoterapia dovrebbero darle.
2. La review di Bateman
& Fonagy (2000)
Bateman
& Fonagy (2000), in un recente articolo sul British Journal of
Psychiatry, hanno fatto una revisione della letteratura esaminando 1.814
abstracts e 80 articoli selezionati
con Medline e PsychLit tramite precise parole chiave, tra cui hanno selezionato
25 lavori che rispondevano a criteri minimamente accettabili (chiare
descrizioni dei trattamenti, specifiche misure di outcome,
esclusione di diagnosi in asse I, durata del follow-up, ecc.). Gli studi di outcome sono stati suddivisi, a seconda del contesto terapeutico, in tre
categorie: (1) pazienti ricoverati, (2) pazienti in day hospital,
e (3) pazienti ambulatoriali. E' stata poi fatta una ulteriore suddivisione
tra (1) studi di coorte e (2) studi controllati. Questi ultimi consistono
soprattutto in pacchetti di trattamento, e pochi sono i Randomized
Clinical Trial (RCT) di trattamenti specifici;
dato che vi è una sovrapposizione tra questi due tipi di studi, quelli che
studiano principalmente il follow-up a
lungo termine dopo un intervento relativamente aspecifico sono stati inclusi
tra gli studi di coorte. Vediamo brevemente i risultati di questa review
di Bateman & Fonagy
(2000).
2.1.
Pazienti ricoverati
2.1.1.
Studi di coorte. I principali studi in
questa categoria sono i seguenti: Tucker et
al. (1987), Najavits & Gunderson (1995), Blatt & Ford (1994),
Copas et al. (1984), McGlashan
(1986), Stone (1993), Rosser et al.
(1987). In genere si tratta di ricoveri lunghi, esaminati con studi
naturalistici pre-test-post-test,
dove nella grande maggioranza dei pazienti
si è quasi sempre rilevato un netto
miglioramento nei sintomi, nel funzionamento globale, e nei comportamenti
autodistruttivi. Tutti questi studi sono difficili da interpretare, dato che
il lungo follow-up aumenta la
probabilità che altri life events
significativi possano aver influito sul risultato, per cui vi è il rischio
che questi studi documentino semplicemente il decorso a lungo termine di
questo disturbo.
2.1.2.
Studi controllati. Vi è uno studio
di Barley et al. (1993) sulla efficacia
della Dialectical Behavior Therapy (DBT)
della Linehan (1993a, 1993b) in pazienti ricoverati, paragonati a pazienti di
un altro reparto in terapia standard. I miglioramenti sono stati
significativi, ma il campione non era randomizzato e non è stata specificata
con esattezza quale era la terapia standard, dato che pare dimostrato che producono
benefici anche altre terapie ospedaliere
strutturate, tipo "gruppi di benessere e stile di vita"
in cui si discutono hobbies (Springer
et al., 1996) o terapie di insight
(Liberman & Eckman, 1981).
Un altro
lavoro (Dolan et al. 1997) ha
studiato 137 pazienti (di cui 70 ricoverati e 67 non ricoverati per motivi
clinici o economici) dove i pazienti non ricoverati sono stati usati come
gruppo di controllo, usando come scala la Borderline
Syndrome Index (BSI) di Conte et al.
(1980), e ha mostrato un miglioramento dopo un anno di follow-up nel gruppo dei ricoverati dove era stata praticata una
terapia specializzata. Ma uno studio inglese che ha usato la Personality
Assessment Schedule di Tyrer et al.
(1988) ha trovato che la BSI di Conte et
al. mancava di validità (Marlowe et
al., 1996). Alcuni dati, seppur limitati (Dolan et
al., 1996), suggeriscono che il ricovero abbassa in modo significativo i
costi, soprattutto per coloro che hanno una storia di problemi con la legge.
In
sintesi, non è chiara l'utilità del ricovero a lungo termine per i pazienti
con disturbi di personalità, anche se si può dire che i pazienti che
traggono maggior beneficio sono quelli che mostrano: (1) abuso di sostanze;
(2) alto rischio di suicidio; (3) problemi con la legge; (4) passeggere
difficoltà nell'esame di realtà; (5) assenza di risposta a ripetuti ricoveri
brevi e terapie ambulatoriali; (6) prove che i comportamenti autodistruttivi e
la mancanza di speranza (hopelessness)
fanno ormai parte della personalità.
2.2. Pazienti in day
hospital
2.2.1.
Studi di coorte. Vi sono pochi studi su trattamenti specifici. Si possono
citare i seguenti tre: Karterud et al.
(1992), con una terapia psicodinamica in day
hospital, hanno notato un certo miglioramento in pazienti con disturbi di
personalità, soprattutto di tipo ansioso-evitante, e modesti miglioramenti in
pazienti con il disturbo borderline; Dick & Woof (1986), sempre con una
terapia psicodinamica in day hospital,
hanno trovato un aumento di utilizzo dei servizi psichiatrici, il che
possibilmente dimostra che questi pazienti necessitano di ulteriore terapia;
Krawitz (1997) ha notato notevoli miglioramenti con una terapia psicodinamica
orientata in senso femminista e socio-politico.
2.2.1.
Studi controllati. Piper et al.
(1993) hanno trovato un miglioramento con 18 settimane di day hospital in un gruppo di 79 pazienti con disturbi dell'umore e
di personalità, paragonati a un gruppo di controllo costituito da pazienti
trattati successivamente; i risultati si sono mantenuti a un follow-up
di 8 mesi. Bateman & Fonagy (1999), in uno studio controllato su 38
pazienti con disturbo borderline assegnati a caso per 18 mesi a un day
hospital orientato psicoanaliticamente e alla terapia tradizionale (Treatment
as Usual [TAU]), hanno riportato un miglioramento consistente nelle aree
di parasuicidio, automutilazioni, umore, sintomi e ricoveri; il drop-out era del 12%, e il miglioramento avvenne relativamente
tardi; non è ancora disponibile il follow-up
né una analisi su quale aspetto dell'intervento possa essere responsabile del
miglioramento (la terapia, il milieu,
il rapporto con lo staff, ecc.).
Data la
limitatezza dei dati disponibili, le conclusioni che si possono trarre dagli
studi sui pazienti in day-hospital
sono incerte, simile a quella dei pazienti ricoverati.
2.3. Pazienti
ambulatoriali
2.31.
Studi di coorte. I dati degli studi di coorte sulla terapia
cognitivo-comportamentale e psicodinamica provengono soprattutto da casi
singoli o da metodi teoricamente orientati, per cui è difficile fare
generalizzazioni. Lo studio sul follow-up
trentennale di Wallerstein (1986) su 42 pazienti seguiti con terapie dinamiche
alla Menninger Foundation suggerisce
che alcuni pazienti migliorano mentre altri peggiorano, soprattutto se
presentano comorbilità. Stevenson & Meares (1992, 1999) hanno mostrato la
utilità di un anno di terapia psicodinamica bisettimanale in 48 pazienti con
disturbo borderline, dei quali alla fine della terapia il 30% non
soddisfacevano più i criteri diagnostici, e il follow-up era positivo anche dopo 5 anni. Davidson & Tyrer
(1996) hanno mostrato l'utilità di una terapia cognitivo-comportamentale di
10 settimane in pazienti antisociali e borderline. Turkat & Maisto (1985)
hanno trovato invece che solo 16 pazienti su 35 migliorano con la terapia
cognitivo-comportamentale. Tutti questi dati ovviamente vanno presi con
cautela, non essendo controllati.
2.3.2.
Studi controllati. Il noto studio
controllato randomizzato della Linehan et al. (1991) sulla DBT ha mostrato una sua efficacia in 22 donne
borderline rispetto alle 22 donne del gruppo di controllo. Le automutilazioni
dopo un anno di terapia non solo erano meno severe, ma erano 1.5 in media
mentre nel gruppo di controllo erano 9. Inoltre si è abbassato il numero di
ricoveri. Il drop-out è stato del
16% (quindi abbastanza basso per questo tipo di pazienti), ma non vi sono
state differenze tra i due gruppi, anche a un anno di follow-up, riguardo alla depressione, al senso di mancanza di
speranza e di senso nella vita.
Uno studio
preliminare del gruppo di Kernberg (Clarkin et
al., 2001) su 10 pazienti per un anno ha mostrato certi benefici della Transference-Focused
Psychotherapy (TFP: Clarkin
et al., 1999), anche se gli
antisociali erano quelli che miglioravano meno. Monroe-Blum & Marziali
(1995) invece hanno trovato una somiglianza tra gli effetti di una terapia
dinamica e di una terapia di gruppo di gestione delle relazioni (la Relationship
Management Psychotherapy [RMP] di Dawson, 1988), il che suggerirebbe il
bisogno di una analisi costi-benefici.
La
personalità evitante pare che tragga beneficio da terapie sia dinamiche che
comportamentali (per una review,
vedi Roth & Fonagy, 1996). Vi sono dati (Beutler et
al. 1991; Alden & Capreol, 1993) che suggeriscono che i pazienti
evitanti arrabbiati, sfiduciati o resistenti traggono maggior beneficio da
terapie non direttive, mentre quelli non assertivi possono migliorare con
entrambe.
In
conclusione, non vi sono ancora dati decisivi sulla utilità di terapie
ambulatoriali per il disturbo borderline,
soprattutto se i pazienti sono a basso funzionamento. Il più citato studio di
efficacia, quello della Linehan et al.
(1991) sulla DBT, che le ha fatto meritare l'ingresso ufficiale in alcuni
elenchi degli Empirically
Supported Treatments (EST) (vedi ad
esempio DeRubeis
& Crits-Cristoph, 1998, e Chambless
& Ollendick, 2001), è deludente
per la limitata efficacia al follow-up.
Si sa solo che certi pazienti evitanti possono migliorare con tecniche
dinamiche o comportamentali.
3. La review
di Gabbard (2000)
Gabbard,
in una review sul Journal
of Psychotherapy Practice and Research del 2000, descrive in dettaglio i risultati di vari studi sulla efficacia della
psicoterapia dei disturbi di personalità, esaminati anche dalle review
precedenti, e, in sintesi, conclude che si può avere un cauto ottimismo sulla
trattabilità dei disturbi di personalità, che invece in genere vengono
considerati intrattabili dalle agenzie assicuratrici. Naturalmente siamo
ancora in un periodo pionieristico in questo campo, afflitto da vari problemi
che confondono i risultati, come la frequente mancanza di randomizzazione e
controllo, concomitanti ospedalizzazioni e farmacoterapie, comorbilità in
asse I, possibilità che il miglioramento sia dovuto a life events
accaduti durante il periodo del trattamento, ecc. Inoltre i pazienti con
disturbi del cluster A (paranoide,
schizoide e schizotipico) raramente vengono studiati perché quasi mai
richiedono una terapia: ad esempio, in uno studio su 100 pazienti che avevano
fatto domanda di trattamento al Columbia
Psychoanalytic Center (Oldham & Skodol, 1994), al Personality
Disorder Examination (PDE) solo 4 risultarono paranoidi, 1 schizoide e
nessuno schizotipico.
Tra le
conclusioni tratte da Gabbard (2000), si possono citare le seguenti: alcuni
dei principali sintomi della personalità evitante possono migliorare con social
skills training e tecniche cognitivo-comportamentali (Alden, 1989; Cappe
& Alden, 1986; Marzillier et al.,
1976; Stravynski et al., 1982;
Hofmann et al., 1995; Mersch et
al., 1995; Feske et al., 1996); i pazienti antisociali depressi e dipendenti da
oppioidi, contrariamente a quanto si credeva prima, possono migliorare con
tecniche psicodinamiche (Woody et al.,
1985); i pazienti borderline possono diminuire notevolmente i tentativi di
suicidio con sedute monosettimanali di DBT, sia individuali che di gruppo,
anche se migliorano poco nel loro vissuto soggettivo di hopelessness (Linehan et al.,
1991); i sentimenti di depressione e scoraggiamento dei borderline possono
invece migliorare con una terapia psicodimanica (Stevenson & Meares,
1992), soprattutto se associata a day-hospital
(Bateman & Fonagy, 1999).
Molta
enfasi viene posta da Gabbard (1997, 2000) alle implicazioni di questi studi
riguardo alla bilancia costi-benefici: nello
studio della Linehan et al. (1991) i
giorni di ricovero dei pazienti trattati erano stati in media 8.46
all'anno, paragonati ai 38.86 giorni di ricovero all'anno per i pazienti del
gruppo di controllo; inoltre nel gruppo
trattato si era abbassato notevolmente il numero di automutilazioni, per cui
è stato calcolato che la psicoterapia può far risparmiare circa 10.000
dollari all'anno per paziente. Simili risultati sono stati trovati
anche dallo studio australiano di Stevenson
& Meares (1992) sulla efficacia della terapia psicoanalitica, dove è
stato dimostrato che la terapia ha ridotto di metà le spese di
ospedalizzazione: nell'anno precedente alla psicoterapia i costi di
ospedalizzazione del campione di 30 pazienti erano stati di 684.346
dollari australiani, con un range
che andava da 0 a 143.756 dollari per paziente, mentre nell'anno successivo
alla psicoterapia i costi di
ospedalizzazione erano stati di 41.424 dollari australiani, con un
range che andava da 0 a 12.333
dollari per paziente, quindi con un risparmio medio di 21.431 dollari all'anno
per paziente. Se si calcola che la psicoterapia costa 13.000 dollari all'anno
per paziente, il risparmio sarebbe di 8.431 dollari all'anno per paziente.
Altri studi (ad esempio quello di Bateman & Fonagy, 1999) non hanno fatto
questi calcoli, ma è probabile che la bilancia costi-benefici sia simile.
Un altro
importante fattore terapeutico discusso da Gabbard (2000) è la durata della
terapia: non ci si può fare illusioni sul fatto che nei pazienti con disturbi
di personalità la terapia deve essere necessariamente molto più lunga che
per i disturbi in asse I. Vari studi hanno approfondito il rapporto
dose-effetto delle psicoterapia (Howard et
al., 1986; Kopta et al., 1994;
Hoglend, 1993; Waldinger & Gunderson, 1987; ecc.), e tutti hanno concluso
che, se sono presenti sintomi del carattere, un rapporto terapeutico stabile
nel tempo e impegnato a tenere il paziente nonostante le molte difficoltà e
gli alti e bassi che si possono incontrare, è molto più efficace di un
rapporto breve o intermittente.
4. Problemi aperti
Tra
i tanti problemi che rimangono aperti, vediamo quelli presi in rassegna da Bateman & Fonagy (2000): (1)
identificazione dei casi, (2) comorbilità, (3) randomizzazione e controllo,
(4) specificità delle psicoterapie, (5) misurazioni usate e follow-up
(per una discussione critica sui problemi della ricerca empirica in
psicoterapia, vedi anche Westen, 2001, e Migone, 1989,
1996, 2001,
2002).
4.1.
Identificazione dei casi. Vi sono grossi
problemi nel modo con cui vengono identificati i casi studiati, perché spesso
le categorie diagnostiche individuate non hanno valore predittivo. In genere
vi sono i metodi descrittivi (come il DSM-IV o l'ICD-10), e quelli guidati
dalle teorie che hanno il difetto di essere meno descrittivi ma che permettono
di perfezionare la classificazioni puramente descrittive. Gli approcci
dimensionali sono poco utilizzabili per gli studi di outcome.
Forse può essere promettente il metodo SWAP-II recentemente suggerito da
Westen & Shedler (1999a, 1999b; Shedler, 2002; Shedler &
Westen, 1998), basato sull'uso del Q-set,
che è significativo in senso sia
psicometrico che clinico (Lingiardi & Gazzillo,
2002; Lingiardi & Abbate, 2003)
4.2.
Comorbilità. Quasi sempre i pazienti
presentano più disturbi in asse II simultaneamente, e spesso anche disturbi
in asse I. Questo crea problemi perché ad esempio un miglioramento del
disturbo in asse I può essere confuso, nelle misurazioni, con un
miglioramento del disturbo in asse II e viceversa.
4.3.
Randomizzazione e controllo. Anche qui vi sono
grossi problemi. Ad esempio è molto costoso e logisticamente difficile
continuare uno studio controllato randomizzato per lungo tempo. Il fattore di
attrito (attrition), cioè il numero di
pazienti che vengono persi mano a mano che si allunga lo studio, è molto
alto, anche se può essere abbassato con tecniche specifiche che innalzano la compliance
(ad esempio prestando attenzione al contratto e alla alleanza terapeutica).
Inoltre in questi pazienti è frequente il trattamento intermittente, e questo
confonde le misurazioni di follow-up.
Anche la randomizzazione è difficile a causa delle aspettative dei pazienti
che a volte sono alte e hanno un importante ruolo nella terapia stessa. Le
liste d'attesa, per ovvi motivi, non possono essere usate per studi di lunga
durata.
4.4.
Specificità delle psicoterapie. Vi è una
tale variabilità all'interno di ogni singolo approccio, e un tale overlapping
tra approcci, che gli effetti differenziali spesso sono mascherati. Per
innalzare la specificità, come è noto, sono stati costruiti i manuali, che
però hanno i loro problemi (poca flessibilità, maggiore distanza dalla
pratica clinica reale, innalzamento della efficacia e abbassamento della
efficienza, ecc.; vedi Migone, 1996,
2001, 2002).
I principali manuali sono quelli psicodinamico della TFP (Clarkin
et
al., 1999),
cognitivo-comportamentale della DBT (Linehan, 1993a, 1993b), e quello non
direttivo di gestione delle relazioni interpersonali in gruppo della RMP (Dawson,
1988), mentre quello della Cognitive Analytic Therapy
(CAT) di Ryle (1997) non è stato ancora testato. Attualmente a Stoccolma si
sta facendo un importante studio comparativo tra due anni di TFP e due anni di
DBT, ma non si conoscono ancora i risultati.
4.5.
Le misurazioni usate e il follow-up. In genere
le misurazioni sono su sintomi, comportamenti e funzionamento sociale, ma non
sulle sindromi. Spesso (come ad esempio nei pazienti che hanno compiuto atti
criminali) si guarda al numero di arresti, ma non è affatto detto che sia una
misura appropriata. Alcuni guardano alla riduzione del numero dei criteri
diagnostici. Occorrerebbe sempre avere una prospettiva sia del paziente che
dell'osservatore, e occorrono anche nuovi e migliori strumenti (ad esempio è
possibile che in futuro si usi l'Adult Attachment Interview
[AAI] della Main et al., 1985 [George
et al., 1985]). Infine è
importante un lungo follow-up, perché
non sempre l'effetto della terapia è già visibile alle dimissioni.
5. Conclusioni
Si
può dire che, alla luce dei problemi elencati
finora (definizioni, specificazione del tipo di trattamento, controlli,
dimostrazione della efficacia sulla struttura della personalità e non solo
sui sintomi, ecc.), occorre molta cautela prima di affermare con certezza che
la psicoterapia dei disturbi di personalità è efficace, anche se disponiamo
di dati promettenti (si pensi solo a quelli, molto interessanti, che
suggeriscono che i benefici sono altamente cost-effective
[Gabbard, 1997, 2000]).
Bateman
& Fonagy (2000), alla fine della loro review,
affermano che i trattamenti efficaci hanno
questi ingredienti: (a) sono ben strutturati; (b) si sforzano di innalzare la compliance;
(c) hanno un chiaro focus (ad esempio i
comportamenti autolesivi o certi pattern
comportamentali); (d) sono teoricamente coerenti; (e) sono a lungo termine;
(f) incoraggiano una forte alleanza terapeutica tra paziente e terapeuta dove
il terapeuta gioca un ruolo abbastanza attivo; (g) sono ben integrati con gli
altri servizi nella comunità. Anche Perry (1993; Perry et
al., 1999; Perry & Bond, 2000) sottolinea l'importanza della alleanza
terapeutica. Bateman & Fonagy
(2000) aggiungono che un elemento centrale
della efficacia di una terapia è il fatto che il paziente si coinvolga in un
rapporto attento, ben strutturato, coerente e duraturo con il terapeuta (e con
un équipe di professionisti nella
comunità) in un processo che poi può permettere la interiorizzazione di
determinate funzioni cognitive prima deficitarie (come la funzione riflessiva
o metacognitiva [Fonagy, 1991; Fonagy & Target, 1993-2000;
Fonagy et al., 2000], il cui mancato sviluppo rappresenterebbe un fattore di rischio per lo
sviluppo di varie psicopatologie adulte, soprattutto di tipo borderline).
Questo tipo di esperienza interpersonale può essere presente in tutti gli
approcci psicoterapeutici, e si può argomentare su base empirica che è
proprio questa esperienza che è mancata a molti pazienti nel corso del loro
sviluppo psico-affettivo.
Per
quanto riguarda le implicazioni cliniche che si possono trarre in generale
dalle evidenze empiriche nella psicoterapia dei disturbi di
personalità, vi sono prove sulla
efficacia di terapie per il disturbo borderline, in genere di tipo
cognitivo-comportamentale e psicodinamico. I trattamenti ospedalieri, rispetto
a quelli in day hospital e
ambulatoriali, sono più indicati per i pazienti che fanno uso di sostanze,
presentano un alto rischio di suicidio, e che non fanno progressi con ripetuti
ricoveri o in terapia ambulatoriale. I limiti consistono nel fatto che gran
parte delle prove che abbiamo sono descrittive o qualitative, basate più su
studi di coorte che su studi controllati. Secondo Bateman
& Fonagy (2000), dovranno passare vari
anni e essere completati molti altri studi prima di raggiungere vere e proprie
evidenze empiriche sulla efficacia della psicoterapia dei disturbi di
personalità, per cui i tempi non sarebbero ancora maturi per fare
review quantitative più sistematiche,
incluse le meta-analisi.
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- -
Paolo
Migone, Via Palestro 14, 43100 Parma, Tel./Fax
0521-960595, E-Mail <migone@unipr.it>
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