|
|
|
"Pensare la psicoanalisi" Dedicato a Rosario Merendino |
Matteo Musacchio
La sofferenza e la psicoanalisi |
Prima, ed oltre, ogni valutazione di merito, "Pensare la psicanalisi" è essenzialmente un bel libro, sia per il procedimento euristico che lo sorregge, sia per la personalità connotante il suo autore. E', altresì, un bel libro perché, per certi aspetti, consacra la sofferenza umana, quella propria e quella altrui. Verso il suo prossimo, verso i pazienti, Rosario Merendino testimonia una singolare capacità di immedesimazione empatica parlando il linguaggio di chi sa calarsi, senza esitazione, nella dolorosa realtà dell'altro, abbandonando le protezioni di chi, comunque, si situa al di sopra ed al di fuori. D'altro canto anche il dolore che lo ferisce personalmente non è mai trattato alla stregua di un incidente di percorso, ma sempre quale espressione di significati nascosti e di ragioni profonde che egli, coraggiosamente, si adopera per conquistare alla coscienza. A dirla in breve il lavoro è attraversato da una vena di umanità autentica, configurando il parto di un uomo assetato di verità inseguita con chiara onestà intellettuale e morale. Gli esiti della ricerca non restano, perciò, confinati nella astrazione teorica lievitando, bensì, nella sfera esistenziale con totale assunzione di responsabilità. Nel momento in cui dà conto degli approdi toccati, Rosario Merendino, consequenzialmente, mette pure in discussione se stesso. Segnaliamo ciò non per facile ed occasionale retorica, ma perché riteniamo che la sua lezione possa emancipare la psicologia del profondo dalle seduzioni dello scientismo il quale, quasi fisiologicamente, determina distanze abissali tra soggetto ed oggetto. Affascinata dal mito della scienza, la psicologia tende a contemplare con occhio freddo e distaccato, dal di fuori e dal di sopra, finanche emozioni e sentimenti, impoverendo paurosamente i paradigmi della propria elaborazione che metamorfizzano in chiacchiera salottiera o elucubrazione accademica. Il fenomeno diventa pericoloso nella misura in cui scinde il vissuto dal pensato sicché il pensato si riduce a fatto inessenziale e fittizio, astratto e privo di mordente. A sua volta, e per converso, il vissuto si colora di irrazionalismo. Tale scissione si situa alla radice di molte tra le tragedie che hanno accompagnato il Novecento e che sono state possibili per cecità di comportamenti costituzionalmente mai rischiarati da spirito riflessivo. Per Merendino, viceversa, le parole sono effettivamente pietre, offrendo così risposta a colossali problemi di natura storico-esistenziale attraverso la premessa della più rigorosa simmetria di soggetto ed oggetto, o mediante il coinvolgimento dell'osservatore con l'osservato, sia quando le due entità si incarnano in persone distinte, sia ed a maggior ragione, quando coincidono nella stessa persona. A cagione di ciò, ci sembra che il modo migliore per ricordarlo consiste nel restare aderenti alla sua metodologia che ricuce lo strappo, a suo tempo consumato, tra vita e pensiero, a prescindere da eventuali differenze di opinione su questo o quel contenuto. La diversificazione degli apporti è, anzi, da salutare favorevolmente poiché il contrasto sollecita l'approfondimento ed induce ad ulteriore elaborazione. Per questo transito non si raggiunge certo la verità, posto che la verità sia irraggiungibile, ma si ampliano tuttavia gli orizzonti e si determinano nuovi punti di vista che a loro volta promuovono nuova ricerca. Rosario Merendino avrebbe sicuramente gioito annotando codesti risultati correlati al proprio impegno intellettuale. Detto ciò, sia per non scadere nella piatta adulazione, sia per accogliere lo spirito più fecondo del magistero assolto dallo scrittore, sembra opportuno soffermarsi su alcune argomentazioni che non riescono pienamente convincenti, ancorché rivestano un ruolo epistemologico fondamentale. Esaminando la protoesperienza dell'impotenza, l'autore ne parla in termini di consapevolezza del neonato circa l'impossibilità di sopravvivere se lasciato in balia di se stesso sicché il proprio essere, condannato a morire, diventa privo di significato al di fuori della relazione. Stabilisce, in altre parole, una doppia equazione, tra vita e significato per un verso, tra morte ed assenza di significato per un altro. Passando, poi, alla protoesperienza dell' "intendersi" la descrive come "consapevolezza che la vita è possibile solo a condizione che, assieme all'altro, si costituisca una struttura unitaria in costante integrazione fisica e psichica". Infine l'identità materna ritagliata da tali premesse si esprime prevalentemente nelle attività di accudimento materiale quali il nutrire, lavare, cambiare e vestire. Lo psichismo della figura si riduce ad epifenomeno o funzione di tali adempimenti. Amore, gratificazioni tattili, simpatia, partecipazione e quant'altro scadono a testimonianza circa il fatto che i compiti di protezione della vita siano assolti con trasporto sicuro, senza fastidio, con piena ed autentica adesione. L'attenzione focalizzata sui processi primari di nascita, crescita e riproduzione evidenzia come le categorie guida siano ritagliate sulla scorta della biologia e dei suoi paradigmi. Volendo ricondurle ad una divinità bisognerebbe chiamare in causa Demetra che accoglie in grembo i semi, li fa germogliare e ne assicura la fruttificazione. Nella sua fenomenologia la morte, e l'approfondimento ad essa correlato (Persefone perde la propria ingenuità quando è rapita e condotta agli inferi dal Dio dei morti) propongono una ferita insanabile, una vera e propria assenza di significato. La vita, però, può essere contemplata non solo alla luce di Demetra o, se vogliamo, del Bios, ma anche alla luce di Zoè, un processo più basilare in cui la sua forza indistruttibile articola momenti di creazione e distruzione, talché l'una trova nell'altra il proprio presupposto e fondamento. In buona sostanza si tratta di una concezione affatto diversa, sorretta dalla polarità di diastole e sistole accolta anche da Goethe, e presente in filoni non secondari della cultura occidentale da Eraclito in poi. D'altro canto morte e distruzione si coniugano col formarsi dell'immagine simbolica, ovvero con la sostituzione dell'oggetto concreto da parte di una entità immateriale e fantasmatica nell'ambito di un processo da cui traggono origine il linguaggio, le arti e la religione. Il simbolo, infatti, germoglia dalla frustrazione patita dal soddisfacimento immediato, dal terreno della assenza, che è anche un terreno di morte, di lutto e di depressione, talché il fondamento della cultura si propone quale distorsione, se non distruzione, del Bios. Gli animali, anche i primati superiori, che sono prevalentemente connotati dalla soddisfazione immediata di esigenze biologiche immediate, presentano, se pure la presentano, una modesta produzione simbolica essendo i loro comportamenti più rigidi e reiterati. L'elaborazione di simboli, e la conseguente secrezione culturale, appartengono a pieno titolo solo alla specie umana così come documenta Cassirer nel volume "Saggio sull'uomo", in Italia edito da Armando nel 1968. Su altri versanti, archeologi e paleoetnografi riferiscono che ogni raggruppamento umano di cui si abbia notizia ha coltivato o coltiva un qualche culto funerario rinunciando ad abbandonare, sic et simpliciter, i cadaveri all'azione degli elementi come gli animali, e come pure sarebbe lecito attendersi per entità ormai destituite di ogni significato biologico. Di conseguenza, essendo l'uomo, fin dai primordi, e per qualità ontologicamente date, un essere culturale, ciò che conta non è solo se, o in che misura, siano soddisfatti i bisogni elementari della vita, ma è soprattutto importante il modo in cui tali bisogni sono soddisfatti, i rituali posti in essere, i valori di riferimento ed insomma i simboli accolti a governo delle azioni. Tali osservazioni modificano radicalmente le concezioni attorno alla relazione madre-bambino. La madre che vieta categoricamente di giocare con il fango, ed educa con determinazione alla pulizia, protegge certamente dalla sporcizia e dalle infezioni tutelando così la vita. In tal senso onora le ragioni del Bios. Ella, però, si pone anche a servizio di bisogni e necessità culturali. Le fantasie che la muovono sono fantasie di purezza, integrità, innocenza e, se vogliamo, perfezione. Nessuna meraviglia, quindi, se questa madre, contemporaneamente, nutre scarsa dimestichezza con la sessualità poiché modella se stessa, magari senza saperlo, sul tipo di Maria Vergine, creatura umana e non di meno assolutamente pura. Si riallaccia, in altre parole, al mito cristiano con la sua ansia metafisica ed il suo culto della perfezione. Nei riguardi del fango e dello sterco, sia metaforici che letterali, viene interposta una opposizione formidabile perché antinomici alla purezza e perfezione divine. Il Cristianesimo, infatti, ignora la sacralità, ovvero il valore, di rifiuti ed escrementi non potendo disporre di una immagine divina assimilabile alla Ecate classica. Poco importa che le madri empiriche siano ignare dell'entroterra fantasmatico posto a monte dei loro comportamenti concreti, e che magari giustifichino questi ultimi con ragionevoli argomentazioni scientifiche e mediche. In realtà il simbolo agisce inconsciamente, potendosi anzi equiparare attività inconscia ed attività simbolica in ragione di quelle che sono le strutture portanti del nostro tessuto culturale. L'ossessione odierna per detersivi, disinfettanti e battericidi non costituisce altro se non l'esito secolarizzato della peculiare simbologia cristiana. In siffatta luce l'identità materna che ne scaturisce non è né giusta né sbagliata, né sana né malata. E' semplicemente ciò che è, una specifica forma culturale ed esistenziale, una particolare modalità di essere nel mondo. Tutte le costellazioni simboliche, quali che siano, soffrono pregi e difetti, luci ed ombre, qualità e limiti, né si danno gli uni senza ad un tempo evocare gli altri. Non per questo sono patogene giacché la psicopatogenesi insorge solo se, e quando, l'anima è gravida, ovvero nuovi simboli premono per venire alla luce ed essere riconosciuti dalla coscienza, mentre fanno opposizione le vecchie simbologie asserragliate nella coscienza collettiva e negli abituali modi di pensare. Il peso accordato al simbolismo non consente di privilegiare oltre misura "il costituirsi con l'altro di una struttura unitaria in costante integrazione fisica e psichica". I nuovi simboli, e le idee nuove ad essi correlate, affiorano in solitudine, al più in dialogo serrato con se stessi. Paradigmatica in tal senso è proprio la vicenda del Cristo il quale, per realizzare l'opera di redenzione, per modificare, cioè, i modi di esperire e di sentire, ha dovuto scontare l'abbandono e la separazione non solo dai Giudei e dai pagani, come naturale, ma anche dai suoi più fedeli discepoli che lo rinnegarono, e perfino dal Padre celeste. L'espressione "Padre mio! Padre mio! Perché mi hai abbandonato" focalizza l'asse portante del suo dramma e destino personali. Anche Lutero ebbe a scontare un periodo di impenetrabile solitudine per scoprire il motivo della giustificazione per fede, il nuovo simbolo posto alle origini del capitalismo e della civiltà moderna di cui, non a caso, i Paesi riformati sono stati forza trainante. Bion sottolinea acutamente che il genio, il mistico e lo scienziato, in pratica tutti coloro che apportano idee nuove, sono segnati da qualità sociopatiche. Essi innescano effetti distruttivi sul gruppo il quale reagisce con aggressività nei loro confronti. Non è, tuttavia, necessario concentrarsi sulle personalità eccezionali per riscontrare un fenomeno la cui realtà è rilevabile anche nella vita quotidiana dei comuni mortali. Per esempio, l'atto di allontanarsi sbattendo la porta a coronamento di un conflitto interpersonale testimonia precisamente la necessità dell'isolamento per elaborare nuovi approcci. Il conflitto in essere indica che qualcosa non funziona nello specifico rapporto, che gli stilemi con cui lo si interpreta e lo si vive sono inadeguati. C'è quindi bisogno di nuovi stilemi che potranno costellarsi proprio in virtù della presa di distanza e della separazione. Lo stesso accade nella stanza di analisi il cui accesso deve essere protetto ermeticamente durante l'intero arco della seduta, ed i cui contenuti sono a loro volta vincolati dal segreto. Il significato del rituale consiste nella protezione accordata allo sterco ed al fango delle fantasie indecenti che l'analizzando, separato dal resto del mondo, potrà far fluire liberamente traendo da essi la linfa motrice della sua trasformazione. Isolamento, separazione, distanza, rinviano tutte egualmente ad esperienze di morte a cui, almeno sul piano simbolico, bisogna riconoscere significati inestimabilmente profondi, ammesso e non concesso che l'unica certezza della vita possa dirsi insignificante sul piano anche esclusivamente letterale. Come valutare, dunque, l'elaborazione di Merendino che sembra così squilibrata a favore della biologia e delle sue categorie. Certamente essa non è sbagliata in sé per sé poiché gli umani sono, ovviamente, anche esseri biologicamente determinati. E' piuttosto unilaterale poiché, affascinata dal mito del Bios inteso quale termine primo e non ulteriormente deducibile, perde di vista qualità antropologiche che sono altrettanto, se non maggiormente, essenziali. Necessita perciò, a nostro parere, di integrazioni ed esplorazioni complementari affinché la comprensione che l'uomo ha di se stesso sia sufficientemente completa. In ogni caso, però, dobbiamo gratitudine all'autore di "Pensare la psicanalisi" poiché senza il suo testo non ci sarebbero state neanche le nostre riflessioni indipendentemente dal valore che possono ospitare.
|
|
|