Per una strana combinazione del destino, il caso ha voluto che la psicoanalisi ed il cinema siano quasi coeve ed entrambi di straordinaria importanza nella cultura moderna.
Nel corso della loro storia gli incontri ravvicinati sono stati frequenti e di vario tipo. Ma ciò che rende fatale la loro attrazione è qualcosa di insito nella loro essenza.
Se la psicoanalisi ha permeato di sé buona parte delle idee e dell'arte del Novecento, va ricordato come Arnold Hauser ponga tutta l'arte moderna all'insegna del cinema, per la particolare modalità di rappresentazione dello spazio e del tempo.
Hauser vede nella "simultaneità degli stati d'animo" una caratteristica peculiare dell'arte moderna, sia nelle arti figurative che in quelle letterarie.
In Proust, Joyce, Dos Passos, Woolf, Faulkner si assiste ad una dissoluzione dell'intreccio e ad una "spazializzazione" del tempo, con la descrizione di azioni e stati d'animo simultanei, per cui le esperienze, più che seguire un proprio ordine cronologico, rispecchiano gli stati d'animo e ne seguono l'andamento.
Per Hauser nel cinema tempo e spazio si confondono: lo spazio diventa dinamico, veloce, nasce davanti agli occhi e scorre fluido; il tempo diventa spaziale, ci si muove in esso cambiando direzione come nello spazio; passato presente e futuro possono mescolarsi tra loro, quel che è prima può essere rappresentato dopo e viceversa ed il futuro può apparire come un presente molto concreto.
La particolare rappresentazione del tempo e dello spazio nel cinema è molto vicina a come queste due categorie vengono vissute nel mondo psichico inconscio, con una relatività dell'esperienza umana molto vicina a quella descritta da Freud. Questi riteneva che l'inconscio fosse già stato scoperto e rappresentato dai poeti e dagli artisti, dal cui mondo egli attinse parecchio, a partire da una delle sue scoperte fondamentali, cui diede il nome di "Complesso di Edipo".
Con la presente iniziativa si apre una collaborazione tra la Cineteca Italiana ed il Centro Milanese di Psicoanalisi "Cesare Musatti".
Sotto la spinta di Musatti, il Centro Milanese ha sempre avuto una particolare attenzione per il cinema, organizzando in passato il ciclo di film "Schermi violenti", con la presentazione di lavori psicoanalitici sulla violenza gruppale, la distruttività della guerra, la violenza nel rapporto di coppia, la violenza sociale; ed il ciclo "Sessualità inquieta", sui vari aspetti della sessualità nel mondo moderno.
L'iniziativa che presentiamo avviene all'interno della rassegna sul cinema di Fabio Carpi, organizzata dalla Cineteca Italiana: in due serate uno psicoanalista, dopo la proiezione del film, terrà una conferenza su un tema psicoanalitico presente nel film, cui seguirà un dibattito col pubblico.
Domenica 8 maggio (ore 21), dopo la proiezione di "Le intermittenze del cuore", Franco De Masi leggerà il lavoro "La riparazione ed il ricordo".
Sarà presente in sala anche il regista.
Venerdì 13 maggio (ore 21), dopo la proiezione di "Diario di una schizofrenica", Francesco Barale leggerà il lavoro "Appunti di viaggio dentro la schizofrenia: il Diario di una schizofrenica 50 anni dopo".
Al termine delle due conferenze seguirà un dibattito col pubblico.
La partecipazione all'iniziativa, aperta a tutti, prevede l'iscrizione alla Cineteca (costo 7 Û), valida per tutto l'anno, e l'acquisto di un biglietto per ogni proiezione (5 Û).
L'iscrizione alla Cineteca e l'acquisto dei biglietti deve essere effettuata direttamente nella serata della proiezione, a partire dalle ore 20.30. Non è prevista la prevendita dei biglietti in anticipo.
Di seguito viene presentato un profilo del regista Fabio Carpi, di Giorgio Bubbolini, psicoanalista che ha lavorato nel cinema e conoscitore particolare delle opere di Carpi.
FABIO CARPI:
Milanese, classe 1925, raffinato romanziere ("La digestione artificiale", 1967, "Mabuse", 1982, "Patchwork", 1998, tra gli altri) e sceneggiatore (ricordo qui "Diario di una schizofrenica", del 1967, e la collaborazione all'Odissea televisiva, del 1969), Fabio Carpi approda alla regia nel 1973 con "Corpo d'amore". Il film racconta dell'innamoramento di un padre e un figlio per una stessa donna, rinvenuta esanime su una spiaggia e di cui essi non comprendono la lingua, e della loro furia omicida contro un giovane, che riesce invece ad entrare in comunicazione con lei e poi a conquistare il suo cuore.
La critica cinematografica, solitamente concorde nell'indicare come peculiari, dell'opera di Carpi, i temi che ne ispirano i film successivi, cioè la vecchiaia, la sublimazione, la morte, è come se avesse trascurato i sensi nascosti di questa opera prima. Tale trascuratezza sembrerebbe relativa alla pregnanza sociologica o, detto in altri termini, alla dimensione "manifesta" di quei temi. Gli stessi protagonisti dei film di Carpi sono quasi sempre "grandi vecchi", animati dallo stesso bisogno di sconfiggere il tempo. E, anche quando non lo sono ancora, è come se si sentissero tali, con le stesse angosce e gli stessi bisogni: il vecchio ricco in "L'età della pace" (1974); gli anziani musicisti in "Quartetto Basileus" (1981); il vecchio psicoanalista in "Barbablù Barbablù" (1987); la coppia di mezz'età in "L'amore necessario" (1991); il docente di Semantica in "La prossima volta il fuoco" (1993); il grande scrittore cieco in "Nel profondo paese straniero" (1997); il vecchio premio Nobel in "Nobel" (2001); l'anziano regista, incaricato di girare un film su Proust, in "Le intermittenze del cuore" (2003).
Dietro questa dimensione "manifesta" dell'opera cinematografica di Fabio Carpi, va allora evidenziato uno scenario latente, che sembra appunto durevolmente tratteggiarsi proprio nel film d'esordio. In esso, il rapporto tra Eros e conoscenza si perverte in un particolare conflitto di potere, la cui originalità è determinata proprio dalle ansie connesse al venir meno della giovinezza. Tale pervertimento trova i suoi elementi di condensazione da una parte in quel "corpo d'amore", di volta in volta negato, sublimato o rimosso, gelido motore di reazioni conflittuali e/o distruttive; dall'altra in quella "uccisione del figlio che sa", nella quale si consuma il venir meno di Eros. La conseguenza di questa visione retrospettiva distorta della sessualità e dell'amore è che i "padri" si scoprono incapaci di tollerare l'avvicendamento generazionale. Quanto più sentono incombere lo svanire enigmatico di Eros, tanto più i "figli" diventano oggetto di fantasie di dominio: prima identificati come "corpo d'amore", e dunque privati del loro diritto ad essere amati come "figli"; poi ridotti a feticcio di questa disperata ansia di dominio.
"La prossima volta il fuoco" (1993) appare il film, in cui questo bisogno di negare distruttivamente l'avvicendamento generazionale si propone nelle sue spinte più autarchiche e assume le sue tinte più fosche. E tuttavia, forse proprio per questa sua radicalità, esso si configura anche come opera di svolta e cambiamento. Gli ultimi film del regista, infatti, registrano significative evoluzioni, a livello psicologico ed estetico. Compare il tema del viaggio. I colori diventano più luminosi, gli ambienti più vari, i personaggi meno agguerriti e più trasparenti. Il conflitto generazionale si attenua. In "Nel profondo paese straniero", lo scrittore cieco gira il mondo per le proprie conferenze, amorevolmente assistito da una giovane donna. In "Nobel", le differenze d'opinione e le polemiche tra lo scrittore, in viaggio a Stoccolma per ritirare il premio Nobel, e il giovane giornalista, incaricato d'intervistarlo, si sublimano in un'ironia e in una leggerezza, che configurano un graduale ripristino della capacità d'investimento affettivo. Infine, in "Le intermittenze del cuore", le nostalgie proustiane del vecchio regista preludono ad un'accettazione della fine come dolce trapasso da una vita, di cui sembrano finalmente saldati tutti i conti in sospeso.
Da queste brevi note, credo emergano elementi sufficienti per una prima valutazione delle intersezioni e delle risonanze tra cinema e psicoanalisi nell'opera di Fabio Carpi, un autore, tra l'altro, a tal punto sensibile, intellettualmente e culturalmente, alla psicoanalisi da avere realizzato nel 1984 un prezioso documentario/intervista a Cesare Musatti. Se consideriamo i suoi protagonisti come altrettanti volti di un'unica esperienza trasformativa, allora l'opera di questo colto e rigoroso regista appare plausibilmente interpretabile come rappresentazione di un processo psicoanalitico: l'individuo, dapprima incapace di vivere e comprendere sia Eros che Thanatos, si rende gradualmente consapevole della propria invidia e delle proprie difese nevrotiche e caratteriali, per poi giungere all'accettazione della dipendenza affettiva, al riconoscimento della propria storia personale, alla capacità di guardare con maggiore ironia e dolcezza alla solitudine e alla morte.
Vorrei concludere citando le parole, con cui la poetessa Alda Merini commenta la propria morte, parole che mi sembrano ben rappresentare la misura e il senso dell'itinerario artistico del regista: "Il mio rapporto con la morte è felice, ci parlo, cerco di addomesticarla, come fosse una brutta larva un po' molesta. Sono arrivata a voler bene alla mia morte. Me la porto in giro, quasi mi piace. E' un fatto, ormai, che i momenti più accattivanti della mia vita sono legati a quando parlo con questo spettacolo, bello e temibile, che è la morte".
(di Giorgio Bubbolini)
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