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 In Concerto Nicoletta  Collu, Elena Guidi, Vanna Raffuzzi 
 Il punto di partenza di questo lavoro  è costituito dal trattamento in setting individuale di tre membri di una stessa famiglia, madre e due figli, accolti in successione da noi tre, psicoterapeute di formazione psicoanalitica. Ci sono stati  inoltre alcuni incontri di messa a punto fra noi ,  nati da una naturale esigenza  di collegamento  e   svolti fino alla conclusione  della terapia della madre.  L'insieme che si è creato con queste saldature ci ha portato a riflettere sul senso delle nostre riunioni e la prospettiva più attraente alla quale riferire le nostre considerazioni ci è sembrata quella dei processi di integrazione. Di fatto il concetto di integrazione è tra quelli che sono in libera circolazione senza dover fare troppo i conti con una definizione già ferma al suo capolinea  e quindi stimola la voglia di cercare, di occuparsi di quel di più che ha arricchito, o complicato, le tre vicende terapeutiche, per identificare  meglio che cosa e come  vi  abbia trovato stanza. Lo assumiamo per il riferimento, che ci pare comune nei suoi numerosi impieghi diversi, a un insieme che scaturisce da un concorso di singole parti senza esserne la semplice somma, il che sembra  sorridere a prospettive innovative.
 
Cominciamo col delineare i contorni di fatto. E' in corso la terapia di una signora quarantenne , una persona portata ad agire e soggetta a breakdown psicotici, conseguenti a rotture simbiotiche  quali sono stati il parto, la morte di una sorella, la separazione dal marito , evento questo che è stato  l'occasione di avvio del trattamento. La paziente parla con la terapeuta dei problemi  del secondogenito: il ragazzo presenta episodi di encopresi, gravi difficoltà nelle relazioni e nell'adattamento, con precario esame di realtà, comportamenti bizzarri e inadeguati, identità sessuale incerta e confusa, rischio di break down. Insieme concordano l'invio del ragazzo  ad una collega.. Qualche tempo dopo,  ricompaiono  nel  primogenito adolescente disturbi che già in epoca di latenza  lo avevano  portato in psicoterapia :  isolamento, rifugio in un mondo parallelo di video-games e di giochi di ruolo, forti accessi di rabbia, pianto e disperazione,  manifestazioni psicosomatiche a carico della pelle, soprattutto in occasioni di separazioni dalla famiglia. La madre preoccupata ne discute  di nuovo con la sua  terapeuta e  si  dà avvio ad un processo identico. In entrambi i casi non è sembrato sufficiente riferire gli elementi presentati dalla madre esclusivamente  al suo vissuto,  perché  per la serietà e l'oggettività che sembravano rivestire meritavano di essere affrontati anche nel loro aspetto di realtà.  La  scelta della terza terapeuta è concordata dalle prime due. Esistono fra noi tre  rapporti di buona colleganza, che probabilmente hanno  sedimentato anche il desiderio di avere occasioni per conoscerci più da vicino. Cosicchè, oggetto, fini e strumenti degli incontri, quando ben presto se ne ravvisa l'utilità, non abbisognano di precisazioni. 
Vediamo ora come si è sviluppata la nostra esperienza comune.
 
ConvergenzeLa socializzazione delle prime informazioni ci fa scoprire una comune condizione di confusione. Infatti, la  madre non solo talora si vive  totalmente coincidente con la sorella morta, ma nel suo parlare dei figli non riesce a rendere distinguibile l'uno dall'altro. Nella struttura indifferenziata del discorso di  uno dei ragazzi,  soggetto verbo e predicato sembrano svolgere funzioni casuali e intercambiabili. E  l'altro  parla di relazioni delle quali non si capisce mai quando e con chi iniziano e terminano. Alla fine dalle tre diverse situazioni terapeutiche escono due gemelli indistinguibili.  E poi:  una casa " a porte aperte", una famiglia che  annulla  ogni individualità discutendo di tutto fra tutti, pensieri che si materializzano nel corpo della madre imprimendogli forme bizzarre nel corso di fenomeni allucinatori, una sessualità indiscriminata  e inglobata in una  fisicità priva di connotazioni e di confini.
 Il lavoro in gruppo consente di dare conferma al dato di confusione emerso nei singoli setting e di acquisire l'esistenza di un clima generale, di un funzionamento collettivo all'insegna dell'indifferenziazione .  Questo  permette di ridimensionare e relativizzare  la gravità  delle singole patologie dei ragazzi, che altrimenti apparirebbero a ognuna delle due terapeute di maggiore rilievo e drammaticità e ridurrebbero i margini di speranza. D'altra parte inserirle in un contesto collettivo induce in  tutte e tre  cautela, attesa  e a  livello tecnico un'attenzione particolare a graduare e calibrare gli interventi,  per non suscitare reazioni difensive a catena. Coi ragazzi diventa importante per esempio porre attenzione ad usare le loro stesse parole, pochissimo modificate.
 Il lavoro in gruppo,  permettendo a ciascuna di destinare all'ascolto ogni dato esperienziale in modo aperto al contributo altrui, ne ha consentito  accoglimento ed elaborazione. Forse al singolo paziente è ritornata una terapeuta meno confusa, o più  pronta ad accogliere la confusione.  Come se si fosse costituita un'area nella quale  la confusione può arrivare, ma non necessariamente confonde.
 Quanto alla capacità di collaborare, si può dire qualcosa di più preciso.
 Il momento di avvio della collaborazione professionale rappresentato dalla scelta reciproca e che coincide coll'immaginare una coppia, "quella" coppia al lavoro, è anche l'avvio di un'attività mentale  densa di investimenti e di  rappresentazioni, anticipatrice e insieme  formatrice di relazioni e di progetti. Molto di più che un optional, da usare solo se le cose non vanno lisce. Come non riconoscerle un ruolo di primo piano? E come non pensare di riconoscerla, al di là della nostra esperienza, anche in altre  e diverse situazioni di lavoro? Pensiamo ad esempio  agli strumenti che occorre mettere in campo in quelle psicoterapie  che rendono necessaria una lunga fase attivamente dedicata alla creazione di un'alleanza di lavoro , senza la quale esse non sarebbero possibili. Pensiamo anche  alle  lunghe fasi di avvio  di  interventi  multidisciplinari  ispirati a  metodiche integrate di  lavoro che mettono  alla prova  quelle che  passano  per   risorse di tenacia individuali e "private",  anziché essere riconosciute come risorse  propriamente professionali e sembrano  perdite  di tempo le riunioni tra professionisti ove a lungo  sono protagonisti non  i pazienti, ma gli operatori  con i loro movimenti ( Orsenigo, 2001).  Dunque carattere preparatorio e non  inconveniente. Solo  così ,ci pare, ha senso affermare che l'integrazione ha da essere tra persone e non tra competenze ( Merini, 1995), per ricordare che  non è raggiunta una volta per tutte, né garantita a priori da un protocollo che la erige a criterio organizzatore dell'intervento. Né questo  riferimento alla persona può includere elementi  poco modificabili  come la struttura di personalità del professionista o il suo stile  individuale.
 
 
DivergenzeE quando i dati non  sono  così convergenti , né concordi, né  pacifici? E' il caso di quando, mettendo insieme i nostri resoconti, emerse l'esistenza di condotte allarmanti sotto il profilo sia fisico sia mentale,  come le pratiche di masturbazione materialmente pericolose da parte di uno dei ragazzi, o forme pesanti di indottrinamento, che potevano spingersi oltre i limiti della seduzione agita , in contrasto con una condivisa convinzione familiare di  essere partecipi di un alto standard educativo, nella totale inconsapevolezza  di tutti, figli, madre e il di lei compagno, da poco convivente.
 Questo fatto ci sembra  utile esaminarlo alla luce del problema del trattamento dei dati provenienti da fonti di informazione esterne al setting. E' un problema che può assumere  aspetti drammatici per quanto riguarda i contenuti e in ogni caso drammatico diventa se al terapeuta si presenta come  "la realtà che irrompe", quando cioè gli apporti dall'esterno sono vissuti come ostacolo, inquinamento, condizionamento rispetto a una corretta comprensione e conduzione della relazione terapeutica. Ciò può accadere indipendentemente dagli eventi che lo producono, che possono essere diversi per genere ed entità, dalle rotture di setting, ad agiti concretamente dannosi  o loro notizia, al confluire di dati attinenti  e al mondo interno e alla realtà sociale come accade nel lavoro  in équipe.
 Nel nostro gruppo il problema, una volta posto, rimane in sospeso; un'angoscia condivisa andava ad aggiungersi  alla preoccupazione per un'altra questione irrisolta. Il compagno della madre, una  persona  dalle condotte marginali e con una presenza straordinariamente penetrante in famiglia, percepito da tutte e tre  come inadeguato e poco rassicurante se non pericoloso,  era l'unico rimasto   "fuori" dai trattamenti in corso ed era anche fuori dai nostri pensieri. A lungo l'angoscia ha accompagnato  ciascuna di noi; non fatti, non iniziative. Finchè lentamente si è venuta  ricomponendo una capacità di farsi carico di operazioni di ricerca di senso, di integrazione e di contenimento di vissuti .
 Questi fatti ci ricordano  che il problema reale che si pone in questi casi non è a livello di un attacco alla purezza del setting, come  talora si sente dire e che suona come un richiamo a una perduta innocenza del setting. In realtà l'attacco è quello al setting interno, ove l'assetto del terapeuta  e il suo mantenimento sono davvero costitutivi e fondamentali. Sappiamo che il processo riprende con l'attivazione  o l'intensificazione di una dimensione mentale, non operativa. A questo fine il ruolo del gruppo, se si lavora in gruppo, ci pare decisivo, perché potrebbe anche contribuire ad intrappolare la mente in indagini e  in supposizioni riferite alla veridicità intesa come rispondenza ai fatti,  o far cedere alla  tentazione di provvedere,  precipitandosi ad intervenire.
 La capacità di collaborare che il gruppo è chiamato ad esprimere al momento  del suo costituirsi è un'attività che lo anima e lo sostiene, ma che ,anche,  dal gruppo è messa e tenuta in esercizio, al pari di un muscolo (l'immagine del muscolo ci è sembrata efficace anche fuori del contesto  di  riesame del  Preconscio, per il quale è stata forgiata, da Filippini e Ponsi, 1992 )  che nell'esercizio si conosce, si impara a usare con più padronanza, si rafforza.
 Risalta  l'importanza che l'ascolto reciproco non poggi su un criterio  di ricerca di veridicità dei fatti, bensì sull'ascolto di resoconti che hanno a che fare con vissuti intersoggettivi. Infatti è fondamentale per il nostro ascolto di psicoterapeuti  tener conto della differenza tra ciò che avviene e come lo  si  pensa: né  in seduta né   nel lavoro di gruppo si può pensare che si possano portare dati di  realtà per quello che sono, escludendo se stessi..
 D'altra parte le difese che si esprimono con preoccupazioni teorico tecniche, come quella riguardanrte  la purezza del setting, o con l'adozione di misure pratico-organizzative rispondono al  bisogno di mantenere un funzionamento "normale" sostenuto da mezzi consueti davanti a compiti nuovi o complessi (Carbone, 1992).
 
 
RitorniNel commentare la ripresa delle singole relazioni terapeutiche, ci siamo trovate a sottolineare che ciascuna di noi riprendeva il proprio posto nel rapporto terapeutico, con ruoli e obbiettivi immodificati,  anche se con un copione più ricco e articolato  da mettere in scena. Cioè la riflessione collettiva e l'emergere di visioni comuni non hanno trasformato le tre terapeute in una équipe curante, che non può esistere senza un proprio soggetto, e qui non viene trattato il  gruppo familiare, né i tre singoli pazienti diventano ciascuno paziente di tre terapeute anziché di una sola . E quando si parla di una "visione complessiva" che sarebbe favorita da metodiche  di lavoro integrato, a nostro avviso si fa riferimento in modo generico a un fenomeno articolato, che non include necessariamente la formulazione di un progetto unico come effetto del lavoro integrato, né una sorta di processo unico. Ci sembra più efficace ricordare l'immagine proposta recentemente da Laurora e Morici , a proposito del bisogno di  sentirsi appartenere ad una realtà più ampia, che garantisca la vivibilità e la produttività dell'incontro: "proprio come la madre e il suo bambino  possono vivere meglio la loro intimità se sentono di appartenere ad una famiglia ricca di relazioni e di persone fra loro legate costruttivamente" (2001, p. 7).
 Ci siamo chieste se, tornando nell'intimità della relazione duale, c'era da notare qualcosa di particolare rispetto a quanto si sa del percorso e dell'effetto di una buona supervisione, o in generale di un buon ascolto.
 A questo scopo abbiamo ripreso in esame il momento in cui una di noi si è trovata , sulla  base del lavoro di gruppo, a modificare la valutazione e il progetto conseguente di conclusione del trattamento, che stava formulando. Paziente era la madre. La scomparsa dei sintomi e il recupero di un buon funzionamento sociale,  insieme alla  comparsa di una ricca capacità di elaborazione delle esperienze relazionali e di lavoro inducono dunque la sua terapeuta a pensare di concludere il trattamento.
 Suonano il campanello d'allarme le due colleghe, poiché a loro la relazione madre-figli appare ancora fortemente simbiotica e incapace di esprimere ruoli genitoriali e adulti differenziati rispetto a quelli filiali. Ciò rimette in moto anche la terza  suoneria , rimasta "incantata"  e, anziché innescare  dibattiti, si apre una fase di sospensione. Così la terapeuta può rendersi conto della quantità di materiale non elaborato rimasto in circolazione. In particolare aver attribuito alla costante efficacia materna nell'identificare e tutelare i bisogni dei ragazzi in momenti, psicologici e scolastici, per loro cruciali il valore di indici di funzionamento di parti sane, adulte e sufficientemente in grado di valutazioni realistiche. Mandando in soffitta  invece una madre  che in realtà non ha esitazioni  quando si rende interprete delle necessità dei figli, ma neanche  quando  li responsabilizza al di là delle loro  possibilità lasciandoli soli ad affrontare situazioni superiori alle loro forze. E questo perché lei è loro, li ha dentro ed è in loro . Tutto ciò mentre è tuttora irrisolto il problema del compagno, col quale  la madre sembra non poter fare altro che riprodurre un legame simbiotico per far fronte all'angoscia di possibili movimenti evolutivi dei figli.
 Nella relazione  terapeutica con la madre si è aperto uno spazio che ha reso possibile l'ingresso del compagno e  la considerazione di ciò che può rappresentare per lei.  Successivamente è stata  la volta dell'ex marito, figura rimasta  per quasi tutto il tempo della terapia del tutto muta ,  ben gestita  anch'essa  dalla madre  nelle  transazioni  consuete tra genitori separati finchè è  prevalso il funzionamento simbiotico; egli è  entrato poi all'ìmprovviso in scena in modo fragoroso, anche con   iniziative giudiziarie, quasi a segnalare la violenza di rotture su altri fronti.  Ci siamo così interrogate sulla possibilità, in quanto donne terapeute, di aver svolto una funzione rassicurante, in una famiglia che, secondo la definizione di uno dei ragazzi, "è proprio matriarcale", tanto che tutti i membri, compresi i nonni, sono indignati  perché il vedovo della zia ha tenuto con sé i figli "mentre è naturale: i figli sono della madre e, se questa muore, della nonna materna".
 I ragazzi ad un certo momento cominciano a reagire alle iniziative paterne, anche quelle apparentemente banali e prevedibili, con un rifiuto totale di vederlo e di parlargli , cosa che provoca da parte sua vere e proprie irruzioni, in un crescendo che per molto tempo appare incontenibile. Non è possibile in questa fase capire né da loro né dalla madre  che cosa abbia innescato la spirale; così anche quest'uomo ci appare misterioso e inquietante.
 Forse in questo periodo ha dato un contributo positivo l'essere le terapeute donne - ma donne che mantengono fra loro e in sé, anche silenziosamente quando non era possibile alcun altro intervento , la consapevolezza della funzione positiva del padre e dell'uomo e la sospensione di ogni giudizio su questo particolare padre e marito.
 D'altra parte la madre ha avuto dalla sua terapeuta i nominativi delle terapeute per i figli e anche questo sembra aver avuto un effetto rassicurante su lei come sui ragazzi, come se avesse sostenuto l'idea di una base comune fra le terapeute, garanzia di una spinta non troppo forte e sostenibile verso l'individuazione.
 Dopo molto tempo è possibile cominciare a capire qualcuno degli elementi in gioco: uno è stato, per uno dei ragazzi, la difficoltà di affrontare l'ingresso definitivo in casa del compagno della madre, perché suscitava nel ragazzo rabbia e gelosia proprio verso di lei e minacciava il loro rapporto simbiotico, mentre gli poneva difficili conflitti di lealtà sia verso la madre - non si poteva permettere di rifiutare l'uomo da lei scelto - sia verso il padre. "Così ho messo fuori  l'unico che potevo".
 Cominciano anche ad emergere piccoli passi di individuazione; mentre gli aspetti negativi del padre vengono ridimensionati, si affacciano molto timidamente possibili critiche dell'uno o dell'altro ragazzo alla madre o al suo compagno, e trapela l'idea che si potrebbero anche avere fra familiari opinioni diverse, senza troppo rischio. A questo punto del percorso emergono differenze fra le generazioni (una madre, i suoi figli), differenze fra i ragazzi (due fratelli, ora distinti l'uno dall'altro). Uno di loro sta conquistando ora il senso  della propria mascolinità (essere il figlio maschio di una madre). Ai nostri occhi i ragazzi non appaiono più così intercambiabili per problematiche e linguaggio.
 
 
ConclusioniCreare un collegamento è un'esigenza naturale quando si è in presenza di una pluralità di  soggetti. A noi il lavoro di gruppo  ha consentito di usare uno strumento in uno spazio specifico perché aggiuntivo rispetto ai distinti setting e capace di effetti individuabili. Questo spazio  deputato in senso  generale alla riflessione svolge una funzione analoga a quella  della supervisione, cioè arricchimento della comprensione e aiuto a funzionare meglio nei propri compiti. Inutile chiedersi qui se si sarebbero avuti gli stessi effetti con altre  forme di ascolto di questo tipo, quali  una supervisione singola, per es..Si può osservare che la situazione di gruppo al lavoro sembra  più vicina alla messa a punto che si realizza nel lavoro di équipe (Olivetti Manoukian, 2001)  che alla supervisione tradizionale, singola o collettiva che sia, per due aspetti: il rilievo che hanno i dati di provenienza esterna al singolo setting e l'importanza dei fenomeni attivati dall'esistenza di un gruppo al lavoro.
 Ci si può chiedere se alla fine questo lavoro complesso produce almeno qualcosa  di più e di meglio, in termini di efficacia. Difficile dare una risposta. Però possiamo dire che il collegamento realizzato mediante l'uso di un gruppo che riflette lo si può  rappresentare come situazione che dà origine a due storie parallele.  Nella storia delle terapie, sarà la madre la prima a potere farsi carico del senso di quelle assemblee familiari, legate a schemi di funzionamento collettivo. Un senso che, ricordiamo, ha fatto un lungo percorso , partendo da un altro setting e transitando in più menti.  La madre ha potuto cominciare a cercare di prendere distanza, consentendo a sé di tremare quando  i figli si allontanano e ai figli di provare davvero a fare da sé, consentendo inoltre a se stessa di provare a fare da sola e anche a tenere qualcosa tutto per sé rispetto al compagno, col quale ora può sopportare l'esperienza di non  potere  condividere proprio tutto, non fidando più in un'intesa adesiva, totale, data per garantita in partenza.
 Quanto alla nostra storia parallela, una possibile considerazione finale scaturisce dal destino di una parola, "assemblea". Non a caso, a differenza di altri termini , come nomignoli e appellativi, rimasti  specifici in ciascun setting,  questa parola è entrata subito nel lessico comune del gruppo e ha subìto una trasformazione, che l'ha fatta passare dal qualificare una esperienza  carica di confusione e di  sopraffazione, come in quelle riunioni di famiglia, alla riproduzione  fra noi tre di una diversa modalità assembleare, occasione di scambio e di arricchimento dei singoli. Come nelle assemblee  riuscite, si porta se stessi, e nulla si potrebbe fare altrimenti,  ma si porta anche capacità di rinuncia (alla difesa a oltranza delle proprie idee, senza sentirsi troppo mortificati),  capacità di condivisione (delle buone idee, ma anche della pena altrui), capacità di essere ascoltatore oltre che ascoltato. Si' da  poter "usare utilmente ognuno l'esperienza dell'altro" (Grimaldi, l994, p. 39-40).
 Del concerto che sta nel titolo ci piace l'allusione alla musica e all'armonia, che solletica la nostra vanità estetica .  Ma ricordiamo che per il vocabolario  concerto è  anche " collaborazione tra più organi  nella quale ciascuno di essi contribuisce con l'apporto del proprio parere alla soluzione di un problema comune"(Zingarelli, '98).
 
 
BibliografiaCarbone Tirelli L. (1992) L'intervento psicologico clinico nel Servizio materno infantile in Lombardo G.P. (a cura)  Modelli del mentale e intervento psicologico,  NIS, Firenze.
 Filippini S. e Ponsi M. (1992)  Sul concetto di Preconscio, Rivista di Psicoanalisi, 38, 3, 639-685.
 Grimaldi S. (1994) Ambienti e oggetti. Integrazione e contrattualità,  Prospettive psicoanalitiche nel lavoro istituzionale, 12, 1, 34-41.
 Laurora E. e Morici D. (2001)  Gruppalità e psicosi, Relazione presentata al Seminario di studio SIPP Essere e Parola nell'esperienza psicotica, Roma 17/2/2001.
 Merini A. (1995)  Il lavoro d'équipe nella pratica territoriale,  Psicoterapia e  scienze umane, 29, 1, 87-99.
 Olivetti Manoukian F. (2001)  Gruppo, Spunti,3, 4, 111-115.
 Orsenigo A. (2001)  Le riunioni di lavoro,  Spunti, 3,4, 49-66.
 Zingarelli, Vocabolario  della lingua italiana,  1998.
 
 
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