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Atti della Giornata di studio

"Le comunità sono terapeutiche?"



Il processo di dimissione e la sua elaborazione nel lavoro di comunità.

Simona Taccani



Quanto oggi mi propongo e vi propongo non è uno studio astratto né la ricerca di una definizione o sistemazione complessiva del tema. Voglio piuttosto lanciare a me e a voi una serie di interrogativi che aprano a un nostro pensare mobile e vigile.

Ogni istituzione è un ambiente, ha un quadro entro cui possono avvenire alcuni processi e non altri.
Sia per gli utenti che per gli operatori.

Tutto ciò che le dimissioni implicano è previsto e prevedibile come evento, come processo ?
E se non lo è, perché?

Alcuni anni fa fui richiesta per una supervisione in una comunità per giovani pazienti con gravi disturbi psichici.
Nel primo incontro informativo di conoscenza, chiesi all'équipe come avvenivano le dimissioni.
Con stupore non disgiunto da una certa qual fierezza mi risposero: "ma non abbiamo mai dimesso nessuno! due soli pazienti se ne sono andati, uno per colpa della famiglia, un altro perché ad ogni costo voleva fare un periodo a Londra... non ne abbiamo più saputo nulla."
E' accaduto qualcosa di significativo, qui nell'istituzione, dove l'équipe curante riteneva di procedere positivamente verso la dimissione o invece è là in famiglia che il processo ha subito un ingranamento, è andato in panne? E' chiaro quanto sia fondamentale che l'équipe possa porsi queste domande e cercare risposte.

La difficoltà a dimettere, a dimettersi, a farsi dimettere.
Da che cosa origina? Certo non è casuale...
Perché alcuni pazienti cominciano un certo giorno con il tollerare poco e male per esempio il rientro temporaneo a casa il fine settimana?

Comprendere quali siano i fenomeni relativi alle dimissioni, incidenti nel reticolo relazionale complesso che comprende:

istituzione
équipe curante
paziente e gruppo familiare
ambiente allargato

è un problema istituzionale che affonda le sue origini anche nel sociale e nel politico riferito al politico sanitario.
Quelli che a noi interessano sono i fenomeni di natura gruppale che oltre che appartenere ai singoli pazienti e alle loro famiglie, appartengono alla comunità nel suo insieme.

In alcuni casi di pazienti a lungo istituzionalizzati si ha la drammatica impressione che l'équipe curante eserciti nei confronti del Sé del paziente, una funzione di contenimento assoluto, totalizzante.

La nota affermazione di Winnicott: "non esiste in realtà qualcuno come un bambino", se noi la trasformiamo in ambito istituzionale, forse potremmo in qualche caso affermare "non esite un paziente senza istituzione ma neppure l'istituzione può esistere da sola".
Insieme formano un'unità.

Questa unità [ che rimanda ai concetti di seduzione narcisistica, di lutto originario elaborati da P-C.Racamier a proposito della relazione madre-bambino, ripresi da Sassolas e altri ] se mantenuta nel tempo, non rotta da forze evolutive separatrici e differenziatrici, può creare i presupposti per un funzionamento psicotico del soggetto.
A livello istituzionale può ricrearsi un fenomeno assai simile tra paziente (uno o più) e curanti, segno di più o meno grave disfunzione istituzionale, in cui il legame non attiva sicurezza e protezione e quindi crescita, al contrario diviene vincolo paralizzante, veicolo di relazione forzatamente binaria.

E qui ricordo il lavoro di Foresti e collaboratori, Lavoro psichiatrico e funzione paterna negli scritti di Marcel Sassolas, perché tratta questo problema della spesso eccessiva "maternalizzazione" della funzione curante. Non mi dilungo, invito a leggerlo per i molti spunti che offre.
E di fatto ritengo che la funzione paterna debba particolarmente esplicitarsi nella fase del processo di dimissioni.

Se questa ipotesi può essere assunta, allora uno dei compiti istituzionali più complessi e delicati è non tanto come rompere questa unità (operazione che sarebbe in alcuni casi indubbiamente di svantaggio per i suoi componenti), quanto piuttosto di operare un processo di cambiamento che parta dal poter cominciare a pensare "un altrove" da investire progressivamente, con ogni cautela, con movimenti di andirivieni, di avvicinamenti progressivi. E non è per nulla facile.

La mia lunga frequentazione - a vario titolo - con servizi istituzionali di diverso tipo, mi permette di affermare che ogni istituzione possiede (è un termine scelto ad uopo che aiuti a riflettere) una quota di pazienti in cui l'unità di cui sopra parlavo assume, oltre alle caratteristiche già rilevate, quella di essere immutabile nel tempo, direi anzi insensibile al tempo, al tempo delle umane vicende, quello cronologico e anche al tempo, anzi, ai tempi istituzionali. E ciò pur nella differenza di ognuno di loro, della loro storia familiare.

Credo che ogni équipe potrebbe produrre un buon numero di voluminose cartelle di pazienti, la cui lettura renderebbe facile ragione a quanto vado dicendo.


Si assumono questi pazienti di essere garanti dell'esistenza e della stabilità dell'istituzione?

Si è venuta così a creare una situazione di doppio controllo onnipotente.

"Io sono la Luisa, sono qui da vent'anni, e meno male che ci sono, non sa quali guai sarebbero successi, lei è la dottoressa delle supervisioni, ne sono venuti tanti come lei, tutti tanto bravi, tanto simpatici. Io sono qui, li ho conosciuti tutti, piacere, ho tanto piacere che sia arrivata anche lei."

Non avevo ancora cominciato e già mi sentivo archiviata da una voce autorevole dell'istituzione! Ma ciò che era ancor più importante è che Luisa, voce fuori campo e portavoce corale dell'istituzione con poche appropriate parole aveva enunciato due problemi istituzionali di fondo:

1 • la negazione dello scorrere del tempo, porta aperta al diniego del lutto, della separazione, del cambiamento su un versante e dello scorrere del tempo, del mutare dei cicli di vita e della morte sull'altro versante;

2 • la negazione delle differenze individuali, di ruoli, di generazioni (la generazione dei pazienti, Luisa li rappresenta tutti), di supervisori, di operatori: son tutti uguali, passano, garantiscono la continuità dell'istituzione, ma non si differenziano né lasciano alcun segno.

Processo che - credo sia importante sottolinearlo - deve essere specifico per ogni singolo paziente, anche quando (come in alcuni casi che ho seguito da vicino ) si tratta di dimissioni di gruppo, ad es. passaggio da una istituzione a una comunità nuova che apre o da una comunità residenziale a un centro diurno perché la comunità chiude.

A ogni paziente la sua dimissione

A ogni istituzione le sue dimissioni
le pseudodimissioni
le false dimissioni
le sufficientemente buone

Dimissione --------> ambiente familiare

Dimissione ---------> altra istituzione



Oggi - a differenza di ieri - la presa in carico dei pazienti psicotici coinvolge molti luoghi, oltre le più o meno tradizionali comunità, i centri diurni, i centri di cura, gli appartementi e laboratori protetti, e via dicendo.

A questo proposito Sassolas dice:
"La circolazione tra questi poli molteplici della presa in carico, l'investimento particolare che il paziente sviluppa su ciascuno di essi, il posto che questi poli di cura assumono nella sua economia psichica, costituiscono aspetti essenziali del trattamento. Di conseguenza, l'articolazione di queste strutture tra loro - nel tempo e nello spazio - è diventata uno degli elementi centrali della situazione di cura, di cui troppo spesso si sottovaluta l'importanza".

Non potrei essere più d'accordo su questo punto centrale nel trattamento del paziente psicotico; mi pare però d'altro canto indispensabile non omettere la centralità del ruolo della famiglia, gruppalità originaria del paziente.
E aggiungerei: sia quando esiste nella realtà, sia quando è dispersa, lontana, disgregata, scomparsa.
In ogni caso...


La famiglia
La sua importanza
L'investimento degli uni e degli altri
L'alleanza o le capacità di sabotaggio


Per questi pazienti l'investimento sul nuovo staff terapeutico è denso di minaccia e di pericolo, nel senso di una rottura dei legami familiari quasi sempre fortemente investiti sia sul versante più persecutorio e paranoide o su quello incestuale, perversivo, a volte violento, ben più raramente su quello più consono al nostro immaginario di legami libidici, teneri e affettuosi.

Attenuate, se non concluse, le baruffe più o meno ideologiche (e di potere) sulla madre schizofrenogenica, sulla famiglia che ammala, sul paziente designato, sul figurante predestinato... per me, che di famiglie mi occupo da decenni, resta comunque un dato clinico fondamentale (delle istituzioni comunitarie, per es.) il fatto che in famiglie al cui interno esistano gravi problematiche psichiche, i legami o vincoli intra-familiari sono più forti (nel senso di potenza), più investiti (nel senso di affetto) che ogni altro legame il paziente paziente può stabilire.
In altre parole, secondo la mia esperienza, una buona funzione curante va di conserva con un'alleanza di lavoro con la famiglia e come è facile immaginare, in modo specialissimo, un processo di dimissioni, che in certo qual senso potremmo avvicinare alla fase adolescenziale del paziente.

A me sembra di primaria importanza che tutti i componenti dell'istituzione a partire dagli operatori, dai gestori, dai proprietari (se ci sono) ed evidentemente dagli utenti e dalle loro famiglie, abbiano nella mente l'idea che l'istituzione è loro, ma al tempo stesso non lo è.
In modo particolare per gli utenti, quanto più il loro senso di appartenenza sarà mobilizzabile tanto più il processo di dimissioni potrà procedere con meno intoppi ed ostacoli.
l'équipe curante pensa alle dimissioni di un paziente, è bene sappia perché è giunta a questo, in rapporto al progetto, agli obiettivi e al raggiungimento degli stessi.
A volte si ha l'impressione che le istituzioni odierne - o almeno alcune di esse a cui penso - abbiano paradossalmente un riferimento simultaneo all'antico e deplorato Ospedale Psichiatrico e a un ideale psicoanalitico.
Il primo aveva un innegabile vantaggio: quello di avere un quadro specifico, chiaro, spaziale addirittura, in cui confini e frontiere erano inequivocabilmente segnati e invalicabili.
Poi, entro questi confini, i pazienti c'erano per non esistere, si muovevano qua e là, si spostavanon con ritmi scanditi da regole tanto ferree quanto disumanizzanti che nulla avevano a che vedere con scopi e obiettivi terapeutici.
Gli operatori si movevano anch'essi all'interno come guardiani più o meno severi di queste regole e sentinelle di confine, certo non come garanti di movimenti terapeutici di crescita identitaria.

D'altro canto, l'ideale psicoanalitico istituzionale ricrea un luogo / spazio ove grandi margini sono lasciati all'espressione di ognuno, di tutti, della gruppalità nel suo insieme.
Dove spesso i confini non sono chiari, ancor meno i progetti e gli obiettivi. Riunioni frequenti, plenarie, ristrette, rivolte a un solo paziente, in cui il linguaggio, le parole la fanno da padrone, ma dove però il linguaggio non è portatore di senso e significato, ma Babele di lingue.

Per comunicare davvero, per degli scambi conoscitivi e costruttivi?

Occorre riflettere sulla nostra economia psichica professionale e su quanto e come i pazienti possono contribuire a rinforzarla.
Chiedere troppo in alcuni casi è fattore di rischio e di regressione.

Quanto alla idealizzazione della capacità di pensare, di pensiero, vanno fatte delle distinzioni:
c'è un pensiero creativo
libero
comunicabile
quindi portatore di qualità di trasmissibilità, di fiducia, di speranza, eccetera.

Al contrario il pensiero perverso è privo di questa qualità, non è libero, ma assoggettato al desiderio di controllo, di dominio dell'altro, è comunicabile ma soggetto a mistificazione e in genere trasmette squalifica. Trasmette ricatto in questi casi in cui nell'équipe curante circolano forze di resistenza al cambiamento.

L'immagine che l'istituzione / il terapeuta / l'équipe rimanda del paziente, è una immagine di una fissità quasi assoluta.
Questo, a mio avviso, è un grosso contributo alla costruzione dello status di cronicità.

Esiste anche il rischio opposto, cioè che quando l'istituzione entri nell'ordine di idee o nella necessità di dimettere un paziente, si tenda a creare (in modo quasi altrettanto fisso) una nuova immagine: da "cronico" a "dimissionando", e quindi autonomo, capace di badare a sé, valido, etc., senza sufficienti supporti e senza alcuna elaborazione da parte di paziente ed équipe, del cambiamento, nel senso dei fantasmi, delle aspettative, delle paure legate a questo passaggio.




Le comunità sono terapeutiche ?
E le dimissioni ?

Le dimissioni sono terapeutiche:

- quando sono reali e non virtuali
[ci sono falsi processi e false o pseudo fini]

- quando non contengono elementi (o questi sono ridotti al minimo) perversivi da parte degli operatori

- quando l'organizzatore tempo ha lavorato e partecipato al progetto

Esiste un punto di non ritorno ?


Questioni e ambiti di problematiche che il processo di dimissione implica e muove:
- Distacco versus continuità della cura.
- Continuità versus discontinuità.
- Il setting, la sua perdita, il lutto, il disinvestimento dell'équipe coinvolta nella cura.

Il legame, la qualità del legame, sono anche in questo ambito i protagonisti del processo di dimissioni che dovrebbero in un certo senso essere la conclusione di un programma che ha visto partecipi équipe curante, ospite, famiglia e istanze esterne a seconda della destinazione successiva che si è prevista per il singolo individuo.

Si tratta quindi di un processo gruppale in cui più figure sono simultaneamente coinvolte.

Costruire legami in un campo gruppale è certamente più difficile e più lungo che decostruirli (scioglierli) e non alludo qui a una valenza distruttiva in atto, tanto più nel caso della comunità che spesso viene sentita da ospiti e familiari e anche curanti, come un approdo e spesso lo è - dopo lunghe e travagliate navigazioni in acque tempestose ove bonacce e tempeste si alternano senza soste di riposo e di recupero.

Dal momento iniziale ad oggi è trascorso del tempo, del lavoro è stato fatto, sarebbe ora di individuare nuove alternative: ecco che si profilano all'orizzonte le dimissioni.

E qui segnalo un primo problema.

La fase / il piano / il processo di dimissione: da dove viene? chi l'ha deciso?
Chi lo vuole? chi è stato coinvolto? e come ? e quando ? E' tempo ?
Non abbiamo il tempo per rispondere a tutti questi interrogativi, sarà compito della discussione, se lo vorrà.
Lo pongo come uno dei problemi su cui riflettere.


Di fatto noi tutti siamo in linea teorica del tutto concordi su quanto l'attività di cura, di riabilitazione (e i loro setting) SIANO ATTIVITA' GRUPPALI e come tali attività delicate, complesse, soggette a forti pressioni, a giochi di potere disfunzionali, perversivi.

Nella pratica, a volte, non è così facile individuarli, sia perché sono coperti da non detti od omissioni, sia perché noi tendiamo a negarli e misconoscerli.

Una distinzione, sempre in tema di dimissioni, sembra importante : diverso è che esista una decisione di dimissioni più o meno condivisa, altro è che un paziente con il consenso o meno dei familiari si allontani, parta, lasci la comunità.

Irresistibilmente, ogni volta che si annuncia un distacco, il paziente ci sottopone a un dilemma che può così formularsi:

Se resto non ne uscirò mai,
se parto distruggo e voi e me stesso.


Ed è su questo dilemma che l'esercizio della funzione curante deve mettersi all'opera lavorandoci sopra con grande attenzione :
- ai vissuti dei singoli nell'équipe
- al vissuto gruppale
- a quello proposto dal paziente e, quando è coinvolta nel processo di cura, dalla famiglia.

Nell'importante lavoro di Tognola e Ripamonti, l'esperienza del "club incontro" come aiuto alla separazione, le colleghe descrivono molto bene come questa iniziativa si proponga come aiuto ad elaborare l'esperienza di separazione dal Centro diurno.
"Il Club prefigura infatti, allo stesso tempo, il termine dell'esperienza del centro e l'apertura a un nuovo progetto, in un campo relazionale continuativo ma non invariato nel tempo, che sottragga il paziente al radicarsi di processi istituzionali di cronicizzazione".

Di fatto credo che a tutt'oggi resta un problema ancor poco studiato come da parte nostra mettere in opera un lavoro coerente e intelligibile di dimissioni.

Ciò richiede per prima cosa un inevitabile lavoro di ogni membro del gruppo nel suo insieme.
Un lavoro indubbiamente non facile, a volte doloroso, che porti sulla capacità e tollerabilità delle separazioni, un lavoro sulla riduzione dei propri ideali di terapeuti, di curanti, un lavoro di tolleranza propria e del gruppo nei confronti del paziente.
Certo, ogni percorso di cura, è segnato dalla necessità della reciproca tolleranza che curanti e curato devono necessariamente mettere in atto gli uni nei confronti dell'altro, e viceversa.

Una paziente che per lunghi anni ha vissuto in istituzioni diverse, che per anni ha utilizzato molti psicofarmaci e molti diversi psichiatri e psicoterapeuti psicoanalisti, e che io ho conosciuto in un momento di ripresa anche lavorativa, qualche giorno fa mi diceva: "quando ho cominciato a capire che potevo anche fare un tentativo di 'tornare fuori', mi dicevo: ma saprò tollerarmi io, io da sola, dopo tutta quella tolleranza che ho avuto, ma anche subito là?"
Naturalmente mi ha posto di fronte a un problema che teoricamente potevo conoscere, ma avvicinavo diversamente nella relazione con G., che poco dopo aggiunse, "ho tollerato anch'io, comunque, non si creda, come anche qui nelle nostre sedute giochiamo alle 'intolleranti tolleranze' ".

"La parola tolleranza di radice indo-europea - da cui derivano tollere e tolerare. Tollere significa sollevare, prendere, a volte distruggere; tolerare significa portare, supportare, talvolta combattere. Così l'idea di scontro e l'idea di sforzo sottendono la nozione di tolleranza." (C.Sahel, Elogio della tolleranza).

Questo mi appare un punto di fondo, spesso sottovalutato nelle riflessioni sul lavoro di dimissioni.

Sollevare, sopportare, prendere in carico ma anche combattere la paura sempre connessa al distacco, alla partenza e alle dimissioni, come "altrove" dicevo prima, come "ritorno fuori" dice G..

Un paziente può tollerare le dimissioni quando ha potuto fare l'esperienza di essere pensato per sé, per quello che è. Di essere visto per quello che è e in parte per quello che lui si vede. Di essere ascoltato e sentito.


La paura.

La dimissione, per i pazienti dell'area psicotica, ha una dimensione terrorizzante, ma non come noi con la nostra parte nevrotica possiamo pensare per quel che può suscitare di differenziazione, lutto, separazione, ma anche e soprattutto di (nonostante ogni cautela e precauzione l'équipe prenda ) propulsione /immissione / il sentirsi catapultati in un mondo spazio-temporale caratterizzato da coordinate diverse, da regole poco conosciute o dimenticate.

No, ancor prima è la realtà nuova, diversa, inaspettata comunque per questi pazienti in cui tempo e preparazione hanno significati diversi dai nostri, è la realtà che colpisce e ferisce, ed è su questo che noi dobbiamo costruire pensiero e parole.

La sofferenza, il dolore di pensare, dicono Sassolas, Hochman, Racamier, è il grande problema del paziente psicotico.
Sofferenza e dolore che sottendono un'intensa paura tale da erigere le massicce difese anti-pensiero, anti-conflitto, capaci di ridurre la vita a una semplice successione di avvenimenti concreti, reali, scollegati da ogni legame simbolico o relazionale.

Non voglio cambiare, non voglio andare nelle villette, voglio vedere tante facce ogni giorno, non due o tre o sempre le stesse; mi farebbero subito paura, penserei quasi subito cche mi vogliono male, non ci voglio andare, mi troverei ancor peggio che in famiglia.
Qui mi sento più libero, là sarei in prigione.Le avete fatte pensando a voi, non a noi.E poi è un primo passo e ci sgancerete, ci mollerete, ci lascerete andare... a morire come i nazisti in Germania...

Trascrivo alcune righe che mi inviano i genitori di Isabella per chiedermi un "consulto" sul da farsi dopo due anni di Comunità:
"Se a questo quadro di insieme aggiungiamo la sua reale e mai sufficientemente valutata grande sensibilità ai farmaci e la sua ripetutamente dimostrata incapacità di giovarsi di qualsiasi cura, riusciamo a capire la grave difficoltà incontrata dai vari medici nell'impostare sino ad oggi un piano terapeutico efficace.
Oggi noi genitori, vivamente preoccupati vorremmo da Lei una valutazione obiettiva ed onesta circa la possibilità che Isabella protragga ancora il suo soggiorno in comunità, così come lei stessa vorrebbe contro il suo stesso interesse... ma sarà Lei ad esprimere...


La paura attacca e mina il pensiero, paralizza o induce alla fuga.

La paura induce la violenza sia sotto forma di violenza agìta dell'équipe curante che del paziente.

In alcuni casi a questa violenza distruttiva che introduce la confusione, il caos comunicativo, è possibile (indispensabile - direbbero alcuni) contrapporre una violenza terapeutica ----> una forza e un potere che non esclude, però, che non esilia...


La paura, il timore, altri termini di cui poco si fa uso in questi ambiti. Perché? Per negazione? Per desiderio di esorcizzare?
Magari non solo i rischi, le ricadute, i possibili agìti autodistruttivi del paziente, ma anche la presa di coscienza del tempo che è passato (a volte veramente tanto).
Paura di riflettere sul percorso fatto, paura di trasmettere ad altri che si occuperanno della situazione, di trasmettere omissioni o errori o magari di constatare quanto un paziente potrà star meglio, scoprirsi più autonomo e più capace una volta uscito dal nostro spazio di influenza.


• Certamente un'équipe che non può essere protetta, non può sentirsi protetta, non può più essere curante.

• Che poi ogni processo di dimissione, di distacco, resti opera incompiuta è fatto certo, nell'incompiutezza stanno anche le molteplici possibilità di apertura di tutti i protagonisti in gioco, sopra tutto gli operatori cui spetta attenzione e vigilanza a ciò che può confermare o al contrario smentire, le loro intuizioni, le modalità adottate, la via scelta.


Ciò che mi preme sottolineare prima di concludere e che mi piacerebbe fosse affrontato dal lavoro di gruppo che seguirà (a mio avviso la parte più importante della giornata) è che al di là di tutte le nostre parole, le nostre argomentazioni, i nostri approfondimenti, alcune cose contano davvero e assai più di altre. Ovvero:

• la dimensione clinica del compito comunitario, terapeutico o riabilitativo che sia, clinica di ricerca, di senso, di significato, di possibilità, di risorse della sofferenza psichica del soggetto e della sua esistenza;

• la natura e la qualità del legame, dei legami, "nodo fondamentale di ogni impresa terapeutica" che sia stato in grado di autenticamente tener conto dell'incontro, della partecipazione e condivisione del singolo paziente e della famiglia, al progetto;

• che un progetto di dimissioni veda l'équipe curante e il paziente co-attori di un processo, che insieme li veda creare un senso sociale alla loro comune avventura; è la dimensione di "etica clinica" (Malherbe) che alla domanda: "questo processo di dimissioni è terapeutico?", ci può far rispondere: "forse sì".


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