Tavola Rotonda - Il corpo dentro e fuori
Quante lingue sa parlare il corpo?
Pietro Andujar
"Che cosa ci facciamo dentro questi corpi", disse il signore che si stava preparando a stendersi nel letto vicino al mio.
La sua voce non aveva un tono interrogativo, forse non era una domanda, era solo una constatazione, a suo modo, comunque sarebbe stata una domanda alla quale non avrei potuto rispondere. La luce che veniva dalle banchine della stazione era gialla e disegnava sulle pareti scrostate la sua ombra magra che si muoveva nella stanza con leggerezza, con prudenza e discrezione, mi parve, come si muovono gli indiani. Da lontano veniva una voce lenta e monotona, forse una preghiera oppure un lamento solitario e senza speranza, come quei lamenti che esprimono solo se stessi, senza chiedere niente. Per me era impossibile decifrarlo. L'India era anche questo: un universo di suoni piatti, indifferenziati, indistinguibili.
"Forse ci viaggiamo dentro", dissi io.
Doveva essere passato un po' di tempo dalla sua prima frase, mi ero perduto in considerazioni lontane: qualche minuto di sonno, forse. Ero molto stanco.
Lui disse: "come ha detto?".
"Mi riferivo ai corpi", dissi io, "forse sono come valigie, ci trasportiamo noi stessi".
Sopra la porta c'era una veilleuse azzurra, come nei vagoni dei treni notturni. Misurandosi con la luce gialla che veniva dalla finestra creava una luce verdolina, quasi un acquario. Lo guardai e nella luce verdastra, quasi luttuosa, vidi il profilo di un volto aguzzo, con un naso leggermente aquilino, le mani sul petto.
"Lei conosce Mantegna?", gli chiesi. Anche la mia era una domanda assurda, ma non meno della sua, certo.
"No", disse, "è un indiano?".
"E' un italiano", dissi io.
"Conosco solo inglesi", disse, "gli unici europei che conosco sono inglesi".
Il lamento lontano riprese con maggiore intensità, ora era molto acuto, per un attimo pensai che fosse uno sciacallo.
Il brano è tratto da Notturno indiano (Sellerio editore, Palermo 1984) di Antonio Tabucchi. "Che cosa ci facciamo dentro questi corpi [?]" sembra il tema del nostro dibattito. E' strano che il racconto sia ambientato in treno, in un paese straniero e lontano! Tabucchi quasi ci trasporta nella metafora del sogno: viene in mente lo spaesamento di Freud in treno, quando la sagoma del cappotto appeso rievoca il perturbante del padre; oppure la nostra immagine inattesa allo specchio che possiamo vivere per una frazione di secondo come estranea. Ancora, il non sapere si gioca fra le lingue straniere: gli europei parlano solo inglese? - è l'indiano che parla l'inglese 'europeo'! -Mantegna è indiano?
Intanto si addensano tratti funesti: l'ombra magra che si muove come riflesso delle luci fioche, un universo di suoni piatti e indistinguibili, il lumino notturno la cui luce azzurra si mescola con la luce gialla che proviene da fuori, il lamento lontano che ricorda l'ululato di uno sciacallo. Il corpo è una valigia che ci contiene, ci viaggiamo dentro, è il nostro treno?
Ricordo il primo sogno che mi raccontò una donna orientale: "Sono chiusa nella custodia di una viola. Posso aprire la grande scatola e guardare fuori. La protezione dello strumento musicale è molto solida e sicura". Mi stava dicendo che una grande sensibilità doveva essere nascosta e protetta: il corpo era un involucro di legno foderato di pelle scura! Altra stranezza è che Sherazade utilizza l'inglese come lingua familiare - non è la sua madrelingua - e che anch'io ho utilizzato per anni l'inglese come lingua amica. Lei crede che io non sappia l'inglese e si stupisce del fatto che, quando le scappa una parolina 'familiare', io la capisca: "Ma come, lei mi ha detto che non sapeva l'inglese!" In realtà, non ho mai fatto cenno al mio inglese! Chissà perché facciamo riferimento a una lingua straniera e familiare per entrambi?!
Il tedesco e l'inglese utilizzano parole diverse per designare il corpo: "Körper" significa corpo inanimato, oggettivo, secondo le categorie della fisica, "Leib" indica il corpo animato, il corpo vivente, il corpo soggettivo.
L'inglese usa "corps" per indicare un corpo d'armata, un corpo di gruppo, un corpo collettivo, "corpse" per indicare il cadavere, "body" per indicare il corpo vivente e il soggetto animato (somebody, nobody, anybody: qualcuno, nessuno, chiunque in inglese si dice: qualche corpo, nessun corpo, qualsiasi corpo!).
Nella nostra lingua la distinzione fra corpo animato e inanimato non è così immediata: non sempre, nominando il corpo, ci riferiamo a un corpo vivente, spesso pensiamo a un corpo oggettivo. Ricordo che quando fui sottoposto a un'angiografia per verificare la presenza di un aneurisma cerebrale fui stupito dalla visione delle sezioni del mio cervello riportate dai sette monitor che mi stavano di fronte. Chiesi al neuroradiologo se quella macchiolina era l'aneurisma. Mi rispose di sì e per me il pronome dimostrativo fu "quello", non fu né "questo", né "io". La visione del corpo non mi apparteneva!
Voglio dire che c'è una forte componente immaginaria del corpo e che forse la nostra psiche ha a che fare soprattutto con questo.
Il vecchio Lacan parlava del corpo "morcelé" - a pezzi - richiamandosi ai primi studi sull'isteria: ad esempio alcune paresi apparenti del braccio, anestetizzato e immobile, invece che manifestare patologie muscolari o nervose (che non erano affatto rilevabili da un punto di vista oggettivo), coincidevano con un confine immaginario fra il braccio e la spalla: lì la paziente situava un 'taglio' che con il sistema nervoso aveva ben poco a che fare! Si tratta di una specie di confine fra il braccio e il tronco che si potrebbe paragonare alla struttura del corpo di una bambola: il braccio si innesta al tronco come se due pezzi autonomi fossero congiunti.
Dunque "noi siamo dei corpi" significa qualche cosa di molto diverso da ciò che si potrebbe intendere seguendo una prospettiva medico-scientifica: l'isteria ci ha mostrato che cosa può fare l'io a dispetto degli automatismi del nostro sistema.
Un collega mi raccontò che nel lungo periodo dei seminari muti di Lacan, negli ultimi anni della sua vita, mentre cercava di tracciare nodi e di scoprire matémi, borbottava continuamente "noi siamo dei corpi", quasi fosse la verità essenziale, unica interruzione del silenzio che aveva fatto seguito a decenni di eccesso di parola! Parole sagge che andrebbero ascoltate ...
La Ginestra, l'associazione psicoanalitica di cui faccio parte, dà un senso particolarmente vivo alla parola: non possiamo dimenticare che la parola è un anche un segno del corpo. Certo la letteratura può esimersi da considerazioni di ordine materiale e rivolgersi a percorsi di pensiero completamente astratti, ma è facile che la parola possa rivolgersi a sensori particolarmente acuti del corpo/immaginario umano...
Un numero della nostra rivista è intitolato "Il corpo e la forma. Un'estetica per la psicoanalisi" : l'estetica ha un riferimento irrinunciabile alla percezione corporea nonché all'appagamento del desiderio cui il soggetto tende sotto forme anche molto complesse. Riporto qui una breve tranche di seduta psicoanalitica in cui il riferimento al corpo senziente è particolarmente evidente:
" ... Il paziente rimugina su cose che ha detto altre volte nella stessa forma:
"Sono egoista , sono cattivo ..."
Lungo silenzio
L'analista interrompe il silenzio :
"A che cosa sta pensando ?"
"Pensavo che mi avrebbe chiesto a che cosa sto pensando"
L'analista ride :
"Bene, che cosa pensava di rispondermi ?"
"Veramente, non mi viene in mente niente"
Silenzio.
"E adesso cosa sente ?"
"Ma, è una cazzata! Stavo sentendo gli uccellini che cantano fuori dalla finestra ..."
"Sì, effettivamente si sente il canto degli uccelli ..."
"Mi dà una sensazione di libertà ... Accidenti ! Stavo pensando che sono prigioniero"
"Cattivo significa prigioniero"
"E già : cattività ... Beh, non avrei mai pensato che fosse importante parlare degli uccelli che cantano . Io penso sempre al pensiero, ha ragione. Adesso va meglio"
Il discorso con cui il paziente apre la seduta è formato da una lunga argomentazione logica sul suo mondo interno. Si blocca sulla parola "cattivo" da cui parte un lungo silenzio.
In un primo momento mi sento infastidito e anche escluso dalla relazione, come se il paziente avesse designato un campo logico all'interno del quale parlare dei propri oggetti.
Mi sembra di navigare senza gravità in uno spazio metastorico : il suo discorso è una lucida disquisizione sui nessi psicologici che potrebbe continuare all'infinito, come se stesse stabilendo la linea di sviluppo del proprio destino, a partire da un'ipotetica origine fino a un futuro molto lontano. Ho l'impressione che potrebbe continuare a spiegarmi tutto ciò che potrà divenire, standosene sempre fermo nello stesso punto.
"Sono egoista" mi sembra ancora un'espressione concettuale. E' la parola "cattivo" a colpirmi : gli è scivolata fuori con un tono un po' dimesso rispetto al tenore di tutto il discorso, l'ha pronunciata sottovoce, abbassando il capo, come se ne provasse vergogna. Questo "cattivo" mi restituisce una presenza. Avverto uno smarrimento: ha sospeso il tempo logico nel quale si era rifugiato. Ho la sensazione che l'oggetto presente fra di noi sia il vuoto e che il paziente fatichi a tollerarlo. Il vuoto è come la fame.
Dopo qualche minuto interrompo il silenzio con una domanda convenzionale, come se volessi fargli avvertire la mia presenza. La risposta indica che la sua preoccupazione di controllare si è spostata su di me, che mi ha pre-visto: ha tracciato un futuro anche per me ! La mia risata esce spontanea e la replica è immediata, come se accettassi di giocare con lui.
Percepisco l'attacco aggressivo ma non mi sembra opportuno farglielo notare, ha appena detto che si sente cattivo: il presente è uno spazio vuoto in cui si sente cattivo.
Neppure io mi sento molto buono nella replica, ma c'è qualcosa che ha a che fare con il divertimento che mi dà una percezione esatta che io devo stare con lui nell'evento che si presenta. Non devo alterare i tempi del gioco.
Segue un secondo silenzio. Mi sembra di percepire il suo malessere: mi ha appena detto che il 'mio pensiero' nel suo pensiero è 'vuoto'. Io penso che occupare la mente col pensiero del pensiero è un modo per impedire alla sensazione di emergere. E' un modo per bloccare il corpo.
Gli chiedo cosa sente. La risposta, riluttante, arriva. Può sembrare che sia una seconda provocazione aggressiva ma, ancora, mi astengo da un'interpretazione che riguardi la nostra relazione, perché so che non è questo il problema. Mi interessa dare più tempo e attenzione a ciò che percepisce. Mi accorgo del canto degli uccelli che poco fa faceva da sfondo alle nostre parole e che ora occupa la nostra attenzione, sto all'ascolto.
Se nella prima fase del nostro dialogo mi sentivo trasportato in un altro tempo, che nella mia mente andava disordinatamente dal passato, al futuro, al presente, ora mi sono sentito spostato altrove, fuori dalla finestra. Confermo la percezione acustica, come se volessi allargare uno spazio possibile.
Il paziente è intento a seguire qualche cosa.
Io non ho più la percezione del vuoto.
Mi comunica il senso di libertà che associa agli uccelli. Dopo un breve silenzio si accorge che stava pensando di essere prigioniero. A questo si aggancia il senso della parola "cattivo". ..."(1)
Si può forse vedere il rapporto di parola come un riflesso dei moti di due corpi. Forse che non siamo dei corpi?
(1) Vedi Pietro Andujar "Un tempo per il corpo" in Il corpo e la forma. Un'estetica per la psicoanalisi, FrancoAngeli, Milano, 1996