L'intero numero della rivista è dedicato a questa lunga intervista
di Hirsch a Benjamin Wolstein, figura storica del William A. White Institute
e deceduto nel 1998 a 76 anni, pochi mesi dopo essere stato intervistato.
Loewus presenta l'intervista, e poi Levenson, Maroda, Renik, i coniugi
Richards, Wilner, Zaphiropoulos, lo stesso Hirsch, Shapiro, e Miller la
commentano in vari suoi aspetti. Alla fine la Shapiro presenta una bibliografia
completa di Wolstein, che scrisse molto, cominciando a pubblicare libri
fin dagli anni '40. In genere i commenti sono elogiativi, anche se alcuni
sottolineano come a volte Wolstein eluda alcuni punti di fondo e quindi
frustri il lettore, lasciando alcune domande volutamente aperte. In questa
intervista Wolstein in modo molto colloquiale parla del suo percorso culturale
e del suo modo di lavorare coi pazienti, spronato da Hirsch che mira a
chiarire il suo pensiero fino alle estreme conseguenze (ad esempio Hirsch
gli chiede se, come e perché limita la sua partecipazione affettiva,
e al limite sessuale, nell'incontro coi pazienti, oppure in che misura
e perché rispetta le regole del setting, quanto è disposto
a concedere al paziente, quanto si autorivela, ecc.). Wolstein fu analizzato
da Clara Thompson, che Wolstein considera la figura del William A. White
Institute che maggiormente lo ha influenzato. La Thompson a sua volta fu
analizzata da Ferenczi, e Wolstein si considera così un esponente
della scuola ungherese, tanto da aver anticipato di molti anni temi che
oggi sono diventati di pubblico dominio in psicoanalisi, quali l'uso del
controtransfert, le autorivelazioni dell'analista, ecc. Secondo Wolstein,
vi può essere stata una sorta di "trasmissione generazionale" dal
concetto di "dialogo dell'inconscio" di Ferenczi, a quello di "esperienza
psicoanalitica diretta" della Thompson, a quello di "campo esperienziale
della terapia" formulato da Wolstein stesso. Per Wolstein nella psicoanalisi
la esperienza diretta, co-partecipata da paziente e analista, gioca un
ruolo molto importante come fattore curativo, più della interpretazione,
che comunque deve essere prodotta dal paziente e solo facilitata dall'analista
disponibile all'ascolto e alla comprensione. Nel complesso questa intervista
rende bene l'idea della cultura psicoanalitica espressa dalla scuola interpersonale
del William A. White Institute, cultura lontana dall'ortodossia nordamericana
della Psicologia dell'Io (prevalentemente medica), a cui gli psicologi
del White Institute si differenziavano nettamente. L'intervista rivela
altresì una difficoltà da parte di Wolstein ad andare a fondo
a certi nodi teorici, rimanendo sul piano intuitivo, anche se con una grossa
dose di originalità, di esperienza e di sensibilità per quanto
riguarda l'essenza del processo analitico. |