L'idea che un intervento psicoterapico possa aiutare sostanzialmente
i pazienti oncologici è molto antica. A livello empirico, vi sono
almeno due filoni di ricerche che supportano questa concezione. Il primo
è relativo agli studi che indagano sull'associazione fra vari costrutti
psicosociali (eventi stressanti, soppressione delle emozioni, depressione,
senso di helplessness, isolamento sociale, fino all'elaborazione di specifici
profili di personalità come la Type C Personality) ed esordio e/o
progressione del cancro. Il secondo filone è relativo a studi che
indagano sull’associazione fra vari costrutti psicosociali (stress acuto,
lutto, perdita, separazione coniugale, vedovanza, depressione) e parametri
di immunosoppressione. In entrambi i casi, però, le entusiastiche
attese degli inizi degli anni '70 sono state abbastanza disilluse nel corso
degli anni, man mano che la metodologia della ricerca è diventata
sempre più rigorosa. Ad esempio, la gran parte degli studi del primo
filone sono stati criticati per il fatto di aver adottato metodologie molto
deboli e per la mancanza di replicazione dei risultati. Inoltre, per quanto
riguarda il secondo filone di ricerca, non è stato ancora chiarito
il significato clinico dell'immunosoppressione indotta da fattori psicologici
né il legame fra questi parametri immunitari e l'outcome di guarigione
e/o sopravvivenza. Allo stato attuale, pertanto, le esortazioni elargite
in libri divulgativi e rubriche da rotocalco popolare a combattere la malattia
con la forza di volontà, tecniche di visualizzazione, meditazione,
ecc non trovano conferme empiriche.
Sulla base di questo background, gli autori australiani di questa review
hanno esaminato gli studi controllati di interventi psicologici (sostanzialmente
terapie di gruppo di tipo psicosociale e psicoeducativo) sull'esito della
neoplasia, trovando solo 8 studi negli ultimi 20 anni.
Tre studi riportano risultati nettamente a favore dell'ipotesi psicologica.
Si tratta di trial controllati che hanno trovato risultati positivi di
associazione fra intervento psicoterapico e sopravvivenza. Si tratta di
studi molto famosi e conosciutissimi fra gli addetti ai lavori, come quelli
pubblicati da Spiegel e coll. nel 1989, da Fawzy e coll. nel 1993 e da
Richardson e coll. nel 1990. Questi studi hanno adottato metodologie di
indagine serie e robuste, ad iniziare dalla randomizzazione dei soggetti
e dal controllo delle variabili. Essi hanno adottato varie tecniche nei
bracci dello studio con intervento, mirate alla facilitazione dell'espressione
emozionale, relazioni supportive con il gruppo, educazione, gestione dello
stress, rilassamento, promozione della compliance. I risultati sono stati
tutti nella direzione dell'efficacia dell'intervento psicologico nel prolungare
la sopravvivenza in follow-up di molti anni. Tuttavia, questi risultati
sono viziati dal fatto che i campioni sono poco numerosi, fra 20 e 40 soggetti
per braccio. Infatti, Fox ha dimostrato che, utilizzando i dati pubblicati,
basta aggiungere o sottrarre un evento fatale per cella che il risultato
perde di significatività statistica.
Cinque studi (Linn et al, 1982; Morgenstern et al, 1984; Ilnyckyj et
al, 1994; Cunningham et al, 1998: Edelman et al, 1999), altrettanto rigorosi,
utilizzando le stesse metodologie e lo stesso tipo di intervento gruppale
di tipo psico-socio-educativo, hanno invece trovato risultati opposti di
nessun effetto significativo degli interventi psicologici sulla sopravvivenza,
sebbene abbiano comportato miglioramenti significativi dello stato psicologico
dei pazienti. Solo lo studio di Edelman ha utilizzato tecniche più
specifiche di terapia cognitivo-comportamentale, ottenendo gli stessi risultati
negativi al follow-up per la sopravvivenza.
La conclusione degli autori di questa review è pessimistica:
sulla base delle evidenze disponibili, l'esito positivo sullo stato psicologico
degli interventi psico-educazionali in oncologia non è un fattore
necessario né tantomeno sufficiente per aumentare la sopravvivenza.
Tuttavia, molti gruppi di ricerca hanno in corso attualmente seri studi
controllati di replicazione, come quello dello stesso Spiegel alla Stanford
University o quello molto ampio del Mt.Sinai Hopital in Canada conosciuto
come BEST (Breast Expressive Supportive Therapy). Conclusioni più
definitive potranno quindi esser tratte solo nei prossimi anni, anche se - dicono gli autori - chiunque troverà risultati positivi non potrà
fare a meno di imbattersi nella domanda più insidiosa: esito positivo
si, ma attraverso quali meccanismi?
Una piccola chiosa in margine a questa review. Come in molti altri
ambiti della ricerca psicosomatica, anche in psico-oncologia le valutazioni
tendono a scindersi fra una valutazione hard ed una soft. La valutazione
hard tende a vedere l'esito dell'intervento psicologico su variabili pesanti
come appunto la sopravvivenza; quella soft invece ad apprezzarne la portata
sulla qualità di vita ed il benessere psicologico di pazienti gravi.
Da un punto di vista clinico-psicologico, è proprio certo che aiutare
i pazienti oncologici a star meglio psicologicamente (valutazione soft)
sia un risultato di serie B rispetto ai dati sulla sopravvivenza (valutazione
hard)?
Peter C. Trask
Behavioral Medicine Program
Department of Psychiatry
University of Michigan Health Systems
475 Market Place, Suite L
Ann Arbor, MI 48108 (USA)
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