PM
--> HOME PAGE ITALIANA
--> ARGOMENTI ED AREE
--> NOVITÁ
--> CINEMA
PSYCHOMEDIA
|
ARTE E RAPPRESENTAZIONE
Cinema
|
"La stanza del figlio" ovvero "L'analisi è finita"
(1)
di Sergio Benvenuto
Zarathustra discese solo dalla montagna senza incontrare nessuno: Ma
giunto che fu [nelle metropoli], si trovò improvvisamente di
fronte a un vegliardo [psicoanalista], che aveva lasciato la sua pia
capanna per cercar radici [nella metropoli]. [...]
"E che cosa fa [l'analista] nella [metropoli]?" domandò
Zarathustra.
E [l'analista] rispose: "Faccio canzoni e le canto, e quando faccio
canzoni, rido, piango e borbotto: cioè lodo [Sigmund Freud].
Cantando, piangendo, ridendo e borbottando lodo [Sigmund Freud], che
è il mio Dio. Ma tu, che cosa ci porti in dono?"
Udite che ebbe queste parole, Zarathustra salutò [l'analista
... E così i due si separarono, il vegliardo e l'uomo [del 2000],
ridendo come possono ridere due ragazzi.
Ma quando fu solo, così Zarathustra parlò al suo cuore:
"E' mai possibile? Questo [analista] vegliardo non ha ancora sentito
dire, qui nella sua [metropoli], che Sigmund Freud è morto!"
Parafrasi da Also Sprach Zarathustra, Proemio, 2.
"La Stanza del figlio", il film di Nanni Moretti che sta avendo
tanto successo (anche tra gli psicoterapeuti) in Italia, parla in sostanza
della fine dell'analisi.
Fine nei molti sensi del termine. Innanzitutto nel senso che un'analisi
non va continuata in eterno (va finita non solo con l'analista ma -
cosa forse ancora più dura - nella propria vita stessa!). E può
essere finita non solo da parte del paziente, ma anche da parte dell'analista:
il protagonista del film è difatti un analista che smette anche
lui, una buona volta, di praticare. Fine anche nel senso di aim, finalità:
il film di Moretti ci suggerisce, in effetti, che la finalità
dell'analisi... è confrontarsi finalmente con il vero lutto,
con la mancanza reale.
Ma secondo me questo film evoca la fine dell'analisi in un senso anche
generale, storico: che l'epoca della psicoanalisi è finita, e
quindi - in qualche modo - è finita la psicoanalisi stessa. Il
che non esclude che essa possa continuare a vivere (in modi che ci sono
ancora oscuri) piuttosto che sopravvivere a se stessa, come oggi, troppo
spesso, fa (2). Comunque la psicoanalisi non potrà più
essere quella che, a parte forse qualche eccezione, abbiamo conosciuto
finora.
Moretti si è quasi specializzato nel rappresentare figure storiche
giunte al capolinea. Con Ecce Bombo (1978) allora colse l'esaurimento
(di cui pochi ancora si erano accorti) della cultura giovanile degli
anni 70, quella basata sull'impegno politico e sulla partecipazione
sociale. In Sogni d'oro (1981) ha cantato il requiem al tipo di cinema
impegnato, colto, che prosperava tra i Cahiers du Cinéma e i
circuiti ARCI. In La messa è finita (1985), dove egli indossava
i panni di un giovane prete, ha messo in scena la crisi del credente
in un mondo ormai scristianizzato, dove la carità appare anch'essa
vana. Palombella rossa (1990) documenta la svolta dolorosa della cultura
legata al Partito Comunista e alle sue illusioni, che l'ha portata fuori
del marxismo, verso il vuoto dell'impolitico. Questi "uomini giunti
alla fine del percorso" sono tutti interpretati da Moretti stesso:
egli dà faccia e voce all'ironia e al dolore di questi soggetti
costretti a voltare pagina, dal sessantottino al prete al comunista
e all'analista. Moretti è dotato di antenne storiche fini, almeno
nei suoi momenti migliori: in "La stanza del figlio" pare
aver presentito la fine della psicoanalisi - almeno nella sua forma
classica, aulica, ortodossa - e probabilmente il suo film segna il tramonto,
anche in Italia, della cultura freudiana, e delle subculture ad essa
connesse. Tramonto doloroso, non c'è dubbio (anche per me): la
fine dell'analisi non è un trionfo liberatore, un'emancipazione
giuliva - come cercano di farci credere alcuni anti-freudiani superficiali
e reattivi - ma è un arido e lungo processo di lutto. Un lutto
che travaglia gli analisti, certo, ma anche la nostra civiltà
del Novecento in generale, affascinata dall'etica e dal pensiero di
Freud. Moretti mette in scena narrativamente, allegoricamente, questo
lutto.
Il film ovviamente ha innescato una serie di dibattiti pubblici - soprattutto
on-line - tra psicoterapeuti e analisti. Infatti, il film si sofferma
lungamente sulla pratica analitica del protagonista del film, Giovanni
Sermonti. Ora, nei dibattiti che ho potuto seguire, colpisce il modo
molto diverso - in certi casi diametralmente opposto - in cui ciascuno
giudica la qualità professionale di Giovanni, e non solo quella.
Ad alcuni l'analista appare troppo passivo, ottuso, anaffettivo; ad
altri invece appare attivo, perspicace, empatico. Alcuni vi vedono un'immagine
finalmente realistica, giusta, perspicua della loro professione; altri
invece lo vedono come un analista fallito o quasi, o come la ripetizione
di un cliché. Queste differenze non dovrebbero sorprenderci,
anzi. Se Giovanni fosse stato un salumiere, è probabile che le
reazioni dei salumieri reali sarebbero state altrettanto variegate e
contraddittorie. Ma in questo caso c'è qualcosa di più:
sceneggiatori e regista - non so fino a che punto consapevolmente -
ci istillano un dubbio strisciante, un'incertezza corrosiva. Non solo
come analista, ma anche come padre e marito, Giovanni ci lascia alla
fin fine nel dubbio. Certo, molti spettatori sono portati a risolvere
la perplessità in un senso o nell'altro - a dire che Giovanni
è veramente l'analista moderno come si deve, o a dire che è
"uno stronzo" (forse le due risposte non si escludono affatto,
anzi) - ma probabilmente gli spettatori più sensibili devono
riconoscersi, alla fine, indecisi. Da una parte la famiglia Sermonti
risulta "abbastanza buona" (per usare l'espressione di Winnicott
divenuta oggi usuale tra gli analisti italiani), eppure, d'altra parte,
vedendo come poi vanno le cose - il lutto distruttivo di ciascuno per
la morte di Andrea, il figlio maschio adolescente - filtra il sospetto
che forse qualche magagna c'era in quel focolare dalla faccia così
serena. Così il film non dimostra, non prospetta soluzioni, non
offre ricette, non risolve alternative. E questo su più piani.
Ad esempio, che cosa pensare del modo in cui Giovanni reagisce all'accusa,
rivolta al figlio, di aver rubato a scuola un fossile dal laboratorio
di scienze? La nostra prima reazione è dire che il Nostro si
comporta in modo ineccepibile: non si affretta a difendere aggressivamente
il figlio contro l'accusa oppure, al contrario, a subissarlo di rampogne
dando per scontato il verdetto di colpevolezza, emesso dal preside.
In modo equilibrato ascolta le varie campane, valuta le testimonianze.
Correct anche come detective. Egli sembra alla fine convincersi, su
una base ragionevole, che il figlio è innocente. Eppure più
tardi il figlio confessa, poco prima di morire, che era stato lui a
rubare il fossile. Che cosa allora ha ingannato l'insight di suo padre?
A dire il vero, il film segnala un'incertezza: mentre la moglie si dichiara
sicura dell'innocenza del figlio, avvertiamo che Giovanni infondo non
ne è completamente convinto. (Questa titubanza di Giovanni diventerà,
nel corso del film, la nostra nei confronti di lui e di tutta quella
famiglia.) Ma possiamo mettere questo "poco convinto convincimento"
sul conto dei suoi meriti o dei suoi demeriti? Che cosa dobbiamo apprezzare
di più - o di meno - il fatto che si convinca (erroneamente)
dell'innocenza del figlio, o il fatto che in lui restino delle perplessità?
E' stato un padre-detective "good enough" o no?
Come valutare - altro esempio - la sua reazione all'insuccesso sportivo
di Andrea? Egli nota che il ragazzo fa in modo di perdere a tennis,
e quindi lo rimprovera - senza asprezza - di mancare di senso competitivo.
Avrebbe dovuto leggere, da analista geniale, questa volontà di
perdere come una confessione sintomatica, da parte di Andrea, della
sua colpevolezza quanto al furto del fossile? Avrebbe dovuto seguire
i dettami pedagogici americanisti dell'epoca del Dr. Spock, che bandivano
qualsiasi rimprovero, e quindi ha fatto male a rinfacciare al figlio
la mancanza di competitività? Oppure ha fatto benissimo a far
notare al figlio che, più che perdere, ha voluto perdere? Ognuno
giudicherà secondo i propri criteri di eccellenza nell'essere
padre, analista, marito, professionista, ecc. (3) Ma il fatto che Moretti
ci lasci liberi di giudicare - senza forzarci ad una conclusione - è
la vera chicca del film. E' la ragione per cui se ne è discusso
tanto: perché in questo film ciò che consideriamo buono
risulta alla fine se non altro discutibile. Un'interpretazione globale
dell'intera vicenda non è esclusa - anzi, ognuno è spinto
a formulare la propria - ma è come garbatamente sospesa.
Eppure proprio questa incertezza di fondo nel valutare ciascun personaggio
nel film può essere assunta a senso non finale ma aperto del
film: una crescente perplessità nel valutare noi stessi. All'inizio
lo spettatore "morettiano" è portato ad identificarsi
fortemente ad uno o a tutti i membri della famiglia Sermonti: non è
- salvo quell'ombra fastidiosa di sospetto - una famiglia felice, ideale?
Ma alla fine, soprattutto dopo esser stati messi a confronto con le
interpretazioni altrui, dobbiamo ammettere che non sappiamo più
bene chi e che cosa sia l'"abbastanza buono".
In questo senso, "La stanza del figlio" è innanzitutto
un film sulla crisi epocale della psicoanalisi. E' in questa chiave
che propongo di ripercorrerlo.
Il modo di rappresentare lo psicoanalista a cinema - e probabilmente
anche in letteratura - è passato grosso modo per due fasi. La
prima è tipica negli anni 50 e 60, soprattutto a Hollywood: lo/a
psicoanalista modernizza il Salvatore, moderno Teseo che uccide il Minotauro
psicopatologico. Dato che si tratta di solito di thrillers, l'analista
assume aspetti del detective. Ma oltre che "scoprire la colpa",
si tratta pure di salvare, dalla malattia o da altro, l'eroe o l'eroina
(si pensi a celebri film di Hitchcock come Marnie o Spellbound). Figura
eminentemente positiva di poliziotto-medico-amante, l'analista unisce
la forza della scienza a quella dell'amore: mette il suo sapere affilato
al servizio dell'amato o amata da salvare. Questa epopea dell'analista-Teseo
domina all'epoca di massimo prestigio della psicoanalisi, soprattutto
in America.
La seconda fase comincia dai tardi anni 70 e si afferma attraverso certi
film di Woody Allen (penso in particolare ad Another Woman(1988)): l'analista
appare sempre più come la persona sofferente da salvare. I ruoli
si invertono. Questo/a analista realizza, ad un certo punto, la sua
fragilità, i suoi fallimenti - si scopre "malato" e
deve trovare aiuto o soluzioni fuori del suo sapere analitico. Questo
rovesciamento dello shrink da eroe salvatore in "soggetto da salvare"
in certi film assume forme estreme (4). Ad esempio, nel grottesco Happiness
(1999) lo shrink, padre di famiglia e professionista rispettabile, si
scopre pedofilo - e passa all'atto inculando alcuni bambini maschi.
La scena tragica e ridicola in cui l'analista-pedofilo spiega al figlio
adolescente, che ha scoperto la magagna del padre, la sua disperata
perversione - gliela dettaglia paternamente usando il linguaggio pacato,
saggio, neutro, tipico dell'analista come si deve - è a mio avviso
uno dei momenti più impressionanti ed emblematici del cinema
di questi ultimi anni (5).
Ora, il film di Moretti segna uno slittamento ulteriore dell'imago cinematografica
dell'analista. In apparenza si tratta di una prosecuzione del tema dello
"psicoanalista in crisi" a cui gli anni scorsi ci hanno abituato.
Ma Giovanni non è un pedofilo o un nevrotico, è uno che
si spezza per un trauma esterno, la perdita di un figlio. Questo punto
è essenziale. Proprio nella misura in cui la mancanza, il trauma,
vengono dall'esterno, entriamo nel cono d'ombra dell'incertezza: che
cosa la psicoanalisi ha da dire sul dolore causato dalla perdita esterna?
Eppure molta psicoanalisi pensa che qualsiasi "disturbo psichico"
abbia la propria fonte in una perdita traumatica. In fondo, tante complesse
e grandiose teorie analitiche sulle nevrosi e psicosi non si riducono
tutte, in qualche modo, alla tesi secondo cui ogni patologia è
la conseguenza di un lutto mancato o fallito? Ogni scuola usa la terminologia
propria - chi parla di mancanza, chi di castrazione, chi di assenza
del seno, di frustrazione, di hopelessness, ecc. - ma sempre attorno
ad una perdita, e al lutto che ne consegue, la teoria gira. Ora, è
proprio quando il lutto è dato come tale - risposta ad un evento
accidentale - che il discorso analitico tace! La psicoanalisi è
tanto ciarliera sul fallimento del lutto, resta muta di fronte al lutto
stesso. Da qui un'incertezza, un'oscillazione da parte degli analisti
spettatori del film.
Questa incertezza, abbiamo detto, filtra a tutti i livelli. Per esempio,
per un verso Giovanni risulta essere un marito monogamo affettuoso e
sessualmente caldo, un padre che si comporta con i due figli con illuminata
tolleranza, senza pedanteria. Inoltre, si mostra un analista niente
affatto rigido, meccanico, tecnocratico. Per esempio, alcuni analizzanti
sono stesi sul lettino, altri invece gli parlano faccia a faccia - segno
che non è abbarbicato in modo pignolo alle regole tecniche. Quando
un paziente lo chiama in aiuto in una situazione di emergenza, va addirittura
a casa sua - quindi non è un gelido "barone dell'anima".
I suoi pazienti, tutti alquanto aggressivi, mettono alla prova la sua
pazienza in vari modi: in tutti i casi il Nostro reagisce come ci si
aspetta da un analista. Insomma, tutto bene in questo focolare e in
questo gabinetto analitico?
Eppure, allo stesso tempo, di questa felicità e correttezza possiamo
dare un giudizio diverso: questa vita felice, dove tutto quadra, ci
dà anche una sensazione di piattezza. Ci sentiamo punti come
da uno spillo: a questa riuscita privata e professionale qualcosa manca,
una specie di vuoto vagola nella soddisfazione di questa famiglia fondata
da una coppia che, c'è da giurarci, "ha fatto il 77",
è passata per l'impegno politico o femminista... e ammira i film
di Moretti. E difatti, all'improvviso, questo vuoto che fa capolino
come un retrogusto sgradevole si concretizza nella forma più
brutale: il ragazzo muore. Ma questa mancanza reale rivela un vuoto
preesistente, ineffabile, stornato, oppure semplicemente lo crea?
Ben presto quel trauma finisce con il distruggere la felicità
dignitosa di quella famigliola di provincia. Il lato inquietante del
film è proprio questo: è unicamente il trauma, la perdita,
che provoca la crisi di quel sistema familiare e di ognuno di loro.
Le cause della dissoluzione della felicità non sono interne -
e nemmeno relazionali, come vuole la moderna ortodossia psicoanalitica
- ma puramente esterne (6). Vale a dire, una perdita senza senso sgretola
il sistema di senso su cui si basava quel sistema "abbastanza buono".
Non c'è alcuna ragione profonda di questo ever falling down (7).
Ma il fatto che la crisi - che porta l'analista a finire l'analisi,
a smettere di essere analista - non abbia una fonte interna è
proprio ciò che disgrega, ulteriormente, quel sistema che si
basava sul senso. Il crollo della felicità ideale comporta la
perdita di senso di un modo di vivere e di pensare che eleggeva quell'ideale
di felicità. Ognuno si trova confrontato con un vero vuoto, che
di contraccolpo, après coup, fa apparire la felicità precedente
come essa stessa, in fondo, vuota.
Oggi si parla molto di crisi della psicoanalisi. Ma forse si tratta
di una metafora: la crisi della psicoanalisi è in realtà
la crisi dell'uomo e della donna moderni.
Giovanni impersona l'uomo ideale moderno, quello del XXo secolo, a cui
quasi ogni persona colta, "progressista", "moderna",
"spregiudicata" ha creduto (8). La psicoanalisi ha avuto tanta
fortuna nel Novecento perché offriva non solo nella pratica clinica,
ma anche nell'ideale praticato di una "vita illuminata dall'analisi",
il paradigma e il traguardo della rivoluzione morale della modernità.
Assieme all'homo novus promesso dalle Buone Novelle marxista e libertaria
- un essere umano che si realizza in una vita sociale piena - l'homo
analyticus era diventato (anche per chi non aveva mai fatto analisi)
compito e orgoglio della modernità. La famiglia middle class
del film - prima del lutto - concretizza questo ideale: disponibilità
illuminata all'altro, empatia per chi soffre, emancipazione dei giovani
e delle donne, eterosessualità monogamica, "non più
di due figli", integrazione tra vita professionale e benessere
privato. La psicoanalisi ha fornito l'avallo "scientifico"
a questo modello di realizzazione ad un tempo affettivo e sociale, "decostruendo"
le ragioni di tutto ciò che si opponeva al modello. Faceva da
puntello al progetto di vita moderno proprio nella misura in cui non
lo teorizzava - la psicoanalisi si è rifiutata per lo più
di definire le forme specifiche della Normalità psichica - ma
denunciava, "interpretandolo", tutto ciò che vi si
opponeva. Come per secoli la teologia negativa sosteneva la fede dicendo
tutto ciò che Dio non era, analogamente quella psicologia negativa
che è in fondo la psicoanalisi sosteneva gli ideali di vita moderni
non prescrivendoli esplicitamente ma dimostrando che tutto ciò
che portava lontano da essi era "patologico". L'inautenticità
psichica - che andava analizzata - era ciò che si opponeva alla
marcia verso il tipo di uomo che Freud (pur senza forse averlo realizzato
lui stesso) aveva delineato come in controluce, sfondo gestaltico su
cui risaltava "il patologico" con cui si era confrontato.
Ora, questo film commuove perché mostra che questo "sistema"
è "sbeccato, incrinato, rigato, rotto" (9).
In effetti, questo ideale moderno di vita felicemente laica si basava
su un presupposto: il male, il dolore, la sofferenza che davvero contano
hanno senso storico. Non a caso per un secolo intero si è celebrata
la Grande Svolta di Freud, quando, dopo aver attribuito i sintomi isterici
a precoci traumi sessuali dei bambini (di solito, una seduzione da parte
degli adulti), concluse finalmente che questi "traumi" erano
di fatto fantasie sessuali infantili. La tradizione psicoanalitica data
la propria nascita simbolica a partire da questa eliminazione della
colpa traumatica esterna: i "traumi" che contano sono solo
interni, quelli di cui io sono in ultima istanza responsabile. (Così,
ad esempio, ho sentito alcuni analisti dire in privato che lo stupro
subìto è talmente sconvolgente per tante donne perché
la violenza reale riattiva fantasie precoci di stupro...) Quel che conta
è la storia interna, non gli incontri e scontri esterni (10).
E' da notare che questo attribuire la causa d'ogni nevrosi alle "dinamiche
interne" non è niente affatto in contraddizione con le interpretazioni
politiche di sinistra, in particolare marxiste, così comuni nell'uomo
e nella donna moderni (11). E anche Nietzsche è stato recuperato
per completare questa visione internista - in fondo sostanzialmente
ottimistica - della sofferenza: tutto è volontà di potenza
umana, per cui alla sofferenza passiva dell'uomo dominato dalle forze
reattive e dal rancore occorre sostituire la gioia attiva dell'Oltre-uomo
che generosamente distrugge e crea. Così la Moderna Trinità
- Marx, Nietzsche, Freud - è diventata il tripode su cui hanno
poggiato le idealità etiche dell'uomo e della donna del Novecento.
La mia impressione, però, è che il tripode oggi si sia
incrinato, se non spezzato. Il film di Moretti illustra la sbeccatura
della gamba freudiana, ma si potrebbero citare altre opere che testimoniano
del crollo delle certezze marxiste e nietzscheane.
In una scena del film, un analizzante malato di cancro evoca in seduta
una teoria diffusa: che il benessere psicologico aiuta a sconfiggere
il cancro. Una volta tanto non si tratta di una superstizione: molti
oncologi confermano che davvero uno stato psichico positivo è
un fattore considerevole di una prognosi favorevole. Eppure Giovanni
non dà sostegno a questa tesi, che pur porterebbe acqua al mulino
dell'analisi: dice francamente al paziente che il decorso del cancro
non c'entra niente con il progresso psicologico. Ora, sarebbe sbrigativo
interpretare questa uscita dell'analista dicendo "si vendica del
fatto che, essendo andato a far visita a quel paziente, indirettamente
ha lasciato che il figlio morisse". In effetti Giovanni immagina
che, se quel giorno non fosse andato da quel suo cliente, avrebbe convinto
il figlio a rinunciare alla funesta gita subacquea. Non si tratta però
solo di una vendetta per una colpa immaginaria, ma del fatto che - come
apparirà chiaro in seguito - Giovanni non crede più nella
funzione del discorso psicoterapico. In effetti, che cosa ci si aspetta
da uno psicoterapeuta? Che si appigli ad ogni prova che "la mente
influisce sul corpo", decantando così la terapia. Evocare
il potere della mente sul soma - da Groddeck in poi - è stata
la chiave di volta di tutti i filoni psicosomatici più o meno
reichianizzanti o altri che anche in Italia prosperano (tipo Riza psychosomatica,
culture orientaleggianti, pastrocchi alternativi, ecc.), fino al New
Age americano. Nella misura in cui gli analisti colludono con queste
teorie "oliste" - come le si chiama oggi - sono tentati di
dire alla gente: "persino il cancro ha un senso, e quindi scoprendo
e decostruendo il suo senso potrai sconfiggerlo". Al limite "sei
tu il responsabile del tuo cancro!" Susan Sontag ha denunciato
- e liquidato - nel saggio La malattia come metafora (12) questa subdola
colpevolizzazione moderna di chi è malato (la malattia è
ridiventata via psicologia, come nel Medio Evo, la punizione per una
colpa). Interpretando la sofferenza psichica come basata su metafore,
la psicoanalisi indulge spesso a vedere ogni sofferenza - anche fisica
- come metafora, e quindi a proporre l'interpretazione o costruzione
o decostruzione della metafora come una sorta di panacea. Ma Giovanni
non può più accondiscendere a questa mistificazione: egli
sa che la perdita del figlio non è metaforica! Eppure è
fonte di sofferenze per lui ben psichiche. La cosa - il vuoto - non
è una metafora. Egli non ha nessuna interpretazione consolatoria
per il suo paziente canceroso, così come non ha nessuna interpretazione
consolatoria per la perdita di suo figlio.
Il film, in effetti, ci confronta con quel che chiamo il vuoto centrale
- coagulatosi in questo caso nella perdita di Andrea - comunque non
per interpretarlo o decostruirlo. Certo, confrontati a questo vuoto
- che è sempre, indissolubilmente, interno ed esterno - i tre
familiari in lutto reagiscono diversamente, ovvero, lo "interpretano"
ciascuno a suo modo. La nosografia analitica classica direbbe che Giovanni
ricorre ad una risposta ossessiva, la moglie ad una risposta isterica,
e la figlia ad una risposta fobica. Lui, analista un po' ossessivo,
volge lo sguardo verso il passato: gira senza posa attorno alla scena
dell'evento dell'annegamento, cerca di ricostruirla, sogna una "storia
alternativa" a quella reale. Giovanni si fissa sulla scena della
morte del figlio, come quando azionando un cd ritorna sempre alla stessa
sequenza della musica, sempre la stessa ... Fa come gli analisti con
i loro pazienti: volge la testa al passato, e si priva di futuro.
Quanto alla sorella di Andrea, essa si identica al morto, si auto-esclude
dalla vita sociale: si fa espellere dal campionato di basket, rompe
con il suo ragazzo, piange da sola in un camerino di prova di abbigliamento.
Muore anche lei al consorzio umano, che tende quindi ad evitare fobicamente.
Mentre il padre si priva del futuro, lei si priva del presente. La moglie
invece si volge tutta ad un futuro direi virtuale: per lei il ragazzo
deve continuare a vivere - come un fantasma - nel presente. Scopre che
Andrea aveva abbozzato una relazione con una ragazza della sua età,
e cerca di entrare disperatamente in contatto con costei, come a voler
proseguire quell'amore appena appena sbocciato. Incarica il marito di
scrivere una lettera alla ragazza per dirle che Andrea è morto,
ma Giovanni non ci riesce. Perché questa incapacità di
scriverle? Perché il padre analista sembra evitare quasi che
la ragazza sappia della tragedia? Dobbiamo tentare un'interpretazione
psicoanalitica di questa inibizione? Lo spettatore è spinto a
formulare le sue congetture - che resteranno ovviamente tutte tali.
La mia ipotesi è che il padre-analista non riesca ad informare
la ragazza perché costei, in quanto viva, incarna la freccia
del futuro: vivrà senza suo figlio, amerà altri ragazzi.
Questo è per lui intollerabile, lui invece vuole congelare il
passato: tutto per lui ruota attorno al giorno dell'incidente. Vorrebbe
quindi fermare anche il tempo della relazione, appena fiorita, tra la
ragazza e il figlio, fossilizzarla in una primavera eterna, senza estate
futura. (Andrea, rubando il fossile da scuola e rompendolo, aveva così
protestato contro una sorta di fossilizzazione di quella famiglia? Prima
di spezzare la sua vita, qualcosa voleva pur spezzare? Ma forse, la
sua morte non è stata un incidente, c'era del suicidario in lui?)
In sostanza, lo capiamo sempre meglio, Giovanni è un fossile.
Per questo pare simboleggiare una certa fossilizzazione della psicoanalisi.
"Lei mi ripete sempre la stessa cazzata, sempre la stessa!"
gli grida un paziente. La pretesa analitica di dissotterrare l'inconscio
come l'archeologo dissotterra le città sommerse - famosa metafora
di Freud - di fatto fossilizza il passato, costringendo il presente
a ruotargli attorno. E' questo il nocciolo della teoria - oggi tanto
popolare tra gli analisti - dell'analisi interminabile, che va cioè
continuata anche dopo la conclusione della cura: essa significa che
la vita di ciascuno dovrà ruotare sempre attorno al passato,
come in un sistema in cui il pianeta vivo girerà sempre attorno
ad un sole morto. Questo congelamento si compie proprio attraverso la
scommessa analitica di cercare nella storia di ognuno il senso ultimo
del malessere presente. Pur aspirando a liberare il presente dai lacci
e lacciuoli della storia passata, di fatto - dice in sostanza Moretti
- l'analisi rischia di avvitarci al nostro passato come supposta fonte
del senso di quel che siamo e facciamo. Così ci distoglie da
quel vuoto con cui prima o poi dobbiamo fare i conti. E' che questo
vuoto pesa come un macigno, perché è un grumo di non-senso:
assenza, mancanza, perdita traumatica, sfaldamento del proprio essere.
Eppure è questo confronto spaventoso con la Cosa - vale a dire
con una mancanza ben reale - a de-fossilizarci. Questo orrore, paradossalmente,
può sferzarci verso la vita. Dopo il trauma, confrontato con
il peso del vuoto, Giovanni non può continuare per inerzia com'era
prima: preso a calci dal lutto, deve darsi una mossa. Guida l'auto fino
al confine con la Francia.
I Sermonti sono una famiglia che appare prima di tutto molto sportiva.
Gente che si muove, che corre, dinamica. Il film inizia con il jogging
dell'analista, il figlio Andrea gioca a tennis e fa pesca subacquea,
la figlia gioca a basket. Ad una paziente ossessiva - vale a dire ad
una particolarmente immobile - Giovanni nella sua fantasia propone una
bella camminata ... (13) "Sono almeno noioso quanto lei",
le dice nella fantasia, mentre le mostra una stupida collezione di scarpe
(14).
Ma allo stesso tempo lo spettatore avverte che si tratta di un movimento
apparente - Falsche Bewegung (15). Al movimento di superficie di questa
famiglia risponde una certa stasi dei pazienti di Giovanni, che appaiono
tutti fissi in una sorta di transfert blandamente negativo, di sfida
perpetua all'analista-sfinge (così più pazienti sembrano
stare molto meglio solo... quando l'analista smette l'analisi!) (16).
Il lutto, provocato proprio da ciò che questa famiglia considera
altamente positivo - il mare, lo sport - pare congelare questo falso
movimento, rivelando allo stesso tempo l'immobile vuoto al fondo di
questa felicità un po' ottusa. (E' vero, Giovanni appare un po'
ottuso, sia come analista che come padre. Ma è l'ottusità
inevitabile dell'uomo moderno ligio alla Trinità di cui sopra,
il quale crede che il male e la sofferenza abbiano un senso.)
Da cosa dipende questa stasi, ad un tempo familiare e professionale?
Essa pare un'allegoria - non so fino a che punto voluta - di un certo
crescente immobilismo autocompiaciuto della pratica analitica. E' come
se solo un lutto, una catastrofe, potesse scuotere molti analisti, soddisfatti
in un fragile benessere, nella routine senza più storia di una
professione sedentaria.
Non l'analisi, ma la catastrofe, il vuoto, spingono ad una possibile
conversione o riconversione questa famiglia che si muoveva nello sport
igienico della serenità, ma non si smuoveva. Forse solo un trauma
esterno potrà confrontare la psicoanalisi di nuovo a quel vuoto
da cui essa era partita, e che ha mosso e commosso tutto il secolo appena
concluso.
Ma come smuoversi, dopo l'immobilismo del benessere moderno, sportivo,
analitico, coniugale? Il film non ci dà la minima indicazione.
Il finale è del tutto interlocutorio. I tre in lutto accompagnano
in auto, fino alla frontiera francese, una coppia di adolescenti che
essi a stento conoscono (la ragazza era stata l'amore nascente del figlio
morto). Sulla spiaggia di Ventimiglia, in un'alba un po' fredda, tutti
e tre - ma ognuno separato dall'altro, divisi dallo stesso dolore -
indugiano come aspettando qualcosa. Su questa perplessità, o
solitudine, di gruppo si chiude il film. Non sappiamo se e come questa
famiglia supererà il vuoto. E' una metafora persino facile: la
famiglia in lutto sosta sul confine, incerta, tra passato e futuro.
Ma anche noi, anche se non abbiamo perso un figlio, indugiamo perplessi
sul bordo iniziale del nuovo millennio - soli e in compagnia del nostro
vuoto. Non ci sono più Marx né Freud, non la Rivoluzione
né l'Analisi, non l'Autenticità né il Progresso,
a consolarci. Soli di fronte ad un mare vuoto - un mare ad un tempo
affascinante e nefasto - portatore di vita e di morte.
NOTE
(1) Ringrazio Magda Esposito per i suoi suggerimenti riguardo a questo
testo.
(2) Riprendo qui alcuni temi espressi nel saggio di Diego Napolitani
"Psychoanalysis has had Its Day" in Journal of European Psychoanalysis,
n. 8-9, 1999, pp.21-42.
(3) Ho notato anche, in alcuni casi, che le valutazioni di Giovanni
diverse dalla propria, espresse da colleghi analisti nei dibattiti on-line,
diventano una sorta di prova a carico di quei malaugurati colleghi!
Chi è convinto che Giovanni incarni davvero "il buon analista",
ad esempio, trova che chi lo giudica diversamente riveli in questo modo
la sua qualità di "cattivo analista". Le diverse letture
del film si mettono allora al servizio delle solite (ottuse) diatribe
tra scuole analitiche.
(4) La più significativa è quella di Hannibal Lecter in
The Silence of Lambs (Il silenzio degli innocenti): uno psichiatra cannibale
dotato di un'intelligenza e acume diabolici. Orrendo e sublime, Lecter
coagula al massimo l'ambivalenza che la nostra epoca sente nei confronti
dello shrink: simpatico sovvertitore dell'ordine costituito, ma anche
"mangia-cervelli" spaventoso. Egli è ad un tempo il
Salvatore ma anche il pericolo da cui salvarsi.
(5) Credo che questi slittamenti dell'immagine sociale dell'analisi
attraverso i media abbia spesso un rapporto sottile e profondo con i
cambiamenti che avvengono anche all'interno del mondo analitico, e negli
orizzonti etici e tecnici della pratica stessa. Ad esempio, il passaggio
dall'"analista salvatore del sofferente" al patetico "analista
che soffre e va salvato" è in risonanza con l'ascesa di
dottrine come quelle di Lacan e di Bion, e anche di altre meno note.
In queste scuole post-freudiane, tipiche della psicoanalisi fine Novecento,
la soggettività dell'analista viene difatti trascinata sempre
più in primo piano, e l'analizzante (sempre meno paziente) viene
considerato sempre meno mero oggetto di sapere e di cura - di salvazione
- da parte di un analista dal sapere e dalla pratica distaccate dalla
propria soggettività. E' il desiderare e agire dell'analista
che occupa ormai il centro, sia nei film che nella letteratura specialistica.
(6) Mi si obietterà che oggi la tendenza analitica predominante
in Italia tende a dare una spiegazione relazionale più che internista
del malessere psichico: "c'era qualcosa di marcio nella relazione
madre-bambino". Ma appunto, la crisi qui non nasce dalla relazione
tra genitori e figli, ma da un accidente esterno.
(7) Parole della canzone che fa da colonna sonora della parte finale
del film.
(8) I vari modi di giudicare Giovanni, da parte soprattutto degli analisti,
rivelano il modo in cui ognuno di noi è agganciato a questa idealità:
se l'aggancio è troppo forte, troppo "ideale", Giovanni
è condannato (cattivo padre, cattivo analista), se invece è
più debole e più accomodante, Giovanni è esaltato.
(9) Parole che Giovanni usa per esprimere lo stato della sua famiglia
dopo la perdita del figlio.
(10) E' vero che - sulla scia di alcuni spunti di Ferenczi - molti analisti
moderni (soprattutto americani) tendono a rovesciare questa impostazione:
è l'abuse da parte degli adulti che spiega davvero le fantasie
sessuali nevrotiche. Insomma, è colpa di Laio se Edipo si rivela
un "complessato edipico". Da notare però che questa
rivalutazione della causa traumatica - e quindi della spiegazione "esternalista"
- non rovescia davvero in modo radicale l'internalismo ortodosso. Essa
sposta semplicemente il complesso edipico da Edipo a Laio: il "problema
interno" non è più quello del figlio o della figlia,
ma è quello del padre o della madre. Si usa così dire
che ci vogliono almeno tre generazioni per fare uno psicotico, un autistico,
un ossessivo, ecc. E' come se l'internalità venisse ributtata
all'indietro nel tempo, mai veramente superata. Questa eredità
del trauma resta interna alla linea familiare. L'Altro che infligge
il trauma nevrotizzante è a sua volta un soggetto traumatizzato.
L'Altro è uscito certo, oggi, dalla psiche del singolo, ma resta
in famiglia.
(11) L'annosa contrapposizione Marxismo versus Psicoanalisi - o Sociale
versus Psicologico - si è dimostrata del tutto fasulla. Di fatto
- come la biografia dello stesso Moretti dimostra - l'uomo e la donna
moderni sono stati e sono ancora (direi: inscindibilmente) marxisti
e freudiani. Il marxismo proponeva una spiegazione "internista"
e "conflittualista" della sofferenza sociale che faceva da
pendant isomorfo all' "internismo" e "conflittualismo"
freudiani. Il marxista dice "la miseria, lo scontento sociale,
non vengono dall'esterno della società attuale - da crisi ambientali,
dalla natura umana, dai meccanismi spontanei dello scambio sociale -
ma sono un prodotto specifico dei conflitti di questo tipo di società".
Il malessere sociale, insomma, è del tutto endogeno al funzionamento
di una società: il male non proviene da qualcosa a monte o a
valle del sociale, ma dalla dinamica conflittuale di una specifica società.
Le teorie di sinistra ci assicuravano che era la storia endogena della
nostra società a produrre il malessere sociale, il freudismo
ci assicurava che era la nostra storia intima a produrre la nostra sofferenza
psichica. Certo, nessuna delle due prospettive negava l'esistenza di
fattori esterni nelle crisi, ma li considerava in fin dei conti non
veramente determinanti nel generare la sofferenza.
(12) Illness as Metaphor, 1977; paperback: Anchor Books, New York, 1990.
(13) E così Giovanni, per abreagire il lutto per il figlio, non
trova di meglio che andare in un affollato luna park e farsi un giro
nella "gabbia". All'immobilità della morte replica
nel modo suo abituale, cercando movimento, anche se fatuo. Ma questa
ricerca di motilità non impedirà la paralisi successiva
della sua vita.
(14) Un maligno potrebbe rintracciare in Giovanni vari segnali (amore
per il jogging, per le scarpe) di un feticismo della scarpa e del piede.
Il che spiegherebbe, tra l'altro, perché legga alla moglie a
letto - evidentemente per eccitarsi prima dell'amore - una poesia di
Raymond Carver che riguarda proprio le dita del piede ...
(15) Titolo di un film di Wim Wnders (1975).
(16) Scriveva già Elvio Fachinelli (Claustrofilia, Adelphi, Milano,
1983, p. 36-7 ): "Chi guarda da fuori, [...] vede [l'analisi come]
un gigantesco dispositivo, uno straordinario dispositivo, di cui ogni
movimento e' stato predisposto con cura e precisione, ogni meccanismo
registrato e controllato. Ma questo dispositivo è immobile."
PM
--> HOME PAGE ITALIANA
--> ARGOMENTI ED AREE
--> NOVITÁ
--> CINEMA
|