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Il transgenerazionale tra mito e segreto *
di Anna Maria Nicolò Corigliano
articolo (in parte modificato) tratto dal n.1/96 di Interazioni (Rivista edita da Franco Angeli)
L'interesse crescente della psicoanalisi per le dimensioni transgenerazionali, presenti nel funzionamento della mente individuale e in quello delle organizzazioni familiari o istituzionali, mostra - a mio avviso - uno spostamento radicale dell'ottica da una dimensione intrapsichica allo studio dei rapporti tra l'intrapsichico e l'interpersonale.
La sottolineatura sul termine interpersonale coinvolge per l'appunto temi solitamente guardati con prudenza dalla psicoanalisi classica, quali quello della realtà esterna, del contesto, delle interazioni tra le persone, e implica la necessità di utilizzare concetti nuovi o vecchi, ma rivisti in una nuova luce, come ad esempio l'identificazione.
Inoltre l'interpersonale di cui parliamo è il punto di incontro di due vettori, uno dei quali ci porta nel passato del soggetto e ancor prima delle sue origini, nella storia dei suoi genitori, di altre famiglie prima della sua; un altro vettore ci porta al funzionamento nel qui ed ora della famiglia, al rapporto esistente tra le persone nel campo, ai contenuti da essi comunicati e ai modi con cui comunicano nell'assunto che il legame "tra" le persone è il terzo elemento diverso, prodotto dal loro essere in interazione, non riconducibile alla singola persona, ma elemento nuovo che a sua volta di rimando influenza il mondo interno del singolo.
Una delle più chiare distinzioni a questo proposito, intorno al tema della trasmissione tra differenti generazioni, si deve a Kaës (1993) che distingue tra trasmissione transpsichica e intersoggettiva, definendo con chiarezza che quello che si trasmette tra i soggetti non è dello stesso ordine di quello che si trasmette "attraverso" di essi, utilizzando perciò la mediazione dell'oggetto e l'esperienza della separazione.
Alla trasmissione transpsichica, che presuppone l'assenza degli spazi intersoggettivi, appartengono i fenomeni della induzione, della suggestione, del "contagio" e dell' "infezione psichica" (per usare i termini freudiani).
Lo spazio originario della trasmissione intersoggettiva è invece la famiglia ed è qui che si colloca la trasmissione transgenerazionale con i suoi effetti sul piano intrapsichico e su quello intersoggettivo o interpersonale.
Possono da questo punto scaturire due punti di vista solo apparentemente simili, uno che ritiene il meccanismo della trasmissione transgenerazionale una sorta di <<situazione universale che in un momento o l'altro dell'analisi potrebbe essere interpretabile a condizione che l'analista ne tenga conto>> (Faimberg, 1985) e l'altro che invece lo pensa come ad una patologia della soggettività, individuando la presenza nello spazio psichico di fattori ego-alieni (Winnicott, 1969) o di visitatori dell'Io (de Mijolla, 1986) o di oggetti che fanno impazzire (Garcia Badaracco, 1986) che ostacolano la capacità elaborativa e costituiscono una vera intrusione e espropriazione della psiche.
Pur ribadendo che non esiste trasmissione che non sia sempre confrontata e trasformata dalla capacità elaborativa individuale, tuttavia resta centrale il tema del rapporto tra la maggiore o minore capacità di contenimento ed elaborazione dell'Io e il ruolo, la violenza, l'intensità della presenza dell'altro. Una proposta che ci potrebbe permettere di comprendere meglio questi fenomeni senza inutili contrapposizioni è quella ripresa da molti autori, tra cui Laplanche o la Faimberg, di distinguere la qualità della presenza dell'altro dentro di noi; distinguere ad esempio tra funzione di appropriazione o funzione di intrusione (Faimberg, 1985) o tra impianto e intromissione (Laplanche, 1987). Per impianto si intende un <<processo comune attraverso cui i significanti veicolati dell'adulto sono fissati nel derma psicofisiologico di un soggetto in cui non si è ancora differenziato l'inconscio, tanto che si potrebbe parlare a tal proposito di trasmissione dell'inconscio>> (Balsamo, 1994). L'impianto ha perciò una qualità fisiologica, è <<la necessaria prefigurazione dell'altro...il necessario innesto di una spinta a vivere>> che deve naturalmente tener conto delle modalità che gli sono state proposte fin dall'inizio della vita.
L'intromissione invece è la variante patologica del processo che con violenta intrusione immette nella persona un elemento non metabolizzato o non metabolizzabile che lo parassita dal di dentro.
Ispirati dagli studi di Green sul negativo negli anni '70, numerose ricerche si sono sviluppate su questi temi. Ad esempio Abraham e Torok (1978), con i loro lavori sulla cripta e sul fantasma, parlano dell'incistamento nell'inconscio del soggetto delle formazioni inconsce di un altro che lo assilla come un fantasma attraverso il mandato di un antenato.
Tutti questi lavori affermano che la trasmissione transgenerazionale si organizza a partire dal negativo, non solo da quello che fallisce o manca nella metabolizzazione psichica, ma anche da quello che non è mai avvenuto, da ciò che non è stato rappresentato o non è rappresentabile.
Trauma ed elementi transgenerazionali
Ma perché transgenerazionale è spesso collegato nelle nostre fantasie, nella letteratura, più spesso a storie patologiche? Perché ci interessiamo della storia della famiglia di origine soprattutto con i pazienti più gravi?
Perché pur potendosi verificare mille storie possibili dallo stesso punto di partenza, proprio quella è avvenuta?
I temi della morte, dell'incesto, del matricidio o del parricidio, dell'abbandono, dello scambio di persona, della colpa inconfessabile per un delitto o un crimine sessuale, sono i temi ricorrenti sia nelle leggende che nei miti familiari, ma anche in altre dimensioni transgenerazionali.
Sarebbe poco utile se noi ci mettessimo ad elencarli dato che l'aspetto importante non è la natura del trauma in sé e per sé, ma piuttosto l'incapacità del soggetto o del gruppo che lo circonda di elaborarlo, potendosi così generare dall'angoscia che lo sottende due strade, una verso la compulsione ripetitiva che rende inutile il passare del tempo e l'evolversi delle generazioni e l'altra che apre la storia alla soluzione e alle riparazioni creative, motivate dall'angoscia che aveva caratterizzato l'elaborazione del trauma.
Se dovessimo porci la domanda "Perché è avvenuto questo pur essendo possibile che le cose andassero diversamente?", dovremmo invocare una molteplicità di fattori, alcuni attinenti all'organizzazione affettiva della famiglia, altri alla costituzione individuale, altri ancora all'imprevedibilità del caso.
Nei miti, nelle leggende e nelle tragedie il crimine non è mai un evento isolato di un individuo singolo. Esso è al contrario al centro di un groviglio collettivo di multiple azioni ove ognuno svolge una parte precisa.
Ad esempio nella tragedia di Eschilo che narra la vendetta di Oreste contro sua madre Clitemnestre e contro Egisto per vendicare l'uccisione del padre Agamennone, Oreste che potrebbe essere considerato il rappresentante di una tragedia psicotica, si sente l'esecutore materiale di questi omicidi, più che l'ideatore e si sente intrappolato in una rete che passando attraverso la madre e il suo amante, e il dio Apollo che aveva ordinato la vendetta e le Furie, arriva fino allo stesso Agamennone che da vittima della moglie si rivela essere stato nel passato il suo primo persecutore. Infatti in una delle tante versioni del mito aveva sposato con violenza Clitemnestra dopo averle trafitto con la spada il primo marito Tantalo e un figlioletto che stava nutrendo al seno.
Tragedia questa raccapricciante, ma non lontana in certe sue caratteristiche da certe storie di famiglie di psicotici ove si ripresentano storie di omicidi, di uccisioni di bimbi, o di abbandoni, o di scambio di persone.
Per comprendere questi fenomeni dobbiamo risalire ad alcune distinzioni note.
Sappiamo che la nostra mente può essere equipaggiata per far fronte al dolore mentale tramite il pensiero, la rimozione, la proiezione o la negazione, ma che vi sono altresì altri meccanismi più primitivi quali la scissione, il diniego o l'identificazione proiettiva massiccia ed evacuativa. Possiamo però chiederci se la trasmissione transgenerazionale non utilizza altri meccanismi, in parte ancora sconosciuti.
<<Vi sono altri metodi alquanto potenti e riscontrabili nelle situazioni più patologiche per liberarsi del dolore come il trasportarlo o traslocarlo in vari oggetti del mondo esterno, in altri fuori di noi o con noi coinvolti>> (Meltzer, 1979). Questo meccanismo è una difesa transpersonale che potremmo descrivere come una sorta di induzione nell'altro, ad esempio in uno dei membri della famiglia o della coppia di stati d'animo, sentimenti e fantasie fino a veri e propri comportamenti che sono individuabili soprattutto se osserviamo il contesto e il clima che circonda particolari interazioni. I fenomeni ancora sconosciuti dalla folie à deux sono forse maggiormente esplicativi di questo discorso.
La letteratura psicoanalitica di questi ultimi anni si è soffermata su questi argomenti ed autori di differente orientamento hanno espresso sorprendentemente concetti per certi versi simili, come Meltzer (1979) che parla a questo proposito di <<trasporto del dolore mentale piuttosto che di una semplice difesa contro di esso>>. Dall'altro lato Sandler (1987) a questo proposito afferma che nelle relazioni umane e anche nella relazione analitica <<ogni parte cerca di imporre all'altra, di esternalizzare in ogni momento quella che può essere chiamata una relazione di ruolo intrapsichica. In questo contesto - egli afferma - le relazioni oggettuali sono fondamentalmente relazioni di ruolo importanti>>. Così ognuno tenterà di attualizzare ("nel senso di rendere reale un azione o fatto") la relazione di ruolo inerente al suo attuale desiderio o alla fantasia inconscia dominante. E questo meccanismo determina tra l'altro un "forte attaccamento all'altro" anche se non sempre il legame che si viene a creare è di affetto.
Soffrire in un altro, soffrire al posto di un altro, diventa, da questo punto di vista, possibile soprattutto se l'altro è un membro di un'altra generazione.
Ma cosa hanno di caratteristico questi traumi i cui effetti oltrepassano il limite generazionale?
Dipende dall'intensità del trauma, dal periodo della vita e dalla maturazione dell'Io del soggetto?
E che funzione possiamo conferire alle molteplici, ma impalpabili situazioni traumatiche (il trauma cumulativo) che pure caratterizzano la storia di molti pazienti?
Dall'esame dei miti e delle leggende o dalle storie familiari di molti pazienti si evidenzia l'incapacità di operare un lutto di questi eventi traumatici che hanno caratterizzato la storia familiare e che il mito testimonia. La distinzione tra colpa depressiva e quella persecutoria assume una rilevanza centrale dato che quest'ultima, la colpa persecutoria, rende complicato e inelaborabile il lutto. L'impossibilità o l'incapacità di sviluppare una malattia depressiva per uno dei membri della generazione precedente può essere l'elemento centrale che causa anche l'incapacità per tutti gli altri di lasciare il campo e si traduce nella generazione successiva, come difesa contro una depressione che non si può neppure contattare, in una traslocazione della pena psichica, in un'inconscia induzione nell'altro, in un ammalarsi nell'altro che a volte prenderà forme diverse e molto concrete.
Potremmo dire che sviluppare una malattia depressiva è una sorta di capacità e solo un Io sufficientemente capace di tollerarla può ammalarsene, pena il panico, la confusione e l'angoscia psicotica.
La permanenza del senso di colpa persecutoria rende paradossalmente l'oggetto, quantunque morto, sempre vivo e capace di minacciare il resto del sé. Come l'ombra di Banco a Macbeth, come lo spettro di Amleto l'oggetto sarà mantenuto in animazione sospesa, come una specie di cadavere vivente che parassita la mente del soggetto e colonizza la vita nella famiglia realizzando al contempo il diniego della morte, e quello di una vita autonoma e perciò della possibilità di una vera nascita psicologica.
La persistenza di tali aspetti nel corso del tempo si può manifestare in vario modo nella famiglia. Questi deficit della simbolizzazione inconscia che si manifestano come un materiale indigesto, non elaborato dal genitore o dalla coppia parentale (Bonaminio-Giannotti-Carratelli, 1989) sono alcune di queste manifestazioni e si possono rendere visibili in forma psicopatologica o nel controtransfert dell'analista o in agiti dei membri della famiglia quelli che Evelyn Granjon (1990) chiama "le voci del silenzio".
A volte si collegano in forma più o meno esplicita ad un segreto familiare e a un non-detto depositato nella memoria di uno solo, ma tuttavia capace di sequestrare intorno a sé una parte della vita fantasmatica familiare.
Ovvero si possono manifestare come miti familiari o come dei nuclei di storie familiari, di ricordi, di eventi o immagini idealizzate caratterizzati da un miscuglio di elementi utilizzati sia come aspetti identificatori che come comunicazione di modalità relazionali che si devono apprendere e codificare nel tempo. Questi nuclei sembrano essere aree che coagulano e organizzano attorno a sé una buona parte della vita emotiva e fantasmatica della famiglia, depauperando altri aspetti della vita di relazione.
La funzione di questi elementi è quella di ripetere compulsivamente impedendo in realtà il ricordo assimilabile dell'evento; hanno perciò una funzione anti-memoria (A. de Mijolla, 1986).
Nella loro versione positiva a volte sono di transitorio aiuto in certe fasi dell'esistenza.
Transgenerazionale e mito
Il problema si fa ancora più complesso se pensiamo che nella complessa vita fantasmatica familiare, un elemento rilevante che contribuisce ai processi di identificazione di ciascuno e che entra a pieno diritto nel transgenerazionale è il mito.
In questo caso non sto parlando dei miti "pubblici", per riprendere la distinzione fatta da Bion, come ad esempio il mito di Edipo o dell'Eden o della torre di Babele, sto facendo piuttosto riferimento ai miti intesi come fantasie inconsce gruppali transgenerazionali che fanno parte dell'universo simbolico familiare e riguardano in genere la storia familiare e si rimodellano nel corso del tempo pur lasciando un nucleo intatto all'origine che a volte resta segreto nel corso delle generazioni.
Alla sua costituzione e il suo permanere contribuiscono tutti i membri della famiglia di generazione in generazione organizzando così la continuità della cultura del gruppo familiare e perpetuando nelle situazioni patologiche un funzionamento traumatogeno per l'individuo.
Dalle ricerche antropologiche possiamo trarre la considerazione che il mito non può essere compreso al di fuori del ruolo che svolge nella comunità. Esso ha praticamente il compito di mantenere la tradizione in un gruppo sociale ove il passato è più importante del presente e costituire un modello dove il presente non può essere che una ripetizione.
In questo senso svolge una funzione importante nei momenti di crisi e tensione ed è uno strumento difensivo del gruppo per far fronte alle angosce catastrofiche di cambiamento.
I miti familiari perciò, sia che si considerino una fantasia inconscia gruppale condivisa, o (come affermano gli autori sistemici) una serie di credenze solidamente integrate e condivise da tutti i membri della famiglia, che riguardano gli individui e le loro relazioni, descrivono i ruoli e le attribuzioni tra i membri della famiglia nelle loro interazioni reciproche.
A volte questi miti richiedono grosse distorsioni della realtà, ma non sono mai negati da nessuna delle persone che vi sono implicate.
Essi differiscono perciò dall'immagine che come gruppo la famiglia offre all'esterno, ma è invece una parte dell'immagine interna di esso a cui tutti contribuiscono e si sforzano di conservare.
Malgrado ciò, io non credo che siano tanto importanti le tematiche proprie dei miti familiari, di armonia o di guerra, correlate con un personaggio illustre o con una storia vergognosa. Il mito è piuttosto utile in quanto parte dello strumentario a disposizione di ognuno per apprendere dalla realtà ed è questo elemento che ne determina il suo perpetuarsi. Infatti il mito non racconta solamente qualcosa, ma piuttosto parla attraverso ciò che racconta. Il materiale narrativo che forma il mito è lo strumento attraverso il quale il mito comunica. Si arriva così ad una concezione differente del mito che viene osservato per la prima volta con Lévi-Strauss come un oggetto semiotico, come un linguaggio nel quale <<un certo materiale significante (il racconto) ha come funzione quella di trasmettere un certo significato>> (1962). A causa di ciò, il mito collega differenti livelli della realtà e la sua grande importanza nasce dalla sua capacità di essere un autentico intercodice proprio per i rapporti che il mito costituisce tra i differenti livelli della realtà. Mentre il mito sembra descrivere la realtà, insegna e prescrive piuttosto come la realtà deve essere letta.
Certo nelle dimensioni non patologiche la dimensione prescrittiva può essere messa anche in discussione dalla storia personale del soggetto che può quindi risignificare a posteriori certi aspetti del mito piuttosto che certi altri. Così le leggende della nonna affascinante e cocotte che aveva fatto la fortuna della famiglia facendosi lasciare un lascito da un nobile ricco signore può illuminarsi retrospettivamente in una dimensione, lasciando in ombra e non attivate le valenze delle altre, a seconda delle variabilità della storia e della personalità individuale.
Lo stesso mito può diventare cioè la storia di una donna affascinante e libera che non teme pregiudizi e facendo buon viso a cattiva sorte, trae vantaggio da situazioni disperate ed è capace di farsi amare da uno spasimante. Ma può essere la storia vergognosa di una donna cinica e profittatrice che turlupina gli uomini, li imprigiona, ne approfitta, li usa e poi li butta e al contempo si fa usare e poi buttare.
Questi due risvolti del mito possono anche rimanere sempre presenti nel mondo familiare determinando ad esempio dei timori che si attivano in particolari momenti del ciclo vitale del singolo o della famiglia: ad esempio, all'adolescenza quando una bambina (la piccola nipotina di quella nonna cocotte) si trasforma in donna e la sua immagine sessuata deve essere integrata nel suo mondo interno e nelle relazioni familiari. In questo senso il codice del mito si qualifica come strumento di conoscenza e come codice etico.
Il segreto nello spazio intrapsichico e interpersonale
Tutti coloro che studiano le famiglie, specialmente quelle più gravi o con un membro psicotico, conoscono l'importanza patologica e patogena dei segreti familiari.
In genere se pensiamo ad un segreto, pensiamo piuttosto al diritto al segreto, al diritto ad avere pensieri segreti, pensiamo al suo significato inteso come "condizione per poter pensare" (Aulagnier, 1986) pensiamo naturalmente a Winnicott che, in un saggio del 1963 su Comunicare e non comunicare, esplicita il senso del segreto come area del sé e fa una distinzione tra il non comunicare semplice come stadio di riposo e il non comunicare attivo o reattivo.
Si può affermare che ogni famiglia e ogni individuo ha psicologicamente organizzato una parte di sé attorno ad un segreto. Basti pensare allo spazio segreto e misterioso della scena primaria come elemento organizzatore della psiche individuale e la realtà concreta della sessualità dei genitori come elemento fondatore del funzionamento familiare.
A questo proposito conviene ricordare come ci siano certi pazienti che si fabbricano falsi segreti proprio per compensare la mancanza di uno spazio personale interno e come talora questi falsi segreti mantengano frammenti di identità del soggetto impedendogli di regredire in una catastrofe psicotica1. Ma quando si parla di segreti familiari si fa piuttosto riferimento ad un aspetto sovvertito del funzionamento familiare, qualcosa che interrompe o perverte nel loro orientamento le catene associative familiari, come una sorta di oggetto feticcio della vita familiare2 che malgrado tutto viene trasmesso da una generazione all'altra e il cui effetto patogeno è soprattutto il fatto di rinnovare un funzionamento segreto.
Bisogna perciò piuttosto soffermarsi sulla funzione che il segreto svolge nell'economia intrapsichica e interpersonale del soggetto e della famiglia.
Nelle dimensioni patologiche l'atto stesso del creare o perpetuare un segreto può tradursi in un sequestro attivo di aspetti o parti della vita emotiva individuale o familiare, che si tramanda trans-generazionalmente. E ciò che è patologico e patogeno è il funzionamento del sequestrare più che l'oggetto del segreto; il sottrarre qualcosa ad uno spazio potenziale ove può instaurarsi una reciprocità elaborativa tra l'Io e l'altro e tra l'Io e se stesso. In questo modo si perpetua la ripetizione traumatica delle conseguenze del primo evento e il tempo si ferma.
Si può inoltre assistere all'instaurarsi di un doppio registro rappresentativo i cui effetti più rilevanti riguardano l'identità del soggetto, dato che uno dei due è in relazione con il segreto e con la realtà sequestrata che esso rappresenta. La continua parallela convivenza di questi due registri dentro la famiglia e dentro il soggetto crea il perpetuarsi di uno stato di scissione difficilmente superabile perché un'integrazione presupporrebbe la possibilità per il soggetto di integrare un aspetto alienante e sequestrato che non appartiene alla sua storia e che egli non ha mai conosciuto personalmente.
I sintomi più gravi o talune manifestazioni psicosomatiche sono espressione del punto di incontro-scontro tra questi due registri, potendo rappresentare la soluzione paradossale per il toccarsi e vicendevole conoscersi di queste due strade parallele.
A volte però possiamo assistere nello scenario terapeutico alla comparsa di elementi presenti nei sogni di uno o di più membri della famiglia, che rappresentano una comunicazione diretta o indiretta attraverso cui il segreto torna a parlarci.
Trasmissione transgenerazionale e processi di identificazione
Naturalmente è evidente che il tema del transgenerazionale è strettamente legato al costituirsi dei processi di identificazione. In questo senso forse rimandare il transgenerazionale ai lavori sul negativo, a ciò che si organizza a partire da un vuoto o da una mancanza è importante, ma restrittivo.
Fin dal 1913, in un lavoro su La fantasia del capovolgimento delle generazioni, Ernest Jones parlava dell'identificazione del bambino con gli antenati e di come i genitori cerchino di <<plasmare il figlio ad incorporare in sé il carattere del nonno o della nonna>>. Così un nome tramandato da un nonno a un nipote, una tradizione, delle scelte professionali o una leggenda familiare possono funzionare al contempo come un elemento che contribuisce all'identità della persona e che aumenta l'unità e la forza di coesione del gruppo.
Ci rimangono aperti i quesiti di che rapporto ci sia tra l'identificazione con il genitore e quelle con l'antenato, se esse sono sovrapponibili, conflittuali, sintoniche o se invece attraverso le pieghe transgenerazionali si insinuino più spesso quegli aspetti scissi, denegati, che sono patologici e patogeni.
Cosa determina all'interno dell'economia psichica l'identificazione con un antenato mai visto o conosciuto solo attraverso la memoria degli altri?
Può essa mantenere il nome di identificazione? o questo è un processo del tutto peculiare?
H.Faimberg (1985) parla a questo proposito di identificazioni "mute e non udibili", che possono manifestarsi in un momento chiave del transfert e che diventano udibili solo se si svela la storia segreta del paziente.
Poiché questa identificazione è un tipo di legame tra le generazioni, l'identificazione stessa include necessariamente nella sua struttura degli elementi fondamentali della storia di quell'oggetto, sorgente di identificazione. Poiché, questo particolare processo identificatorio condensa una storia di più generazioni, almeno tre, la Faimberg (1985) lo definisce "telescopage generationnel" termine suggestivo per esprimere l'esperienza di vedere come vicino e presente, come se usassimo un telescopio, quello che è appartenuto a generazioni passate.
Indubbiamente tutti i fenomeni che ho citato nei paragrafi precedenti, quali il mito o il segreto o l'identificazione con un antenato3, entrano a far parte del processo identificatorio. Può esistere cioè qualcosa di organizzato nella nostra mente che non appartiene solo al corso della nostra vita.
A volte questo elemento o insieme di elementi sono, per riprendere la definizione di Laplanche, fisiologicamente impiantati ed è possibile per noi farli nostri, integrarli in una complessa operazione di riappropriazione.
A volte invece rimandano ad un violento processo di intromissione (Laplanche, 1987) o intrusione (Winnicott,1969) o colonizzazione (Meltzer, 1979) nella mente che viene così parassitata dall'interno. Spesso quello che si determina è il crearsi di un doppio registro interno e interattivo, come ben si comprende se si considerano gli effetti di un segreto familiare, capace di generare una precoce scissione tra aspetti accettati e accettabili, che vivono allo scoperto nella vita familiare e aspetti nascosti, scissi o negati che invece corrispondono al segreto.
La creazione di personalità con una identità duale o multipla può essere riferita a tali esperienze.
Il problema si fa rilevante quando la necessità di acquisire uno stato di autonomia e separatezza comporta un processo di disidentificazione o di trasformazione creativa delle precedenti identificazioni. Questo processo comporta una selezione, una trasformazione, forse un abbandono delle precedenti eredità fantasmatiche che abbiamo ricevuto dagli altri, specialmente dai nostri genitori.
Il lavoro su questi aspetti è complesso e difficile perché essi non sono corpi estranei che un chirurgo può isolare e rimuovere.
Se da una parte parassitano il soggetto e la vita di relazione, dall'altra sono costitutivi della sua identità e di quella della famiglia. Una loro elaborazione nel corso del processo analitico può equivalere pertanto ad una rinuncia ad aspetti vitali e ad una perdita di identità e imporrebbe un doppio lutto, quello di parti di sé e quello di parti del genitore o dell'antenato o della famiglia con cui la persistenza di queste problematiche funziona come legame potente.
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* Contributo presentato al Seminario Internazionale di Studi "Dinamiche intergenerazionali nello sviluppo e nella clinica", Napoli, 12-14 novembre 1993
1 Ricordo il caso di una consultazione di una signora che veniva da un'altra città. La signora rimasta vedova intorno ai 40 anni, isolata rispetto al resto della sua famiglia di origine, aveva sviluppato, accanto ad una vita professionale intellettualmente attiva, complessa e piena di successo, un'organizzazione delirante che la faceva sentire segretamente controllata attraverso qualunque linea telefonica esistesse nella sua città. L'impressione che ne ho tratto era che queste sue segrete costruzioni, che per altro non intaccavano il suo rendimento lavorativo, le servivano in fondo a riempire la sua vita affettiva, facendola sentire sempre in compagnia di qualcuno e impedendole una grave forma di depressione.
2 Racamier così lo definisce e voglio ricordare che la Greenacre dice qualcosa di simile per i segreti individuali.
3 Eiguer parla di identificazione con un oggetto transgenerazionale.
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