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PSYCHOMEDIA
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RELAZIONE GRUPPO<=>INDIVIDUO
Trasgressione e Reclusione
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Aids in carcere, identità in crisi.
Emozioni, malattia, diversità
di Carlo Valitutti
"Il fatto essenziale resta che è la malattia e non la salute
a manifestarsi come ciò che si oggettiva da sé
e che ci viene incontro, in breve ciò che ci invade."
Hans-Georg Gadamer
Il carcere rappresenta una comunità confinata che comporta essenzialmente una privazione di libertà come estremo rimedio, un luogo certo di pena ed un luogo estremo di cura. Il carcere viene considerato spesso come l'espressione del controllo sociale sulle condotte devianti, ma parlare di devianza significa anche aprire le porte al disturbo mentale, oltre ad implicare anche un concetto di giudizio morale. Devianza significa spesso indesiderabilità sociale, opposizione di fatto al codice morale ed alle convenzioni dominanti. Il concetto di devianza può essere dunque inteso anche in senso normativo: è una violazione di norme considerate giuste, sane, morali ed è quindi una violazione di interdizioni.
Quando si parla di normalità di una condotta ci si riferisce allora anche alla normatività che regola la vita della collettività, cioè all'insieme di regole che presiedono alla vita del gruppo sociale. E queste regole sono infinite: dalle leggi chiaramente enunciate dalla Costituzione fino alle regole più o meno esplicite ed accettate, più o meno interiorizzate nella coscienza individuale, e che articolano e controllano la convivenza ed i rapporti interpersonali, ed i rispettivi ruoli sociali. Trasgredire queste regole, che naturalmente evolvono anche nel tempo ma che sono ben presenti ed operanti nel modo di agire, di sentire e di pensare di ognuno di noi, significa introdurre una sorta di dissonanza nelle relazioni. E le persone che fanno questo diventano dei devianti, non stanno al gioco sociale, tradiscono le aspettative degli altri, si distaccano da una presunta conformità, legata quindi da un rapporto complementare ed inscindibile alla devianza.
Il deviante suscita ansietà nel gruppo sociale alle cui regole non si uniforma e che a sua volta può reagire tipicamente respingendo questo soggetto, stigmatizzandone la condotta i l'intera persona, emarginandola affettivamente o materialmente. La società prende cioè formalmente o informalmente una serie di provvedimenti, spesso di tipo punitivo, che mirano a riportare il deviante all'interno di un comportamento cosiddetto normale, od a neutralizzarne le azioni, o ad emarginarlo più o meno radicalmente dal gruppo degli individui normali.
Ma la prigione, come luogo fisico di limitazione, di argine, di separatezza, ripropone e rilancia evocativamente anche un altro tipo di prigione, quella del sintomo e dalla malattia, il vincolo a volte inestricabile dell'incapacità di elaborare e di accettare il proprio disagio dei vivere e di soffrire. E ciò che poi essenzialmente inquieta la coscienza é la possibile e temibile coesistenza di ragione e di follia, di apparente integrità intellettuale e rovinosa caduta della volontà e dei sentimenti, di autoconsapevolezza e smarrimento affettivo, di libertà della ragione e schiavitù delirante della passione. Il confine a volte sottile e spesso fuorviante di questa ambigua e perturbante duplicità sollecita allora un dubitare che può peraltro diventare uno strumento stesso di conoscenza. ma tutto questo non è affatto semplice.
Chi si occupa di salute e di malattia, coinvolgendosi inevitabilmente in una relazione di aiuto con l'altro, vive ed opera spesso in situazioni di crisi e destrutturazioni, di fratture sociali e culturali, di libertà simboliche e di costrizioni psicopatologiche, di speranze e di desideri, di sofferenza e di dolore. La consapevolezza di questa condizione, sia emotiva che situazionale, può rappresentare però un'opportunità terapeutica e conoscitiva, un'ideale e conflittuale punto di incontro tra il sistema sociale ed il circolo vizioso e drammatico della trasgressione e della follia, uno stimolo quindi alla riflessione, alla comprensione, alla ricerca.
Pre-occuparsi di salute e di malattia in carcere significa lavorare in un'area di confine e di reclusione emotiva, una sorta di territorio di frontiera che a volte non produce solo distanza e rigidità ma anche contiguità, vicinanza, condivisione.
Ma quali dilemmatiche vicinanze ed angosce evoca in carcere, e non solo in questo luogo di pena e di cura, una sindrome di immunodeficienza acquisita, soprattutto nella sua fase conclamata di ineluttabile e ingravescente progressività? Perché un'idea di morte fa tanta paura e suscita tante angosce?
L'esperienza della morte é radicalmente immersa nella condizione umana e nel suo significato esistenziale. La vita e la morte sono concetti antitetici e relazionali: non c'é vita senza la morte, mentre il vivere ed il morire sono concetti , e realtà, che sconfinano l'uno nell'altro. Il morire è come se facesse ancora parte del vivere, anche se é un vivere che si avvia verso la fine. Certamente si tratta di un evento che implica simbolicamente una depressione totale ed assoluta, una perdita di oggetti significativi ed emblematici come quella del proprio corpo e delle proprie capacità mentali, un vero e proprio annichilimento del sé. E' dunque l'evento terrifico che può riguardare ciascuno di noi, che richiede un necessario processo di elaborazione e comporta quasi inevitabilmente una sorta di rifiuto o di resistenza psicologica ad occuparsene.
In passato l'umanità ha dato sempre importanza all'assistenza emotiva del morente evitando di lasciarlo solo. Fino al secolo scorso la morte per malattia era quasi più accettabile per la sua frequenza; era quindi considerata come é, cioè un accadimento naturale, al quale tutti dovremmo essere preparati. Un tempo le principali tappe della vita andavano conquistate in una sorta di processo di iniziazione. Ora l'accesso a queste varie fasi e riti di passaggio è quasi diventato automatico, con il risultato di un doppio impoverimento. Da una parte il morire non é più un evento iniziatico, non é una trasformazione radicale, ma un semplice termine dell'essere. La nostra idea moderna della morte é come governata da una rappresentazione fuorviante e perversa: quella della macchina e del suo funzionamento. Una macchina funziona o non funziona. Inoltre la morte non è più preceduta o anticipata da esperienze che, fin dalla pubertà, la rappresentavano simbolicamente, quasi consacrandola e disponendo psicologicamente l'uomo a sperimentare in essa un aspetto positivo o acquisitivo.
La crescente medicalizzazione della vita -seppure inevitabile a causa del progresso delle conoscenze scientifiche - rinforza infine la comparsa del tabù della morte. La nostra è una società positiva, interessata alla produzione ed alla crescita della produzione. L'idea della morte, assolutamente naturale fino a poche generazioni fa, crea oggi imbarazzo e vergogna. L'uomo moderno sembra provare, di fronte alla morte, oltre al naturale dolore per la rinuncia alla propria vita, una nuova sofferenza legata a questo nuovo tabù. Morire è quasi vergognoso. Addirittura Baudrillard scrive " Parlare di morte fa ridere, di un riso forzato e osceno. Parlare di sesso non provoca più nemmeno questa reazione: il sesso é legale, solo la morte é pornografica" .
Un tempo c'era molta più considerazione per l'esigenza profonda di preparazione alla morte, e la cultura offriva spazio e rituali per armonizzare questo bisogno arcaico con i contenuti psichici coscienti. Innanzitutto la morte non era un fatto privato ma, come ogni evento ritualizzato, coinvolgeva l'intera collettività. Questo significava che la morte del singolo influiva sempre sui sentimenti del gruppo e viceversa. Le ultime parole del morente erano un insegnamento da scolpire nella memoria. " Anche i superflui si danno grande importanza quando muoiono " , dice Nietzsche. Grazie alla morte rituale anche il personaggio più povero e dipendente diventava qualcuno, diventava un maestro, e poteva finalmente dare qualcosa di unico e di irripetibile. La morte rituale donava e dispensava un'identità. La morte odierna trasforma invece in oggetti anonimi e quasi passivi della macchina sanitaria. Le recenti conquiste in campo medico hanno fatto pensare (ed illudere, forse) anche ad una sconfitta delle malattie mortali, e d'altro canto le acquisizioni del progresso in senso più ampio e generale hanno portato all'efficientismo e ad un bisogno illusorio di eterna giovinezza. E così la morte, come evento naturale delle cose, sembra quasi non poter avere più posto nei nostri pensieri. Anche perché spesso avviene lontano da casa, in una stanza di ospedale, fuori dal contesto familiare. Ma l'angoscia della morte, benché rimossa ed apparentemente cancellata dalla coscienza, sembra essere ancora viva ed operante.
Certo, viviamo in un'epoca storica che, con ogni strumento ed in ogni modo, tende a nascondere la morte, a eliminarla quasi dallo sguardo e dalla riflessione. Viviamo in un'epoca storica in cui non sembra più possibile portare a compimento e maturare ognuno la sua propria morte per consegnare alla vita il suo significato più profondo e radicale, come diceva Rilke. Oggi si muore in serie, si muore lontani dalla vita, si muore in ospedale e non nella propria casa. Ma questo tentativo di rimozione della morte, questo desiderio perverso di sfuggire alla sua stessa immagine, non é realmente consistente e non può rappresentare un'esperienza vissuta fino in fondo. La cancellazione della morte é dunque solo apparente e finisce così per trascinare con sé, più acuta e più straziante, un'angoscia della morte negata e senz'altro più inquietante ed ineliminabile dalla coscienza. Un'angoscia della morte che é tanto più temuta quanto più é mascherata ed ignorata.
L'AIDS obbliga ad un ripensamento ineludibile; la sua lunghezza e la sua inesorabilità ancora non sembrano sconfitte. La morte, l'idea della morte, diventa quindi un evento ingombrante, da negare. Eppure il morire é un processo che non può essere accettato psicologicamente se non con la progressiva, lacerante e dolorosa perdita del corpo e delle sue funzioni. Accettazione dolorosa che avviene anche nei parenti e che dovrebbe procedere congiuntamente al morente. Durante questo processo compaiono reazioni emotive diverse: rifiuto, rabbia, dubbi, paura, negazione, e con un'alternanza sofferta ed inevitabile. Chi si trova vicino a queste persone sembra quasi debba pre-occuparsi di uno scopo nuovo ed essenzialmente diverso: aiutare a morire e non a guarire. E questo rappresenta un problema reale da cui proprio noi terapeuti e curanti non possiamo prescindere.
Ma di contro alla realtà di questo problema, nella nostra società il malato spesso non può o non riesce a parlare liberamente delle sue angosce e dei suoi dolori nè con i medici, né con i familiari e quasi neanche con il sacerdote. I suoi problemi sono vissuti come non condivisibili, ed è quasi vietato verbalizzarli. Ma non possiamo non immaginare quanto sia profondamente doloroso e traumatizzante non poter dare un nome ai nostri sentimenti, alle nostre emozioni di dolore, di rabbia, di disperazione, di amore. Il morente é solo. Ed il processo del morire presenta forse delle particolarità specifiche per il malato di AIDS, in maniera più sensibile in carcere dove si finisce per vivere una doppia emarginazione, quella della trasgressione e della malattia, un doppio stigma che rende ancora più soli e più disperati.
In fondo i malati di AIDS sanno molto bene quanto accade; sapevano già da quando hanno fatto il primo test per la sieropositività. E contemporaneamente sanno anche di essere contagiosi. Il contagio li differenzia e li distingue, e l'orrore del contagio-morte é psicologico, oltrepassa i limiti della ragionevolezza creando anche una profonda ambivalenza in chi si occupa di questi pazienti. Si vorrebbe aiutarli ma suscitano orrore. Probabilmente fa parte di questa paura-desiderio anche la confusione e la non chiarezza con cui si percepisce la comunicazione dell'informazione pubblica riguardo la trasmissione della malattia: saliva, lacrime, alito (che viene poi sentito quasi come una presenza che emana morte). E ne sono un esempio ancora evidente purtroppo i bambini rifiutati a scuola o gli adulti sul posto di lavoro. La stessa pubblicità per combattere l'AIDS a volte non é pregnante, é vaga, generica o eccessivamente allarmista. Il problema quindi é complesso: quando assistiamo psicologicamente un malato di AIDS, oltre a fare attenzione alle nostre reazioni emotive, conseguenti inevitabilmente alle angosce di morte in noi suscitate, dobbiamo anche tenere presenti quelle angosce inerenti la paura del contagio e legate alla nostra stessa distruttività.
Un altro elemento specifico degli ammalati di AIDS è l'età; sono quasi per la totalità giovani, hanno poca vita alle spalle, poca nel senso di durata e poca nel senso di significato. I siero-positivi sono per la maggior parte dei tossicodipendenti, e di questi molti si trovano a scontare una pena in carcere..
Sono spesso dei falliti. Non hanno fatto nulla, hanno avuto o hanno dei legami affettivi precari, non lasciano eredità, e se la lasciano, un figlio, essa é drammatica e problematica, poiché il bambino può essere sieropositivo. Hanno un unico fardello, la loro pena e la loro sofferenza.
Ma anche di fronte a questa apparente impotenza per l'ineluttabilità di un destino di sofferenza e di morte non possiamo esimerci, come terapeuti e come curanti, di vedere o cercare la parte sana. Kernberg parla proprio della speranza, nel senso di credere in quella parte sana nascosta nella distruttività della malattia, che ogni essere umano ha e che il terapeuta non può non sostenere, e che anche in extremis il malato può utilizzare per realizzare qualcosa di importante.
Anche la situazione familiare dei tossicodipendenti malati di AIDS in carcere é spesso disastrata: la famiglia non li vuole, si vergogna, ora peggio che mai, il malato ne ha fatte passare di tutti i colori, è quasi meglio che muoia al più presto. Ma oltre alla solitudine familiare esiste anche quella sociale. La società li ha emarginati e stigmatizzati ripetutamente: perché tossicodipendenti, perché contagiosi, perché rei e trasgressori colpevoli. Inoltre il fatto che i malati di AIDS siano o siano stati dei tossicodipendenti pone il problema della loro struttura di personalità. La loro psicopatologia sottende aspetti di distruttività, di depressione, di perversione, di psicosi; sono quindi psicologicamente isolati e di difficile contatto. Raramente sono in grado di chiedere aiuto direttamente e spesso utilizzano la negazione come difesa dalla sofferenza di una morte prematura. Non usano verbalizzare e tendono ad esprimere con il concreto e con il passaggio all'atto (ad esempio con l'autolesionismo), e non con le parole, i loro dolorosi vissuti interiori.
Allora il desiderio di negazione e di indifferenza, fantasma perturbante e spesso presente quando ci si avvicina all'apparente "estraneità" della malattia, sembra costituire appunto una difesa di fronte alla fatica ed alla difficoltà di un impegno necessario e sostanzialmente diverso. Ecco dunque come un'emozione disponibile ed un pensiero reattivo diventano gli "strumenti" più importanti del terapeuta impegnato in una relazione di aiuto con l'altro, il diverso, il malato. Un'area irrinunciabile di impegno e di confronto é proprio quella legata al riconoscimento ed alla convalida delle qualità personali, del calore essenziale dell'essere "persona".
All'interno del carcere, ma anche al di fuori delle sue mura, diventa importante e quasi prioritario quindi sviluppare un'attenzione per l'altro che vive dentro di noi e per l'altro che vive fuori di noi. Essere consapevoli e scoprire in se stessi la presenza di valori confliggenti significa poter accedere più semplicemente all'altro, riuscire a cogliere l'identità e la differenza rispetto all'altro, realizzare quindi dentro di sé una propria complessità e multidimensionalità. E lo stesso lavoro multidisciplinare, così importante a volte e ineludibile soprattutto in carcere e nell'ambito della salute mentale, non può essere mai soltanto consensuale, non può e non deve creare unicamente alleanze. Piuttosto, ma solo con un fine più fecondo e creativo, e forse attraverso conflittualità e collisione, deve produrre dubbio, riflessione ed esercizio critico, e mai collusione.
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