Lacan era intuizionista?Antonello SciacchitanoAlcune premesse L’improbabile interesse per il quiz si appiglia ai due significanti della domanda-titolo di questo testo. Il primo perché lo giustifica di fronte all’uso selvaggio del pensiero del maestro da parte di scuole e scuolette lacaniane, ciascuna votata alla causa persa dell’autenticità e dell’ortodossia. (Per non parlare delle loro immagini speculari, le scuole dove si insegna a pentirsi del lacanismo come peccato di gioventù). Il nostro interesse non è lì, però. Noi preferiamo indagare su come si colloca la produzione di questo singolare analista nel panorama culturale contemporaneo. In un certo senso, il secondo significante, intuizionismo, ci acchiappa ancora di più per motivi non solo storici ma strutturali, riguardanti cioè la configurazione dell’apporto lacaniano nelle sue affinità e divergenze rispetto a campi teorici contigui alla psicanalisi. Uno di questi è il cosiddetto - infelicemente - intuizionismo,1 assiomatizzato a più riprese da Heyting, Kleene e Gentzen e semantizzato da Jaskowski e Kripke. In proposito, senza entrare in eccessivi tecnicismi, va detto che, venuta meno, grazie al teorema di incompletezza di Gödel, la presa ideologica del contrasto tra le scuole formalistica di Hilbert e intuizionista di Brouwer, l’intuizionismo si è rivelato per quel che era. Non tanto la logica dell’atto matematico, la cui forza creatrice ex nihilo Brouwer contrapponeva all’essenza platonica extratemporale degli enti matematici, ma una “semplice” matematica tra le tante, ben riconoscibile per il suo stile. Si tratta, infatti, di una particolare forma di matematica che vuole, fortemente vuole, l’indebolimento del gioco binario del vero e del falso (intesi classicamente come immagine involutoria l’uno dell’altro) e che, pertanto, meglio di altre si presta a matematizzare il sapere matematico stesso (e, secondo noi, anche quello analitico), fotografandolo nell’atto di circoscrivere quel particolare oggetto, difficile da cogliere e controllare mediante rappresentazioni ideali aprioristiche ed esaustive, un oggetto unübersichtlich [letteralmente: non perfettamente visibile, non perspicuo; quindi, non del tutto chiaro perché complicato] si direbbe con parola tedesca intraducibile, e cioè l’infinito, l’oggetto matematico per eccellenza. La matematica intuizionistica à la Brouwer è oggi particolarmente vitale (né più né meno della matematica formalistica à la Hilbert con cui si integra in un programma costruttivista allargato). Citiamo alcuni esempi, importanti per noi perché cadono in un decennio importante e fecondo per l’elaborazione lacaniana. Gödel (1958) dimostra la coerenza dell’aritmetica intuizionista del primo ordine (da un finitem Standpunkt, da un punto di vista finitista)i. Spector (1962) estende il risultato all’analisi intuizionista. Risultati di spicco, impensabili nella matematica classica. Fitting (1969) incorpora nell’intuizionismo il forcing, semplificando l’armamentario con cui Cohen crea oggetti generici e dimostra l’indipendenza della congettura cantoriana del continuo dal resto della teoria degli insiemiii. Tutto ciò dimostra che, una volta decantato dalla premessa filosofica che concepisce la matematica come attività alinguistica, supposta in presa diretta sul reale, l’intuizionismo ha qualcosa di valido da dire a chi si interessa di problemi fondazionali dell’infinito. Come psicanalisti il nostro interesse per questa logica nasce in modo naturale dai problemi posti da Freud (1938) nella sua Analisi finita e infinita (e non terminabile e interminabile come si continua a leggere). I quali riguardano la particolare esperienza che in analisi il parlante fa di quel particolare infinito non numerico (ma numerabile) che è il linguaggio. Tuttavia, poiché non siamo matematici di professione, ma solo dilettanti, non poniamo la questione dell’intuizionismo nella sua generalità, per es. come candidato alla fondazione di un’epistemologia psicanalitica non necessariamente scientifica (del resto ogni epistemologia, essendo un’opzione filosofica, non è scientifica) - non alla Popper, per intenderci -, ma in riferimento alla singolare vicenda intellettuale di un particolare soggetto, il dottor Lacan, che a più riprese arrivò alle sacre soglie intuizioniste senza mai varcarle. Ma non sarà storico-filologico il nostro lavoro. La rigorizzazione della tesi di Lacan, che per ora è solo simpatica e, scientificamente parlando, forse anche un po’ truccata, può essere rimandata a dopo. Quando avremo dimostrato che, seppure Lacan era intuizionista, lo era inconsciamente, nel senso da lui stesso dato alla parola, cioè, (non) senza sapere di saperlo. In effetti, in prima battuta, sembrerebbe che con la sua teoria del soggetto del desiderio come effetto effimero del linguaggio Lacan sia molto lontano dall’atto che - afferma Brouwer nel suo modo involuto di esprimersi - fonda l’intuizione basilare della matematica in quanto attività extralinguistica che coglie la duità come momento di separazione vitale e, spogliatala da tutte le qualità, ne conserva la forma vuota nella memoria. Tuttavia, le tipiche formule lacaniane di indebolimento delle certezze binarie, per lo più esistenziali negative, dal non esiste metalinguaggio al non esiste rapporto sessuale, depongono per una sua chiara presa di posizione epistemica di marca intuizionista. Un atto, il suo, che, se non è una libera scelta nel senso brouweriano del termine (Sciacchitano 1995), individua il nucleo della questione intuizionista nel tentativo di introdurre un’asimmetria tra affermazione e negazione. Sapendo bene quanto le metafore siano per lo più oscuranti, ne useremo, tuttavia, una, meno per chiarire il concetto quanto per agganciare il senso della performance lacaniana ad un’altra forse ancora più decisiva per la psicanalisi: quella di Freud stesso. Scienza ebraica, si diceva della psicanalisi, un tempo, e ancora oggi si sussurra. Scienza ebraica sì, ma non perché Freud fosse ebreo. Scienza ebraica perché Freud affrontò la questione che solo l’ebraismo, tra le religioni del libro, seppe mantenere nel fuoco della sua riflessione senza cedere alla tentazione di semplificarla, come il cattolicesimo, o renderla astratta, come l’islamismo: la questione del padre. Così Lacan sarà dimostrato intuizionista meno perché ha assistito alle lezioni berlinesi di Brouwer e più perché si è inserito in una tradizione di riflessione sulla funzione del sapere in atto, che risale agli Stoici e attraverso Cartesio e Spinoza, conservando una sua singolarità che l’ha tenuta distinta dalla riflessione ontologica ed ermeneutica, giunge alla Vienna di Wittgenstein e Freud, passando proprio per Brouwer. È il fatto stesso di avere una posizione epistemica precisa (e chi lavora a contatto con il sapere inconscio non può non averne una) che forza l’analista, volente o no, che lo sappia o no, a interagire, a distanza più o meno ravvicinata, con l’intuizionismo. Nel senso che, per lo meno, lo distanzia dalla logica classica e dal suo binarismo che ospitano male considerazioni epistemiche. Le quali possono facilmente debordare da un quadro di riferimento di certezze in bianco e nero, assumendo tutta una varietà di forme terze, che vanno dal sapere all’ignoranza attraverso tutte le combinazioni epistemiche degli operatori di certezza e dubbio, porgendo la certezza del dubbio, il dubbio della certezza, il dubbio del dubbio, la certezza della certezza nonché l’ignoranza del dubbio, il dubbio dell’ignoranza e così via. Le forme terze, invece, si possono trattare bene in ambito logico intuizionista, dove l’accantonamento del principio del terzo escluso sgombra il campo da ogni ingenua, nonché contraddittoria, supposizione di onniscienza in chicchessia - dall’altro a Dio - il quale, per ogni enunciato, anche quello che afferma la propria falsità, saprebbe decidere se è vero o falso. Sospendendo la dicotomia vero/falso, l’intuizionismo, infatti, lascia spazio a ipotesi epistemiche meno totalitarie e più realistiche. In secondo luogo, la tipica incompletezza sintattica del sistema intuizionista, secondo cui assumere la verità di una tesi non significa, come vuole la più pura intolleranza binaria, o produrre teoremi o collassare nella contraddizione, ci si presenta come condizione favorevole a un’epistemologia soft del sapere inconscio. La possibilità di arricchirlo indefinitamente di nuovi assiomi (per es. come fantasmi), senza introdurvi necessariamente contraddizioni, consente di concepire modelli intuizionisti dell’inconscio come sistemi aperti di operatori epistemici (ognuno dei quali applica l’insieme delle formule ben formate in qualche tesi classica non intuizionistav), come sistemi, cioè, che non si possono mai prendere in mano tutti in una volta e classificarli una volta per tutte in qualche volume di enciclopedia. Ma, come detto, non svilupperemo questo punto interessante che riguarda la natura irriducibilmente impredicativa, asimmetrica e intransitiva dell’inconscio, il quale risulta perciò più simile ad una classe propria (cioè non classificabile come elemento di un’altra classe) che ad un insieme (che, invece, è elemento di un altro insieme), secondo la terminologia di von Neumann. Sottolineiamo, invece, un dettaglio interessante per il seguito e, cioè, che la negazione, classicamente concepita come falsificazione, in quanto trasforma il vero in falso e il falso in vero, in ambito intuizionista assume un significato particolare molto vicino a quello analitico secondo cui il falso non è il solo modo di negare il vero. Infatti, in analisi il vero si può rinnegare, rigettare, rimuovere ecc.... pur rimanendo innegabilmente vero. Corrispondentemente, in analisi il sapere non si può negare anche quando lo si afferma in forma negata, cioè inconscia, ossia come non sapere di sapere. In contesto intuizionista negare, prima che oscillazione reversibile - ma di corto respiro - tra due posizioni situate allo stesso livello epistemico, il vero e il falso, obbliga il soggetto a salire di un livello logico dove la negazione diventa la necessità logica di negare2. In un certo senso, reintroducendo la metalogica nella logica, Brouwer fissa nell’assurdità il nucleo epistemico, o contenuto di sapere, della negazione. È ovvio che in siffatto approccio teorico diventa insostenibile la validità universale del principio del terzo escluso, per es. in universi infiniti. Meno ovvio che possa chiarire la questione della sessuazione. In verità, l’esclusione dell’esclusione del terzo porta al risultato paradossale che i sessi non risultano più di due ma, semmai, poco meno, senza ridursi necessariamente ad uno, come, a partire dall’unicità del rappresentante fallico, è portata a credere l’omosessualità, soprattutto maschile. Qui assume un senso possibile la nostra domanda. Come arriva, se arriva, Lacan all’intuizionismo? Non certo a partire da problemi di fondazione epistemologica del discorso analitico ma dalla questione più banale, ma anche più piccante e meno eludibile per il soggetto, della sessuazione. I sessi non sono due, sembra dire Lacan nella conferenza del 3 marzo 1972, nel ciclo tenuto a S. Anna, in contemporanea al seminario ...ou pire, intitolato Il sapere dello psicanalista (di cui qui commenteremo un testo purtroppo ancora inedito), riferendosi polemicamente all’autrice di un libro di culto, intitolato appunto Il secondo sesso. Dal momento in cui entra in funzione il linguaggio non c’è secondo sesso. Tanto meno terzo. Per l’essere parlante c’è solo eterosessualità, cioè la possibilità per qualcuno (non per tutti) di amare le donne, con tutto ciò che la cosa comporta di tragico. (Digressione – eventualmente non pubblicabile nonché intraducibile - sui rapporti tra omosessualità e regime binario. L’omosessualità, tipicamente quella maschile, resta confinata ad un campo, quello dell’Uno, inteso come totalità in estensione, che per essere mitico non è meno intensamente coltivato da tutte le ideologie normalizzanti, per affermare l’uno e negare l’Altro. Le stesse vi attingono i modi più efficienti di alienazione sociale dei processi produttivi, compresi quelli generazionali, formativi ed educativi, in nome dell’appartenenza del simile / esclusione del diverso in nome di qualche, per lo più arbitrario, sistema unitario di valori. L’omosessualità, che piace e compiace al potere, fiorisce nel campo definito da quel binarismo intransigente che impone l’assioma della complementarità dei sessi (secondo il mito aristofanesco, insomma, secondo cui ciascuno cerca la complementarietà nell’altro di cui manca) come punto di partenza di ogni pensiero “politicamente corretto”. L’omosessualità è l’uno, l’eterosessualità, l’altro. La prima siamo noi, buoni, la seconda sono gli altri, cattivi. Seguono tutte le dicotomie che allietano la nostra convivenza civile: dentro e fuori, appartenente e non appartenente, comunitario e extracomunitario, attraverso cui l’ideale al potere si impone paranoicamente alle masse, avocando a sé tutto il buono e evacuando fuori di sé tutto il cattivo. La tesi con cui l’analista liquida la generica omosessualità socialmente diffusa e favorita è che, se i sessi sono due e complementari (magari ciascuno con una propria omosessualità!), sono uno solo, riguardante l’animale e non l’essere parlante. Il quale per la propria sessualità pretende la riapertura del discorso dell’Uno, sostenendo, specie sul versante femminile, di avere diritto all’Uno, sì, ma con un supplemento (o, meglio, con un deplemento). Il termine filosoficamente congruo è supplemento d’anima, che può essere sottoscritto anche da chi, come lo psicanalista, ha smesso di credere all’esistenza di Psiche. Fine della digressione). Il passo inaugurale della logica che disarticola la negazione dalla complementazione binaria fu compiuto, nel 1925, da Sigmund Freud. In fondo, come vedremo, Lacan non fa che qualche passo in più sulla strada aperta da Freud. Immediatamente, l’idea fu recepita meglio in ambito extra-analitico che tra gli allievi di Freud. Johansson (1937) costruì una logica, oggi detta minimale, dove ogni enunciazione falsa non implica nulla3iii. In particolare, la non contraddizione vale solo come principio astratto che non esclude le singole contraddizioni locali, come buono/cattivo, nero/bianco ecc. esattamente come nel vocabolario di una lingua convivono i termini opposti. Ma Freud inaugurò ben più di una logica senza contraddizione, diversamente da quel che pensava Matte Blanco (1981). In Freud il falso, non meno del vero, implica la responsabilità del soggetto. Solo diversamente dal vero. Nella sua nota tesi, esposta nell’articolo su La negazione, Freud (1925, p. 193) sostiene che il significante della negazione non nega l’enunciato oggettivo ma segnala il passaggio soggettivo dell’enunciazione attraverso la barriera della rimozione. Si riallaccia così ad una tradizione epistemica che, dagli antecedenti Stoici, viene pienamente alla luce solo con l’etica di Spinoza. È la tradizione, squisitamente etica, che, intendendo il falso come non saputo o saputo in modo deficitario, fa giocare la responsabilità del soggetto nei confronti del proprio sapere, estendendola addirittura alla propria ignoranza. Si tratta di una concezione non estranea all’intuizionismo di Brouwer, che considera il sapere della verità come non cancellabile (acquisito), diversamente da quello della falsità che, in quanto provvisorio, viene considerato cancellabile parzialmente (cioè, non definitivamente acquisito, perché il falso è solo un vero confuso e difettoso, alla Spinoza). Pertanto, il corrispondente sistema logistico recepisce a metà il dettato classico. Trascrive la verità della negazione (V?X) come falsità dell’affermazione (FX), come vuole la logica aristotelica, ma, a differenza di quella, trascrive la falsità della negazione (F?X) come verità dell’affermazione (VX), a patto di cancellare tutto il sapere sull’esito di altre falsificazioni possibili nello stesso stato (o mondo) epistemico. Le quali allora scompaiono dall’albero deduttivo. Con una conseguenza interessante che riguarda lo statuto della negazione che ora vale solo fino a prova contraria. La quale può venire a presentarci il conto in uno dei successivi, magari l’(n+1)-esimo, stato epistemico. Solo questione di prudenza nel condurre la dimostrazione? No, anche un modo per far giocare la responsabilità del soggetto nello scegliere la “giusta” negazione del falso da trasformare in vero. Risultato: la dimostrazione matematica, condotta in modo intuizionista, non è più quel procedimento meccanico di applicazione di formule stereotipe che conosciamo dalla scuola ma, poco o tanto, contiene sempre qualcosa della performance, dell’atto creativo. Lacan riprende tale tradizione epistemica, proponendo di interpretare freudianamente la funzione della negazione come ciò che, nell’enunciato, va al di là dell’enunciazione. Un tratto che il modello intuizionista realizza come rimando metonimico all’enunciazione successiva o allo stato epistemico seguente. (Il sapere intuizionista non sta tutto in un mondo ma si distribuisce su più mondi). Un tratto, quello dell’eccesso (o dell’eccedenza), che la negazione eredita dalla funzione fallica. La quale è di per sé eccessiva e porta sempre al di là del significato sessuale, ostacolando addirittura il rapporto stesso con la sua sfrontata egemonia su ogni atto di significazione che viene forzata a ripetere sempre la stessa “cosa”. Nella conferenza citata, Lacan enuncia il suo programma con buona dose di ingenuità, conformemente alla gigioneria del suo personaggio. È chiaro che se uso una formulazione la quale ha fatto irruzione in logica dalle matematiche (sempre benvenuto questo plurale!), ciò non vuol dire che me ne serva esattamente allo stesso modo. L’ingenuità è immaginare di potersi servire dei significanti a proprio piacimento schivandone gli effetti di alienazione. Detto da chi insegnava la soggezione del soggetto al significante, fa per lo meno sorridere. Non ci sarà difficile, applicando Lacan a se stesso, dimostrare che, tentando un uso improprio dei significanti matematici, con la lodevole intenzione di porgerne la verità, non fa altro che un uso proprio degli stessi, cioè si fa propriamente usare (come del resto ogni buon matematico). Conclusione Il quadrato lacaniano è ben noto. Volutamente ricalcato per metà sull’aristotelico, se ne differenzia per l’altra metà. Metà? Quale metà? In ossequio ai suoi modelli retorici che privilegiano il chiasmo, i quali sin dalle sue prime elucubrazioni lo portano a privilegiare teorie “contorte”, dove spadroneggiano le doppie inversioni (si vedano, per esempio, le doppie inversioni immaginarie e simboliche nello schema L disegnato come nastro di Möbius) e le diagonalizzazioni, la metà che Lacan presceglie dal quadrato aristotelico è quella diagonale delle due enunciazioni, dette dalla scolastica contraddittorie: la particolare negativa e l’universale affermativa. Nell’illustrare le due formule Lacan mostra che rientrano in quella tradizione logica di pensiero maschile, modernamente recepita nella moderna teoria degli insiemi. I quali, considerati in estensione, sono sempre e solo sottoinsiemi. Infatti, un insieme è tale se qualcosa resta fuori. Non dimentichiamo, però, che il discorso non è fatto in astratto ma in rapporto ad una particolare “funzione proposizionale”, la funzione fallica, intesa meno in termini russelliani che edipici. La prima colonna della tabella si scrive allora così:
Tradotto in chiaro il discorso significa: tutti gli esseri parlanti (?x) sono argomenti della funzione fallica (?x), o come la pensa quel precoce intellettuale che è il bambino maschio, tutti sono dotati di fallo: ?x.?x. La correzione apportata da Freud alla teoria sessuale infantile è che almeno uno, nella fattispecie il padre primitivo dell’orda, non è soggetto alla funzione fallica in quanto la nega, ossia va al di là di essa. Esiste uno che dice no alla funzione fallica (?x.??x), precisa Lacan nel testo commentato. Freud dipinge miticamente il superamento della funzione fallica da parte del padre primitivo con il possesso di tutte le donne e la costrizione dei fratelli all’omosessualità. Lo stesso discorso, svolto in termini immaginari, per esempio dal maschietto al tramonto del complesso edipico, con rassegnazione patetica recita: tutti sono castrati, tranne lui, il padre. A livello simbolico, avviene per la castrazione come per qualunque sottoinsieme. Tutti i suoi elementi gli appartengono, tranne quelli che non gli appartengono. Il truismo ammonisce che pensare un insieme che contenga tutto e non lasci fuori nulla conduce all’antinomia cantoriana dell’insieme totale. L’eccezione che sta fuori, qui il padre, normalizza il discorso. A volte, non del tutto a torto, si parla del mito freudiano dell’Edipo come incarnazione della funzione normalizzatrice della soggettività. Qui precisiamo che si tratta della norma maschile (o religiosa), quella che fonda i bastioni della civiltà e il suo disagio: tutti uguali rispetto ad un punto ideale che sta fuori e a cui, secondo la mitologia freudiana, tutto si sacrifica a partire dalla soddisfazione pulsionale, ieri al monarca, oggi alla Legge. E l’altra metà del quadrato cosa dice di nuovo? Tutto e niente. Niente perché consiste nella duplicazione della prima. Tutto perché si tratta di una sua particolare trascrizione, non esattamente conforme all’originale. La duplicazione, se si vuole, è un chiasmo applicato a se stesso. In quanto tale rientra nelle figure retoriche amate da Lacan. Ma non è questo il punto. Il problema è che Lacan, non sapremo mai perché, lascia fuori dal discorso sulla sessuazione l’universale negativa (??x.?x: non esiste uno che sia castrato) e la particolare affermativa (?x.?x: esiste almeno uno che è castrato). Fissato a una sua idea di trattare la sessuazione in termini universali, come finora il senso comune filosofico aveva tentato di porre la questione della morte (chi non ricorda dai banchi di scuola il sillogismo che cominciava con tutti gli uomini sono mortali?), probabilmente Lacan tratta anche la negazione come quantificatore universale. A quel punto, per uscire dal riferimento aristotelico, che non consente di trattare il caso del soggetto vuoto4 invece di completare il quadrato di Aristotele, raddoppia il rettangolo “maschile” nel “femminile” (forse anche per rispettare l’“errore” freudiano di una sola libido, maschile). In effetti, ottiene il secondo dal primo in tre mosse: la prima è quella tipicamente lacaniana del capovolgimento e le altre due, sottolineiamolo, sono affatto antiintuizioniste: la doppia sostituzione del per ogni con il non esiste uno che non e dell’esiste con il non per ogni non e la cancellazione della doppie negazioni così introdotte. Il risultato completo si legge nella tabella:
dove la prima colonna a sinistra rappresenta il versante maschile della sessuazione, l’ultima a destra il femminile e le intermedie le transizioni logiche dall’uno all’altro. Abbiamo segnalato con asterisco i passaggi non intuizionisti, dipendenti dal principio del terzo escluso. A questo punto la nostra tesi di Lacan intuizionista sembra crollata. Il passaggio dalla sessuazione maschile a quella femminile richiede comunque l’applicazione del principio del terzo escluso. Tutto da rifare, allora? Forse no. Uno sguardo superficiale a formule, che dovrebbero immediatamente apparire autocontraddittorie, non solo in senso verticale, come si sapeva già, ma, ora, anche orizzontale, dovrebbe far escludere a chiunque riconosca in ? il simbolo bourbakista della negazione (nel senso di è falso che) che si tratti di una suddivisione estensionale del campo dei parlanti. Si tratta, allora, della suddivisione vuota? Non proprio. Intensionale, allora? Concediamoci un attimo di riflessione prima di decidere. Nello scritto di poco successivo, L’étourdit, Lacan (1973, p. 22) lo dice: la scrittura delle formule della sessuazione femminile (??x.??x e ??x.?x) non è usuale in matematica. Non è esatto. Nelle note e nelle osservazioni, più che nella formulazioni dei teoremi, il matematico si lascia volentieri andare a considerazioni sulla non esistenza di oggetti che non soddisfano certe proprietà o sulla non validità generale di certe asserzioni. D’altra parte proprio Brouwer nel 1949 dimostrò un teorema sul continuo pieno, formulato in termini di non tutti: non per tutti gli x vale che, se x è diverso da 0, allora o x è maggiore di zero o x è minore di 0. È questo l’auspicato ingresso dei modi logici femminili in matematica? Bisognerebbe interrogare Sophie Germaine che corrispondeva con Gauss di teoria dei numeri (su un particolarissimo caso in cui l’equazione di Fermat non vale) sotto lo pseudonimo di M. Le Blanc, temendo il ridicolo inevitabilmente associato alla condizione di donna studiosa. E se fosse vero il contrario: che i modi femminili, essendo particolaristici, sono essenzialmente antimatematici? Inutile dirlo. Gli argomenti controfattuali non sono il forte del matematico. Perciò stoppiamo qui il discorso. Commentando le sue formule del “femminile”, Lacan introduce la nozione di non tutto, come ciò che va al di là del tutto, un universale più universale dell’universale, rispetto al quale nulla sta fuori (ex-siste) e che per ciò non può essere definito concettualmente come un tutto. In effetti, il non tutto è un tutto carente di perimetro e di unità estensionale. È “dato” dall’aggregazione dei suoi elementi, le unità elementari, ma esso stesso non è riducibile ad elemento di altri universali. Questo sarebbe l’universale che si addice all’altro sesso, definitivamente eterosessuale perché rimane sempre altro rispetto ad ogni possibile presa concettuale, quella della castrazione compresa. Affermare che non tutte le donne sono castrate (??x.?x), benché prese una per una non esista una che non lo sia (??x.??x), è un paradosso più apparente che reale. Appartiene alla serie dei paradossi dell’infinito di cui Bolzano scrisse ma non pubblicò. I logici, per esempio, sanno bene che una teoria può essere consistente per ogni singolo enunciato senza essere globalmente consistente. Per quanto riguarda la femminilità, a cui Lacan applica la nozione di non tutto, tutto ciò significa che la castrazione, come qualunque altra proprietà, per quanto potente, per quanto vada oltre le proprietà collettivizzanti, come le chiama Bourbaki (e la castrazione è una di queste), per quanto sia vera per ogni donna, considerata una per una, non definisce la femminilità come genere, ossia come totalità dotata di unità. In quanto tale (in quanto tale non si può dire perché implica l’unificazione, tuttavia...), in quanto tale la femminilità risulta irriducibile a qualunque schema di appartenenza o alla conformità a qualche ideale. Metaforicamente parlando, la femminilità può solo contenere ma non essere contenuta. Con von Neumann diciamo che è una classe propria, non un insieme. Per questa e altre meno nobili ragioni la civiltà forza volentieri la femminilità nei suoi schemi, primariamente, in quello materno, perché con la sua universalità selvaggia e “laica”, irriducibile a codice o a rito, non comprometta la sacralità dei suoi contenitori istituzionali i quali, come tutti sanno, sono fortemente limitati anche quando sono illuminati e liberali. Infatti, sono insiemi, non classi proprie. Sofocle drammatizzò il conflitto tra i due universali, maschile e femminile, nello scontro tra i personaggi di Creonte e Antigone. Oggi, più banalmente, il controllo della femminilità, affinché si conformi alla norma sociale, è affidato alla psicoterapia. I risultati, per la verità, sono incerti. Tutto dipende da come quest’ultima se la caverà con l’anoressia. (Ma l’analista fa il tifo per l’anoressia. Certe sbobbe psicoterapeutiche sono realmente vomitevoli. Rivendichiamo il diritto all’anoressia). A livello logico astratto (astratto non è una parolaccia!) la contrapposizione tra le due forme di universali si riduce all’alternativa tra classi che non appartengono a classi (le classi proprie) e insiemi che appartengono a classi. La formalizzazione della teoria degli insiemi, dove la suddetta distinzione viene articolata, fu proposta da von Neumann ed elaborata da Gödel e Bernays. Dal punto di vista della sessuazione essa è senz’altro più soddisfacente delle acrobazie tentate da Lacan sul filo della negazione freudiana (per quanto sorrette dall’asta di equilibrio della distinzione tra le due particelle greche di negazione: ou per la negazione oggettiva e me per la soggettiva). Da una parte, le classi proprie sono il modo positivo di dire il non tutto e di affermare la femminilità in quanto ha di non affermabile. Dall’altra, gli insiemi, molto più facili da trattare e da secoli frequentati dalla logica e dalla politica occidentali, continueranno a incarnare il maschile, con la loro vocazione al trascendente (all’esterno), appena mascherata da una parvenza di democrazia all’interno. Con l’avvertenza doverosa che la contrapposizione tra i due modi di universalizzazione non esiste perché, ove facessero coppia, allora si verificherebbe il caso di una classe propria che costituirebbe l’elemento di una coppia, cioè di un insieme, il che è contrario allo spirito della sua “definizione”. Concludiamo rapidamente. Che rapporto si può instaurare tra le due colonne di destra e di sinistra del quadrato lacaniano, dove ogni termine rappresenta la negazione del termine omologo che sta sulla stessa linea, esattamente come A e non A? Un rapporto sessuale pare escluso, essendo le due colonne travestimento dello stesso sesso. Nella conferenza che stiamo commentando, Lacan si avventura in considerazioni di logica simbolica, forte di poche nozioni apprese studiando Frege, della cui Ideografia era affascinato. E, con il coraggio dell’ignoranza, osa affermare che tra destra e sinistra nella tabella, come tra la destra e la sinistra speculari, non ci può essere rapporto né di congiunzione, né di disgiunzione né di implicazione. Dei forti invochiamo la calma. L’affermazione di Lacan è valida per congiunzione e implicazione. In logica classica, o meglio binaria, la congiunzione A et non A, come l’implicazione A seq non A, non sono tesi logiche. Ma la disgiunzione sì. A vel non A è una tesi classica famosa, ben valida. È il noto principio del terzo escluso. Allora, cosa vuol dire Lacan quando afferma che nel suo quadrato non vale la disgiunzione? La risposta, alla fine dell’argomentazione, è quasi scontata. Vuol dire che il quadrato lacaniano non è aristotelico ma al più intuizionista. Infatti, solo in logiche come l’intuizionista, o più deboli, non vale in generale che A vel non A sia vero. (In effetti, il terzo escluso vale incondizionatamente solo per logiche definite su universi finiti). Le conferme alla tesi che Lacan fosse da sempre su posizioni intuizioniste, nonostante “trasgressioni” transitorie (come quelle sopra segnalate, che non sono le sole), si possono ricavare ex post da tutto il curriculum intellettuale dell’uomo. Per quel che vale, ne citiamo una per tutte: la sua concezione tridimensionale del registro simbolico. Il quale fa giocare la “tridimensionalità” due volte. Il registro simbolico è terzo tra i due attori del rapporto narcisistico, l’io e la sua immagine speculare. In quanto terzo, il simbolico (sup)porta la legge paterna che separa la madre dal figlio, la legge dai maschietti interpretata come legge di castrazione. Ma il registro simbolico è terzo anche rispetto a se stesso. Infatti, in quanto registro linguistico è formato dalla contrapposizione di elementi, i significanti. Madre di ogni contrapposizione significante è, però, l’articolazione binaria della presenza e dell’assenza. Qui si ferma la logica classica. Qui si assesta la sua ultima incarnazione, l’informatica. L’intuizionismo lacaniano fa un passo avanti. Contestualizza la presenza-assenza nel registro dell’appello (cfr. Lacan 1996, p. 67). L’appello invoca il terzo che coordini a sé assenza (dell’oggetto) e presenza (del soggetto). Se non mancherà la risposta alla chiamata dell’Altro, l’azione del terzo si manifesterà con un effetto “negativo” tipico: il rovesciamento dell’assenza dell’oggetto in mancanza, che precede ogni perdita, e la metamorfosi della presenza del soggetto in materia evanescente, una sovversione che batte sul tempo ogni nichilismo. Perciò il simbolico regge le vicende pulsionali nelle loro varie vicissitudini che risuonano tanto più strane all’ascolto non analitico quanto meno biologicamente e quanto più linguisticamente strutturate si dimostrano. Ma non è il caso di procedere oltre. Ci basta aver segnalato un modo per reinterpretare la laicità della pratica analitica come inclusione nella sua logica della funzione del terzo. Un modo realizzato in matematica da Brouwer e in analisi da Lacan. 1 Nome meno fondato sull’ideologia brouweriana, che concepiva la matematica come attività alinguistica della mente intuente (cfr. Brouwer 1983, p. 30), sarebbe infinitismo. Infatti, contrariamente a Hilbert che voleva fondare l’infinito sul finito, Brouwer fondava il finito sull’infinito numerabile (come già Kronecker, del resto). Inoltre, Gödel (1932) aveva dimostrato che nessun sistema polivalente finito è adatto alla logica intuizionista) e Kripke (1965) ne ha esibito un modello effettivo a più mondi tra cui vige una relazione di preordine [in effetti, un modello a più mondi non esclude il caso che i mondi siano infiniti. Il più di uno non implica l’infinito, ma neppure lo esclude; tertium datur.] Tuttavia, infinitismo sarebbe un’ingenuità. Infatti, l’infinito è l’oggetto della matematica di tutti i tempi. Implicito nella matematica euclidea classica, esplicito in quella non euclidea moderna (cfr. Casari 1997, p. 22). 2 Le difficoltà poste dalla negazione sono in parte trasposizioni di quelle che si incontrano nella questione dell’infinito (che nelle lingue europee già nel nome porta la particella della negazione). Il pensatore a cui conviene rifarsi in questo caso è Spinoza. Nelle prime pagine della sua Etica leggiamo: Appartiene all’essenza di ciò che è assolutamente infinito tutto ciò che non implica negazione (Etica I parte, spiegazione alla definizione 6). L’infinito è ciò su cui la negazione non fa presa. Leggiamo ancora nello Scolio 1: Essere finito è in parte negazione ed essere infinito è assoluta affermazione dell’esistenza di qualche natura. Non dimentichiamo che Spinoza è tra i primi matematici moderni a concepire l’infinito geometrico come infinito già affermato (in atto) e non solo da affermare (in potenza) (Lettera a Ludovico Meyer, 1663). La lezione intuizionista giustifica la supposizione che affermare e negare non si situino allo stesso livello logico. Se affermare è affermare, negare è dimostrare che non si può affermare. La dissimmetria tra affermazione e negazione è data dall’intrusione nel discorso di questo oggetto unheimlich che è l’infinito. 3 Segnaliamo che un anno prima, nel 1936, nel suo famosissimo libretto L’Io e i meccanismi di difesa, Anna Freud riduce la negazione ad una difesa dal desiderio inconscio.
4 Un soggetto è vuoto quando è privo di punti interni per la topologia in cui è immerso (per esempio, la frontiera di un insieme è un insieme privo di punti interni). Seguendo Lukasiewicz oggi si chiama assioma di Aristotele (o di portata esistenziale) il principio per cui il soggetto di una proposizione categorica deve essere sempre non vuoto. Lacan supera tale principio con l’aiuto di Peirce che, nel suo On the Algebra of Logic (Peirce 1880, p. 104) estende l’applicabilità del quantificatore universale all’insieme vuoto. Bibliografia Brouwer, L.E.J. (1983) Lezioni sull’intuizionismo (Cambridge 1946-51), a cura di D. Van Dalen (Torino: Boringhieri). Casari, E. (1997) Logica (Milano: TEA). Fitting, M.C. (1969) Intuitionistic Logic, model theory and forcing (Amsterdam: North-Holland). Freud, S.:
Gödel, K.: - (1932) Sul calcolo preposizionale intuizionista, in Wiener Akad Anzeiger, XXV, 11. - (1958) Über eine bisher noch nicht benütze Erweiterung des finiten Standpunktes, Dialectica, vol. 12, pp. 280-87. Johansson, I. (1937) Der Minimalkalkül, ein reduzierter intuitionistischer Formalismus, Comp. Math., 4, pp. 119-136. Kripke S. (1965) “Semantical Analysis of intuitionistic logic” I, in Formal systems and recursive functions, pp. 92-130 (Amsterdam: North Holland). Lacan, J.:
Matte Blanco, I. (1981) L’inconscio come insiemi infiniti - Saggio di bilogica, trad. P. Bria (Torino: Einaudi). Peirce, C. S. (1880) On the Algebra of Logic, Coll. Papers vol. III and IV. Sciacchitano, A. (1995) Il terzo incluso. Saggio di logica epistemica, Quaderni di Scibbolet, 1, Shakespeare and Company, Firenze. Spector, C. (1962) Provably Recursive Functionals of Analysis, in “Proceedings of Symposia in Pure Mathematics”, vol. 5, American Mathematical Society.
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