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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: CICLO VITALE
Area: Exitus e Lutto

Morte ed eternita' nell'era dell'onnipotenza tecnologica e della virtualita'

di Daniele La Barbera



Daniele La Barbera, Cattedra di Psicoterapia & D.U.di Tecnico dell’Educazione e della Riabilitazione Psichiatrica e Psicosociale, Università degli Studi di Palermo

Convegno Nazionale AIP, Sezione di Psicologia clinica
Palermo, 28-30 Settembre 2001

L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

I. Calvino, Le città invisibili

"Viviamo in un mondo sempre più dominato dalla tecnica": è una frase nota, sentita tante volte, tante volte oramai abusata; eppure non è sicuro che riusciamo a cogliere tutte le implicazioni che questa semplice e scontata affermazione porta con sé; a cominciare dalla ovvia considerazione che la tecnica, dominando il mondo, viene anche a dominare la nostra vita, sia nel senso di influenzare la nostra esistenza, sia nel senso di modificare concretamente la vita in senso biologico o, meglio, biotecnologico. L'espansione del progresso tecnologico ed i suoi ritmi di evoluzione continuamente accelerati sono effettivamente divenuti i più eccezionali fattori di cambiamento del modo di vivere, ma anche del modo
di pensare e di pensarsi nella storia dell'uomo, introducendo con una rapidità estrema, che sarebbe meglio non evitare di considerare, un ampissima serie di diversità, sia a livello sociale, macro- e micro-, che a livello economico, sia in ambito culturale che in ambito psicologico, sia di tipo cognitivo che di tipo affettivo ed emozionale.
La pervasività della tecnologia nel mondo dell'uomo è oggi così elevata e riguarda tanti e tali aspetti dell'esistenza da giustificare quindi l'interrogativo che ha mosso queste riflessioni, se cioè le rappresentazioni della vita umana e della morte, la relazione profonda tra il vivere ed il morire, il senso stesso del vivere e del morire, si stiano oggi radicalmente modificando in rapporto al mutamento che le tecnologie avanzate, in particolare quelle dell'informazione e della comunicazione, stanno inducendo nella nostra mente, nel nostro universo simbolico. Se è vero che l'introduzione di ogni dispositivo tecnico tende a trasformare, seppure in modo parcellare, la percezione della realtà e del rapporto che l'uomo contrae con essa, la rivoluzione tecnologica legata alla realtà elettronica sembra potere introdurre dei trend di mutamento talmente rapidi, seppure ampi e vistosi, da risultare relativamente inapparenti. Eppure questi trend stanno cambiando tutto quello che può riguardare la psicologia e gli psicologi: il funzionamento della nostra mente, la percezione del tempo e dello spazio, il disagio e la patologia mentali, la rappresentazione della realtà individuale e sociale, l'immaginario condiviso, persino, senza alcun dubbio, i modi e i tempi stessi della cura psicologica. E, oggetto di questo lavoro, anche il senso della morte e i processi mentali della sua significazione.
Per chiarire e rendere più evidente la capacità delle tecnologie della comunicazione e dell'informazione di rendere possibili questi cambiamenti, è stato proposto qualche tempo fa dalla scuola di Toronto il termine di "Psicotecnologie", che, analogamente a quello di "Biotecnologie" vuole stressare che le tecnologie mediatiche avanzate sono, prima di ogni cosa, atte a trasformare i nostri processi psichici. I quesiti ai quali cercherò di dare almeno in parte una risposta sono allora se esse siano in grado di trasformare la percezione della morte, sia indirettamente, attraverso cioè una precisa rappresentazione della realtà ed una serie molto numerosa di opzioni valoriali, sia direttamente, per una relazione più intrinseca, e purtroppo attualissima, tra tecnologia e morte.
Sin dalla mitica impresa di Prometeo, la tecnica assume il significato di uno strumento che aumenta il potere dell'uomo sulla natura sottraendolo a quello degli dei, aumenta la sua capacità di adattamento nella realtà materiale e lo rende quindi meno vulnerabile e precario. Prometeo con i suoi inganni opera quindi una sorta di ridistribuzione del potere tra uomini e dei e riequilibra almeno in parte un fortissimo slivellamento gerarchico. La tecnologia, seguendo la sollecitazione del mito, fa quindi fluire il potere degli dei ai mortali; i complessi riaggiustamenti che il gesto di Prometeo richiederà sono tali da implicare anche il sacrificio di un semidio immortale, il centaruro Chirone, che rinuncerà alla sua eternità per salvare Prometeo dalle rocce del Caucaso dove l'aquila implacabile lo sottoponeva ad una punizione ciclica e perenne. E' di notevole stimolo per le nostre riflessioni che in questo mitologema la tecnologia, lo sviluppo del genere umano ed il suo potere, gli dei la morte e l'immortalità siano sottilmente ed efficacemente intrecciati. Il potere dell'uomo sulla natura, in effetti si è andato progressivamente ampliando, grazie ai progressi tecnico-scientifici, con una accelerazione sempre più rapida, dalla rivoluzione industriale in poi, e con una sottrazione sempre più massiccia di potere agli dei; l'eclissi del divino e del sacro nelle società laiche e desacralizzate del mondo occidentale sembra effettivamente un portato specifico del modo attraverso cui la tecnologia ha trasformato la realtà e la posizione dell'uomo rispetto alla natura ed al cosmo.
Ma il grande processo di rimozione della morte e del morire come è stato anche denominato già da tempo questo itinerario, ci pare possa riconoscere oggi altre motivazioni nelle dinamiche introdotte dai media avanzati; la morte cioè non è solo diventata qualcosa da occultare e negare, perché evento capace di inceppare il perfetto meccanismo della civiltà umana, ma sembra essersi anche rivestita della qualità virtuale che caratterizza molte delle esperienze che le tecnologie della comunicazione e dell'informazione rendono oggi possibile sperimentare. Tali esperienze che televisione digitale, cinema, computer, reti telematiche e sistemi multimediali ci mettono a disposizione hanno di fatto dilatato sempre di più quello spazio o interzona dove si incontrano, si sovrappongono e si scambiano realtà e fantasia, ma anche storia e immaginazione, verità e finzione, soggettività e oggettività; la grande estensione dei media avanzati non solo ha trasformato le nostre abitazioni in altrettanti terminali mediatici, luoghi di condivisione dello spettacolo continuo ma anche di quell’orrore estremo che è lo spettacolo della morte su vasta scala; non ha solo determinato una continua e cronica attivazione del nostro sistema neurosensoriale, ma ha reso soprattutto più incerto e indistinto alla nostra coscienza il confine tra reale e virtuale, tra vero e finto. Questo processo di virtualizzazione del reale e di "realizzazione" del virtuale, cioè la confusione tra verità e finzione, tra ciò che accade veramente e ciò che è soltanto efficacemente simulato, trova nel fenomeno della morte la sua estrinsecazione forse più forte e drammatica. Come scrive Paolo Guzzanti "ci sono morti evidenti e morti trasparenti; quelle evidenti sono quelle degne di un telegiornale: un martirio tra le lamiere, un corpo ai bordi della strada, quel che resta dopo una bomba o una bombola di gas; ma anche i cadaveri di una mattanza africana vanno bene o quelli di un colera indiano (1996)".
L'inversione della significatività emozionale tra gli eventi di morte veri, quelli rappresentati dai media e quelli da essi simulati è tale che non è infrequente commuoversi veramente per una morte finta al cinema o in TV e restare invece pressoché indifferenti davanti a delle morti di massa che magari colpiscono paesi a noi distanti nella geografia e nella cultura. I morti non autorizzati all'evidenza, continua ancora Guzzanti, sono quelli che una volta erano i soli autorizzati ad apparire. I corpi lievemente spenti nella consunzione di una decorosa malattia, i corpi degli anziani, della gente comune che si smorza pallidamente ed in silenzio nell'ospedale. Come suggerisce Galimberti "la prima figura antropologica compromessa dai media è la partecipazione, ossia quell'esperienza in comune che troviamo come motivo fondante l'origine di tutte le culture, e come condizione di veicolazione dei messaggi che all'interno vi si scambiano e che risultano intellegibili perchè iscritti nella medesima simbolica originata dalla comune esperienza. Il monologo collettivo dei media, invece, istituendoci come spettatori e non come partecipi di un'esperienza o attori di un evento, ci consegna quei messaggi che, per diversi che siano gli scopi a cui tendono, veicolano eventi che hanno in comune il fatto che noi non vi prendiamo parte, ma ne consumiamo soltanto le immagini" ( 1999).
E più siamo inflazionati dalle immagini di morte e violenza mediatiche, più la morte diventa appannaggio della tecnica e delle terapie eroiche, più sembra criticamente sfuggirci la realtà e il valore profondo del morire. Più la morte viene rappresentata come spettacolo, più scivola nel reame del virtuale, meno siamo in grado di accettarla come fatto reale e come parte della vita.
In un articolo sulla tecnologia della morte Ferdinando Camon scrive che "oggi si muore con cuore e cervello innestati ai fili, che finiscono in uno strumento registratore: è la morte intubata. E il personale curante è ormai una equipe di meccanici impeganti a badare che la flebo sgoccioli e l'ossigeno arrivi. La differenza fra la morte naturale e la morte artificiale, sta nel fatto che la prima aveva le sue ragioni, era accettabile e accettata, c'erano dei valori per cui morire; ora non ci sono più. Abbiamo soltanto delle ragioni per vivere. La morte è un assurdo, niente la giustifica. La nostra società ha trovato migliaia di ragioni per vivere, nessuna per morire. Si muore all'ombra, in fondo ai reparti, dove non passa nessuno. Quando la morte è finita, si spengono le macchine, si cavano le spine, si arrotolano i fili e si fa portar via il corpo, si manda in archivio la cartella clinica, il caso è chiuso, sotto un altro".
La tecnologia tende quindi oggi a inglobare rapidamente la morte attraverso tutta una serie di modalità che sembrano contribuire a svuotarla del suo valore antropologico, della sua risonanza in termini esistenziali, del suo significato di evento reale la cui pregnanza non può essere colta in una frettoloso tentativo di occultamento e negazione dei suoi aspetti esterni ed interni. Scriveva Rainer Maria Rilke: "Amore e Morte sono dei grandi doni che ci sono stati concessi; per lo più scompaiono prima ancora di essere aperti". Come è attuale questa affermazione poetica in un'epoca in cui né amore né morte sono vissuti nella loro interezza, ma solo sfiorati con l'illusione di conoscere e con la pretesa di poter rimandare (Mignani M., 2002); in una fase dello sviluppo della civiltà in cui gli eventi, le relazioni, i legami e le storie vengono consumati e bruciati; e così anche il processo di elaborazione della perdita e di accettazione della morte e del suo dolore vengono ad essere profondamente disturbati dalla dimensione tecnologica e virtuale del morire: "chi elabora il lutto, infatti, mangia la morte, la mastica a lungo, ne coglie ogni sapore ed umore, la digerisce, la metabolizza, se ne libera gradualmente" (Guzzanti P., 1996). Sempre più spesso negli ultimi anni mi capita di ascoltare il turbamento di pazienti che di fronte alla scomparsa di una persona cara provano con stupore un senso di irrealtà, avvertono l'impossibilità radicale dell'evento di morte, si rifiutano, addolorandosi di questo, di andare al cimitero per non fare i conti con qualcosa che li costringerebbe a prendere atto della piena realtà della morte. La morte, insomma, non accade più realmente, e non è previsto che succeda più in un mondo ove l'avanzare di scoperte tecnologiche sempre più affascinanti sembra prometterci ogni giorno di più un controllo totale sulla natura, sul nostro destino, sulle malattie e su ogni altro fatto umano.
Ma le tecnologie mettono anche in opera scenari virtuali di straordinaria efficacia ove la morte viene invece iper-rappresentata, facilitando ancora di più il costituirsi di un'area di sovrapposizione confusiva tra differenti codici semiotici: un aereo bomba scagliato con tutti i suoi passeggeri su due dei più splendidi grattacieli di tutto il mondo, non è solo una involontaria quanto terrificante ed inquietantissima riedizione post-moderna del mito della torre di Babele, ma diviene anche, per le ragioni che adesso esporrò, il punto estremo dello scambio simbolico tra realtà e finzione della morte, tra la morte vissuta e partecipata e la morte mediatizzata e spettacolarizzata. La prima e più diffusa reazione di sgomento che la maggior parte di noi ebbe a quell'incredibile tragedia fu quella di osservare la somiglianza di quella scena di orrore nei cieli di New York con la scena di un film: Independence day, Airforce one, Attacco al potere; mi risulta che per alcuni minuti, non poche persone intente ad osservare distrattamente i programmi televisivi credettero veramente che si trattasse di un film. E Alessandro Baricco commentando a caldo questa scena di terrore tragicamente in bilico tra realtà e fiction ha magistralmente scritto: "C'è una ipertrofia irragionevole di esattezza simbolica, di purezza del gesto, di spettacolarità di immaginazione... Mi sembra di capire qualcosa di questa frasetta ripetuta ossessivamente, è come un film. Non è il semplice stupore di vedere la finzione diventare realtà: è il terrore di vedere la realtà più seria che ci sia accadere nei modi della finzione. Ti immagini l'uomo che ha pensato tutto questo e puoi forse sopportare la ferocia di quello che ha pensato, ma non puoi sopportare l'esattezza estetica con cui l'ha pensato. Ne siamo terrorizzati perché è come se qualcuno improvvisamente e in modo così spettacolare, ci avesse portato via la realtà: è come se ci informasse che non ci sono più due cose, la realtà e la finzione, ma una, la realtà, che ormai può accadere solo nei modi dell'altra, la finzione: e non solo per scherzo, nelle trasmissioni televisive in cui veri uomini diventano falsi per far finta di essere veri, ma anche nelle curve più reali, atroci, clamorose e solenni dell'accadere."
E l'ossessività con la quale le televisioni di tutto il mondo ci hanno riproposto le scene dell'impatto degli aerei sulle torri, 10, 100, 1000 volte al dì, in certi momenti quasi di continuo, non ha atrocemente fatto pensare a qualcuno di noi al trailer di un film o all'ultima edizione di un videogioco iperreale? Sta di fatto che il giorno dopo l'attentato su numerosi siti internet di quotidiani e TV private era possibile cliccare su un link e, scaricando un apposito programma, aprire una finestra di animazione con il percorso degli aerei e il loro mortale schianto sugli edifici bersaglio, con persino la possibilità di zoommare sulla scena o di farla ruotare per osservarla da tutte le angolazioni possibili; il tutto corredato dai modellini degli aerei implicati nell'attentato anch'essi visualizzabili come in un gioco di Flight simulator.
Ma l'attentato alle Torri americane è divenuto anche in un altro senso un evento che rende visibili ai nostri occhi, problematizzandoli, gli anelli di congiunzione tra tecnologia, morte, reale e virtuale; questo evento infatti, e stavolta senza alcuna mediazione semiotica o simbolica, sembra non fare altro che enfatizzarci il legame intrinseco tra tecnologia e morte, tra evoluzione tecnologica e distruttività umana ed il rischio sempre più concreto di un salto antropologico attraverso cui l'homo technologicus può trovarsi implicato in una deriva di senso e di valore.


Valerio è uno studente fuori corso di architettura di 41 anni, esperto di computer e di programmi di grafica professionale. Inizia ad usare 10 anni fa il pc ad alto livello per lavorarci in applicazioni per la progettazione, rendering, autocad, e ben presto tutto il suo tempo e la sua attività cominciano a girare attorno alla sua work station elettronica che gestisce con estrema disinvoltura, dedicandole una enorme quantità di ore. Per lui il computer è un gioco, tutti gli apparati tecnologici che utilizza per il suo lavoro in effetti gli servono per giocare, sviluppando nei loro confronti forme di innamoramento molto prossime al profilo clinico della dipendenza e del tech abuse.Il computer e i suoi dispositivi insomma divengono oltre che la sua redditizia professione, anche la sua principale ragione di vita e di piacere alla quale pospone sia la moglie e i figli, sia lo studio, che per altro lo alletta sempre meno avendo già acquisito una competenza professionale specifica altamente spendibile.
Sei anni fa all’improvviso mentre si trova al computer digitando già da parecchie ore (arriva a farlo anche 24 e più ore di seguito fino a quando il sonno non lo vince e la stanchezza lo finisce) comincia ad avere l’impressione che le sue dita vengano stritolate dalla tastiera, sente come un rumore di ossa schiacciate, di carne maciullata, avverte odore di sangue, percepisce la tastiera come un tritacarne e subito dopo una serie di rappresentazioni coatte di morte invadono la sua mente: vede il nipotino precipitare giù dal sesto piano e fare una fine tremenda, con un palo che gli entra dalla bocca e gli fa saltare i denti e le gengive.
Valerio ha una storia familiare e personale complessa e difficile. Ultimogenito di tre figli di una famiglia borghese, viene praticamente allevato dalla sorella maggiore che si sostituisce alla madre affetta oltre che da un disturbo depressivo ad andamento cronico, da una annessite tubercolare che la costringerà a letto per circa 4 anni e, per un intero anno, all’isolamento presso un ospedale per malattie infettive. Oltre che dall’assenza fisica ed emotiva della madre e del padre, figura che egli stesso definisce emotivamente latitante, le prime due decadi di vita sono anche segnate da un pessimo rapporto col fratello maggiore vissuto come rivale, egocentrico e prevaricatore e oggetto quasi esclusivo delle poche e rare attenzioni materne. Introverso, poco interessato alle relazioni sociali e poco incline ad uno studio costante e produttivo, ma dotato di una spiccata intelligenza e di una vivace intuizione, consegue con qualche difficoltà la maturità scientifica per iscriversi alla Facoltà di medicina senza un reale interesse, ma, come riferisce, per sfuggire ad un clima familiare divenuto intollerabile. Comincia a coltivare l’hobby della pesca subacquea che a volte, a seguito di furiose liti con i genitori, pratica da solo e nelle ore notturne e affina sempre di più i suoi gusti in fatto di musica e letteratura e, quasi a sfidare se stesso in maniera masochistica, in occasione della lettura di autori come Schopenhauer o Kafka o, specialmente dopo l’ascolto di componimenti musicali tristi e solenni, sperimenta un intenso malessere psichico sotto forma di insopportabili crisi di angoscia. In questo periodo la visione di una ovarosalpingectomia praticata sul cadavere di una anziana donna in sala settoria durante una lezione di anatomia gli suscita una mattina una crisi lipotimia talmente intensa da indurlo ad abbandonare definitivamente gli studi di medicina per il passaggio a quelli di architettura, da sempre considerati come il sogno nel cassetto. Abbandonato economicamente dai familiari ma sostenuto emotivamente dalla compagna e dalla sorella inizia a fare dei piccoli lavori in modo da mantenersi agli studi, che affronta con un perfezionismo sempre più elevato e con una ossessiva cura dei dettagli che lo costringono a presentarsi agli esami sempre con molto ritardo e con un notevolissimo carico di ansia ma con risultati sempre brillanti. Dopo 13 anni di fidanzamento si sposa e sebbene non riesca a laurearsi comincia a guadagnarsi da vivere grazie alla crescente passione per il mondo dei computer che gli permette di diventare in breve tempo un grande esperto di progettazione ad alto livello. L’esordio di una franca sintomatologia ansioso-depressiva progressivamente coloritasi di numerosi sintomi ossessivi ed anancastici e di esperienze di depersonalizzazione somato- ed autopsichica, risale al 1993, quando, a seguito di una frattura al piede per una caduta da una altezza di 5 metri, il suo stato psichico peggiora bruscamente; l’emergenza di crisi claustro ed agorafobiche lo costringe ad un isolamento che dura circa 40 giorni e ad una sorta di ritiro intellettuale con una dedizione totale all’informatica. Gradatamente il suo mondo elettronico diviene l’unica sua fonte di piacere e gratificazione, oltre che di guadagni cospicui; ma anche prima dell’esplosione del vissuto di morte, spesso il pc è anche una fonte di angoscia: a volte ad esempio, in modo compulsivo, deve smontare, spostare in una altra zona del suo studio e rimontare tutti i pezzi della sua stazione di lavoro, operazione che, data la complessità e la numerosità dei collegamenti da effettuare, gli richiede ore e ore di faticoso lavoro.
Il controllo onnipotente sulla realtà che il computer fino ad un certo punto gli garantisce efficacemente sembra quindi gradatamente franare verso quell’esperienza micropsicotica sopra descritta in cui la sua destrezza tecnica e la potenza di calcolo della macchina non sembrano più sufficienti ad arginare angosce non più contenibili. Sul computer si costruisce la sua fortuna professionale, sul computer Valerio programma e progetta e così facendo trova forme sempre più nuove e raffinate per mascherare ed occultare le sue lacerazioni affettive; ma sul computer inizia anche la sua sintomatologia, come se il dispositivo tecnologico gli restituisse adesso tutte le angosce di morte dalle quali lo aveva in un primo tempo difeso.

In questi frammenti clinici, evocativi del particolare legame che può stabilirsi tra l’uomo e la tecnologia, mi pare possa scorgersi tutta l’ambivalenza di questa relazione tra la mente e le tecnologie della mente; mi pare possa cogliersi, non senza un riferimento drammatico ai fatti che in questi giorni ci turbano tutti e ci preoccupano nel profondo delle nostre coscienze, come la dimensione tecnologica e gli stili esistenziali, sociali ed economici che la accompagnano possano all’improvviso rivolgersi contro di noi, incauti prometeici dell’era digitale, e metterci tragicamente di fronte a quelle angosce insanabili che da sempre ci abitano e che avevamo onnipotentemente e infantilmente tentato di eludere e di negare.


Bibliografia:
Baricco A.: Quando la storia è come un film. La Repubblica, 12 Settembre 2001, pag. 13.
Camon F.: Tecnologia della morte. Siddhi, XIX, 2, 1999, 83.
Galimberti U.: Psiche e techne. Feltrinelli, Milano, 1999.
Guzzanti P.: La morte impresentabile. Confini, 3, Torino, 1996.
Magnani M.: Inevitabile. Siddhi, XIX, 2, 1999, 83.


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