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Il dolore tra scienza e arte medica
di Giovanni Spiga e Alessio Giampa
Pensare di dare una definizione di dolore psichico, con un articolo di una decina di pagine, può apparire in effetti una dimostrazione di presunzione; quindi è evidente che questo
lavoro si svolge nel tentativo di focalizzare alcuni punti, per costruire una
ricerca unitaria e coerente. Occorre confessare che approfondire lo studio sul
dolore, la sua storia, la sua evoluzione, ha significato per noi, andare a cogliere
assonanze, neanche troppo nascoste, con lo studio della psichiatria e lo sviluppo
che questa giovane branca della medicina ha avuto in questi ultimi duecento anni;
è evidente infatti, che la peculiarità di questo sentimento, al
limite tra il fisico e lo psichico è stato per secoli, argomento di scontro
sul valore da attribuire alla componente organica o alla dimensione psichica.
Assistiamo in questi ultimi anni, al tentativo di una parte del mondo scientifico,
di colonizzare la ricerca psichiatrica sullidentità umana, con articoli
e saggi sperimentali che fanno del fatto fisico la loro testa dariete. Noi
pensiamo che occorre opporsi a questa visione arida delluomo e che sia necessario
sviluppare una concretezza e coerenza di pensiero che affondi le sue radici nella
fusione della mente con il corpo; ciò per non scivolare in inaccettabili
confusioni come quelle accadute in Olanda, dove in nome della libertà e
di una civilissima legge sulleutanasia, alcuni psichiatri aiutavano
i loro pazienti depressi a suicidarsi ! Un ultima scortesia della quale
ci scusiamo preventivamente riguarda il rifiuto di adoperate per il dolore la
definizione - aggettivo morale in quanto da subito ci è sembrato
che il dolore non sia né morale né amorale, ma debba essere considerato
in relazione al vissuto di colui che lo sperimenta. Il termine latino
dolor (antico comune e panromano) ha vari significati; come
i suoi equivalenti attuali può indicare, dolore fisico, sofferenza, dolore
morale, pena, tormento, afflizione ,dispiacere; usato come soggetto "dolor"
esprime l'emozione, la passione . Il verbo doleo" si inscrive
nella stessa logica del sostantivo, ma usato nella forma intransitiva significa
provare un dolore (fisico), soffrire, oppure essere afflitto, mentre nella forma
transitiva invece viene tradotto come deplorare. Nel tardo latino accanto a dolor,
appare la forma dolus il cui senso sarebbe "ricevere
dei colpi, essere picchiato". Il latino non distingue il dolore fisico e
il dolore morale, infatti per una caratteristica delle parole primitive,
che con uno stesso termine traducono l'effetto e la causa, dolor,
può essere usato anche come soggetto . Nel greco antico, il termine
dolore lo si ritrova principalmente nel vocabolario medico. Per esprimere il dolore,
il greco utilizza un verbo specifico alghyno_ Accanto alla radice alg-, il greco
ci ha fornito un altro termine per indicare le affezioni dolorose legate a malattie:
pathe_ Questa radice compare nella designazione di sindromi, ma non si limita
ad essa, la si ritrova in un'ampia serie di termini lessicali che appartengono
sia al vocabolario medico, (es Anatomopatologia) che a quello relativo
a vissuti affettivi (simpatia, empatia etc). La caratteristica, sta nel
fatto che i termini derivanti da questa radice, hanno il carattere passivo di
ciò che si e' provato rispetto alle parole derivanti dalla radice (algos),
che esprimono più una sensazione. La lingua francese ci mostra come in
un primo tempo dal X al XVI secolo, sostantivi derivati dalla radice latina dolor,
costruiti sul termine douleur, richiamino più il significato di
affettività che quello di sensazione per la quale impiegato doloison.
Con il rinascimento, il termine douleur riprende una dimensione sensoriale
e corporea. E interessante notare, come in questo periodo si affermi ed
evolva il termine souffrance, che in un primo tempo viene tradotto con
l'idea di resistenza, assumendo poi il significato di soffrire da un punto
di vista fisico e morale. L'etimologia dei termini tedeschi schemerzen
e pein ci riconduce alle fonti latine: shemerzen avrebbe come
radice latina mordere che trova il suo corrispettivo greco nel temine odyn. Il
dolore morde. Il termine pein e' sinonimo di schmerz. La sua radice la si ritrova
nell'aggettivo peinlich, tradotto come doloroso, penoso. La parola pein richiama
subito alla mente il vocabolo inglese pain, che ha come origine latina
poena, che significa castigo. Questo ci indica come originariamente
il dolore si confonde con la sensazione di colpa. L'antichità quindi, lo
vedremo anche in seguito, ci tramanda una nozione di dolore associata all'idea
di punizione. Alcuni testi stabiliscono una corrispondenza tra i termini latini
algeo algus e i termini greci algheo__algos interpretando una evoluzione
dall'idea di freddo a quella di dolore. Unultima considerazione ci pare
giusto farla per il termine anodino. Dallo Zingarelli : composto
di an privativo e odynè dolore, aggettivo. 1) Detto di medicamento
che fa cessare o diminuire il dolore 2) Di scarsa efficacia, valore 3) Impersonale
senza energia, senza carattere. Nel pensiero occidentale il dolore appare
come nozione specifica in Grecia agli albori del V secolo.; già nella poesia
gnomica e nella tragedia greca il gioco delle due parole greche emauo_epauo
(appresi, patii) dà il senso di come fosse importante questa associazione
tra apprendimento e dolore. Per Omero "lo sciocco si istruisce mediante l'avvenimento"
. Esiodo gli fa eco " la sofferenza si incaricherebbe d'insegnare l'attitudine
ed essere misurati fedeli al dio ed a fugare la hybris , ma solo a colui
che fosse talmente sciocco da non adottare questi precetti da solo". Questo per
affermare che tutto e' già stabilito e che la sventura insegna la necessità
di accettare l'arbitrio divino. Quindi solo uno sciocco può trarre
insegnamento dalla sofferenza. Per Eschilo invece "E' bene apprendere ad essere
saggi alla scuola del dolore", cioè il dolore che rappresenta l'oggetto
della tragedia diventa tragico appunto solo quando e' concepito in rapporto con
l'attività dell'uomo, come conseguenza del conflitto tra l'ordine universale
e la volontà individuale. Comunque nonostante il concetto apprendere- patire
venga allargato resta sempre legato a questo fondo di idee religiose. Pitagora
(566-497 a.c.) spinse il suo discepolo Alcmeone a studiare intensamente i sensi
e questi prospettò che fosse il cervello e non il cuore il centro delle
sensazioni e della ragione; Anassagora (500-428 a.c.) sostenne questo concetto
e considerò inoltre che la sensazione fosse il risultato di una modifica
quantitativa nel soggetto, dovuta al contrasto di opposti; che tutte le sensazioni
devono essere associate al dolore e tanto più diversi e contrari sono
il soggetto e l'oggetto, tanto più intensa sarà la sensazione
dolorosa percepita. Per contro Empedocle (490-430 a.c.) riteneva che la sede di
tutte le sensazioni, ma soprattutto del piacere e del dolore fosse il sangue presente
nel cuore .Platone (422-347 a.c.) allargò il concetto ritenendo che la
sensibilità fosse la risultante di movimenti anatomici che, attraverso
le vene comunicavano con il cuore ed il fegato, centri della percezione di tutte
le sensazioni. Egli asseriva, che il dolore insorgesse non solo dalla stimolazione
periferica, ma anche da un esperienza emotiva dell'anima che risiedeva nel
cuore. Da qui elaborò la considerazioni del piacere e del dolore come affetti,
(sentimenti ed emozioni) e l'osservazione, che spesso il piacere deriva dal sollievo
dal dolore; cioè per quanto sensazioni, opposte piacere e dolore, erano
unite tra loro, originando dal cuore come passioni dell'anima. Aristotele, (384-322
a.c.) elaborando i concetti di Platone, distinse i cinque sensi, vista, udito,
odorato, olfatto e tatto, collocò nel cuore il centro delle percezioni
sensoriali e considerò il cervello una ghiandola a secrezione fredda
che aveva il compito di raffreddare il sangue caldo proveniente dal cuore.
La sensazione dolorosa, non era altro che un aumento di ogni sensazione, ma era
specialmente il tatto che causava un eccessivo aumento del calore vitale;
analogamente al tatto il dolore sorgeva dalle carne e veniva convogliato al cuore
dal sangue. Con Epicuro il pensiero sul dolore tende ad essere esplicito "
le affezioni del piacere e dolore hanno un'importanza particolare in quanto, divengono
principio e criterio per discriminare ciò che e' da scegliere da ciò
che e' da rifiutare. Cioè il piacere dolore assumono lo status di elementi
fondanti il rapporto con la realtà materiale e umana, in quanto, (come
dice Cicerone), per Epicuro non c'e' bisogno di ragionamento per stabilire il
motivo per cui il piacere sia da scegliersi ed il dolore sia da respingersi ;
ciò è una sensazione immediata che non va perduta, dal momento che
, se viene meno la facoltà del sentire all'uomo non rimane niente.
Egli si distinguerà dai cirenaici, che nella ricerca del sentire, praticavano
l'autoerotismo. Egli infatti afferma "riducendo a giusto limite naturale i piaceri
da desiderare, il saggio diminuirà i dolori ; il vero bene e' la vita e
a mantenere la vita basta quel pochissimo che e' a disposizione di ogni uomo,
il resto e' vanità". Ricordiamo inoltre che per Epicuro "il piacere di
cui parliamo consiste nell'assenza di sofferenza fisica e di turbamento dell'animo"
egli distingue quindi piaceri e dolori del corpo e dell'animo attribuendo superiorità
a questi ultimi, perché " il corpo soffre solo per il male presente, mentre
l'anima soffre per il passato per il presente e per il futuro. Solo l'anima
ricorda. Quanto queste concezioni sul piacere-dolore siano operanti ancora
oggi lo vedremo più avanti. Ad Epicuro, fa seguito il movimento degli stoici,
per i quali la natura dell'uomo, non si costituisce principalmente sul sentimento
di piacere-dolore, ma sulla superiorità della Ragione. Per gli stoici,
le passioni insieme alle loro cause e i loro effetti, sono la fonte di ogni infelicità.
Essi distinguono quattro specie di passioni fondamentali: desiderio, paura,
dolore e piacere. Le passioni derivano da errori del logos che, curato
nella sua rettitudine ,non ne permetterà il loro nascere o le annienterà
una volta formatesi. E' questa la celebre apatia stoica, cioè la
assenza di ogni passione, la quale e' sempre e solo turbamento dell'animo. La
felicità è dunque apatia, impassibilità. Con lo stoicismo
romano, il dominio sul dolore, trova una caratterizzazione di comportamento in
cui l'indifferenza ha la funzione di sbarramento alle avversità.
Una fermezza coraggiosa aiuta a sopportare il dolore. Seneca, Epitteto e Cicerone,
sono le figure principali di questa scuola, che traendo l'impostazione dalla filosofia
greca nella quale si sono formati, la interpretano, la proseguono e le danno un'applicazione
pratica. Per Seneca, il dolore appare come lotta interiore sulla scena psichica,
il corpo e' un ostacolo;ma egli non trascura il dolore del corpo, anzi è
proprio lui che in un approccio fenomenologico constata che l'eccesso
di dolore può rendere persino insensibili al dolore; l'eccesso di sofferenza
sprofonda in un torpore letargico . Pertanto il dolore acuto dà
questo conforto. Egli ammonisce però che la consolazione si conquista in
tutt'altro modo, cioè dall'esercizio della filosofia; ritirarsi nel mondo
dell'anima, restando indipendenti dal proprio corpo. L'indurimento che nei cinici
riguardava l'involucro del corpo, in Seneca diventa virtù dell'anima ;
l'addestramento a cui lui fa riferimento, consiste nell'evitare ogni effetto sorpresa
che coglierebbe lo spirito alla sprovvista. Egli elabora la sua ricerca accostando
il dolore alla morte, affermando che il controllo razionale del primo, (il dolore),
reprimerebbe lo smarrimento per il timore della seconda, (la morte). Accostando
poi la morte al prima della nascita egli afferma il non essere da cui
siamo nati, lo ritroviamo con la morte; l'indifferenza e' possibile per chi accetta
il ritorno all'indifferenziato. La morte non può essere temuta il non
essere l'uomo lo conosce già. Se in tale stato ci fosse sofferenza,
avremmo sofferto anche prima di venire alla luce ,ma allora non sentimmo alcun
dolore. Riprenderemo in seguito questi concetti, limitandoci per ora
ad evidenziare come la nascita diviene un punto focale nello studio e nella ricerca
di una fisiologia della psiche. Dal punto di vista organico, Celso associò
il dolore, il gonfiore, il calore e il rossore al fenomeno dellinfiammazione;
egli, nonostante avesse accettato le tesi di Erofilo e di Erasistrato riguardo
al dolore, specialmente quello delle malattie interne, non tenne però conto
della loro concezione sul cervello come parte del sistema nervoso e della dimostrazione
che i nervi fossero di due tipi: di senso e di moto. Occorre arrivare a Galeno,
(131-200 d.c.) che studiando accuratamente la fisiologia dei sensi, riaffermò
l'importanza del sistema nervoso centrale e periferico; definì tre classi
di nervi : nervi soffici con funzioni sensitive, nervi duri implicati nelle funzioni
di moto e un terzo tipo correlato alla sensazione dolorifica. Nonostante il fatto
obiettivo in suo possesso, Galeno non riuscì a liberarsi della concezione
aristotelica dei cinque sensi e del dolore come passione dell'anima, concezione
che per altro rimarrà operante per circa ventitré secoli. Con il
cristianesimo si ritorna all'antica concezione del dolore come punizione divina.
Per Agostino d'Ippona (354-430 d.c.) il dolore e' un fatto universale, e' sia
del corpo che dell'anima , si affronta per curare un altro dolore, origina dal
peccato e sempre ne consegue, "Non e' empio il medico che taglia il tumore, reseca
o brucia la putredine :provoca dolore , ma per condurre a sanità, cosi
Iddio non lascia impuniti i peccati e con questi travagli ci flagella e ci erudisce.
Ma tutta questa miseria in cui geme il genere umano e' dolore medicinale
, non sentenza penale". In Tommaso d'Aquino(1225-1274 d.c.) il dolore e' trattato
all'interno dello studio sulle passioni umane .Quando il corpo patisce malattie,
anche l'anima ne risente .Anche i dolori corporei sono dunque dolori dell'anima
, ma dolori esteriori, prodotti da un'apprensione del senso esterno. Se invece
,l'apprensione e' del senso interno (immaginativa) o della conoscenza interiore
(intelletto), si avrà un dolore interiore che per distinguerlo chiameremo
tristezza. Il dolore cioè, e' propriamente una passione dell'anima
come le molestie fisiche sono passioni del corpo, però anche qui non e'
il corpo a dolere, perché non lo può senza l'anima. Inoltre poiché
la contemplazione di Dio da' il massimo piacere essa e' più di ogni altra
cosa in grado di lenire il dolore Nel medioevo con Avicenna (980-1038 d.c.) il
centro della medicina si spostò in Arabia. Egli distinse innanzitutto cinque
sensi esterni e cinque sensi interni, collocando questi ultimi nei ventricoli
cerebrali , descrisse l'eziologia di 15 diversi tipi di dolore e ne elaborò
anche la cura. Il rinascimento fu un grande laboratorio in cui la circolazione
delle idee diede un notevole impulso al pensiero scientifico. Ci fu una rilettura
dei testi originali greci e romani con una verifica della autenticità che
le traduzioni, arabe o emanuensi potevano aver in qualche modo falsificato per
scopi ideologici. Nell'anatomia e nella fisiologia grazie a Leonardo da Vinci
prima, ma soprattutto a Vesalio e Varolio poi, furono identificate e descritte
le strutture nervose e il loro rapporto con il cervello, considerato appunto la
sede delle sensazioni .Ma questo pensiero non era ancora accettato da tutti tanto
che Harvey, colui che scoprì la circolazione del sangue nel 1628, riteneva
ancora che fosse il cuore la sede di percezione del dolore. Descartes (1596-!650)
suo contemporaneo, accettava invece la teoria del cervello come sede delle sensazioni,
arricchendola anche di finissime teorizzazioni; sua è la considerazione
sulla specificità dei nervi che si attivano a seconda degli stimoli; egli
approfondisce la sua concezione delle sensazioni, in particolarmente del dolore,
nel tentativo di connettere lanima con il corpo, studierà per questo
larto fantasma e considererà la ghiandola pineale come centro delle
sensazioni. Nota è la sua polemica contro coloro che affermavano un analogia
tra le percezioni degli animali e quelle delluomo che sfociò nella
famosa affermazione esser io una sostanza, di cui tutta lessenza
o natura consiste solo nel pensare, e che per esistere non ha bisogno di luogo
alcuno, né dipende da alcuna cosa materiale. Questo che dico io
, dunque ,cioè lanima ,per cui sono quello che sono ,è qualcosa
di interamente distinto dal corpo ,ed è anzi tanto più facilmente
conosciuto, si che, anche se il corpo non esistesse, non perciò cesserebbe
di essere tutto ciò che è . Nel difendere la specificità
umana Descartes, sancisce la scissione tra corpo e psiche, condizionando tutto
il successivo pensiero, con la conseguenza che la ricerca medico scientifica si
orienterà quasi eclusivamente in senso organico delegando ai filosofi o
alla religione la competenza sulle dinamiche psichiche degli esseri umani. Lidea
di una reazione della fibra vivente è stata formulata dai medici italiani
Borelli e Baglivi ma anche da un medico inglese contemporaneo di Newton, Francis
Glisson. Qui si parla di irritabilità per designare la capacità
interna delle fibre di reagire ad un impulso. Questa proprietà della fibra
poteva soltanto essere supposta in quanto anche le osservazioni microscopiche
più fini di Baglivi avvenivano su tessuti non vitali. Il fisiologo Haller
ebbe il modo di confermare queste intuizioni grazie alla sperimentazione sugli
animali; egli stabilì una differenza tra irritabilità e sensibilità:.
il dolore dellanimale diviene uno strumento di investigazione fisiologica
che gli permetterà di stabilire che solo i nervi e le parti nervate
sono sensibili, mentre le fibre muscolari sono irritabili. Queste conclusioni,
pur essendo fondamentali per una rigorosa definizione della sensibilità
furono violentemente contestate dai vitalisti e dagli animasti; i quali affermavano
che i movimenti sono sotto la dipendenza dellanima. Per il vitalista Cabanis
il dolore non e un fenomeno puramente fisiologico di reazione ad uno stimolo
troppo intenso, ma richiede la partecipazione di un soggetto e la sua attivita
mentale. Lopera di Cabanis si inscrive in una corrente di pensiero che fa
della sensibilità la pietra angolare della vita e del dolore il luogo privilegiato
per unanalisi del rapporto tra il fisico e il morale Haller comunque rimarrà
ancorato alla sua teoria secondo la quale, cè la possibilità
di concepire una via vegetativa distinta dalla via di relazione avente una base
anatomica specifica e un sistema nervoso particolare (sistema simpatico e sistema
parasimpatico). Quindi postulerà la sensibilità associata alla coscienza
e lirritabilità indipendente da essa.. Bichat segue il sentiero tracciato
da Haller; egli definirà le differenti proprietà vitali allinterno
della distinzione delle due vie: la via animale o via di relazione
e la via organica che sarà più tardi chiamata via vegetativa. Agli
inizi del diciannovesimo secolo i grandi progressi della scienza sperimentale
misero al centro del la ricerca il dolore come fenomeno fisico relegando sempre
più in secondo piano laspetto psichico di esso. Fu di Bell e Mangendie
la scoperta che le radice dorsali dei nervi spinali hanno una funzione sensitiva
mentre le radici ventrali una funzione motoria. Nel 1840 Johannes Muller propose
la teoria delle energie nervose specifiche secondo cui le informazioni riguardanti
gli oggetti esterni e le strutture corporee giungevano al cervello esclusivamente
per mezzo dei cinque sensi. Nel 1858 Schiff a seguito di esperimenti di analgesia
su animali formula la teoria della specificità in cui sostiene che
il dolore e una sensazione specifica indipendente dal tatto e dagli altri
sensi ; egli osservò che la sezione della sostanza grigia del midollo spinale
eliminava il dolore, ma non il tatto e un taglio nella sostanza bianca determinava
la perdita del tatto lasciando inalterato il dolore. Tra il 1882 e il 1885 Goldscheider
e Donaldson individuarono sulla cute punti separati per il caldo il freddo e il
tatto. Dieci anni dopo von Frey riuscì a disegnare una mappa dei punti
per il tatto e per il dolore e attraverso lesame istologico della cute definì
i singoli recettori cutanei per ciascuna sensazione. In contrapposizione alla
teoria della specificità nel 1874 Erb formulò la teoria cosidetta
intensiva secondo cui ogni stimolo sensitivo superata una certa soglia era
in grado di causare dolore. Nel 1894 Goldscheider dopo ripetuti cambi di fronte
elaborò appieno la teoria secondo la quale gli impulsi nervosi che evocano
il dolore sono la risultante della sommazione degli stimoli sensitivi che arrivano
alle corna posteriori del midollo; egli ipotizzò che il dolore e
la conseguenza del superamento di un valore limite che viene raggiunto sia da
una stimolazione eccessiva di recettori che veicolano gli stimoli nocicettivi,
sia da una condizione patologica che esalta i normali stimoli sensoriali; egli
sosteneva che nel midollo doveva esistere una via di sommazione che attraverso
una catena polisinaptica di fibre lente e veloci faceva arrivare al cervello lo
stimolo doloroso. Fu proprio tra l'ultima parte del XVIII secolo e la prima parte
del secolo successivo che si gettarono le basi dell'analgesia moderna: L'utilizzazione
del protossido d'azoto da parte di Hickman (1828) del cloroformio di Eugene Soubeiran
(1831) dell'etere di W.T.Moerton (1864) dell'aspirina (1894) e del Veronal (1903)
confermarono che l'approccio scientifico si andava definitivamente affermando
rispetto all'empirismo dei secoli precedenti. Inoltre con la nascita della fisiologia
come scienza sperimentale si definì la vera natura delle terminazioni nervose
i loro compiti specifici e le connessioni con i sistema nervoso centrale. Sul
piano neurofisiologico i primi 50 anni del xx secolo videro laffermazione
della teoria della specificità su quella della sommazione. La pragmatica
di questi studi ha portato ad enormi risultati e ad una grossa disponibilità
di mezzi nel controllo del dolore, la definizone delle vie del dolore accanto
alle scoperte delle molecole algogene e di quelle analgesiche ha permesso una
descrizione abbastanza accurata dei meccanismi che sottendono alla percezione
degli stimoli nocicettivi .Meno chiara è invece la definizione dei processi
di elaborazione e risposta. Dalle osservazioni risultava infatti che mentre la
soglia di percezione del dolore ha uno standard abbastanza unitario in individui
anche molto diversi fra loro, la risposta allo stimolo presenta una variabilità
che richiama lattenzione su tutti quei fattori che hanno a che fare con
la costituzione dellidentità dellindividuo e che incidono in
maniera determinante sulla elaborazione delle percezioni. Diviene quindi fondamentale
focalizzare la zona di passaggio dallo stimolo somatico alla realizzazione psichica
. Forse non è un caso che lAssociazione Internazionale dello Studio
sul Dolore ha chiesto ad un gruppo presieduto da uno psichiatra,Harold Merskey
di dare una definizione di dolore che fosse la più universale possibile.
Un esperienza sensoriale ed emotiva associata a danno tessutale in atto o potenziale
o descritto in termini di tale danno fu la risposta. Poi fu aggiunta una nota
il dolore è sempre soggettivo. Ogni persona apprende il significato
della parola nei primi anni di vita attraverso esperienze correlate ad una lesione
.I biologi riconoscono che gli stimoli dolorosi possono causare danno tessutale.
Di conseguenza, il dolore è una sensazione che noi associamo a danno tessutale,
potenziale o in atto. Le esperienze che assomigliano al dolore, ma che non sono
sgradevoli, non dovrebbero essere chiamate dolore. Esperienze sgradevoli abnormi
(disestesie) possono essere dolore, ma non necessariamente, perché soggettivamente
non hanno le consuete qualità sensoriali. Molti riferiscono dolore in assenza
di danno tessutale o di qualunque causa fisiopatologica; di solito ciò
avviene per motivi psicologici. Non vi è modo di distinguere la loro esperienza
da quella dovuta effettivamente a danno tessutale se si accetta quanto soggettivamente
viene riferito. Se queste persone considerano la loro esperienza come dolore se
la riferiscono come dolore causato da danno tessutale, deve essere accettata come
dolore Questa definizione evita di ancorare il dolore allo stimolo .Lattività
indotta nei nocicettori e nelle vie nocicettive da uno stimolo nocivo non è
dolore che è sempre uno stato psicologico anche se il dolore ha
spesso una causa fisica immediata. Questultima frase ci riempie
di motivazioni nella ricerca di un sistema che spieghi in maniera coerente come
uno stimolo fisico possa essere trasformato in una sensazione psichica.
Un paradigma di questo meccanismo ci viene dallo studio della formazione delle
immagini mentali. In effetti anche limmagine è la realizzazione psichica
di un agente (stimolo) fisico. Negli anni 80 Kosslyn partito dal presupposto che
percezione e immagine condividessero gli stessi meccanismi dimostrò che
levocazione di unimmagine attivava nella corteccia specifiche zone
secondo unorganizzazione topografica . Ronald e Friberg nel 1985 e Goldenberg
nel 1989 confermarono questa premessa attraverso lanalisi del flusso regionale,
dimostrando inoltre, che le aree che si attivano nel corso di percezione visiva
sono le stesse che si attivano in compiti che richiedono levocazione di
quelle immagini visive. Nel 1988 Kosslyn cerca di capire come il sistema nervoso
produca immagini visive; egli giunge a due considerazioni: la prima è lattivazione
nella memoria delloggetto immaginato; la seconda è che la costruzione
avviene in maniera sequenziale con lo stesso ordine con cui verrebbero rappresentate
graficamente. Fatte queste premesse è sorprendente notare come coloro che
hanno affrontato particolari aspetti del dolore come larto fantasma il dolore
cronico o leffetto placebo hanno dovuto considerare il ruolo dellimmagine
come fondamentale. Loeser e Melzack in un articolo apparso nel maggio 99
sul Lancet cercando di spiegare i casi in cui compare dolore in assenza di lesione
o linstaurarsi di un dolore cronico su una ferita già guarita, oppure
il dolore comparso nellarto fantasma, scrivono esiste nel cervello
la capacità di sostenere unimmagine del corpo, su cui i dati sensoriali
hanno un ruolo .La percezione del dolore è così generata da stimoli
efferenti o dalla neuromatrice, che hanno così la funzione di stimolo efferente.
Inoltre il comportamento doloroso può essere generato da precedenti condizionamenti
segnale dellambiente o da aspettative di dolore o sofferenza. Nel
suo libro Il dolore Marc Schwob trattando il dolore cronico afferma
Il dolente cronico non avverte il dolore ; è egli stesso dolor
. Egli coinvolge non tanto il corpo fisico del quale si occupa il medico, quanto
il corpo psichico; di questo corpo psichico ciascuno possiede una rappresentazione
personale ed individuale che appare come il solo reale oggetto di preoccupazione.
Ora ciò che sembrava un punto di arrivo, diventa invece il problema; gli
studi svolti nellambito della teoria cognitiva, dimostrano lenorme
importanza che viene ad assumere limmagine mentale nella definizione dellindividuo
considerato nella sua interezza e non più come dicotomia mente corpo; non
di meno queste conclusioni rivelano una grave parzialità, in quanto lunità
mente-corpo viene raggiunta considerando limmagine come mero fenomeno biologico,
confondendo la sua origine (biologica) con la sua natura (psichica). Noi consideriamo
invece che se realizzare unimmagine mentale a partire da un soggetto fisico
non è prerogativa esclusivamente umana in quanto si può accettare
che anche gli animali riconoscano e sappiano distinguere tra oggetti diversi,
ciò che distingue il genere umano è la possibilità di fare
immagini diverse da quelle viste con la retina, cioè la capacità
di rappresentare. Possiamo affermare allora che esistono almeno due diversi
tipi di immagine; una immagine come riproduzione legata alla figura e unimmagine
come rappresentazione che richiede implicazioni affettive, di senso e di significato.
Alla luce di queste considerazioni sulla percezione e legandole al problema della
sensazione di dolore possiamo ora affermare che anche qui il vissuto degli esseri
umani ha una sua peculiarità; dobbiamo cioè considerare che la percezione,
lelaborazione e la risposta ad un insulto nocicettivo, in altre parole lesperienza
dolorosa, siano il prodotto dellinterazione tra struttura organica e identità
psichica (intesa come capacità interpretativa di un fenomeno). Quindi non
solo si può comprendere meglio la enorme variabilità di risposta
che si produce per uno stesso stimolo di natura organica, (si deve legittimamente
ammettere che gli animali rispondono con molta meno variabilità), ma queste
considerazioni ci autorizzano a pensare che se lo stimolo nocicettivo è
di natura psichica, può essere avvertito dagli esseri umani attraverso
ciò che Minkowsky chiama il contatto vitale con la realtà che non
è altro che il nostro sistema interpretativo delle percezioni. Queste considerazioni
di ordine teorico riguardanti il dolore evocato da cause fisiche non deve ovviamente
farci perdere di vista il nostro ruolo medico per cui deve essere chiaro che di
fronte ad un dolore di tipo organico, dobbiamo impiegare tutti i mezzi a nostra
disposizione per eliminarlo, concentrandoci poi successivamente sulla causa che
lo produce. Abbiamo constatato come lo studio dei substrati neurofisiologici
del dolore e le osservazioni effettuate dai neurobiologi, considerando la psiche,
fondamentalmente come prodotto di interazioni neuronali, arrivano a ipotizzare
che gli stimoli periferici se ripetuti possano in qualche modo interferire con
i sistemi di elaborazione dei centri superiori creando un malfunzionamento
che può essere causa di errori valutativi, ma tutto questo processo viene
inteso nellambito di un meccanismo patogenetico e fisiopatologico di natura
organica; diviene chiaro poi come coloro che abbracciano queste teorie rifiutino
di trattare come scientifico il concetto di dolore psichico, ritenendolo un argomento
di pertinenza filosofica e mantenendo di fatto una dicotomia mente corpo di cartesiana
memoria.
Noi riteniamo invece, che se con uno stimolo di natura fisica lesperienza del dolore è comunque condizionata dalla formazione psichica di chi lo subisce, lo sarà molto di più se lo stimolo che provoca uno stato affettivo spiacevole e una pulsione avversativa (Melzack), è di natura psichica come può esserlo una separazione, una frustrazione, una perdita, una impotenza alla risposta ecc; stimoli cioè, che nella loro natura contengono valenze di senso e di significato e che quindi sono specificatamente legati alla realtà umana. La critica che più frequentemente viene portata allaccettazione di questa realtà è che manchi la concomitante attività del sistema afferente; ora è di difficile comprensione come scienziati di alto livello si ostinino a considerare sistema afferente il solo sistema periferico di conduzione del dolore, senza considerare nelluomo il contatto vitale con la realtà che esula dai sensi fisici in quanto anche i ciechi i sordi i tetraplegici lo possono mantenere pur perdendo una o più sensibilità specifiche, mentre uno schizofrenico può perderlo mantenendo integra la sensorialità e la motricità.
A questo punto anche una comunicazione verbale o visiva in grado di provocare una reazione dolorosa acquistano dignità di stimolo doloroso, e oltretutto il timpano, gli ossicini, la chiocciola ,la retina il nervo ottico non fanno forse parte del sistema afferente ?. Altro elemento che ci conforta nella ricerca di definizione del dolore psichico è il fenomeno dellanalgesia che si osserva in alcune patologie psichiatriche importanti; analgesia che si attua anche nei confronti di insulti di natura fisica ,che ci conferma ancora di più come per gli esseri umani lelaborazione psichica degli stimoli di qualsiasi natura , rappresenti la componente più importante alla quale rivolgere lattenzione nello studio dei fenomeni dolorosi. Ciò che vogliamo affermare è che il dolore psichico ha diritto di residenza nellambito della medicina in generale e della psichiatria in particolare e anche se bisogna ammettere che lo studio di questi aspetti della realtà umana deve pagare un tributo alla filosofia, questo non deve esimerci dal compito indubbiamente impegnativo di definirlo e distinguerlo in ambito psichiatrico; perché pensiamo che lo psichiatra debba essere colui che considera luomo nella sua interezza di corpo e di psiche. Quindi ci siamo preoccupati innanzitutto di ridefinire il problema degli affetti, non considerati più come impedimento ad un esame autentico della realtà, ma anzi come necessaria premessa ad una reale conoscenza delle dinamiche di rapporto tra gli esseri umani. Nella pratica psichiatrica si osserva spesso come i vissuti di anaffettività e la non elaborazione di essi, rappresentino il fulcro su cui si sviluppa il disagio psichico, inteso specificatamente come non conoscenza della propria realtà interiore. Ci siamo poi preoccupati di distinguere la sensibilità dallaffettività intendendo la prima come capacità integrativa di sensazioni provenienti dal mondo esterno fusa alla percezione del proprio Sé in rapporto con la realtà; mentre laffettività viene vista come energia pulsionale che legandosi allimmagine fa acquistare al corpo unintenzionalità psichica .(Si potrebbe anche trovare un nesso tra senso e significato di una comunicazione; cioè per percepirne il senso occorre essere provvisti di sensibilità, per comprenderne il significato cè bisogno della capacità di fare immagini come rappresentazioni ).Vogliamo con questo affermare che è proprio laffettività lenergia interna che condiziona sia lelaborazione degli stimoli esterni ,sia il moto di risposta ad essi stimoli. Fagioli considera che questa energia può essere ritrovata nella relazione del feto con il liquido amniotico come energia vitale del feto che grazie ad essa percepisce le qualità fisiche del liquido amniotico, laltra affascinante ipotesi ( che non può essere confermata dalla scienza galileiana ma che viene rappresentata di continuo nelle relazioni tra esseri umani) è che questa energia vitale del feto si trasformi alla nascita in immagine come rappresentazione della situazione intrauterina perduta. Riprendendo il discorso specifico sul dolore psichico abbiamo indagato sulla reazione che un individuo opera rispetto a stimoli intesi come eventi importanti che incidono sulla propria identità; la presenza del dolore, la sua assenza , la presenza di sentimenti diversi come ad esempio langoscia ci offre una possibilità di inquadrare diversi quadri clinici che cimentano lo psichiatra in primo luogo nella valutazione della presenza di patologie psichiche, quindi nel caso fossero rilevate, nella loro cura . Paradigma di questo discorso può essere la situazione di lutto a cui immancabilmente fa riferimento la letteratura psichiatrica quando si occupa di dolore psichico. Anche noi siamo partiti da ciò, consapevoli di poter estendere le considerazioni fatte ad altri vissuti, come separazioni, frustrazioni, delusioni, isolamento etc.
Due osservazioni ci sono sembrate fondamentali nellambito di questo tema, una di Gaston e laltra di De Martino: il primo considerando il lutto ne mette in evidenza laspetto peculiare di realizzazione umana collegandola alla capacità di stabilire profonde e significative relazioni interpersonali in rapporto alla costruzione delle prime manifestazioni sociali delluomo Potremmo anche azzardare lipotesi che la possibilità di reagire con il sentimento del lutto possa rappresentare uno dei primi elementi nucleari che contrassegnano il passaggio delluomo da entità elementare di un mero mondo biologico a soggetto cospicuo di un significativo mondo psicologico. Lautore considera due diversi aspetti del lutto uno di ordine sociale che vede nella costituzione del rito funebre un tentativo di rendere collettivo il proprio dolore, laltro che è laspetto più interno vede nel lutto il lavoro, silenzioso non cosciente di rendere immagine ricordo ciò che è stato un rapporto vissuto. Le idee di De Martino sul sentimento di perdita sono ben espresse nel suo libro Morte e pianto rituale; egli sembra focalizzare lattenzione sullaspetto vitale della reazione dolorosa alla perdita affermando che essa rappresenta la prova evidente della propria presenza rispetto a chi non cè più per quanto che possa essere il dolore di una perdita ,subito si impone a noi,nella stessa piena del dolore e con tanto maggiore urgenza quanto più siamo prossimi alla disperazione,il compito di evitare la perdita più irreparabile e decisiva, quella di noi stessi nella situazione luttuosa () perciò nella morte della persona cara siamo perentoriamente chiamati a farci procuratori di morte di quella stessa morte.Se interpretiamo correttamente il pensiero di De Martino il dolore del lutto è lespressione della vitalità umana,che si esprime come affermazione di Sé ;langoscia invece si costituirebbe come rischio di perdere la possibilità di dispiegare questa energia. "La morte fisica della persona cara, le malattie mortali ,le fasi dello sviluppo sessuale racchiudono l'esperienza acuta del conflitto fra la perentorieta' di un dover fare qualcosa ed il funesto patire del non c'e' nulla da fare come crollo esistenziale.In punti nodali o momenti critici come questi si annida la possibilita' della crisi radicale e puo' manifestarsi quella funesta miseria esistenziale per cui cio' che passa ci trascina nel nulla ancor prima che la morte fisica ci raggiunga :ed e' quella miseria una catastrofe molto maggiore di questa morte. Alla luce di queste considerazioni appare più condivisibile lipotesi che alla base del sentimento dangoscia ci sia nelluomo non tanto la paura di morire ,quanto la paura di impazzire. Dunque De Martino centra lattenzione sulla vitalità ammonendo però che la mera vitalità che sta cruda e verde nellanimale o nella pianta deve nelluomo essere trascesa nellopera e questa energia di trascendimento che oggettiva il vitale secondo forme di coerenza culturale è appunto la presenza. Su come lenergia vitale si trasformi in immagine come rappresentazione è stato detto precedentemente .Il concetto di vitalità diviene dunque la pietra angolare su cui poggiare la costruzione di una fisiologia degli aspetti emotivi e affettivi degli esseri umani ; già Minkowsky mutuando il termine e il concetto da Bergson ci parla di slancio vitale come struttura che sorregge lintero edificio della personalità umana E sufficiente un incrinarsi o un vacillare dello slancio vitale, perché tutto il complesso barcolli e a vista docchio precipiti, giungendo a tappe diverse alla disgregazione della personalità umana che avrebbe il nesso con le diverse manifestazioni dellalienazione mentale. Il legare il dolore psichico a questo concetto di vitalità ci permette di chiarire la particolare dolorosità delle situazioni di separazione, di spiegare cioè, il paradosso di una assenza percepita come dolore. Abbiamo detto precedentemente che per mezzo della vitalità il feto avvertiva le qualità di calore e omeostasi del liquido amniotico e che questa percezione avveniva nel buio della situazione intruterina . Si ha cioè una percezione senza visione fisica delloggetto. Dalla situazione intrauterina, alla vita di relazione,il bambino deve modificare il suo assetto interno,la vitalità che rappresentava lenergia che permetteva la percezione dei requisiti fisici delloggetto, sarà ora rivolta verso le qualità psichiche di chi si mette in rapporto, riconoscendo i contenuti affettivi o la loro assenza. Queste considerazioni pretendono che venga ridata al neonato dignità di essere umano come colui che ha lesigenza di essere riconosciuto e di riconoscere individui simili a se stesso. (Alcuni autori hanno voluto vedere in questa capacità di apprezzare la dimensione affettiva altrui, un nesso con il concetto di intuizione, come capacità di visione profonda al di là del comportamento). Dunque negli esseri umani cè questa capacità di percepire lassenza. Per chiarire ulteriormente il concetto, forse dovremmo riconsiderare la differenza tra dolore e angoscia; si può osservare che nel dolore il vissuto di sofferenza si ha per una situazione conosciuta e riguarda in genere il presente o al più un passato non elaborato che riemerge,mentre ciò che genera angoscia è proprio lincognita sul futuro su ciò che potrebbe accadere, la sensazione, preconcetta, di non poter sostenere unavversità, abbiamo detto precedentemente, la paura di impazzire. Da qui si può trovare un collegamento nel senso di distinzione tra dolore e depressione.La differenziazione classica tra depressione reattiva e depressione endogena già ci fornisce elementi preziosi sulla qualità dei vissuti che si sperimentano nelle due forme di malattia. La depressione reattiva, nonostante il rallentamento psicomotorio e labbassamento del tono dellumore, conserva pregnanza affettiva; la vitalità è rilevabile proprio dal dolore che gli eventi frustranti producono sul soggetto che coscientemente o non coscientemente ne riconosce la presenza ;persiste quindi una conoscenza delle dinamiche psichiche; se si riesce ad apprezzarne il senso o il significato,si avvertirà dolore, ma non si avrà la disperazione di esserne sopraffatti.
Si sperimenta la non corrispondenza tra la propria dimensione interna e quella con cui ci si mette in relazione, il peso di questo conflitto è il determinante che stabilisce levoluzione verso una crisi di tipo reattivo o verso una forma depressiva di tipo melanconico. Il rilievo permanente della depressione clinica è per dirla con Schneider il sentimento per la mancanza di sentimento,cioè una sensazione di perdita di affetti, che produce sia un vissuto di incapacità damare che unincapacità a provare dolore; langoscia diviene il sentimento prevalente che si traduce in una sofferenza, non più vitale, ma disperata e terrorizzata nella sua perdita di conoscenza. Si instaura così una paralisi, che acuisce ancora di più il senso di colpa di non avere il coraggio di mobilitare i propri affetti; va considerato oltretutto che nel depresso melanconico gli affetti (seguendo le teorizzazioni di Abrahm sulla oralità cieca) sono degradati ad odio e rabbia e quindi non vengono agiti per langoscia di ledere e distruggere loggetto di rapporto. Dunque la perdita di vitalità provoca questo sentimento di inconoscibilità della realtà rendendo il vissuto depressivo angosciante e disperato; questo perché la dimensione di vitalità essendo lelemento che fonde la realtà psichica con la realtà somatica permette al corpo di essere strumento di conoscenza non solo fisica ma anche psichica; quindi possiamo affermare che il dolore psichico ha risonanze profonde con le possibilità di conoscenza delluomo in particolar modo con le possibilità di conoscenza intuitiva. Simone Weil il pensiero della sofferenza non è discorsivo.Il pensiero urta contro il dolore fisico,contro la sventura,come la mosca contro il vetro,senza poter progredire in alcun modo né scoprirvi nulla di nuovo,senza potersi impedire di tornarci. Così si esercita e si sviluppa la capacità intuitiva. Se interpretiamo correttamente cè (ci dovrebbe essere) nellessere umano questintenzionalità non cosciente in grado di scontrarsi con la realtà, reiteratamente, fino alla realizzazione della scoperta che lintuizione porta con sé e questa energia si dispiega anche quando tutto sembra apparire avverso e doloroso.
Per Tellenbach nella depressione essendo alterato il modo di essere in rapporto col mondo è alterato anche il vissuto di sofferenza,che risulta sfigurato ed estraneo. Minkowsky accettando questa tesi afferma inoltre che la sofferenza depressiva non ha nessun carattere evolutivo e rimane la stessa nel corso della crisi facendosi sempre più estranea ed ogni dinamismo vitale.Forse ora appare più chiara, lapparente contraddizione per cui si può ipotizzare che un elemento scatenante la depressione sia la perdita delle capacità di vedere, la possibilità di fare immagini interiori valide che però è legata alla perdita della vitalità cioè al non sentire. Si osserva infatti, che gli affetti (cioè la fusione tra pulsione e rappresentazione), siano nella depressione, alterati, danneggiati e vissuti dai pazienti come potenzialmente pericolosi; tutto ciò si traduce in una situazione di ripiegamento su se stessi, un isolamento ed un estraneamento dalla realtà, in cui, il proprio corpo, diviene loggetto da punire per lespiazione dei sensi di colpa che corrodono la vitalità consumandola. E in virtù di queste considerazioni che si coglie ancor di più la differenza tra il dolore psichico, in cui la vitalità viene spesa per comporre immagini che la conterranno a loro volta, mentre nella sofferenza melanconica viene consumata come combustibile nellillusione di aver trovato un oggetto (il proprio corpo ) con il quale stabilire un rapporto ( il legame tra depressone e masturbazione è noto). Biswanger non importa quale combustibile si getti nella fornace della sofferenza e per quale causa avviene lincendio() in un certo senso è un bene che si trovino oggetti ,anche se ciò acuisce la sofferenza, poiché la vera e orribile essenza dellangoscia, nella depressione è la mancanza di oggetto.
Ci si illude quindi attraverso questi espedienti, che possono anche non essere coscienti, di aver mantenuto una sensibilità che è in verità molto miope ed non viene investita nel rapporto con laltro, ( si potrebbe fare una ricerca sullenorme successo che hanno campagne o trasmissioni sul dolore ,ma sconfineremmo nella sociologia che non è il nostro scopo. Nellambito di queste considerazioni sul corpo, osserva Borgna esistono forme depressive, caratterizzate dal timore infondato di avere una malattia organica incurabile ;è la cosiddetta ipocondria, che si costituirebbe per la sostituzione del corpo-soggetto (corpo vissuto) in corpo-oggetto (corpo cosa); loggetto del rapporto non è più il mondo, ma il proprio corpo. Lessere murati nel corpo-oggetto è la realizzazione definitiva della malinconia stuporosa,che blocca il paziente in unimmobilità pietrificata dalla quale sembra fuggire ogni espressione di vita. In psichiatria, recuperare il senso del corpo significa accrescere la conoscenza della lebenswelt (forma di vita) depressiva alcuni si sono spinti a considerare la depressione psicotica, nella sua espressione originaria, non come disturbo dellaffettività, ma come un disturbo nel modo di vivere il corpo.In una relazione, sulla corporeità nella relazione terapeutica, Giovanni Gozzetti approfondisce questo tema; accetta la dicotomia di Borgna tra corpo_Korper e corpo-Leib, affermando, che è solo in questultimo che si ritrova la storia del paziente, con le sue esperienze, le sue angosce, le sue gioie, le possibilità della condizione umana sia del sano che del malato. Schilder criticando losservazione di Freud, secondo cui lIo è soprattutto un Io corporeo, afferma che limmagine del corpo va vista come un aspetto indivisibile dellimmagine di Sé () ogni atteggiamento artificioso di distinzione di analisi che il soggetto si trovi a vivere,non rappresenta altro che una scissione e come tale una manifestazione di sofferenza. Ritorniamo quindi ad una visione unitaria dellessere umano che abbiamo già trattato in precedenza e che vede limmagine, come paradigma di questa fusione. Gaston ciò che appare particolarmente interessante è il ruolo sempre più centrale che viene ad assumere limmagine,e la sua forza (connotabile in seguito sempre più in chiave di rappresentazione )come elemento fondamentale di raccordo tra il fisico e lo psichico e come strumento dellinfluenza della mente sul corpo. Compito primario del terapeuta sarà quindi, un lavoro sulle rappresentazioni coscienti e non coscienti del paziente, valutando e intervenendo di volta in volta sulla piattezza, sulla freddezza, sulla viscosità delle comunicazioni, al fine di ripristinare una corrispondenza tra immagine interna e comportamento, ricercando incessantemente una realizzazione di vitalità che garantisca una libertà di movimento, non violento nei riguardi di se stesso e degli altri.
La patologia del dolore non si limita alliperalgia. Levitamento o la resistenza al dolore sono altrettanto patologici. I casi estremi di questa assenza di vissuto doloroso si incontrano nella clinica dellautismo; è accertato infatti, la psiche distratta dal suo rapporto con la realtà, non avverte neanche i dolori somatici. La diminuita sensibilità dolorifica degli schizofrenici ha sempre suscitato un certo turbamento. Questi pazienti percepiscono il dolore meno prontamente degli individui normali e sembrano relativamente indifferenti agli stimoli nocivi. Le indagini condotte sulle soglie dolorifiche e sulle reazioni a stimoli dolorosi somministrati in via sperimentale rivelano una diminuzione della consapevolezza e della capacità di risposta. Molti bambini autistici, hanno unaumentata soglia dolorifica e unalterata risposta al dolore; essi possono farsi molto male e non piangere o mostrare alcuna sofferenza. Lautismo viene definito come perdita di contatto con il mondo e in particolar modo con la realtà umana . Borgna asserisce che la realtà umana e clinica dellautismo, oscilla tra la solitudine, come situazione esistenziale e lisolamento come situazione psicopatologica. Gadamer afferma invece che queste due situazioni sono distinguibili sia nellorigine che nel senso: lisolamento è lesperienza di una perdita, mentre la solitudine è lesperienza di una rinuncia, quindi mentre lisolamento si subisce, nella solitudine rimane aperta una possibilità di ricerca nel rapporto con laltro. Nella definizione di Bleuler, lautismo schizofrenico è legato alla presenza contestuale di un distacco dalla realtà e di una predominanza relativa o assoluta della vita interiore; viene quindi considerato come sintomo secondario. Per Minkowski lautismo viene interpretato come espressione di uno slancio vitale svuotato e congelato nel suo divenire,egli distingue tra un autismo ripiegato nella vita interiore e un autismo legato alla condotta. Al di là di queste differenze egli dà allautismo non solo un significato sintomatologico, ma una definizione antropologica considerandolo il modo di vivere e di essere schizofrenico. Questa considerazione ci permette di riscattarci da una psichiatria basata solo sulla conoscenza formale dei sintomi per orientarci verso una psichiatria come scienza umana che consideri il paziente come soggetto dotato di intenzionalità (anche se distruttive). I disturbi della percezione corporea, accanto alle allucinazioni uditive sono una costante di quello che viene chiamato il processo schizofrenico. I fenomeni di depersonalizzazione, osserva Henry Ey, si attuano mediante identificazioni allucinatorie con la natura, con altre persone con le divinità, creando un alone immaginario che mette al riparo la propria vera persona; per Borgna, nella forma di vita schizofrenica, si ha la dissolvenza dei confini del corpo, così che, si crea una dilatazione dello spazio vissuto, che diventa infinito, creando un isolamento del corpo che si immobilizza di fronte a questa trasformazione. Tellenbach, ammetteva una modificazione, considerandola come perdita del saper agire in modo naturale; ciò che prima veniva compiuto distinto ora non po effettuarsi, se non con un atto volontario; è implicita la alterazione dellomogeneità e della norma con cui luomo si muove nel tempo. Un termine per definire questa modificazione del modo di essere è laggettivo strano mutuato alla psichiatria da Ferdinando Barison Come strano, assurdo schizofrenico intendo il carattere costitutivo dellesistenza dello schizofrenico, che consiste in una deformazione in uno straniamento di tutto il mondo interiore ed esteriore; una specie di estatico modo di esistere. Egli, si pone in maniera divergente, rispetto alle scuole che considerano elementi paradigmatici della schizofrenia i sintomi negativi o la presenza costante di difetti; ponendo laccento sullelemento positivo e creativo della sintomatologia schizofrenica, come ad esempio il manierismo schizofrenico e le qualità che lo sostengono, comportamento, espressività e intenzionalità; egli si sofferma soprattutto su questultima la qualità intenzionale del manierismo riguarda un aspetto fondamentale del pensiero schizofrenico() non si tratta di derivare il manierismo dallatimia, da una carenza di impulsi affettivi che toglie ogni modulazione e armonia, ogni flessibilità fino a farne un marionettismo saccadico e meccanico() perché anche nel marionettismo vi è un valore di intenzionalità che ricerca il complicato e il superfluo.() Il manierismo è una teatralità, il cui scopo evidentemente, è quello di annientare la realtà espressiva, di sfuggire il senso diretto, deviando continuamente laccento espressivo su una cascata di comportamenti parassitari la cui efficacia espressiva viene svuotata di sensola teatralizzazione del tentativo di derealizzare la realtà è lessenza del manierismocome un modo di essere al mondo, di essere nei riguardi dellaltro,un modo in cui le peculiarità sembrano essere lo stile di unesistenza che risulti il più possibile irreale. Lespressione diventa la meno espressiva possibile, quasi a togliere ogni realtà dei sentimenti e per sfigurarla ostentatamente sotto la maschera di falsi sentimenti. Barison conclude chiedendosi se tutto il comportamento schizofrenico non debba essere considerato come manierismo. Dunque per Barison, ciò che fa il mondo schizofrenico e i modi di essere dello schizofrenico,non è una perdita, un minus, ma una attività, un plus, che ha come scopo il mettersi al riparo dai rapporti umani, dagli affetti dei rapporti umani, (togliere ogni realtà dei sentimenti), che, per essere diventati motivo di intollerabile sofferenza vengono sterilizzati in un comportamento asettico. Questa lunga premessa ci permette di fare due interessanti considerazioni: la prima è che il dolore, anche il dolore provocato da agenti fisici è nelluomo una realizzazione psichica; infatti pur condividendo con gli animali gli stessi substrati organici della trasmissione del dolore, nellessere umano lelaborazione e la risposta allo stimolo è mediata dalla realtà interna dellindividuo, che quando è alterata come nellautismo o nella schizofrenia, si concretizza in una risposta inadeguata e incomprensibile; è consideratao coerente invece, il vissuto di non percezione del dolore per cause fisiche che normalmente lo producono,quando questo è subordinato a una realizzazione più importante in quel momento (salvarsi la vita, affermarsi agonisticamente, riti diniziazione sociale etc). Laltra valutazione che riguarda più specificatamente la psichiatria è il vissuto di estraneamento, realizzato rispetto a situazioni che comportano la comparsa di un dolore psichico. Gebsattel chi non vuol soffrire quando la vita richiede sofferenza si autodistrugge . I rapporti tra dolore e follia ,osserva Gaston , sono oggetto di considerazione, da tempi lontani sia dellindagine medica, sia del comune vivere popolare. Si è sempre pensato alla follia, come tentativo di fuga illusorio, da unintollerabilità del dolore, generatosi da esperienze fallimentari e/o frustranti di rapporto con il mondo. In un articolo apparso nellottobre del 1998, ci viene raccontato un fatto poco noto della vita del filosofo A.Schopenhauer. Nel 1812 lallora ventiquattrenne studente di filosofia, si mise a frequentare i pazienti del reparto psichiatrico dellospedale la Charitè di Berlino. Deluso dalle teorie degli idealisti che riteneva astratte, in quanto avulse da una realtà clinica, egli cercò attraverso una ricerca solitaria e un rapporto diretto e personale con la realtà del malato di mente, di elaborare un pensiero, che spiegasse lorigine più profonda della follia. Nei numerosi testi che parlano della follia, si trovano descrizioni, considerazioni, fatti,ma non ho mai trovato una spiegazione chiara e soddisfacente dellintrinseca natura della follia ,di che cosa essa sia e di come questa si distingua dalla sanità . Egli osservò, che alla base della malattia mentale,non cera né degenerazione organica, né un trauma fisico, né unereditarietà genetica, ma una storia di vita, unesperienza concreta caratterizzata da un vissuto insopportabile; questa consapevolezza, nasceva dalla constatazione diretta, che i malati non ricordavano fatti fondamentali e sconvolgenti del proprio passato; limpossibilità a ricordare era legata, alla non sopportazione del dolore connesso allevento, così che, in una attiva e inconsapevole falsificazione della loro storia, dimenticavano tutto, costruendosi un mondo più sopportabile. Il giovane Schopenhauer, elaborò così la cosiddetta teoria della dimenticanza: La follia è il Lete, è loblio di troppo dolore .Poiché loggetto di uno straziante dolore psichico si trova sempre e solo nella memoria()ecco allora come si spiega il fatto che un simile dolore possa diventare follia ()nel momento in cui luomo ()perde la memoria e trova sollievo nella follia. I folli ()si imbrogliano solo rispetto al passato, a ciò che non cè ,() quando parliamo con loro, con nostra grande sorpresa, dallo sguardo, dal loro comportamento, ci appaiono raziocinanti,e ci sembra che fingano,che ci prendano in giro.Ciò accade finché posseggono luso della ragione e la loro malattia non è degenerata in un delirio() [ma] questi malati in verità [di solito] non delirano; per lo più sono in possesso delle proprie facoltà razionali; solo qualche volta vengono presi improvvisamente dal furore; le vene del collo si gonfiano e non riescono più a dominarsi, attaccano ogni essere vivente, rompono tutto, si strappano i vestiti di dosso; sono completamente fuori di sè . E come se spezzassero i fili della memoria ()nei loro ricordi ci sono dei buchi (luken) che loro riempiono di invenzioni. Dunque una malattia della memoria, non nel senso di una degenerazione, ma come disturbo del pensiero, che creando un mondo falso, distrugge le proprie possibilità di rapporto. Per costruire questo altro mondo, che si oppone a quello reale, cè bisogno di unenergia, di una intenzionalità, spesso non cosciente, di una forza cieca: la pulsione. Freud definisce la pulsione come una spinta insita nellorganismo vivente a ripristinare lo stato precedente. Questo meccanismo di sostituzione di significato riferito agli oggetti con cui si è in relazione ha analogie neanche troppo anodine, con il concetto ormai desueto, ma che andrebbe rivalutato di percezione delirante. Occorre chiarire che, definire la follia unicamente come evitamento del dolore, può apparire riduttivo se non addirittura falso; del resto però, alcune ipotesi teoriche su questo legame tra non voler soffrire e alienazione possono essere desunte, ad esempio, dalla clinica delle tossicodipendenze, in cui il problema dellintolleranza al dolore psichico, viene risolto con lassunzione di sostanze che alterano il rapporto affettivo e vitale con la realtà. Senza addentrarci troppo in questo campo e mantenendo le indubbie differenze tra tossicodipendenti e malati mentali, possiamo forse affermare che mentre i primi attuano più o meno coscientemente questa strategia di allontanamento affettivo dallaltro essere umano, nei secondi questo meccanismo di chiusura al mondo scatta non coscientemente, apparentemente senza motivo, come se percepissero a priori di non avere la vitalità sufficiente per sopportare un rapporto autentico. Ci interessa focalizzare comunque che nella stragrande maggioranza di casi ,per non dire sempre, le motivazioni di questa negazione del rapporto vanno ricercate nel fallimento di relazioni umane.
Precedentemente avevamo affermato che di fronte ad un dolore di natura fisica il nostro compito di medici era quello di impiegare tutti i mezzi a disposizione per eliminarlo per poi rivolgerci alle cause che lo determinavano; ora in base alla definizione e alle considerazioni che abbiamo fatto sul dolore psichico è chiaro che lapproccio dovrà essere diverso e indirizzato al superamento del dolore tramite la formazione di un immagine che ci faccia valutare lassenza meno grave (qui lassenza è intesa nei due versanti come assenza dellaltro con cui abbiamo avuto rapporto affettivo e come assenza di propria realtà umana.). In genere questa operazione di passare dal dolore allimmagine è un fenomeno fisiologico che tutti possono sperimentare, per cui la situazione non richiede intervento medico, anzi può essere vista come elemento di sanità, ma quando ciò non accade si possono creare situazioni che come abbiamo visto possono assumere o valenze depressive con angoscia di non riuscire a superare gli eventi o nei casi più gravi valenze di psicosi gravi che con lannullamento della situazione perturbante, annullano anche la propria realtà interna determinando la malattia. Questi ultimi due casi esigono lintervento dello psichiatra che spesso è costretto a scontrarsi con il paziente che cerca di confonderlo sulla sua vera natura; è anche il momento in cui viene cimentata labilità dello psichiatra nel rifiutare e frustrare le manifestazioni malate del paziente per rivolgersi alle realtà più sane; ciò alcune volte può produrre paradossalmente uno stato di maggiore sofferenza che non deve confonderci perché forse rappresenta il prezzo da pagare per superare uno stato di immobilismo e per raggiungere una dinamica di relazione autentica. Da queste considerazioni appare quindi evidente che lo psichiatra che voglia rivolgersi con coraggio alle dinamiche di relazione del paziente, per comprendere e curare ciò che si è alterato, debba possedere oltre ad una buona conoscenza verbalizzata della nosografia psichiatrica, due strumenti preziosi ai quali non dovrebbe mai rinunciare: il sentire del corpo,inteso come luogo di formazione dei sentimenti a partire dalle percezioni ,e la critica darte intesa come organo di comprensione della vita. Il pensiero di Dilthey con il quale Gaston ci ammonisce è illuminante un altro elemento del pensiero di Dilthey non sufficientemente valorizzato dalla psicopatologia, riguarda la comprensione degli altri. Dalluniformità del mondo umano ( che gli deriva dal suo legame con il mondo fisico e organico della natura) ,si sviluppano dei tipi di mondo umano sui quali si basa lindividuazione :il tipo, dice Dilthey, non è loggetto del pensiero concettuale, ma loggetto della visione artistica e poeticala funzione mediatrice dellarte (intesa come organo di comprensione della vita) è possibile in quanto può superare i limiti dellErlebnis (vissuto) individuale, e perché per suo mezzo si possono comprendere le vite degli arter-ego .Il processo attraverso il quale tutto ciò può avvenire è il processo di riproduzione (qui ci sembra inteso come rappresentazione) .Un individuo partendo da un insieme di elementi fisici ( un gesto, unespressione ,un movimento, ecc) può risalire alla vita interiore di chi li manifesta : Il riprodurre è un rivivere, dice Dilthe. E rivivere richiede simpatia per il proprio oggetto. Larte rappresenta quindi lorgano della comprensione; cioè lorgano attraverso cui possiamo comprendere gli altri. Essa si pone ,allinterno delle scienze dello spirito, come elemento intermedio tra il vissuto e il pensiero verbale.
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Schneider K. Psicopatologia Clinica. Sansoni Edizioni scientifiche.Firenza .seconda edizione 1967
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Kaplan H.I. Psichiatria.Manuale di scienze del comportamento e psichiatria clinica. Centro Scientifico Internazionale .Torino 1996
Si ringrazia Eleonora Serale per la collaborazione alla traduzione dal latino e dal greco.
PM
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