Eutanasia: la dignitą di morireSabrina Ulivi, Alfredo Guarnieri, Martina TaioliInterpretare la morte come una disfatta della medicina piuttosto che un evento naturale e fisiologico e conseguire l’idea che sia sempre possibile gestire le fasi della vita secondo la propria volontà, significa implicitamente approvare e sostenere il concetto di “eutanasia”, escludendo la possibilità che vi siano cause naturali capaci di condurre alla morte e rifiutando di ammettere che l’esistenza umana possa avere limiti assolutamente biologici. La medicina, infatti, non deve essere percepita come un’entità che scandisce i tempi cruciali della vita, dalla nascita alla morte, potendo decidere sempre di prolungarne la durata in nome della Scienza e dei suoi successi bensì come assistenza per coloro che necessitano di “cura”, letteralmente intesa come “care”, ossia completa dedizione per il paziente, durante il corso naturale degli eventi. Il dibattito intorno all’eutanasia è ormai in corso da anni eppure ancora non è stato chiarito il significato esatto del termine stesso che oltre a celare dietro di sé aspetti morali, etici, sociali, culturali, giuridici e scientifici, presupporrebbe anche delle distinzioni fondamentali. Eutanasia, accanimento o abbandono terapeutico del paziente non sono tutti sinonimi assimilabili con la morte del paziente, né tantomeno ne devono rappresentare la causa diretta e immediata. Il termine eutanasia compare per la prima volta nelle antiche civiltà classiche, Greca e Romana, in cui era permesso a uomini e bambini che presentavano gravi malformazioni fisiche togliersi la vita per mano propria o con l’aiuto di altri; nonostante la ferma opposizione di numerosi filosofi, tale gesto era addirittura considerato con rispetto dato l’intento di sfuggire a un’esistenza divenuta insopportabile e carica di sofferenza. Poi, con l’avvento del Cristianesimo, dell’Ebraismo e dell’Islamismo il significato dell’eutanasia cambiò radicalmente in quanto per ognuna di queste religioni, essa contrastava nettamente con la sacralità della vita e dunque, fu messa al bando diventando così non solo una questione di interesse morale ma anche prettamente giuridica. Dobbiamo aspettare il XVI secolo perché il concetto di eutanasia sia rivalutato, quando Michel De Montaigne comincia a rivendicare il diritto di ogni singolo di poter scegliere come e quando morire, appoggiato negli anni successivi da diversi filosofi illuministi ma, nel Nord-Europa e negli USA, solo negli anni ’30 nacquero i primi veri e propri movimenti sostenitori della depenalizzazione dell’ eutanasia. Attualmente, infatti, la legge prevede che ciascun paziente in grado di intendere e di volere (ossia dotato di “competenza morale”) debba dare il proprio consenso scritto prima che l’operatore sanitario intraprenda qualsiasi intervento diagnostico o terapeutico; dunque, in altre parole, ciò implica che ogni adulto consapevole ha il diritto di poter rifiutare una cura anche se questo può condurlo alla morte. Ma allora fino a che punto si spinge il limite tra il dovere medico di salvaguardare la vita dei suoi pazienti e la libera scelta personale di spegnere la propria vita se ritenuta priva di dignità e colma di sofferenza? La chiave per comprendere fino in fondo la dualità tra le due cose potrebbe solo essere afferrare correttamente il concetto di “ eutanasia” che semanticamente significa “buona morte”, dove buona ha il connotato di “dolce”, che deriva dal greco “eu”: “bene” e “tanathos” per l’appunto “morte”; ma, in realtà, sul piano pratico l’ eutanasia non è poi così univoca: essa, infatti, può avere tre diversi modi di realizzarsi.
La distinzione tra eutanasia attiva e passiva è tradizionalmente ritenuta rilevante da un punto di vista etico-deontologico, infatti le implicazioni morali del lasciare che le cose seguano il proprio corso naturale (forma passiva) sono nettamente diverse da quelle dell’intervenire per modificare lo svolgersi degli eventi stessi (forma attiva); eppure alcune correnti di pensiero sostengono che non vi sia alcuna differenza fra le due in quanto l’obiettivo che perseguono è esattamente lo stesso. Inoltre, bisogna considerare che nella sospensione di un trattamento terapeutico, come previsto dall’eutanasia passiva, non sempre la morte segue immediatamente alla cessazione delle cure, specie se queste riguardano l’alimentazione o l’infusione di liquidi e in tali casi il paziente può morire per il digiuno e la disidratazione, fra sofferenze ancora più grandi ed inimmaginabili. È comprensibile, allora, che un operatore sanitario si domandi se è più giusto lasciar morire una persona tra atroci sofferenze o accelerarne l’esito con l’iniezione di farmaci letali (eutanasia attiva). Altri dubbi sorgono poi sul concetto del “rifiuto della terapia” da parte di un paziente: in prima istanza perché siamo sempre certi che per il paziente stesso rifiutare la terapia coincida esattamente con il desiderare la morte? poi, perché si utilizza il termine eutanasia passiva “consentita” solo ed esclusivamente per il malato terminale o per il paziente in stato vegetativo persistente? Infatti se un soggetto si oppone, invece, ad una terapia innocua, priva di costi biologici e lesioni gravi, noi parliamo di “volontà di suicidio”(ad esempio, il diabetico che rifiuta l’iniezione di insulina). Ma allora, in questi casi, l’intervento terapeutico del medico effettuato contro la decisione del malato è lecito? illecito? o addirittura doveroso? A quali pazienti spetta il controllo della propria vita, o per meglio dire di poter scegliere di morire “dolcemente” e riservandosi ultimi giorni dignitosi? Per rispondere dobbiamo introdurre il concetto di “malato terminale”, una definizione riservata all’essere umano in cui cominciano a venir meno quei meccanismi di autoregolazione che ci consentono quotidianamente di vivere, sia pure a livelli diversi di salute. Dunque la “terminalità” non dipende dall’età o dal tipo di malattia, essa è una condizione, in parte fisica e in parte psicologica, che si realizza quando la malattia inguaribile e in fase rapidamente progressiva induce nella mente del medico e del personale sanitario, dei familiari e del paziente stesso la convinzione che la morte sia ormai inevitabile. Ed è, automaticamente, in questa fase che cambia l’ottica di inquadrare tutta la situazione che si ha davanti e che ogni intervento diagnostico o terapeutico esercitato sul malato assume un’altra accezione: continuare una cura significa anche prolungare le sofferenze oltre che i giorni di vita, una vita ormai giunta al confine con la morte e fino a che punto perseguire nella somministrazione di presidi medici eccezionali e nell’impiego di macchinari all’avanguardia non significa scadere in un “accanimento terapeutico”? Ma come fare a decidere quando bisogna insistere nelle cure e quando sia lecito arrendersi alla morte senza però, allo stesso tempo, scivolare nell’eutanasia passiva? Nonostante l’articolo 32 della Costituzione Italiana sancisca il diritto alla salute da parte della collettività e gli articoli 2 e 42 affermino che il cittadino deve sempre essere curato ma che se rifiuta un trattamento proposto, l’operatore sanitario non può erogarlo con coercizione, secondo la giurisprudenza italiana l’atto di eutanasia è considerato un reato perseguibile dal codice penale come “omicidio compassionevole o pietoso” o come “omicidio comune volontario”, spesso con gli aggravanti di rapporto di parentela e premeditazione e le pene vanno da 6-12 anni di reclusione all’ergastolo. Di contro, però la legislazione non punisce la cessazione dell’accanimento terapeutico e la “Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’ Uomo e delle Libertà fondamentali” (ratificato a Roma, nel 1950, dall’ Unione Europea) difende la possibilità di avere una “morte dignitosa”; infatti nell’ articolo 3 della convenzione sono proibiti “trattamenti inumani e degradanti” come la condanna a morire tra atroci sofferenze per il progredire di una malattia e nell’ articolo 2, invece, è stabilito il diritto alla vita che presuppone non solo la salvaguardia dello stesso ma anche il diritto di poter scegliere il momento della propria morte. È indiscutibile, infatti, l’immoralità di imporre a un essere umano patimenti continui che, giorno dopo giorno, consumano la sua dignità negandogli la libertà di poter decidere ragionevolmente del proprio futuro, come il perpetuare di una grave condizione morbosa causa nell’essere umano che combatte ormai, con le ultime armi della Scienza a disposizione, una battaglia contro la Natura ma, allo stesso modo, non esiste eutanasia che rispetti la dignità umana e la vita stessa. È vero che, concettualmente, si tratterebbe di un’azione che, al contrario, proviene proprio dalla libera volontà del paziente stesso, ovvero dal padrone, in prima persona, di quella vita che, in un reparto ospedaliero, gli operatori sanitari traducono in parametri medici, esami strumentali e terapie da somministrare ma che in un passato, non molto remoto, era bellezza, felicità, sogni e pianificazioni del futuro.. ma è pur vero che siamo di fronte ad una scelta di un soggetto malato, sofferente, depresso, che dinanzi a sé non vede futuro, a cui la malattia e il dolore hanno appianato ogni ideale di vita. Se la medicina fosse davvero anche “care”, ovvero assistenza, ascolto, supporto comprensivo e compassionevole oltre che supporto vitale, credete esisterebbe ancora un così acceso dibattito sull’ eutanasia? Se si imparasse nel mondo della Sanità e nella società tutta a concentrare la propria attenzione sul malato e non sulla malattia, sul bisogno che un individuo malato ha di migliorare la qualità della sua vita residua piuttosto che di prolungarne solo la durata, se la relazione medico-paziente oltre ad essere esclusivamente terapeutica divenisse anche un rapporto di partnership in cui il medico entra in empatia con il suo paziente e prova ad identificarsi nei suoi sentimenti, nelle sue sensazioni, nelle sue volontà e non solo ad interpretarne i suoi sintomi scegliendo per lui il farmaco più adatto, credete che sarebbero sorti tutti questi dubbi riguardo la giustizia morale, scientifica, religiosa, etica e giuridica dell’ eutanasia? L’operatore sanitario racchiude nella sua figura il dovere primario e la competenza specifica di curare gli aspetti fisici e biologici dell’esistenza umana, ma quando si trova a dovere esprimere il senso della vita è nelle medesime condizioni del suo assistito, cioè non possiede una specifica competenza e deve rivolgersi necessariamente alle proprie conoscenze religiose, filosofiche e umane. La morte in una società fondata sull’alta tecnologia mantiene il suo aspetto angosciante, perché smentisce tutte le promesse di felicità e di benessere su cui sono state fondate la medicina del desiderio e della guarigione: nonostante tutti i prodigi della tecnica, restiamo mortali. Le dinamiche dell’esistenza fanno comprendere la vera natura dell’autonomia: essa non è mai assoluta; non è togliendosi la vita o facendosela togliere che l’essere umano afferma la propria libertà: la morte rappresenta la contraddizione stessa della libertà e dell’autonomia e accettare la morte come evento indipendente dalla nostra volontà vuol dire iniziare a capire la condizione umana. Agli albori della medicina lo stesso Ippocrate asseriva che avrebbe impiegato tutti i mezzi di cui disponeva per portare beneficio ai suoi pazienti e, allo stesso tempo, non avrebbe fatto nulla che potesse risultare deleterio per il proprio assistito; nel libro “I Precetti” scriveva che “dove c’è amore per il genere umano c’è amore anche per l’arte della medicina”, rafforzando la convinzione che debba esserci amore alla base delle relazioni umane, persino quelle tra operatore sanitario e paziente. Teniamo sempre presente il dettato di un poeta come Percy Bysshe Shelley che nel “Defence of Poetry” asseriva che un uomo, per essere buono e morale, deve ricorrere alla propria immaginazione e mettersi nei panni degli altri: allo stesso modo l’operatore sanitario deve vedersi attraverso gli occhi del suo assistito e fare tutto ciò che è giusto per lui nel massimo grado di certezza possibile. Agli operatori sanitari e alle persone, in generale, non bisognerebbe insegnare la certezza delle teorie, bensì a vivere nell’incertezza delle situazioni che si creano ed evolvono di volta in volta e nelle quali siamo chiamati a decidere e, dunque, a imporre ognuno la propria libertà di scelta fra i numerosi dubbi e le molteplici esitazioni che ogni occasione offre.
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