Introduzione
E' naturale per operatori psichiatrici che lavorano da molti anni, interrogarsi sui cambiamenti di prospettive che hanno caratterizzato luoghi e tempi diversi dei Servizi. Nessuno di noi oggi, di fronte ad una crisi psicotica, condividerebbe l'idea romantica di una soluzione creativa o di una piccola rivoluzione personale, familiare, sociale, che finalmente destabilizza un ordine repressivo e prelude alla possibilità di un nuovo diverso equilibrio.
Si è radicata invece la convinzione che un simile evento, almeno per la prevedibile necessità di manipolazione con la farmacoterapia, o di ospedalizzazione, abbia un inevitabile significato traumatico.
Piuttosto possiamo riconoscere un valore formativo per l'identità della persona al superamento della fase acuta, all'accettazione della fragilità, alla tolleranza dello stigma o del rischio di ricaduta o di una guarigione incompleta. Pensiamo ai pazienti che riescono a portare avanti rapporti familiari e di lavoro malgrado il disagio di sintomi persistenti, o anche al coraggio con cui viene affrontata la propria diversità quando si stabilizzano funzionamenti difettuali.
Il termine crisi, oggi meno utilizzato di una volta, indica già un modello di lettura e di approccio dei quadri acuti che ne coglie la portata evolutiva, si rivolge alla globalità della persona che soffre, si confonde con la normalità che prevede fasi critiche fisiologiche: crisi adolescenziali, matrimoniali, della mezza età, attraversa tutta la patologia e definisce scarsamente il quadro clinico.
Nel linguaggio della nosografia corrente operiamo fin dall'inizio delle distinzioni e parliamo piuttosto di psicosi acute, episodi maniacali e depressivi, scompensi affettivi di disturbi di personalità.
Nel linguaggio dei servizi ci riferiamo più frequentemente all'urgenza, alla richiesta improvvisa, al momento di pressione per gli operatori, alla necessità di revisione del progetto.
Rispetto ad una volta, oggi nutriamo aspettative di un rapido ritorno del paziente alla normalità in un numero più limitato di situazioni. Sta prendendo piede un approccio per episodi di cura ripetuti, fondato sulla consapevolezza di trattare problemi emergenti senza toccare equilibri che possono avere evidenze disfunzionali, che trova indicazioni soprattutto nei confronti del numero crescente di disturbi di personalità.
Relativamente ai quadri psichiatrici maggiori sappiamo come sia difficile superare senza cicatrici estese anche "solo" una psicosi breve, un tentativo di suicidio, un singolo episodio depressivo, quanto lavoro occorre per recuperare il profondo senso di estraneità che caratterizza il vissuto della crisi e del dopo-crisi.
Nei disturbi mentali cronicizzati la crisi si inscrive come momento di ritorno di una grave sofferenza più che di cambiamento, esasperazione della ripetitività del disturbo vissuto come ineluttabile da parte dell'operatore e del paziente, come rottura di delicate alleanze e di comunicazioni costruite con fatica, come segnale di una richiesta eccessiva o di una disattenzione dei terapeuti.
All'equivalenza psedoscientifica storicamente datata tra cronicità e inguaribilità, evidente artefatto di un'epoca, è subentrato il concetto di cronicità come effetto iatrogeno del processo di cura, come prodotto delle operazioni messe in atto dal sistema curante (1).
La cronicità come effetto iatrogeno investe la rete intera del territorio, non più soltanto gli spazi asilari o delle strutture residenziali isolate e abbandonate a se stesse. Il processo di connubio tra disturbo psichico, non necessariamente grave, e inadeguatezza dell'intervento coinvolge dimensioni molteplici della pratica territoriale, non solo quella tecnico-professionale ma anche quella organizzativa.
Siamo consapevoli della difficoltà del compito terapeutico e del rischio di vecchi e nuovi riduzionismi. Sappiamo che letture diverse della sofferenza mentale e setting di cura distinti possono orientare l'esito della crisi e l'andamento della cronicità.
I modi di vivere il trauma della crisi da parte del paziente, di sperimentare il limite e il danno dati dal disagio cronico, si configurano come spazi privilegiati per costruire un'alleanza terapeutica, per ristabilire un contatto con il paziente, avviare uno stato di condivisione, assegnando così al paziente la funzione di effettivo coautore dell'intervento.
Dopo questa breve e rapsodica introduzione, procederemo per parole-chiave, con una sorta di GLOSSARIO appena abbozzato, per poi continuare, in un campo ampio e complesso, per forti impressioni, accennando alla CRISI DEL MODELLO DI LETTURA, al tema della CONTINUITA' E DISCONTINUITA' e alla CRISI DEL PAZIENTE e CRISI DELL'ISTITUZIONE.
GLOSSARIO
Il termine crisi, ambiguo ma opportuno, costruisce un ponte tra patologia e normalità.
Il dopo crisi, nel nostro campo, è una fase delicatissima che richiede grande attenzione, grandi capacità di coinvolgere pazienti e famiglie in alleanze di lavoro e di rilanciare la speranza.
L'urgenza si presenta come imprevisto, stress, affollamento, situazione da normalizzare, necessità di modificare i nostri programmi.
Parole come acuto, grave, cronico colgono l'esigenza di fissare l'oggettività clinica, funzionale o disfunzionale a seconda che si aprano o si chiudano prospettive terapeutiche.
Il termine cronicità, altrettanto ambiguo, come molte altre parole della nostra lingua, rinvia a molteplici significati.
A volte sembra designare uno stato morboso, secondo Jaspers sempre inguaribile (1913-1959) altre a volte sembra descrivere le caratteristiche del processo morboso nella sua accezione morfologica , altre volte ancora sembra rappresentare un mero fatto clinico nelle sue varianti di alterazione del pensiero o più semplicemente di contrazione dell'iniziativa personale. Ma può anche rimandare al concetto di effetto iatrogeno o al termine di stabilizzazione del disturbo, di deficit di abilità e di esito negativo. (2)
La cronicità conserva ancora oggi un significato negativo, anche se sembra aver perso il carattere di stretta e univoca identificazione con il concetto di malattia e di inguaribilità. Richiama ancora l'irriducibilità di sintomi e comportamenti, lo spegnimento della soggettività del paziente e la sua astoricizzazione, la staticità degli atti quotidiani e lo stato di demotivazione del paziente e degli operatori, le offerte di trattamento poco personalizzate, il tempo della ripetizione e non certo quello dell'attesa costruttiva e fiduciosa. Ma richiama alla mente anche l'abbandono della speranza da parte dell'operatore e il rischio di nuove e occulte modalità di istituzionalizzazioni per l'incapacità del servizio di connettere i circuiti della malattia con la vita e la qualità della vita della stessa persona.
CRISI DEL MODELLO DI LETTURA
Ci sono stati importanti cambiamenti nella percezione della crisi che ci confermano come la lettura della crisi sia condizionata dalle aspettative e dal contesto. Nell'ultimo decennio l'approccio ai disturbi mentali ha abbandonato le caratteristiche ideologiche e un po' sognanti della fase precedente, e si è proposto obiettivi razionali.
Negli anni 80 si vedeva più frequentemente l'acuzie perché la cronicità era ancora segregata, o non veniva riconosciuta come uno dei possibili sviluppi della cura; si dava maggior enfasi ai sintomi positivi, al loro significato comunicativo, si investiva con fiducia nella gestione intensiva domiciliare e ambulatoriale della crisi, si nutrivano aspettative positive. La relazione terapeutica poteva essere investita di elementi magici, con un'enfatizzazione del sesto-senso, dell'impalpabilità della comunicazione empatica, della sacralità della relazione d'aiuto.
Il cosiddetto diritto al delirio, e quindi la necessità di doversi confrontare con la cronicità, è stato sancito successivamente dallo scacco operativo e dall'ignoranza di alternative strategiche o dalla stessa consapevolezza che non può esserci bagaglio tecnico o modello epistemologico che possa garantire un percorso evolutivo o una stabilizzazione certa del quadro clinico. L'approccio riabilitativo ha posto in primo piano gli esiti invalidanti, la necessità di un lavoro solidale e mirato per superare l'handicap, ha spostato l'attenzione dalla vicinanza emotiva e relazionale col paziente, alla condivisione, anche solo parziale, del problema e obiettivo del trattamento; ha spostato l'accento dalla relazione intesa come forma di comprensione per gestire eventuali conflitti intrapsichici alla costruzione del rapporto finalizzato a coinvolgere il paziente negli atti e ritmi della quotidianità.
Il progetto, da direttrice ipotetica costruita dagli operatori ad uso esclusivo degli operatori, si è trasformato in progetto co-costruito con il paziente e i suoi familiari. Gli interessi del paziente, la sua concezione della malattia e della crisi, accanto alle percezioni e prospettive dei familiari, sono diventati parti integranti di ogni intervento.
C'è adesso più chiarezza e capacità di valutazione multidimensionale, è possibile nominare e classificare i problemi, prevedere scenari futuri.
Anche se all'interno della relazione terapeutica o della relazione familiare, un linguaggio troppo preciso e diretto viene ancora temuto.
C'è più chiarezza sulla natura dei progetti, ma è più difficile costruire o improvvisare progetti, essere visionari come una volta.
Adesso più che la crisi, come evento nodale nella vita di una persona, si rischia di vedere la gravità, l'acuzie, di frammentare il disagio in comportamenti sintomatici e di gestirlo nell'urgenza. L'articolazione dei Servizi in contesti terapeutici multipli, specializzati, potenziale ricchezza, può favorire una frammentazione di interventi, una parcellizzazione di prospettive, una perdita del senso e della direzione evolutiva.
Cambiano nel tempo i luoghi del servizio in cui è valorizzato l'aspetto critico, il cambiamento rapido; in passato il reparto ospedaliero era l'osservatorio privilegiato della cronicità territoriale mentre l'intervento di crisi si collocava naturalmente nel territorio; oggi è l'ambulatorio che di fronte all'esordio della patologia si attrezza già per i tempi lunghi della cura mentre il SPDC si può trovare a valorizzare i miglioramenti e a ricercare strategie che consentono la dimissione.
La previsione di una presa in carico a lungo termine nei Centri di Salute Mentale può rappresentare una risorsa se coincide con una costruzione aperta, articolata, a più mani del programma, ma può altrettanto facilmente portare ad appiattire e standardizzare le risposte.
Si pone il problema di come articolare i segmenti di intervento, di come rintracciare e ancorare, nella rete degli incontri quotidiani, la presenza di gesti umani in grado di far risuonare e recuperare sguardi, silenzi e parole per riguadagnare la reciprocità infranta; si pone altresì la domanda di come dare continuità a fasi e momenti diversi della terapia senza rischiare una caduta dell'attenzione e del contatto con le difficoltà vissute dal paziente.
Anche a livello di cultura del servizio esiste il pericolo della frammentazione: il patrimonio di esperienza umana acquisito nel corso degli anni rischia di essere dimenticato a favore della nozione rassicurante di un progresso privo di passioni.
Un elemento di possibile continuità tra passato e presente, cerniera tra soggettività e logica, tra relazione terapeutica e programma, tra attori diversi, è la dimensione emotivo-affettiva che rende viva e autentica la costruzione terapeutica.
Una questione nodale, a proposito, è la nozione di contenimento che definisce spesso il tipo di risposta che si dà a una situazione di crisi. Può essere concepito come parte integrante della relazione terapeuta-paziente, in un'accezione che valorizza la dimensione intersoggettiva, può richiedere la tessitura di relazioni multiple orientate a una ricomposizione dell'angoscia e della distruttività, ma può essere esternalizzato e delegato a un luogo, alle caratteristiche fisiche di una struttura, a un sistema di regole, a un antipsicotico atipico, a un funzionamento istituzionale. Le diverse interpretazioni definiscono punti di vista diversi e gradi di coinvolgimento diversi.
CONTINUITA' E DISCONTINUITA'
Nella lettura della crisi che è alle nostre spalle è insita una nozione di Continuità, che legava in modo lineare la sofferenza psichica a un evento specifico, a un trauma originario, a determinanti familiari e ambientali, a una storia di vita particolare ricostruita in una prospettiva critica e spesso colpevole.
La Continuità è anche nella fiducia eccessiva riposta nel contenimento relazionale, nell'idea che la relazione terapeutica possa avere in sé un potere taumaturgico e non costituisca piuttosto uno degli strumenti della cura. Nel nostro linguaggio di operatori la continuità terapeutica luogo di sostegno, di intensità affettiva, ma anche di sequestro di significati e di potenzialità, ha rappresentato per anni l'offerta migliore.
Noi lavoriamo ora nella Discontinuità. La crisi si inscrive oggi nella Discontinuità: discontinuità di determinanti ambientali, psicologiche, biologiche, familiari, di figure di riferimento, di luoghi di vita e di cura, di modelli di approccio e di organizzazione del servizio, di possibilità di spiegazioni, di rimedi farmacologici, relazionali, sociali, di rapporti tra passato e presente, di coordinazione operativa tra funzioni e compiti diversificati.
La nozione di Trattamento Integrato da tempo è emblematica della necessità di far convivere approcci diversi in contesti diversi (Zapparoli, 1988; Siani et al., 1990). L'articolazione attuale delle Istituzioni di cura conferma la percezione di una discontinuità, di una complessità difficile da ridurre.
La Continuità ha una valenza ingenua e visionaria, costruisce legami ma tende poi ad irrigidirli e a farli implodere.
Sappiamo d'altro canto che l'accettazione della discontinuità rischia di farci scivolare in un atteggiamento disincantato e iperrealista.
LA CRISI DEL PAZIENTE
L'esordio di un disturbo psichico, la prima crisi coincide con l'intromissione di elementi di forte estraneità, discontinuità, nella vita di una persona e con l'avvio di una situazione di familiarità con la sofferenza.
Lo stigma, l'etichetta di malato mentale ha un ruolo potente nel determinare l'esito della crisi, nel vedersi diversi attraverso gli occhi degli altri, nello sviluppo di comportamenti di evitamento sociale.
Si producono "difese", stati interni e modalità di coping che strutturano l'assetto del dopo-crisi e caratterizzano la cronicità. Il sintomo negativo rispecchia una posizione del paziente di fronte alla paura del ripetersi della crisi e una modalità di risposta alla cura. Nei casi più gravi la ripetizione onnipotente o disperata di comportamenti desocializzati finisce per costringere pazienti, familiari e terapeuti all'immobilità. E' necessario, più che forzare le difese o attaccare equilibri consolidati, trovare il modo di valorizzare l'esistente, di immettere nuove opportunità e nuove relazioni, valorizzare piccoli gesti, brevi ma intensi contatti, aperture improvvise per coinvolgere il paziente in una prospettiva progettuale.
La sensibilità relazionale degli operatori ha un ruolo centrale. Il mondo degli affetti, delle emozioni, costituisce la cerniera tra desiderio e possibilità, tra paura e compito, tra dimensione soggettiva e progetto.
C'è da avere in mente il tempo, il tempo che permette di promuovere processi. Viverlo in modo passivo e attivo, lenitivo e costruttivo per immettere con discrezione speranza, scadenze, fiducia nel cambiamento. Ci riferiamo non tanto al tempo che nell'accezione greca di Kronos significa serialità, linearità, successione misurabile, quanto alla concezione del tempo che i greci designano con il termine di Kairos, il tempo "umano e vivente delle intenzioni e dei propositi", "il tempo delle attività umane, dell'opportunità", "il tempo del movimento e del cambiamento" (Jacques, 1988).
La storia col Servizio rimane povera se si riduce a una costruzione a due; per emanciparsi dalla malattia ha bisogno di orizzonti aperti, di rapporti familiari positivi, di gruppi, di reti sociali. Di nuove sfide, per ridare vita ad un pensiero e ad una pratica in grado di rinnovarsi.
CRISI DELL'ISTITUZIONE: crisi e pensieri nuovi sul gruppo di lavoro
Pensare alla crisi è anche pensare a noi stessi e all'équipe terapeutica.
Abbiamo lasciato alle nostre spalle l'idea di gruppo di lavoro così come ci ha sostenuti nel passato: gruppo presente, coeso, luogo di riflessione e di discussione permanente, per smarrirci nell'Azienda, nel linguaggio dell'organizzazione, ritrovandoci soggetti anche noi a una spinta al confronto con sistemi sempre più ampi che immette in un panorama globale la particolarità del nostro contesto operativo.
La nostra crisi ha rischiato di mettere in secondo piano la crisi del paziente. C'è stata, c'è ancora una crisi dei Servizi, nel senso di cambiamenti troppo rapidi per essere condivisi, di possibile caduta di valori e di motivazioni, di idealizzazione o svalutazione del passato. Efficienza, dispersione, ridimensionamenti e razionalizzazioni delle risorse inducono aspettative di pianificazione, di soluzioni logiche e procedurali là dove sono necessari rapporti autentici.
Del passato è fondamentale la centralità del gruppo e della storia della relazione terapeutica che ha permesso una forte condivisione dei problemi dei pazienti, una personalizzazione dei progetti e una riappropriazione dei significati della crisi. Del presente è stimolante la possibilità/necessità di relazioni multiple, la sensazione di essere immersi in una rete di rapporti di cui perdiamo i confini, verso cui possiamo delicatamente sospingere i pazienti (pensiamo al diritto alla casa, al lavoro, al divertimento, alla salute) se siamo convinti che possano essere rapporti altrettanto intensi, partecipati, costruttivi anche se imperfetti, come quelli che offriamo noi stessi.
Secondo un percorso metodologico coerente con i bisogni e i problemi espressi dall'utente, il sistema dei curanti cerca di coniugare la definizione del progetto con la necessità di confrontarsi con l'unicità di ogni situazione, ricercando e mettendo al primo piano l'apporto dato dal paziente e dalla sua famiglia.
La terapeuticità dell'intervento non è più attribuibile prevalentemente alle caratteristiche personologiche del singolo operatore, senza con ciò sminuire l'importanza per l'operatore di un costante esercizio di autodisciplina. L'équipe curante si identifica con l'intero sistema terapeutico, comprendendo, quest'ultimo, la stessa persona del paziente, della sua famiglia e gruppi di utenti e cittadini raccordati col servizio.
L'intervento si specifica nella pluralità e diversità delle intenzioni cognitive dei soggetti agenti, si configura come campo e rete di interazione le cui descrizioni e descrizioni delle descrizioni sono tese a (ri)costruire connessioni e interdipendenze significative per l'umano. Coordinare e connettere le azioni e i significati dei vari soggetti coinvolti diventano i processi centrali per avviare, mantenere e sviluppare un progetto di salute.
Bibliografia
Jaques E., La forma del tempo: la fondazione temporale della misurazione nelle scienze sociali, Centro scientifico torinese, Torino 1988
Jaspers K., Psicopatologia generale (1913-1959), Il Pensiero Scientifico, Roma 1964.
Siani R., Siciliani O., Burti L., Strategie di psicoterapia e di riabilitazione, Feltrinelli, Milano 1990.
Zapparoli G.C. ed altri, La Psichiatria oggi, Bollati Boringhieri, Torino 1988
Note
(1) All'intuizione e successiva tematizzazione dell'effetto iatrogeno hanno contribuito varie istanze conoscitive collegabili alla prassi e alla teoria della conoscenza: innanzi tutto la pratica alternativa della deistituzionalizzazione, la riflessione storico-critica sui modelli e tecniche psicologico-psichiatriche, il dibattito epistemologico sulla complessità e sulla relatività di ogni conoscenza in quanto intrinsecamente costruttiva, gli interrogativi sull'efficacia delle psicoterapie e, ancora, il problema di ordine metodologico-pragmatico dell'integrazione degli interventi, della valutazione e del controllo del processo terapeutico-riabilitativo.
(2) Il rischio di abbandonarci acriticamente ad una concezione neokraepiliniana della patologia mentale è sempre alto, in quanto esposti, oggi come ieri, all'illusione di onnipotenza e al bisogno di controllo dell'angoscia. Il divario, che si apre tra concezioni organicistiche della malattia e operatività col paziente, ripropone le ben note separazioni tra persona del malato e malattia, tra ruolo dell'operatore e ruolo del paziente, banalizzando la questione di antiche e nuove dicotomie epistemologiche tra comprensione/spiegazione, processo/stato, riferimenti antropologici impliciti/riferimenti scientifici espliciti propri di ogni modello, dimensione tecnica/dimensione organizzativa. Ogni separazione o mal posta distinzione tra ambiti epistemici diversi sembra condurre alla negazione di un comune substrato antropologico, alla negazione del tempo intenzionale, del mondo dei significati comuni, della motivazione e della storia personale e interpersonale. Quindi , del progetto, di ogni progetto di vita.
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