Paolo Migone
Come i lettori sanno, col n. 130/2015 si sono interrotte le mie rubriche poiché è stata chiusa la rivista che me le chiedeva, e che rappresentava per me lo stimolo per scriverle. Come ho spiegato in quella che ho chiamato la mia "ultima rubrica", del 2016, ero incerto se e come continuare, anche perché sono sempre preso da altri impegni. Mi dispiace però interrompere questa tradizione che dura da più di trent'anni, per cui provo ora a parlare di una esperienza che pensavo di raccontare da tempo, per me importante anche a livello affettivo: la storia di un gruppo di studio che ho coordinato a Bologna per circa 17 anni a partire dal 1984. Per me è stata una esperienza molto bella, che spesso mi torna in mente e che è stata arricchente dal punto di vista umano oltre che formativo. Ritengo che i gruppi di studio siano una delle esperienze più utili che si possano fare per formarsi e tenersi aggiornati. Ve ne sono tanti, penso in ogni città: basta che alcuni colleghi si mettano insieme dandosi delle regole minime (fissando degli incontri periodici, assegnandosi dei compiti a turno e così via), e ci si arricchisce perché ciascuno impara dagli altri. La cosa più facile è fare un gruppo di supervisione di casi clinici - o di intervisione, come si sul dire - in cui a turno si espone un caso che viene discusso dagli altri (è fondamentale non sentirsi soli come clinici, soprattutto se si hanno casi difficili, e un vantaggio dei gruppi di supervisione è che sono gratuiti, a volta ancora migliori delle supervisioni individuali perché si ascolta il parere di più colleghi). Il segreto della riuscita di un gruppo di studio, mi sembra, è costituito dal fatto che ciascuno riceve qualcosa, senza che riceva meno di quello che ha dato. Naturalmente le dinamiche di un gruppo di studio sono complesse, ma preferisco ora descrivere come è andata la mia - o meglio, la nostra - esperienza, per poi eventualmente fare altre considerazioni. E' possibile che la descrizione di questo mio gruppo di studio possa servire ad altri, ad esempio per fare confronti con la propria esperienza. Prima racconterò qualcosa del gruppo (come si è formato, su quali motivazioni, etc.) e poi descriverò i temi che abbiamo affrontato insieme. Come si è formato il gruppo e le sue caratteristiche Io sono tornato dagli Stati Uniti alla fine del 1983. Sono di Parma, ma prima di partire, a metà degli anni 1970, abitavo a Bologna, dove conoscevo varie persone anche perché avevo fatto la Scuola di Specialità in Psichiatria all'Università di Bologna. Una cara amica di Bologna (Claudia Botteghi) appena aveva saputo che ero tornato in Italia mi offrì una stanza part-time nel suo studio di Via Irnerio 21, per cui incominciai a vedere pazienti anche a Bologna, oltre che a Parma. Andavo quindi a Bologna due giorni alla settimana, partivo il mercoledì mattina e tornavo il giovedì pomeriggio. A Bologna non vedevo solo pazienti, ma anche dei colleghi in supervisione. Dopo alcuni mesi di lavoro, ebbi l'idea di proporre a questi colleghi che vedevo in supervisione individuale di incontrarci settimanalmente, al mercoledì sera, sempre in Via Irnerio 21, per costituire un gruppo di studio. Tutti accettarono volentieri. L'orario era dalle 20.30 alle 22.00. Questo gruppo era a pagamento, ora non ricordo bene quale fosse il costo a testa ma so che era abbastanza basso, forse 5.000 o 10.000 lire per volta (oggi sarebbero 2,5 o 5 euro). Però, dopo un po' che ci incontravamo, ebbi l'idea di non far pagare più nessuno e di trasformarci in un gruppo di colleghi alla pari che si riunivano per studiare insieme e arricchirsi vicendevolmente; infatti avevo notato che vi erano colleghi bravi da cui potevo imparare anch'io, e poi mi piaceva molto di più l'idea di lavorare alla pari e non che io fossi in una posizione di superiorità rispetto agli altri. Mi piaceva l'idea che tutti potessero sentirsi liberi di crescere, al limite un giorno di poter fare a meno di me; infatti, una dinamica quasi inevitabile delle scuole istituzionalizzate è che possono continuare a esistere solo se vi sono degli allievi che rimangono allievi, perché se gli allievi diventano bravi, "superando il maestro", in teoria la scuola dovrebbe scomparire, e questo non è sempre possibile perché la istituzione ha regole proprie che la perpetuano (al limite, ad esempio, bisogna continuare a pagare un affitto, una segretaria, etc.). Vi è insomma un paradosso nel concetto di scuola: se una scuola funziona bene, gli allievi crescono e presto fanno a meno della scuola, per cui la scuola deve chiudere, quindi in un certo senso una scuola per esistere non deve far crescere bene gli allievi, ma "tenerli sotto", trasmettere loro una sensazione di inferiorità o di insicurezza. Naturalmente la mia è una estremizzazione, però ritengo che vi sia molto di vero in questa dinamica, ad esempio certi docenti, a causa di una loro insicurezza di cui ovviamente non sono consapevoli, posso trasmettere (anche come meccanismo proiettivo) un vissuto di sudditanza agli allievi, così si sentono più sicuri del proprio ruolo di docenti. La mia proposta di trasformare il gruppo rendendolo alla pari fu accettata. Quando divenimmo un gruppo alla pari, dopo un po' decidemmo che ogni volta qualcuno si preparava su un argomento e lo esponeva agli altri, per cui se tutti a turno portavano qualcosa ci si poteva arricchire vicendevolmente, perché ognuno aveva le sue aree di competenza e le nostre conoscenze si potevano moltiplicare. Chiunque poteva proporre un argomento, e se la proposta veniva accettata da tutti ci si incontrava la volta successiva per approfondire quell'argomento. Proposi anche di continuare a pagare una piccola cifra ogni volta (se ben ricordo erano 10.000 lire), che venivano raccolte da chi teneva la cassa, e la somma raggiunta veniva data a chi teneva la relazione (e devo dire che a quei tempi la cifra non era piccola, perché ad esempio se c'erano 15 persone si trattava di 150.000 lire); avevamo anche una cassa in cui tenevamo i soldi che raccoglievamo quando nessuno teneva una relazione (ad esempio quando il compito era quello di leggere una cosa assieme e poi discuterla), che potevamo utilizzare per pagare colleghi esterni che volevamo invitare a tenere dei seminari su argomenti che ci interessavano (dopo elencherò i nomi di chi invitammo, anche dall'estero, gli argomenti trattati e i convegni che organizzammo). Questa più o meno era la struttura del gruppo, che come ho detto durò circa 17 anni. Prima di passare a descrivere gli argomenti che affrontammo (nel modo più dettagliato possibile, per quanto mi ricordo e dalle note che presi, dato che alcune le ho conservate), voglio parlare della filosofia generale del gruppo, cioè della impostazione che io volli dare a questa esperienza. Innanzitutto, come ho detto, per me era importante che non vi fosse alcun tipo di istituzionalizzazione, cioè che il gruppo non diventasse una qualche associazione o tanto meno una "scuola". Volevo che fosse il più informale possibile, e che l'unica motivazione per incontrarci fosse la voglia e la curiosità di imparare della cose assieme. Per fare un esempio, più volte in quegli anni ricevetti esplicite richieste di fondare una scuola di psicoterapia, anche da colleghi autorevoli (allora non c'era ancora la legge sulle scuole di psicoterapia). Rifiutai senza esitazione: per me fondare una scuola di psicoterapia sarebbe stata una disgrazia, una enorme perdita di tempo e anche una cosa molto noiosa. Ho sempre avuto questa idea, e in tanti anni non ho mai voluto fondarne una o esserne parte con ruoli di responsabilità; mi piace essere invitato a tenere seminari e basta. Ho anche notato che a volte i colleghi che fondano scuole di psicoterapia non sono necessariamente i più bravi, ma quelli che non riescono a realizzarsi in altro modo e che tramite una scuola cercano di avere un loro ruolo di potere o un'area di influenza; ricordo che negli Stati Uniti si parlava di due "carriere", quella dei clinici (che possono avere anche interessi teorici) e quella degli administrators, che sono dei "politici", per così dire, o dei burocrati, cioè colleghi che gestiscono una istituzione e non hanno tempo di fare altro. Infatti gestire una scuola di psicoterapia richiede moltissimo tempo (questi colleghi diventano delle segretarie, per così dire, e non riescono più a studiare, a leggere libri o articoli, etc., o non sono portati a farlo). Mentre altri gruppi, anche molto più piccoli o meno importanti del mio, subito volevano istituzionalizzarsi, darsi un nome, fare locandine etc., cioè curavano l'aspetto esteriore o formale, noi volevamo fare esattamente il contrario (ci era molto chiaro che il bisogno formale di avere una identità riconosciuta poteva essere segno di una insicurezza della propria identità). L'idea insomma era quella di fare solo le cose in cui credevamo, che ci interessavano veramente, cioè il piacere di approfondire determinati argomenti. Ma già il fatto che il gruppo continuava nel tempo era un pericolo perché poteva essere visto in un certo qual modo come una istituzione, per cui io ogni anno decidevo di chiuderlo, cioè prima dell'estate dicevo che non sarebbe continuato; ma regolarmente ogni anno, alla fine dell'estate, riprendeva solo perché c'era qualcuno che era interessato a studiare un certo argomento. Volevo cioè fare il possibile per togliere dal gruppo l'idea di essere una istituzione che si auto-perpetuava, che continuava in quanto istituzione, e volevo vedere se c'era veramente una motivazione autentica legata all'interesse di approfondire determinati argomenti. Naturalmente sarebbe ingenuo pensare che il gruppo fosse del tutto scevro da altre motivazioni, ad esempio inevitabilmente per alcuni assumeva la valenza di un gruppo affettivo, di una sorta di "famiglia" a cui appoggiarsi (erano nate amicizie, a volte dopo si andava a prendere una pizza assieme etc.), ma queste cose sono inevitabili, l'importante è esserne consapevoli e porsi costantemente il problema delle reali motivazioni di un gruppo. Questa cultura del gruppo per me era molto importante, era quella che mi dava la molla per andare avanti. E devo dire che era condivisa anche da altri, ad esempio mi piace ricordare che due membri del gruppo, che stimavo molto, gestivano una propria scuola di psicoterapia, abbastanza nota, e dopo alcuni anni di frequentazione del gruppo decisero di chiuderla perché a loro non interessava più, preferivano essere liberi e fare le cose che a loro piacevano veramente (e non la chiusero certo per mancanza di mercato, in quegli anni c'erano molti meno problemi perché il mercato della psicoterapia e delle scuole era fiorente). Un altro aspetto caratterizzante del gruppo era la sua trasversalità rispetto agli approcci: non c'erano solo colleghi di orientamento psicoanalitico ma anche ad esempio un paio di colleghi che venivano dall'analisi transazionale, c'era chi si interessava di antropologia, di filosofia etc., c'erano psichiatri e psicologi, alcuni lavoravano nei Servizi di salute mentale e altri nel privato, insomma persone che rappresentavano culture diverse. Questa caratterizzazione del gruppo come libero, autonomo da qualunque formalità o istituzione insomma era per noi molto importante, voglio ribadirlo ancora una volta. Ad esempio, al centesimo incontro facemmo una sorta di celebrazione per festeggiare questa ricorrenza, in pratica una specie di festa, e come parodia assegnai dei diplomi, come se fossero di pergamena, che in modo goliardico volevano essere una presa in giro appunto delle certificazioni e dei riconoscimenti esterni in cui noi non credevamo assolutamente. Conservo ancora una di queste buffe "pergamene", il cui testo voglio riportare qui. In alto c'era scritto, scimmiottando i titoli che avevo visto in certi diplomi americani: «Honorable Mention - Certificate of Award» (la lingua inglese voleva essere un po' come il latino in certe recitazioni goliardiche). Poi, dopo una serie di decorazioni e stellette, il testo così continuava: «Medaglia d'oro e certificato di merito, a [il nome del "diplomato"], M.D. [che è il titolo americano di Medical Doctor] oppure Ph.D. [che è il titolo di "psicologo"] per aver eroicamente seguito per lunghi anni, in esattamente 100 incontri di 1 ora 1/2 l'uno, i "seminari del mercoledì" di Bologna della Migone School of Psychotherapy (pari soltanto alle riunioni della "Società psicologica del mercoledì" di Vienna), in compagnia dei pazienti di Kohut, Langs, Gill, Ogden, Luborsky, Gedo, etc., dissertando di tecniche psicoanalitiche classiche e non classiche, parametri, empatia, esperienze emozionali correttive e dei molti altri misteri della psicoterapia». Conservo anche un altro diploma goliardico che distribuii alla celebrazione dopo 250 incontri, in cui la intestazione variava leggermente e conteneva una derisione dei cosiddetti "didatti", ruolo in cui non credevamo assolutamente: «Nomination of "Training Analyst" (didatta) at the International Foundation "Paolo Migone" (riconosciuta come "Ente morale" nel campo della psicoanalisi con decreto del Presidente della Repubblica Italiana), nonché Medaglia d'oro e Certificato di Merito, per aver eroicamente seguito per lunghi anni, per esattamente 250 ore, i "seminari del mercoledì" di Bologna» etc. (il riferimento ai "seminari del mercoledì" è dovuto al fatto che la sera era casualmente al mercoledì, come fu per la "Società psicologica del mercoledì" di Vienna in casa Freud, cosa a cui non avevo pensato, e quando mi accorsi che una mia collega di Parma, particolarmente pettegola e invidiosa, aveva sparso la voce che io tenevo questi incontri al mercoledì proprio per imitare Freud, la cosa mi divertì molto e volli scherzarci su). Mi viene in mente anche un'altra cosa, che fa capire quanto le dinamiche di questo gruppo fossero complicate. Ho detto che il gruppo era iniziato mettendo assieme colleghi che avevo in supervisione individuale. Però era successo che durante la supervisione individuale il nostro rapporto si era trasformato e alcuni erano diventati formalmente "pazienti". Tradotto in termini pratici, nelle sedute questi colleghi passavano più tempo a parlare di sé che dei casi che trattavano, per il resto tutto era come prima. A questo punto apro una parentesi per dire che mi piacerebbe parlare approfonditamente di questa problematica, per me importante. Mi trovavo a mio agio in questi casi, di cui avevo già fatto esperienza negli Stati Uniti, in cui tra l'altro ero stato esposto a un cultura molto diversa, più "interpersonale" e aperta, meno rigida che a quei tempi in Italia, e nel contempo più attenta alle dinamiche relazionali (quindi per certi versi più "psicoanalitica" nel significato di "psicoanalisi" che io uso; per brevità rimando alle mie rubriche n. 59/1992, 60/1992, 69/1995, 78/1998, etc.). Posso dire, in breve, che ho fatto esperienze molto belle in questo senso, cioè mi dava soddisfazione vedere che gradualmente una supervisione diventava una psicoterapia mano a mano che si parlava di dinamiche personali, cioè controtransferali, e lentamente la persona che avevo in supervisione - mantenendo uguale il tipo di setting e di contratto economico - sceglie di continuare il rapporto chiamandolo in altro modo; anzi, non viene chiamato in alcun modo perché non ha importanza l'etichetta, che può appiattire i significati, o chiuderli. Già sappiamo peraltro che la differenziazione netta tra terapia e supervisione - cioè tra lavoro autocentrato ed eterocentrato, così come alcuni lo chiamano - è più che altro un artificio, cioè non si può essere del tutto eterocentrati, soprattutto se lavoriamo da una prospettiva psicodinamica. Casomai le differenze nominali servono come stimolo per riflettere su cosa si sta facendo e sul modo con cui le parole possono essere utilizzate difensivamente da entrambi i partner della relazione. Il gruppo era formato quindi anche da alcune persone che erano pazienti (inoltre vi erano colleghi che erano anche in supervisione individuale). La dinamica che si era creata era simile a quella che hanno di fronte molti gruppoanalisti che seguono pazienti simultaneamente in sedute individuali e di gruppo (e dove le sedute individuali possono servire anche ad elaborare eventuali problematiche emerse nel gruppo). Questo "doppio setting" può essere arricchente ma a volte complesso e difficile da gestire; mi viene in mente ad esempio il caso di una collega, che era anche una mia paziente, la quale dovette interrompere la frequenza al gruppo perché non riusciva a gestire le emozioni che provava nel vedermi interagire nel gruppo, mentre invece altri riuscivano bene e ne venivano arricchiti; dipende insomma dalle problematiche personali. Riguardo alle criticità e ai problemi incontrati, ricordo un altro episodio che fu molto difficile da affrontare. Nel gruppo vi erano due colleghi che erano una coppia, e che a un certo punto si separarono, in un processo di separazione per loro molto doloroso e difficile. Abitavano insieme e c'era anche da decidere come fare con la casa. Fatto sta che un giorno una di queste due persone annunciò al gruppo che non poteva più restare per gravi conflitti insorti nella coppia, cioè non riusciva più a restare se c'era anche l'altra persona. Si pose allora il problema di cosa fare, perché era ovvio che questa persona non se ne sarebbe andata se fosse andato via l'altro membro della coppia. Fu un momento difficile. Ne discutemmo a lungo, e alla fine prendemmo la decisione, inevitabile perché non ce ne erano altre, che avremmo votato a maggioranza su chi dei due avrebbe dovuto restare e chi avrebbe dovuto lasciare il gruppo. Fu deciso che restava chi aveva dato maggiori contributi, e che l'altro membro della coppia doveva purtroppo lasciarci. Fu estremamente doloroso per chi dovette andarsene, anche perché aveva un grande interesse per il lavoro del gruppo, su cui anche aveva investito molto affettivamente. Prima di passare a descrivere gli argomenti trattati nel gruppo, vorrei dire chi erano i partecipanti, anche se mi rendo conto che non è possibile citarli tutti. C'era certamente un gruppo "storico", cioè alcuni che erano presenti fin dall'inizio, e anche che avevano dato contributi importanti, e altri che si erano aggiunti in sèguito, o che erano venuti meno anni. Alcuni poi che c'erano dall'inizio se ne erano andati anni dopo, altri erano venuti per certi periodi, insomma è estremamente difficile per me elencare i partecipanti. All'inizio la partecipazione era molto aperta, non c'era una selezione, poi a un certo punto dovemmo chiuderlo perché rischiava di diventare troppo grosso (il che impediva una buona discussione, certe volte vi erano 15 persone o più, in alcuni casi 20), e decidemmo anche di selezionare i partecipanti secondo certi criteri, ad esempio che sapessero dare un contributo valido, cioè che non venissero solo per imparare dagli altri. Provo a dire i nomi di quelli che mi vengono in mente, iniziando da quelli del gruppo storico iniziale e mano a mano menzionando altri colleghi che ricordo, senza un ordine preciso (mentre li nomino, mi accorgo che alcuni non ci sono più…): Anna Natali, Wilfredo Galliano, Nadia Scopsi, Claudia Botteghi, Paola Cavazzuti, Daniela Iotti, Angela Peduto, Pino Parisi, Maria Luisa Mantovani, Antonella Romeo, Maria Carla Clavenzani, Paola Donadini, Livia Franchini, Gioia Gorla, Livia Natali, Paolo Franchini, Daniela Simoncini, Patrizia Vitale, Katarína Horská Ripa di Meana, Vittorina Cecchelani, Maria Teresa Palmieri, Mario Martinelli, Perla Plazzi, Patrizia Rizzoli, Tina Romano, Flavia Russillo, Anna Saltini, Ernestina Sgorbani, Veronica Cavicchioni, Roberto Verlato, Rita Orsoni, Tullio Carere-Comes, Cristiano Martello, Elisabetta Zanzi, Susanna Ambrosi, Chiara Brillanti, Stefano De Feo, Anna Franca, Rita Frascari, Paolo Tirindelli, Andrea Angelozzi… Certamente me ne sarò dimenticati parecchi. Un bel ricordo tra i tanti mi è rimasto impresso, e che riguarda Anna Natali, una collega cui ero molto affezionato e che, almeno per me, dava un contributo importante al gruppo perché in certe discussioni riusciva a dire la parola giusta, a capire con buon senso come potessero essere risolte certe questioni teoriche che ci ponevamo. Ebbene dopo parecchi anni (lei era presente fin dall'inizio) Anna mi disse che aveva preso la decisione di lasciare il gruppo. Sul momento rimasi sconcertato e provai dispiacere, perché non riuscivo a capire come mai, proprio lei, mi diceva questa cosa. Le chiesi il motivo, e lei rispose tranquillamente, più o meno con queste parole: "Vedi, mi è venuta voglia di fare altre cose. Sono stanca di parlare di psicoterapia, di psicoanalisi… Al mondo ci sono tante cose belle, perché chiudersi in una cosa sola? Vorrei occuparmi di altri interessi che ho, ad esempio viaggiare, leggere narrativa, dedicarmi a certi hobbies…". Dopo essermi ripreso dalla sconcerto, capii che mi stava dicendo la cosa più bella che poteva dirmi. Ho detto a me stesso: "Questo è quello che veramente volevo sentirmi dire, ed è la prova tangibile che Anna è cresciuta molto nel gruppo, grazie al lavoro che abbiamo fatto, anche come esperienza umana. Cosa c'è di più bello che occuparsi di altro? Forse c'è un aspetto nevrotico in noi che ci occupiamo sempre delle stesse cose… Lei sta dando una lezione a me e a tutti noi…". Davvero, quello è stato per me un momento bellissimo, forse il più bello di tutta l'esperienza che ho fatto in questo gruppo di studio. Passo ora a raccontare gli argomenti che abbiamo affrontato, basandomi sulle note che avevo preso. Gli argomenti trattati nel gruppo Il gruppo di studio è iniziato nel settembre 1984, dopo 16 incontri settimanali di supervisione clinica (dal 21-3-1984 al 31-10-1984), di 2 ore ciascuno, di un gruppo di psichiatri del servizio pubblico di una USL di Bologna. Il gruppo di studio vero e proprio, che ho descritto prima, è iniziato il 19-9-1984, con una serie di 32 incontri settimanali fino al 19-6-1985. Il tema era "Teoria e clinica della Psicologia del Sé di Heinz Kohut": abbiamo letto assieme e discusso il resoconto dettagliato di due analisi complete condotte sotto la supervisione di Kohut, tratte dal libro a cura di Arnold Goldberg The Psycholgy of the Self. A Casebook. Written with the collaboration of Heinz Kohut (New York: Aronson, 1978, capitoli 2 e 6). Il testo era interessante perché era inframmezzato da riflessioni teoriche, che noi discutevano, inoltre a volte parlavamo di altro materiale clinico tratto dalla pratica personale, e da letture di altri testi teorici di Kohut. Questo libro curato da Goldberg non è tradotto, per cui io lo leggevo traducendolo automaticamente in italiano. Devo dire che è stato interessante perché abbiamo potuto vedere nel concreto come lavorano gli psicologi del Sé e come teorizzano quello che fanno (io allora ero tornato da poco dagli Stati Uniti, e avevo vissuto da vicino la espansione della Psicologia del Sé, a quei tempi non ancora molto conosciuta in Italia). Ricordo che parlai di questo gruppo di formazione con un amico di Milano, Guido Medri, che lo trovò interessante e che per questo volle poi replicarlo, da lui guidato, alla Scuola di Psicoterapia Psicoanalitica (SPP) di Milano (ex Centro di Psicoterapia di Via Alberto da Giussano), che allora era in Via Guido d'Arezzo, 4 (ora è in Via Pergolesi 27). Dopo l'estate riprendemmo con 17 incontri a frequenza quindicinale, dal 25-9-1985 al 4-6-1986, per approfondire la teoria della tecnica psicoterapeutica di Robert Langs, chiamata "approccio comunicativo": abbiamo letto (sempre col solito metodo, cioè io traducevo simultaneamente dall'inglese) e discusso vari esempi clinici tratti dai tre volumi di Robert Langs Workbooks for Psychotherapysts (Emerson, NJ: Newconcept Press, 1985). Bob Langs era stato per me una figura importante, lo avevo invitato in Italia numerose volte, avevo fatto tradurre vari suoi libri in italiano (per uno di essi avevo anche scritto la prefazione), etc. Il suo approccio, molto particolare, era senza dubbio interessante (sarebbe lungo parlarne qui di Langs, e poi delle critiche che gli feci alla luce anche della posizione di Gill che io preferivo quando vi fu un acceso confronto tra i due; per brevità rimando alla mia rubrica n. 45/1987, e anche a quella del n. 59/1992). Dopo l'estate decidemmo di riprendere lo studio della teoria e clinica della Psicologia del Sé di Heinz Kohut, con 20 incontri quindicinali dal 9-10-1985 al 16-7-1986: leggemmo assieme due analisi (i capitoli 2 e 3 del Casebook di Arnold Goldberg The Psycholgy of the Self), la prima delle quali già letta al gruppo precedente. Dal 1-10-1986 al 1-4-1987 abbiamo fatto 13 incontri sulla "Teoria della tecnica della analisi del transfert secondo Merton Gill": abbiamo letto e discusso la trascrizione letterale di tre sedute psicoanalitiche audioregistrate (le sedute A, C, ed E) tratte dal libro a cura di Merton M. Gill e Irwin Z. Hoffman Analysis of Transference. Vol. II: Studies of Nine Audio-Recorded Psychoanalytic Sessions (New York: International Universities Press, 1982); anche questo libro non è mai stato tradotto in italiano (è stato tradotto solo il primo volume di questa monografia del 1982: Teoria e tecnica dell'analisi del transfert. Roma: Astrolabio, 1985). Invitammo Sergio Dazzi, un collega di Parma che allora si interessava della teoria di Gill, a tenere una relazione al primo e all'ultimo incontro (ho approfondito il pensiero di Gill, un autore che per me è stato molto significativo e a cui ero molto legato, nella mia rubrica del n. 59/1992; si veda anche il cap. 4 del mio libro Terapia psicoanalitica. Milano: FrancoAngeli, 1995, 2010). Dal 8-10-1986 al 8-4-1987, per un totale di 13 incontri, abbiamo studiato la teoria e la clinica del concetto psicoanalitico di "identificazione proiettiva" leggendo e discutendo il libro di Thomas H. Ogden Projective Identification and Psychotherapeutic Technique (New York: Aronson, 1982), che verrà tradotto in italiano alcuni anni dopo (Identificazione proiettiva e tecnica psicoterapeutica. Roma: Astrolabio, 1994). Il tema della identificazione proiettiva mi ha interessato molto, su di esso ho scritto vari articoli, anche in inglese, e tenni anche una relazione al gruppo di Rapaport nel 1993 (si veda anche la mia rubrica del n. 49/1988 e il cap. 7 del mio libro Terapia psicoanalitica. Milano: FrancoAngeli, 1995, 2010). Nello stesso anno, dal 15-4-1987 al 16-12-1987, abbiamo affrontato, in 13 incontri, i presupposti teorici e le implicazioni cliniche del "manuale di psicoterapia supportivo-espressiva" di Lester Luborsky: abbiamo letto e discusso il libro di Luborsky Principles of Psychoanalytic Psychotherapy. A Manual for Supportive-Expressive Treatment (New York: Basic Books, 1984; feci poi uscire la traduzione italiana due anni dopo: Princìpi di psicoterapia psicoanalitica. Manuale per il trattamento supportivo-espressivo. Torino: Bollati Boringhieri, 1989). Studiando questo manuale per la ricerca, il primo manuale di tipo psicoanalitico, volevamo vedere come venivano operazionalizzati concretamente tutti i passaggi di una terapia psicodinamica, anche per esaminarne le implicazioni e chiarire i problemi che si aprivano (ne parlo in modo più approfondito in una recensione-saggio che uscì nel n. 2/1990 di Psicoterapia e Scienze Umane). Dal 13-1-1988 al 23-3-1988, per un totale di 6 incontri, abbiamo studiato la tecnica terapeutica di John Gedo, un altro autore cui sono stato molto legato, che aveva proposto un "modello gerarchico" delle varie tecniche terapeutiche, e su cui anche scrissi una monografia che uscì nel n. 4/1985 di Psicoterapia e Scienze Umane: abbiamo letto e discusso due casi clinici di Gedo, il primo tratto del libro Psychoanalysis and Its Discontents (New York: Guilford, 1984, cap. 4), e il secondo tratto dal lavoro "La nosologia e gli scopi terapeutici della psicoanalisi", apparso in italiano su Prospettive psicoanalitiche nel lavoro istituzionale, 1987, 2: 209-212 (accenno al modello di Gedo anche nella mia rubrica del n. 124/2013). Dal 20-1-1988 al 8-6-1988, per un totale di 11 incontri, abbiamo ripreso lo studio della Psicologia del Sé di Heinz Kohut, con la lettura di un nuovo caso, contenuto nel cap. 5 del Casebook di Arnold Goldberg The Psycholgy of the Self, prima menzionato. Dal 20-4-1988 al 1-3-1989 ci siamo dedicati, per un totale di 14 incontri, allo studio di argomenti diversi, invitando anche relatori esterni: La "tecnica attiva" di Sandor Ferenczi, la "esperienza emozionale correttiva" di Franz Alexander (nel n. 2/1993 di Psicoterapia e Scienze Umane poi tradurrò il suo testo originale del 1946), e i "parametri di tecnica" di Kurt R. Eissler (ce ne ha parlato Anna Natali, di S. Giovanni in Persiceto ([BO], si veda l'articolo originale di Eissler del 1953, che era uscito nel n. 2/1981 di Psicoterapia e Scienze Umane); Recenti sviluppi in terapia familiare, e la teoria dell'attaccamento di John Bowlby (il relatore fu Francesco Caprioli, di Parma); La concezione della psichiatria di Harry Stack Sullivan (relatore Marco Conci, di Trento); Psicoanalisi e filosofia della scienza, con particolare riferimento all'opera di Adolf Grünbaum (relatrice Fiorella Giusberti, di Bologna - si veda uno scritto di Grünbaum del 1988 che è on-line); La fenomenologia (relatore Adelmo Sichel, di Reggio Emilia); Il Piaget epistemologico (relatrice Sandra Farneti, di Bologna). Dal 15-3-1989 al 28-6-1989, per un totale di 8 incontri, abbiamo studiato la tecnica della psicoterapia dei pazienti borderline: abbiamo letto e discusso un caso clinico tratto dal libro di ricerca su casi clinici di pazienti borderline a cura di Robert Waldinger e John Gunderson Effective Psychotherapy with Borderline Patients: Case Studies (Washington, D.C.: American Psychiatric Press, 1987, cap. 5); abbiamo invitato Sergio Dazzi e Marco Conci a tenere una relazione, rispettivamente al primo e all'ultimo incontro (questo libro è stato poi tradotto, curato da Sergio Dazzi: I risultati della psicoterapia con i pazienti borderline. Torino: Bollati Boringhieri, 1991). Dal 8-11-1989 al 2-5-1990 ci siamo dedicati, per un totale di 13 incontri, allo studio di argomenti diversi, invitando anche relatori esterni: la teoria di Melanie Klein (relatori Angela Peduto di Bologna e Giuseppe Parisi di Trento, 7 incontri); caso clinico di un paziente borderline, con commento critico di Morris N. Eagle e John E. Gedo (4 incontri tenuti da me, su un caso che fu poi pubblicato nel n. 2/1990 di Psicoterapia e Scienze Umane, con interventi appunto di Eagle e Gedo - brani di questo caso clinico furono inclusi nel film di Nanni Moretti del 2001 La stanza del figlio); Sándor Ferenczi e la psicoanalisi ungherese (relatore Marco Conci, 1 incontro di 3 ore); Analisi storico-epistemologica del pensiero di Melanie Klein (relatore Mauro Fornaro, di Alessandria, 1 incontro di 3 ore). Dal 12-9-1990 al 21-11-1990, per un totale di 6 incontri tenuti da me, abbiamo letto e discusso "La differenza tra psicoanalisi e psicoterapia: panorama storico del dibattito e recente posizione di Merton Gill", sulla falsariga di un mio articolo che uscirà nel n. 4/1991 di Psicoterapia e Scienze Umane (vedi la mia rubrica n. 59/1992). Dal 5-12-1990 al 19-12-1990, per un totale di 2 incontri, abbiamo letto e discusso un "Caso clinico di un disturbo ossessivo-compulsivo, con la discussione di Robert R. Holt e altri, che poi uscirà nel n. 4/1993 di Psicoterapia e Scienze Umane (anche questo caso clinico verrà incluso nel film La stanza del figlio). Dal 16-1-1991 al 27-2-1991, per un totale di 4 incontri, abbiamo studiato il pensiero di Wilfred R. Bion, con l'ultimo incontro, di 4 ore, condotto dal filosofo e psicologo Mauro Fornaro, autore del libro Psicoanalisi tra scienza e mistica. L'opera di Wilfred R. Bion (Roma: Studium, 1990). Dal 13-3-1991 al 17-4-1991, per un totale di 4 incontri, abbiamo studiato la "psicoanalisi dell'amore" (3 incontri sono stati tenuti da Livia Natali e Patrizia Vitale, entrambe di Bologna). Control-Mastery Theory di Weiss e Sampson del Mt. Zion Psychotherapy Research Group di San Francisco (ora si chiama San Francisco Psychotherapy Research Group). Anche questo è un argomento che mi ha molto interessato, e su cui ho scritto varie cose (vedi ad esempio le mie rubriche n. 62/1993 e 68/1995). Questa è stata la prima volta che un membro del gruppo di Weiss e Sampson è venuto in Italia (avevo invitato George Silberschatz in Italia perché avevo organizzato, assieme ad altri due colleghi, il primo convegno tenuto in Italia sul problema della ricerca sul risultato della terapia psicoanalitica: "La validazione scientifica nelle psicoterapie psicoanalitiche", Venezia, 18-19 maggio 1991). Il 29-5-1991 facemmo un incontro in cui discutemmo il caso clinico di una paziente con sintomi isterici gravi (non ricordo chi lo presentò). Dal 25-9-1991 al 4-12-1991, abbiamo fatto 6 incontri per discutere l'articolo di Morris N. Eagle "La natura del cambiamento teorico in psicoanalisi", pubblicato sul n. 3/1991 di Psicoterapia e scienze umane, e altri articoli di Eagle. Il 18-12-1991 Daniela Simoncini, di Bologna, ha portato un suo caso clinico, che abbiamo discusso insieme. Dal 8-1-1992 al 19-2-1992 ci siamo occupati, per un totale di 4 incontri, della tecnica classica della termination in psicoanalisi: abbiamo letto e discusso i capitoli 5 (Charlotte E.) e 6 (Marian W.) del libro di Stephen K. Firestein - non tradotto in italiano - Termination in Psychoanalysis (New York: International Universities Press, 1978). Il 18-3-1992 abbiamo invitato Giovanni Liotti, un collega di orientamento cognitivo-evoluzionistico di Roma, a tenere un incontro di 4 ore sul tema "La teoria della motivazione in psicoterapia cognitiva e le sue implicazioni cliniche" (Gianni Liotti è un amico con cui ho avuto uno stretto rapporto di collaborazione - si veda uno dei suoi articoli on-line - e con cui scrissi un articolo su "un tentativo di integrazione tra psicoanalisi e psicologia cognitivo-evoluzionista", che uscirà come articolo di testa del n. 6/1998 dell'International Journal of Psychoanalysis, aprendo un dibattito riassunto da Paul Williams nel n. 2/1999). Il 1-4-1992 Livia Natali, in ideale continuazione dell'incontro con Gianni Liotti, ha tenuto un incontro sulla teoria freudiana delle pulsioni. Dal 29-4-1992 al 24-6-1992 Angela Peduto e Giuseppe Parisi hanno tenuto 4 incontri sulla teoria e clinica del concezione psicoanalitica di Ronald D. Fairbairn. Dal 30-9-1992 al 11-11-1992 abbiamo tenuto 4 incontri, coordinati da me, sulla control-mastery theory del San Francisco Psychotherapy Research Group di Weiss e Sampson, con anche esempi clinici; ci eravamo appassionati del modello di questo gruppo di San Francisco, e alcuni di noi (io, Maria Luisa Mantovani, Daniela Simoncini e altri) il 2-6 marzo 1992 andarono a San Francisco al Workshop annuale del San Francisco Psychotherapy Research Group, guidato da Joseph Weiss, Harold Sampson e collaboratori, per vedere direttamente come lavoravano e facevano ricerca. Dal 25-11-1992 al 13-1-1993 Wilfredo Galliano e Nadia Scopsi, entrambi di Bologna, hanno tenuto 3 incontri sulla Analisi Transazionale di Eric Berne. Il 27-1-1993 e 10-2-1993 abbiamo fatto 2 incontri in cui abbiamo discusso l'articolo di Jerome C. Wakefield "Freud e la psicologia cognitiva: l'interfaccia concettuale", tratto dal volume a cura di James W. Barron, Morris N. Eagle e David L. Wolitzky, Interface of Psychoanalysis and Psychology. Washington, DC: American Psychological Association, 1992, pp. 77-98 (questo scritto poi uscirà nel n. 2/1994 di Psicoterapia e Scienze Umane). Il 10-3-1993 abbiamo discusso l'articolo di Mick J. Power "Cognitive therapy: An outline of theory, practice and problems" (British Journal of Psychotherapy, 1989, 5, 4: 544-556), e il 17-4-1993 abbiamo fatto un incontro di 4 ore invitando Patrizia Tabossi, di Bologna, a parlarci della psicologia cognitiva. Dal 24-2-1993 al 3-11-1993, per un totale di 11 incontri, abbiamo discusso, capitolo per capitolo, il libro di Helmut Thomä e Horst Kächele del 1985, Trattato di terapia psicoanalitica. 1: Fondamenti teorici (Torino: Bollati Boringhieri, 1990). Devo dire che la discussione di questo libro capitolo per capitolo, durata quasi un anno, è stata veramente formativa; questo primo volume del Trattato di terapia psicoanalitica di Thomä e Kächele è di estremo interesse, dato che tocca tutti i temi del dibattito psicoanalitico (rimando alla mia rubrica del n. 67/1994). Consiglierei a chiunque di fare questa esperienza formativa in gruppo; leggevamo per conto nostro uno per uno i capitoli, e ci incontravamo poi per discuterli assieme. Il 17-11-1993 Pino Parisi e Angela Peduto hanno coordinato la discussione dell'articolo di Jean Laplanche "Interpretation between determinism and hermeneutics: A restatement of the problem" [L'interpretazione tra determinismo e ermeneutica: una nuova posizione della questione] (International Journal of Psychoanalysiss, 1992, 73, 3: 429-445). Il 1-12-1993 ho condotto un incontro sulla teoria dei "codici multipli" di Wilma Bucci (per un approfondimento sulla Bucci, vedi la mia rubrica n. 106/2007). Il 15-12-1993 Michele Sanza (che allora abitava a Bologna) ci ha parlato della Dialectical Behavioral Therapy (DBT) di Marsha Linehan, una tecnica cognitivo-comportamentale per i borderline che aveva appreso negli Stati Uniti, e che poi insegnerà a Cesena dove andrà a dirigere il Dipartimento di Salute Mentale (ho discusso la DBT della Linehan anche in un articolo sul n. 3/2004 di Psicoterapia e Scienze Umane). Il 12-1-1994 ci siamo incontrati per preparare un incontro con Pier Francesco Galli, cui volevamo fare alcune domande a proposito del libro di Helmut Thomä e Horst Kächele del 1985, Trattato di terapia psicoanalitica. 1: Fondamenti teorici (Torino: Bollati Boringhieri, 1990), che avevamo studiato l'anno prima. L'incontro con Galli è avvenuto il 26-1-1994: abbiamo discusso 4 domande (preparate rispettivamente da Wilfredo Galliano, me, Angela Peduto e Pino Parisi, e Daniela Iotti) sul libro di Thomä e Kächele. Nell'incontro seguente, del 9-2-1994, Wilfredo Galliano la guidato la discussione sul seminario con Pier Francesco Galli. Il 23-2-1994 Marco Conci ci ha parlato della sua intervista di a Zvi Lothane, autore del libro Defense of Schreber: Soul Murder and Psychiatry (New York: Routledge, 1992). Il 9-5-1994 Darlene B. Ehrenberg, di New York (autrice, tra le altre cose, del libro The Intimate Edge: Extending the Reach of Psychoanalytic Interaction. New York: Norton, 1992, poi tradotto: Il limite dell'intimità: potenziare l'interazione psicoanalitica. Torino: Centro Scientifico Editore, 2009), ci ha parlato dei recenti sviluppi della psicoanalisi relazionale americana. Il 18-5-1994 Peter Swales, di New York, ha tenuto un seminario dal titolo "Freud, Fliess e Goethe" (accenno a Peter Swales, che è uno storico della psicoanalisi, nelle mie tre rubriche del 2002, che riguardano lo scandalo del caso Masson, con cui fu coinvolto, e che raccontai nel n. 4/1984 di Psicoterapia e Scinze Umane. Dal 9-3-1994 al 25-5-1994, per un totale di 9 incontri, abbiamo tenuto delle discussioni, coordinate da Wilfredo Galliano, Daniela Iotti, Pino Parisi, Angela Peduto, e me, per prepararci al Convegno "Psicoanalisi ed ermeneutica", che abbiamo poi organizzato il 5-6-1994 in occasione del decimo anniversario di attività del gruppo. Questo Convegno è stato tenuto all'Hotel Milano Excelsior di Bologna con Robert R. Holt (New York), Horst Kächele (Ulm), e Gianni Vattimo (Torino), moderatore Mauro Fornaro (Alessandria). Gli Atti sono stati pubblicati in: Paolo Migone (a cura di), Psicoanalisi ed ermeneutica. Dibattito tra Robert R. Holt, Horst Kächele, e Gianni Vattimo (Chieti: Métis, 1995). Questo convegno è stato molto utile perché siamo riusciti a chiarirci meglio certi aspetti del dibattito sull’ermeneutica, che in quegli anni imperversava in psicoanalisi. L’idea era quella di mettere a confronto (e possibilmente far litigare di fronte a noi per una giornata intera chiusi in una stanza, per così dire) due esponenti di questo dibattito che avessero opinioni opposte. Come esponente dell’ermeneutica abbiamo invitato Gianni Vattimo (che è molto noto, è uno dei principali filosofi italiano, fu allievo di Gadamer ecc.), che forse più di ogni altro al mondo ha teorizzato e incarnato le posizioni ermeneutiche, e come convinto anti-ermeneuta abbiamo invitato Bob Holt (allievo di Rapaport e poi suo successore alla guida del gruppo), autore di numerose pubblicazioni tra cui il libro del 1989 Ripensare Freud (Torino: Bollati Boringhieri, 1994). Invitammo poi altri due colleghi con cui avevamo contatti: Horst Kächele, psicoanalista di Ulm, uno dei più noti ricercatori in psicoterapia a livello internazionale, studioso tra le altre cose dei metodi di ricerca sul linguaggio (nella sua banca dati di Ulm, la Ulm Text Bank, ha raccolto le registrazioni di migliaia di ore di sedute analitiche che vengono analizzate con programmi anche informatizzati), e che era coautore del Trattato di terapia psicoanalitica che abbiamo studiato assieme; avevamo poi invitato il filosofo e psicologo Mauro Fornaro (che era già venuto da noi) come moderatore. Al pomeriggio io presentai un caso clinico per vedere concretamente se, come e perché vi erano diverso modi di analizzare il materiale. L’esperimento riuscì, i relatori invitati litigarono per bene, col piacere e l’interesse di tutti. Registrammo tutto quello che fu detto e ne facemmo un libro. Dal 14-9-1994 al 12 -10-1994, per un totale di 3 incontri, Daniela Iotti, di Bologna, ci ha parlato del problema corpo-mente in Karl Popper, e il 26-10-1994 abbiamo avuto un incontro di 3 ore con Alessandro Antonietti (filosofo di Milano) su “La filosofia di Karl Popper”. Dal 9-11-1994 al 7-12-1994, per un totale di 3 incontri, Wilfredo Galliano ci ha parlato del concetto di mente secondo l’antropologo americano Clifford Geertz. Dal 11-1-1995 al 8-2-1995, per un totale di 3 incontri, Daniele Barbieri, di Bologna, ci ha parlato della posizione del filosofo Richard Rorty. Dal 8-3-1995 al 22-3-1995 abbiamo fatto 2 incontri sulla concezione della psicosomatica di Orlando Todarello & Piero Porcelli (Psicosomatica come paradosso. Il problema della psicosomatica in psicoanalisi. Torino: Bollati Boringhieri, 1992), seguiti il 5-4-1995 da un incontro di 3 ore tenuto da Ulrich Wienand, di Ferrara, sulle teorie psicosomatiche, e il 19-4-1995 abbiamo avuto una discussione di gruppo sui seminari precedenti riguardanti la psicosomatica. Il 3-5-1995 Giordano Fossi (uno psicoanalista di Firenze, molto noto anche per le sue posizioni critiche, e autore di numerosi libri) ha tenuto un incontro di 3 ore sul rapporto corpo-mente, e il 17-5-1995 abbiamo discusso in gruppo sul seminario di Giordano Fossi. Il 31-5-1995 io ho tenuto un seminario su una introduzione a Gerald Edelman (premio Nobel per la Medicina nel 1972, noto anche per i suoi successivi studi sul “darwinismo neurale”) con la lettura di un lavoro di Oliver Sacks, seguito da tre incontri, dal 14-6-1995 al 12-7-1995, tenuti da Wilfredo Galliano sulla teoria di Gerald Edelman. Dal 27-9-1995 al 13-12-1995, per un totale di 5 incontri, abbiamo discusso il concetto di "rappresentazione mentale" in Jerome C. Wakefield (1992), rileggendo l’articolo "Freud e la psicologia cognitiva: la interfaccia concettuale" (Psicoterapia e scienze umane, 1994, XXVIII, 2: 33-65) che avevamo discusso in 2 incontri il 27-1-93 e 10-2-93. Il 10-1-1996 Daniela Iotti ha tenuto un seminario sul “costruttivismo radicale” in Ernst von Glasersfeld. Dal 24-1-1996 al 7-2-1996 Yvonne Bonner (di Reggio Emilia) per 2 incontri ci ha parlato del pensiero di Paul Ricoeur (Della interpretazione. Saggio su Freud [1965]. Milano: Il Saggiatore, 1967). Dal 21-2-1996 al 15-5-1996, per un totale di 6 incontri, abbiamo discusso il paradigma "socio-costruttivista" di Irwin Hoffman, prendendo in esame vari suoi articoli (mi ero interessato a Hoffman, e lo avevo anche invitato a tenere seminari in Italia, perché era lo stretto collaboratore di Gill, cui ero legato, ma presto mi accorsi che avevamo posizioni profondamente diverse; accenno anche a Hoffman nella mia rubrica del n. 92/2003). Il 29-5-1996 abbiamo discusso la concezione antropologica di "rituale" in Victor Turner, in particolare nel suo libro del 1969 Il processo rituale: struttura e antistruttura (Brescia: Morcelliana, 1972) e in quello del 1986 Antropologia della performance (Bologna: Il Mulino, 1993); il 12-6-1996 Guido Giarelli in un incontro di 3 ore ci ha parlato del concetto di "rituale" in antropologia, e il 10-7-1996 abbiamo avuto una discussione di gruppo sul rapporto tra antropologia e psicoanalisi. Purtroppo le mie note finiscono qui, per cui non ho tenuto traccia di quello che abbiamo fatto negli anni seguenti (ho da qualche parte una carpetta con molto altro materiale sul gruppo, ma non riesco più a trovarla, ad ogni modo continuerò a cercarla). Ricordo ad esempio che Cristiano Martello, allora un giovane antropologo di Perugia, ci tenne seminari sull’antropologia, e che il dibattito sul concetto di “rituale” di Victor Turner ci prese molto, anche perché aveva strette connessioni con la seduta psicoanalitica come rituale di guarigione nella civiltà occidentale. Questa linea di pensiero era stata sviluppata a fondo da Irwin Hoffman, si pensi ad esempio al suo scritto del 1995 “Ritualità e spontaneità nel processo psicoanalitico”, che studiammo (uscì nella rivista Ricerca Psicoanalitica, 2000, XI, 2: 115-142, e anche in: Ritual and Spontaneity in the Psychoanalytic Process: A Dialectical-Constructivist View. Hillsdale, NJ: The Analytic Press, 1998, cap. 9, pp. 219-214; trad. it.: Ritualità e spontaneità nella situazione psicoanalitica. Roma: Astrolabio, 2000). Decidemmo di organizzare un convegno su questo tema, e fu il 17-10-1998 al Jolly Hotel di Bologna, dalle 9:00 alle 18:00, intitolato appunto "Ritualità e spontaneità nella situazione psicoanalitica": invitammo Irwin Z. Hoffman (di Chicago), e la sua relazione fu discussa da Giovanni Jervis (di Roma) con interventi preordinati di Roberto Beneduce (etnopsichiatra di Torino), Marco Casonato (di Massa), Stefano De Matteis (antropologo di Urbino), Giordano Fossi (di Firenze, che era già venuto da noi), e Mario Galzigna (un filosofo che insegna a Venezia). Non pubblicammo gli Atti di questo convegno, però furono pubblicate alcune cose su riviste (ad esempio l’intervento di Hoffman uscì su Ricerca Psicoanalitica, la rivista della SIPRe, e poi nel suo libro, e se ben ricordo Cristiano Martello pubblicò un intervento su un’altra rivista). Lentamente il gruppo cessò di riunirsi, anche per motivi logistici: Wilfredo Galliano si trasferì a Torino, Pino Parisi andò a vivere definitivamente a Trento, io avevo abbandonato lo studio di Bologna poiché che non mi conveniva tenere due studi (quindi non avevamo più una sede in cui incontraci), alcuni venivano da altre città per cui facevano fatica a mantenere una periodicità (Katarína Horská Ripa di Meana e Cristiano Martello ad esempio venivano da Perugia). Ma non penso che il gruppo finì solo per questi motivi. Eravamo anche cambiati, erano passati anni e molti di noi avevano nuovi impegni e interessi diversi. Forse era normale che una esperienza come questa prima o poi doveva finire. Ogni tanto qualcuno di noi manda una mail e chiede notizie degli altri, e quando capita che ci incontriamo, ad esempio a convegni, ricordiamo con tanta nostalgia quegli anni passati insieme a discutere con passione a tanta amicizia. Mi fermo qui, anche per l’emozione che sto provando.
|