Paolo Migone
Recentemente sono stato invitato a tenere una relazione a un Convegno di studi dal titolo "A partire da Franco Basaglia. Il non-luogo della psichiatria e il non-ancora della salute mentale", organizzato, col patrocinio dell'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, dal Dipartimento di Filosofia dell'Università di Salerno, nell'Aula Nicola Cilento del campus di Fisciano il 5-6 dicembre 2024 (il Comitato promotore era costituito da Daniela Calabrò, Giulio Corrivetti, Giovanna Del Giudice, Roberto Esposito, Luigi Ferrara, Francesco Piro e Rocco Ronchi). Il titolo che ho voluto dare alla mia relazione (che fu tenuta il 6 dicembre nella quarta sessione, dal titolo "Quale formazione per l'operatore della salute mentale?") è stato "Una occasione perduta: il problema della formazione degli operatori della salute mentale", perché ho pensato che in un convegno dedicato a Basaglia fosse importante parlare non solo degli aspetti positivi del grande movimento di cui fu l'ispiratore ma anche degli aspetti critici. E dato che alcuni anni prima mi era stato chiesto di tenere una relazione a un convegno su un tema simile, ho letto parti di quella relazione; si trattava della Giornata di studio in ricordo di Giorgio Maria Ferlini (1934-2017) "Disagio mentale, scienze della psiche e prassi di cura nella seconda metà del Novecento", tenuta il 5 febbraio 2018 alle Gallerie di Piedicastello di Trento. A questa Giornata di studio mi avevano chiesto di tenere una relazione dal titolo "Psichiatria e formazione universitaria dal secondo dopoguerra alla Legge 180 del 1978", che poi pubblicarono nel libro, che in parte era basato sugli Atti di quella Giornata di studio, curato da Patrizia Guarnieri, Uscire dall'insopportabile. Culture e pratiche di psichiatria de-istituzionale nel Nord-Est Italia (Trento: Fondazione Museo Storico del Trentino, 2021, pp. 153-169). Pensando che possa interessare ai lettori di questi miei scritti, ripubblico qui questa relazione: Si può dire che la psichiatria italiana storicamente abbia avuto una identità debole, che l'ha costretta a dipendere da culture straniere (a grandi linee, la psichiatria tedesca in un primo periodo, poi quella nordamericana in un secondo momento), e a subire ripetute oscillazioni, o mode, in maniera abbastanza marcata se paragonata ad altri Paesi. Tali oscillazioni sono appunto rivelatrici di questa identità debole, che si è manifestata anche nella cultura clinica. La psichiatria italiana infatti si è trovata a crescere in quella che si può chiamare una "assenza di tradizione" (Galli, 1984, p. 98 ediz. del 2009). Infatti una prestigiosa tradizione psichiatrica italiana che emersa ai primi del Novecento (si pensi solo a Sante De Sanctis, a Enrico Morselli, etc.) fu presto interrotta, per prendere una direzione prevalentemente neurologica e organicista. La neurologia rappresentava la vera identità della disciplina, mentre la psichiatria veniva considerata una "seconda scelta" rispetto alla neurologia, tanto che coloro che andavano a dirigere gli Ospedali Psichiatrici spesso erano quelli che avevano fallito nella carriera accademica in neurologia (come sappiamo, anche Basaglia fu mandato a dirigere un Ospedale Psichiatrico, quello di Gorizia). Le ragioni per cui la psichiatria perse rilevanza nei confronti della neurologia sono probabilmente attribuibili ai progressi scientifici che in quegli anni avevano caratterizzato la neurologia, conferendole maggiormente il prestigio di una disciplina "scientifica" ricca di possibili sviluppi. La psichiatria dunque, soffocata dai progressi della neurologia, non fece in tempo a radicarsi e a declinarsi pienamente in scuole e in una tradizione universitaria. Anche quando la psichiatria, come insegnamento universitario, fu scorporata dalla neurologia, essa è stata utilizzata come terreno di caccia per nuove cattedre che di fatto per molti anni sono state assegnate a neurologi che in media erano abbastanza poco preparati o poco motivati alla psichiatria. Le persone seriamente interessate alla psichiatria si contavano sulle dita; vi erano ad esempio alcuni fenomenologi, abbastanza isolati (si pensi a Danilo Cargnello), che erano costretti a trovare punti di riferimento all'estero. Erano anni in cui, come si è detto, chi era interessato alla psichiatria doveva parlare tedesco, non inglese come avverrà anni dopo, soprattutto dagli anni 1980 sull'onda del "diagnosticismo" (Galli & Guidi, 1986; Galli, 2007b, 2009, 2014c) diffuso da quella che allora alcuni chiamavano "cultura del DSM-III" (Migone, 1983b), su cui tornerò dopo. La cultura psicoanalitica, che nella prima metà del XX secolo si era rapidamente diffusa in altri Paesi come ad esempio gli Stati Uniti, dove aveva contribuito ad arricchire l'identità della disciplina e la pratica clinica e a costruire la prestigiosa tradizione della "psichiatria dinamica", in Italia invece ha fatto molta fatica a diffondersi. Gli ostacoli principali non furono solo il fascismo e la Chiesa cattolica, anche se quest'ultima non va sottovalutata, se si pensa che - come testimonia Galli (1984, p. 97 ediz. del 2009; 1999, p. 224) - un noto psichiatra di Milano, il prof. Alberto Giordano, fu accusato di "presentazione di oscenità" per aver usato il TAT (Thematic Apperception Test); una importante resistenza alla penetrazione di idee psicodinamiche in psichiatria fu dovuta all'immobilismo accademico, che in Italia ha sempre avuto toni particolarmente accentuati e che non raramente ha inibito intelligenze e competitività. Quindi la psicoanalisi - che era la psicoterapia prevalente, dato che allora le terapie non psicodinamiche erano ancora poco diffuse - per anni è rimasta relegata nell'ambito privato, fuori dalla università (in una sorta di "splendido isolamento"), ed era diffusa più nell'ambito letterario che professionale. Si può dire che i primi momenti di incontro e di dibattito in Italia tra psicologi e psichiatri siano stati i cosiddetti "venerdì della Cattolica", organizzati già dagli anni 1950 da padre Agostino Gemelli (1878-1959) alla Università Cattolica di Milano, dove nei pomeriggi di ogni venerdì venivano invitati vari autori, anche dall'estero, per presentare le loro ricerche che venivano discusse a fondo, con un ricco scambio anche interdisciplinare. L'11-15 settembre 1960, al Centro di Cultura "Maria Immacolata" dell'Università Cattolica del Sacro Cuore al Passo della Mendola (in provincia di Trento), venne organizzato da Leonardo Ancona e Pier Francesco Galli un incontro tra psicologi e psichiatri denominato "Symposium sui rapporti fra psicologia e psichiatria" (cfr. Galli, 2014b, pp. 301-303), cui parteciparono, tra gli altri, Edoardo Balduzzi, Carlo Berlucchi, Silvio Brambilla, Lorenzo A. Calvi, Danilo Cargnello, Marcello Cesa-Bianchi, Cornelio Fazio, Adamo Mario Fiamberti, Mario Gozzano, Giovanni Enrico Morselli, Cesare Musatti, Virginio Porta, Assunto Quadrio, Enzo Spaltro, Cherubino Trabucchi, Ottavio Vergani, etc. - gli Atti uscirono nel n. 3/4 del 1961 di Archivio di Psicologia Neurologia e Psichiatria e anche in un libro curato da Ancona (1962). Qui Pier Francesco Galli (1960) presentò una relazione dal titolo "La medicina psicosomatica e il rapporto medico-paziente", in cui tra le altre cose introduceva in Italia il metodo dei gruppi Balint (infatti una versione di questa relazione appare come prefazione all'edizione italiana del libro di Michael Balint del 1956 Medico, paziente e malattia, che Galli aveva fatto uscire nel 1961 come n. 2 della sua collana Feltrinelli "Biblioteca di Psichiatria e di Psicologia Clinica"), e dopo quel simposio alla Mendola in tre università italiane furono attivati dei gruppi Balint: nella Clinica psichiatrica di Roma diretta da Mario Gozzano, dove erano rappresentati vari indirizzi, li condussero gli junghiani Mario Moreno e Gian Franco Tedeschi; alla Clinica psichiatrica di Genova, diretta da Cornelio Fazio, furono attivati a opera di Franco Giberti e Romolo Rossi; e all'Istituto di Psicologia di Bologna i gruppi Balint furono attivati da Renzo Canestrari. Ma queste esperienze rimasero abbastanza isolate. Si può dire che il primo importante movimento nella psichiatria italiana, che ha avuto e ha tutt'ora risonanza all'estero, è avvenuto fuori dalle università, e fu un movimento di critica alle istituzioni manicomiali il cui principale esponente fu Franco Basaglia (questo movimento in certi ambienti fu anche denominato "antipsichiatrico", termine peraltro in cui Basaglia non si riconosceva), che si diffuse a livello di massa tra gli operatori psichiatrici negli anni 1970 (Foot, 2014). Basaglia, che all'origine aveva una impostazione fenomenologica, negli anni 1950 era uno dei pochi che si interessavano di psichiatria (il neurologo organicista professor Giovanni Battista Belloni, direttore della Clinica psichiatrica di Padova dove inizialmente Basaglia aveva cercato di perseguire una carriera universitaria, lo chiamava "il filosofo"). Si noti però che anche nell'etimologia del termine "antipsichiatria" vi è una identità in negativo, più che in positivo, quasi a segnare ancora una volta una difficoltà a definirsi se non come in opposizione a qualcosa: il movimento anti-istituzionale si è presentato come una ribellione contro la psichiatria manicomiale, e assieme a sviluppi molto positivi ha portato con sé anche alcuni difetti, come l'impostazione antitecnicista del sociologismo di allora, nel senso che fu sottovalutata l'importanza della formazione degli operatori. Questo movimento inoltre è stato spinto anche dall'onda portante di un altro movimento, ancor più grande, quello del Sessantotto. In questa situazione la psichiatria accademica non riusciva a porsi come punto di riferimento culturale autonomo e propositivo, essendo schiacciata dalla contestazione anti-istituzionale e antipsichiatrica, da un lato, e dall'attrazione verso la neurologia dall'altro, perpetuandosi così un ritardo culturale; non dimentichiamo che proprio negli anni 1970, quando la psichiatria accademica italiana era impegnata in questa lotta su due fronti e perdeva terreno, all'estero avvenivano importanti dibattiti scientifici, come quelli sulla efficacia delle psicoterapie. In realtà, come si è detto, in alcune realtà isolate si era cercato di attivare una formazione più completa in psichiatria, includendo anche nozioni sulla psicoterapia e sulla gestione del rapporto interpersonale, anche per preparare i giovani psichiatri a inserirsi nel lavoro sul territorio dato che si stava avviando una progressiva chiusura dei manicomi e l'apertura dei Centri di Igiene Mentale. I primi tre Centri di Igiene Mentale in Italia furono aperti nel 1959 dalle Amministrazioni Provinciali a Milano, Torino e Genova, e lì si incominciò a lavorare ad esempio sulle dinamiche di gruppo; la prima cattedra di Psichiatria fu assegnata ad personam a Carlo Lorenzo Cazzullo nel 1959 a Milano grazie a una convenzione con l'Amministrazione Provinciale. Una importante esperienza fu quella attivata nei primi anni 1970 alla Clinica psichiatrica di Bologna, allora diretta da Carlo Gentili, in cui si cercò di impostare una "psichiatria nel territorio" in due quartieri della città (fu qui che mi formai in psichiatria, durante la Scuola di specialità). Alberto Merini (1977, 2005, 2008, 2017), che allora si occupava di psicoterapia alla Clinica psichiatrica di Bologna, nel n. 3/2017 di Psicoterapia e Scienze Umane ha raccontato questa sua esperienza, e ha anche riferito su un convegno dal titolo "Psichiatria e territorio: problemi di formazione degli operatori", che fu tenuto a Milano il 6-7 maggio 1978, pochi giorni prima della approvazione della Legge 180, e organizzato dalla Clinica Psichiatrica di Milano (allora diretta dal Prof. Carlo Lorenzo Cazzullo) e dal II Insegnamento di Clinica Psichiatrica (allora del Prof. Gaetano Penati) con il patrocinio dell'Amministrazione Provinciale. Questo fu il primo incontro in cui si discusse della formazione degli operatori che lavoravano nel territorio. Ebbene, Merini descrive nei dettagli le forti resistenze che allora vi erano da parte dell'università nei confronti di una psichiatria extra-ospedaliera, e ricevette decise critiche sul lavoro di formazione che stava svolgendo sul territorio. Per buona parte dei professori universitari la psichiatria era una pratica medica che doveva essere svolta utilizzando prevalentemente terapie farmacologiche (ed eventualmente l'elettroshock, allora molto praticato). Il lavoro di équipe multidisciplinare sul territorio, dice Merini (2017), «rappresentava fondamentalmente una messa in discussione della necessaria e consolidata autorità del medico, della gerarchia: come si poteva pensare di dar voce agli infermieri e agli studenti? Il coinvolgimento con il sociale, con il Quartiere e il Consorzio, che per noi era basilare (…), veniva aspramente criticato poiché, con evidenza, stava spingendo la psichiatria fuori dal suo contesto, quello medico, trasformandola in un'attività da educatori o da assistenti sociali» (p. 430). Nonostante queste critiche, o a causa loro, il prof. Gentili nel 1975 aveva voluto organizzare un congresso della Società Italiana di Psichiatria (SIP) proprio a Bologna, e questa iniziativa suscitò varie proteste che sfociarono nell'organizzazione di una manifestazione, poi definita "contro-congresso" (Merini lo racconta, con accompagnamento di un suggestivo materiale iconografico, nella rubrica "Tracce" del n. 4/2005 di Psicoterapia e Scienze Umane; vi fu anche una contestazione del congresso della SIP di Milano del 1968, per una documentazione vedi Galli, 2005). Ma le reazioni critiche da parte del mondo universitario non erano le uniche. Questa esperienza della Clinica universitaria di Bologna suscitò forti resistenze anche da altri due fronti. Innanzitutto dai medici ospedalieri che lavoravano nei manicomi, perché vedevano minacciata la identità consolidata del loro lavoro all'interno degli ospedali. Un altro fronte di critiche proveniva, paradossalmente, proprio dai colleghi di Psichiatria Democratica impegnati nel movimento anti-istituzionale. Per frange consistenti di questo movimento la formazione tecnica degli operatori a lavorare sul territorio «era solo un modo per adattare il paziente alla società capitalistica», e molti, se addirittura non «arrivavano a negare l'esistenza della malattia mentale, (…) ritenevano che sarebbe stato sufficiente "liberare" il malato mentale per restituirgli la dignità di cittadino normale tramite un lavoro spontaneo e non tecnico degli operatori» (Merini, 2017, p. 432). Riguardo alla importanza della formazione tecnica degli operatori, nette divergenze vi furono anche tra Psichiatria Democratica e il Gruppo Milanese per lo Sviluppo della Psicoterapia, fondato da Pier Francesco Galli e altri colleghi nel 1960, da cui nel 1967 nascerà la rivista Psicoterapia e Scienze Umane; Galli tra l'altro, rispettivamente nel 1959 e nel 1964, aveva fondato le due collane della Feltrinelli e della Boringhieri che produrranno circa 400 volumi i quali, essendo la università impreparata, costituiranno la spina dorsale della formazione di alcune generazioni di operatori italiani della salute mentale; non a caso Valeria Babini (2009), nel suo libro Liberi tutti. Manicomi e psichiatri in Italia: una storia del Novecento, a questo proposito parla di «università dei libri» (p. 487; vedi il suo articolo nel n. 4/2009 di Psicoterapia e Scienze Umane). Importanti sono stati anche i Corsi di aggiornamento residenziali (nove in tutto, più quattro Giornate di studio) organizzati da Galli dal 1962 al 1967, cui parteciparono, sia come docenti che come partecipanti, importanti esponenti della psichiatria e della psicoterapia a livello nazionale e internazionale (tra i tanti si possono menzionare Giorgio Abraham, Nathan Ackerman, Leonardo Ancona, Silvano Arieti, Michael Balint, Gustav Bally, Gaetano Benedetti, Norman Elrod, Franco Basaglia, Medard Boss, Hilde Bruch, Silvio Ceccato, Gerard Chrzanowski, Enzo Codignola, Johannes Cremerius, Franco Fornari, Luigi Frighi, Giovanni Jervis, Ronald Laing, Giuseppe Maffei, Eugène Minkowski, Silvia Montefoschi, Mario Moreno, Christian Müller, Cesare Musatti, Diego e Fabrizio Napolitani, Berta Neumann, Gisela Pankow, Sergio Piro, Virginio Porta, Paul-Claude Racamier, Marguerite Sechehaye, Mara Selvini Palazzoli, Tommaso Senise, Sara Sheiner, Enzo Spaltro, Rose Spiegel, e tanti altri [L'elenco e i programmi di questi Corsi di aggiornamento, con i link ad alcuni degli Atti pubblicati integralmente on-line, sono su Internet]). Vanno ricordati anche, sempre organizzati dal gruppo di Galli, il primo intervento di formazione in un Ospedale Psichiatrico pubblico che si è svolto negli anni 1962-64 a Varese, e il primo progetto italiano di teaching hospital che si è svolto nel 1967 all'Ospedale Psichiatrico di Sondrio (la struttura di questo teaching hospital – illustrato nel n. 1/1967 di Psicoterapia e Scienze Umane – era basata su 25 ore settimanali di insegnamento, per 40 settimane all'anno, a otto medici borsisti; cfr. anche Ceresara Declich, 2014). Tornando alle divergenze tra Psichiatria Democratica e il Gruppo Milanese per lo Sviluppo della Psicoterapia, esse comunque non impedirono una stretta collaborazione, ad esempio i primi 13 numeri della rivista Fogli di Informazione, espressione del movimento anti-istituzionale, diretta da Paolo Tranchina e Agostino Pirella e pubblicata dal Centro di Documentazione di Pistoia, furono ciclostilati nello studio di Galli, la sede del Gruppo Milanese per lo Sviluppo della Psicoterapia, dove si tenevano anche riunioni mensili con membri del gruppo goriziano. Cito questo passaggio di uno scritto di Galli (2005): «Per noi era importante il collegamento con loro [il gruppo di Basaglia] per mantenere il dialogo sulla questione della formazione in Italia, evitando un radicalismo che consideravamo deleterio e che avrebbe potuto prendere la forma di eventuali tentativi di sit-in al congresso [l'VIII Congresso Internazionale di Psicoterapia di Milano del 1970, organizzato da Galli (1970), nel quale era stata assegnata una relazione al gruppo goriziano]. La nostra linea di trasformazione del contesto istituzionale didattico per la formazione degli psichiatri era considerata una politica di retroguardia, riformistica, rispetto alla "vera rivoluzione": diventavamo, da questo punto di vista, la "destra della sinistra", e quindi da attaccare. (…) Comunque, sia coi colleghi goriziani sia con Basaglia c'era un rapporto di forte stima reciproca e su quel piano non c'è mai stato nulla che fosse meno che rispetto; sulla linea politica si era avversari, con tutta la durezza che questo comportava» (p. 516). Va ricordato che il movimento anti-istituzionale, essenzialmente un movimento di psichiatria sociale, aveva una forte componente antipsicoanalitica, e più in generale antipsicoterapeutica, privilegiando l'intervento sociale (va ricordato che allora in alcuni Centri di Igiene Mentale veniva data agli operatori l'indicazione di non fare sedute di psicoterapia). L'insufficiente preparazione tecnica a fronteggiare lo specifico dei disturbi psichici determinò la crisi, la frustrazione e il riflusso di una generazione di psichiatri disillusi dall'ideologia antipsichiatrica (si veda a questo proposito anche il contributo di Irma Gleiss [1975] sul "contenuto conservatore dell'antipsichiatria"), i quali poi si buttarono alla rincorsa delle "tecniche" nel tentativo di evitare un burn-out (non va dimenticato che, a causa di quella "assenza di tradizione" cui si è accennato prima, l'humus in cui è cresciuto il movimento antipsichiatrico era caratterizzato da una limitata cultura psicoterapeutica e di psichiatria dinamica). è stato questo il periodo cosiddetto della "fame di tecniche" da parte di tanti giovani operatori, che nel possesso di una tecnica trasferivano la propria sete ideologica, nel senso che questa rincorsa all'apprendimento di modalità operative si può considerare l'altra faccia della medaglia della fase precedente, nella quale si parlava di "operatore unico" e non si dava importanza a una preparazione tecnica specifica: vi fu una rincorsa acritica all'apprendimento, da una parte, della psicoanalisi (con un florilegio, e questo a mio modo di vedere fu un fenomeno deteriore, delle ortodossie dogmatiche dei vari "psicanalismi": i freudismi, kleinismi, lacanismi, junghismi, etc.), e, dall'altra, della terapia sistemica con le ben note colorature ideologiche in cui tanti colleghi si erano armati diventando quasi dei "militanti dello specchio unidirezionale" (Migone, 1995, cap. 2) e mostrando pretese terapeutiche tanto totalizzanti quanto mistificanti (con la terapia sistemica e con i suoi spettacolari interventi paradossali, ad esempio, era possibile guarire in poche sedute l'anoressia mentale e la schizofrenia – basterebbe questo per dare un'idea del basso livello di cultura clinica presente in molti colleghi di allora). Ricordo personalmente che al Primo Congresso Nazionale di Psichiatria Democratica, tenuto ad Arezzo il 24-26 settembre 1976, vi fu addirittura chi propose di adottare la terapia sistemica come approccio ufficiale del movimento, e questo rende bene l'idea di quanto fosse diffusa la terapia sistemica, che si presentava come una teoria alternativa o rivoluzionaria, dotata anche di un nuovo linguaggio, e in cui vi era il coinvolgimento della famiglia e quindi del contesto sociale, trasmettendo la sensazione di poter incidere su di esso; furono queste le caratteristiche che resero la terapia sistemica un prodotto molto appetibile per gli operatori di quella generazione (queste aspettative naturalmente non durarono a lungo, tanto è vero che dopo circa un decennio fu un ridimensionamento della terapia sistemica, anche a livello teorico, ad esempio fu "scoperto" l'individuo; cfr. Migone, 1995, pp. 25-26 ediz. del 2010; Migone, 1987-88). Altri operatori si sono dedicati all'approfondimento dell'uso dei farmaci, o di altre pratiche terapeutiche come la terapia cognitivo-comportamentale, l'ipnosi, le terapie sessuali, etc., e alcuni si sono recati all'estero. In ogni caso, l'apprendimento della psicoterapia è avvenuto prevalentemente in canali privati, essendo l'università poco attrezzata e soprattutto incapace, come lo è tuttora, di fornire una formazione professionalizzante, e questo ha contribuito al formarsi di false separatezze o a una sorta di deteriore "divisione del lavoro" (come quelle tra psichiatria e psicoterapia, o tra farmaci e psicoterapia, oppure tra psicotici, in genere seguiti dai Servizio di salute mentale, e nevrotici, più spesso seguiti nel privato, e così via). Si è assistito anche al diffondersi di altre mode, come l'epidemiologia, che ha raccolto molti reduci dal movimento anti-istituzionale sensibili a una psichiatria calata nel sociale. Ma l'attuale attrazione della psichiatria a livello internazionale verso la psichiatria biologica ha visto il mondo accademico italiano ritornare all'antico splendore del suo spirito organicista. Di fronte alla identità difficile di una psichiatria con anime diverse e necessariamente bio-psico-sociale, è emersa, in modo rassicurante e quindi difensivo, l'identità forte di una psichiatria come "scienza dura". Questa idea è basata su un grosso fraintendimento, secondo il quale la psichiatria sarebbe una specialità medica come le altre (la dermatologia, l'oculistica, etc.), cioè basata su una componente tecnologica che invece non ha, consistendo essenzialmente in un rapporto interpersonale. è possibile che molti giovani operatori ora vedano nella psichiatria farmacologica una nuova chimera, peraltro non sorretta da reali nuove scoperte nel campo degli psicofarmaci, nonostante le campagne pubblicitarie ad esempio per gli Inibitori Selettivi del Reuptake della Serotonina (gli SSRI, come il famoso Prozac) come panacea di tutte le depressioni e anche di altri disturbi. A questa campagna per la terapia esclusivamente farmacologica della depressione hanno partecipato anche autorevoli centri universitari italiani, mentre sono state sistematicamente ignorate alcune ricerche meta-analitiche internazionali sulla terapia della depressione dove la psicoterapia risulta superiore ai farmaci, nel senso che non solo vi sono meno ricadute ma i miglioramenti possono aumentare nel tempo, anche anni dopo il termine della psicoterapia, come se si fosse attivato un processo psicologico che cresce autonomamente, senza contare che spesso i pazienti preferiscono la psicoterapia ai farmaci, cosa questa quasi sempre ignorata e che non può non avere ricadute negative sulla cosiddetta compliance, cui gli psichiatri tengono tanto (Migone, 2005, 2009b, 2015, 2017; Shedler, 2010; vedi anche Clark, 2017 p. 539, 2022, 2023; Clarke, 2023); gli antidepressivi SSRI, peraltro, negli studi controllati al doppio cieco si sono rivelati di pochissimo superiori al placebo, tanto che, se la loro efficacia è statisticamente significativa, non è "clinicamente significativa" (solo due punti della Scala di Hamilton; Kirsch, 2009), e di questo non se ne parla quasi mai. A volte mi sembra che quella degli antidepressivi sia una delle più grosse truffe della storia della medicina, nel senso che è vero che i pazienti depressi migliorano, ed è per questo che gli psichiatri continuano a prescriverli, ma non sanno che la maggior parte di loro migliorerebbero ugualmente con un placebo, come indicano le ricerche controllate. Emerge insomma con forza che nella depressione è la relazione interpersonale tra medico e paziente quella maggiormente responsabile del miglioramento. Come facevo notare già venticinque anni fa,
«presso molti operatori dei Servizi psichiatrici, soprattutto in determinare aree, la cultura farmacologica pare rimanga sempre di più l'unica cultura psichiatrica incontrastata. Ad esempio, in molti Servizi di salute mentale italiani, mentre alcuni anni fa si prestava molta attenzione all'approccio psicoterapeutico (con discussione di casi, supervisioni individuali e di gruppo, attenzione alle dinamiche interpersonali, ecc.), ora la pratica psichiatrica rischia di essere impostata quasi totalmente sull'impiego dei farmaci, con un disinteresse per l'attenzione alle concause ambientali, psicologiche e della storia personale del paziente; i singoli psichiatri passano la maggior parte del loro tempo seguendo ambulatoriamente i propri pazienti in cura farmacologica, con pochi scambi tra loro, seguiti dall'attenta cura dei nuovi "supervisori": i rappresentanti delle case farmaceutiche. Inoltre, pare che vi sia poco interesse in molti colleghi nel domandarsi come mai sia avvenuto questo cambiamento, come se essi avessero vissuto in una specie di sogno, o fossero sotto l'effetto di una forma di omertà, di una rimozione del proprio passato. Questa relativa assenza di riflessione in molti luoghi di lavoro sembra ricalchi, a livello microscopico, il fenomeno più generale, cioè il disinteresse e la quasi assenza di dibattito critico a livello nazionale attorno alla nuova moda della psichiatria biologica» (Migone, 1999, p. 221).
L'onda portante del "diagnosticismo" iniziata col DSM-III (American Psychiatric Association, 1980) ha sicuramente contribuito a spingere in questa direzione. Ma sarebbe ingenuo considerare il DSM-III la causa di questi cambiamenti: il DSM-III fu solo la conseguenza di più complesse trasformazioni della psichiatria avvenute precedentemente quando, da una parte, la crisi dell'immagine della psicoanalisi a livello sociale negli Stati Uniti fece oscillare il pendolo della psichiatria in senso inverso e, dall'altra, dietro pressioni economiche ed esigenze di accountability ci si orientò verso una psichiatria che permettesse una maggiore verifica dei risultati a breve termine, dove si potesse raggiungere un più facile accordo su quali pazienti modificare, che risultati visibili raggiungere, e con interventi che fossero facilmente replicabili. Ma se i DSM-III, il DSM-IV e ora il DSM-5 sono solo una delle conseguenze e non la causa di questi cambiamenti, a loro volta sono diventati una concausa di altrettante trasformazioni nella psichiatria, nel training dei giovani psichiatri, e nella cultura psichiatrica in generale. Il rischio è che la "cultura del DSM-III" (poi del DSM-IV e ora si dovrebbe dire del DSM-5), se trasmessa acriticamente alle nuove generazioni di psichiatri, faccia scomparire in breve tempo quel prezioso bagaglio di cultura psichiatrica interpersonale che in Italia stava faticosamente cominciando a formarsi. Non va dimenticato, come si è detto, che mentre la cultura della psichiatria clinica nordamericana aveva una identità più forte di quella italiana per l'influenza di circa mezzo secolo di cultura psicodinamica e interpersonale (si pensi che Sullivan negli Stati Uniti faceva sentire la sua voce già a metà degli anni 1920), in Italia invece il DSM-III e le successive edizioni spesso sono stati assorbiti fuori dal contesto di una matura cultura clinica in cui essi dovevano essere inseriti, come se questo manuale diagnostico fosse un nuovo approccio psichiatrico, se non addirittura un testo di psichiatria clinica: non a caso gli assi IV e V del DSM-III e del DSM-IV (coi quali in un certo qual modo si includeva il ruolo dei fattori psicologici e ambientali, quindi per certi versi introducevano un aspetto "psicodinamico") sono stati quasi completamente ignorati, e nel DSM-5 il sistema multiassiale è stato addirittura eliminato. Ne è emersa una cultura della psichiatria in cui il ruolo del rapporto interpersonale viene estremamente relativizzato, seguendo alcuni aspetti deteriori e fraintendimenti di quello che da alcuni è chiamato "modello medico" di malattia. Ma sono solo fraintendimenti, perché nel modello medico è tenuta in alta considerazione il rapporto medico-paziente, ed è proprio dal modello medico che è nato il concetto di placebo e si è imposta l'esigenza di non trascurare le variabili del rapporto interpersonale (Migone, 1991, 1999 p. 222, 2005 p. 317; Frances, 2013). Quando entrarono in scena gli psicologi, dopo che furono attivati i corsi di laurea in Psicologia, prima a Roma e Padova e poi in varie città, nella psichiatria universitaria vi fu la tendenza ad allontanarsi sempre di più dagli aspetti psicologici dei disturbi mentali e dall'attenzione per la relazione interpersonale, e a delegare questi aspetti agli psicologi, compiendo un grosso errore che ha contribuito a snaturare la psichiatria come disciplina, trasformandola in qualcosa che essa non deve e non può essere: una professione prevalentemente "tecnologica", che privilegia gli psicofarmaci e gli esami di laboratorio, svalorizza l'ascolto del paziente e così via. Tanto è stato scritto sull'attuale crisi della psichiatria orientata a questo "paradigma tecnologico" (cfr. ad esempio Bracken et al., 2013; Angell, 2011), che le ricerche empiriche hanno peraltro dimostrano essere meno efficace di una psichiatria basata su una maggiore attenzione alla relazione interpersonale, all'ascolto e alla comprensione dei sintomi all'interno della storia di vita del paziente. L'università ha grosse responsabilità al riguardo, perché ad esempio gli specializzandi in psichiatria, nonostante il titolo di specialista dia loro diritto anche al titolo di "psicoterapeuti", tranne poche eccezioni non vengono formati adeguatamente in psicoterapia, ma solo a somministrare farmaci. In pratica vengono formati a una "cattiva psichiatria" (Migone, 2009a), snaturata della sua vera essenza. Questo stato di cose è talmente eclatante che il Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca (MIUR) ha dovuto ricorrere ai ripari e con grande ritardo ha emesso un Decreto Interministeriale (n. 68 del 4 febbraio 2015) sul Riordino delle Scuole di specializzazione di area sanitaria in cui viene stabilito che «Lo specialista in Psichiatria (…) deve avere conoscenza delle basi teoriche e delle tecniche delle varie forme di psicoterapia individuale, familiare, di gruppo e acquisire gli strumenti professionali per l'esercizio di specifiche forme strutturate di psicoterapia». L'assenza insomma della formazione in psicoterapia in molte scuole di specialità in psichiatria era talmente evidente che è stato necessario prescriverla con un decreto (che peraltro, non essendo previsti controlli, non vi è modo di sapere se viene pienamente rispettato), e sono dovuti passare quasi trent'anni dalla Legge 56/1989 per capire che era necessario dare un minimo di formazione in psicoterapia anche agli psichiatri. Se quindi, come abbiamo visto, il movimento antipsichiatrico ha presentato delle criticità, anche l'università è responsabile di una carente formazione degli psichiatri. L'adozione dell'approccio descrittivo dei DSM, che assimila la psichiatria non tanto ad altre specialità mediche quanto addirittura a discipline non cliniche come la biologia o l'anatomia, fa emergere l'immagine di un paziente che, per così dire, esiste più sul tavolo autoptico che nella realtà clinica. Per la verità i membri delle Task Force dei vari DSM hanno tenuto presente questo problema, e come capo della Task Force del DSM-IV è stato eletto addirittura uno psichiatra ad orientamento psicoanalitico, Allen Frances (il quale peraltro si impegnerà attivamente, assieme a Bob Spitzer, che era stato capo della Task Force del DSM-III, nella campagna internazionale per boicottare il DSM-5; Spitzer & Frances, 2011; Migone, 2013, pp. 578-584). Inoltre nell'Introduzione al DSM-IV si legge testualmente che i criteri diagnostici «devono servire come linee guida per il giudizio clinico e non per essere usati come ricette di cucina» (American Psychiatric Association, 1994, p. xxiii). Gli autori dei DSM erano quindi consapevoli dei rischi insiti in un uso clinico inappropriato di questi strumenti. Inoltre l'esplicitazione, internamente coerente, di questo sistema diagnostico non può che essere di stimolo per gli approcci non descrittivi e per la psichiatria nel suo complesso, come una salutare sfida che fa riflettere sul ruolo della diagnosi, sulla coerenza dei criteri usati, sulla metodologica della nostra pratica clinica. è proprio per questo suo ruolo di stimolo che io presentai in anteprima il DSM-III in Italia (Migone, 1983a, 1983b, 1985), sottolineandone l'importanza come propulsore di cambiamenti anche per la cultura psicodinamica. Per concludere, ritengo che la psichiatria italiana non sia in buona salute (ma va detto che anche a livello internazionale la psichiatria sta attraversando una grossa crisi, si pensi ad esempio al dibattito suscitato dall'autorevole saggio di Marcia Angell [2011], che insegna ad Harvard e ha diretto la più importante rivista medica del mondo). Se l'università non è riuscita a porsi come forza culturalmente trainante, e a formare adeguatamente gli operatori che poi dovevano lavorare sul territorio, il movimento anti-istituzionale, dopo un periodo iniziale ricco di fermenti e grosse conquiste, tra cui l'approvazione della Legge 180/1978, ha subìto un rallentamento, a causa dei fattori che abbiamo discusso. Mentre però inizialmente vi era un clima caratterizzato da entusiasmo e grosse aspettative, con leader carismatici (primo fra tutti Basaglia), oggi gli psichiatri sul territorio sono soli, non hanno più leaderr carismatici, devono far leva sulle proprie forze nella loro "guerra di trincea", in una "psichiatria senza carisma" (Galli, 2007a, 2012, 2014a). è una fase più matura, quindi più difficile, perché la spinta motivazionale non può più venire dall'esterno, ma dall'interno, come frutto di un lungo lavoro di maturazione e di formazione, che purtroppo è stata carente.
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