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PSYCHOMEDIA
COMUNITÀ TERAPEUTICHE
CT Salute Mentale



La supervisione delle Comunità Terapeutiche : processualità, limiti e potenzialità

di Barnà C.A., Antonini I. , Bonomo D. , Brignone A., Casarano L., De Crescente M. , Tassoni G




Il passaggio dai tentativi di comprensione psicoanalitica delle istituzioni (Freud 1912-13, 1915, 1921, 1927, 1930, 1932, 1938), all’utilizzo dello strumento psicoanalitico nel lavoro istituzionale, avviene in modo pionieristico in Inghilterra, alla fine degli anni 40', alla Tavistock Clinic, dove collaborano diversi psichiatri, psicoanalisti e psicologi che durante la guerra avevano prestato servizio nell’esercito: tra loro ci sono personaggi di rilievo come Rickman, Sutherland, Main, e lo stesso Bion. Nell’immediato dopoguerra anche il Northfield Hospital, un ospedale militare per reduci, diventerà sede di importanti sperimentazioni come il lavoro pionieristico di Bion sui gruppi, quello di Foulkes sulla gruppo-analisi e quello di Tom Main, che ha poi fondato il modello di cura residenziale noto col nome di "Comunità terapeutica" (Bion 1952, 1961, Foulkes 1948, Main 1989).

Negli anni settanta, come narrato da Dicks (1970) e Rustin, (1991), la Clinica Tavistock mette a punto nuovi strumenti per diffondere la cultura psicoanalitica attraverso l’introduzione delle psicoterapie brevi, di quelle ad una o due sedute settimanali e l’applicazione della psicoterapia alla coppia e alla famiglia. Un capitolo a parte è rappresentato dall'approccio rivoluzionario impiegato da Michel e Enid Balint ( ) alla formazione psicologica dei medici di famiglia, da cui nascerà la specifica modalità di training dei cosiddetti "Gruppi Balint".

In Italia è soprattutto Corrao (1981, 1983, 1986) che, rifacendosi al pensiero di Bion, indirizza la sua ricerca sulle applicazioni del “piccolo gruppo a funzione analitica” a vari contesti operativi: da quelli terapeutici a quelli formativi e di supervisione. L’applicazione ai contesti istituzionali si indirizza in particolare alle istituzioni sanitarie (Fornari 1985, Olivetti Manoukian 1988), ed a quelle psichiatriche (Anzieu, 1975, Pichon-Riviere 1960, 1965, Bleger, 1964, 1970, Maggi 1974, Fornari 1978, Kaneklin 1982, Speziale Bagliacca 1980, Pietropolli Charmet 1987, Barnà 1988, 1993, Sarno, 1985, Correale 1991, 1993, Brignone, 1997, 1999).

La supervisione si va affermando come il contributo più rilevante che lo psicoanalista può dare alle equipe psichiatriche ed alle comunità terapeutiche, ed appare oggi il contesto operativo più idoneo ad avvicinare gli operatori alle varie sfaccettature della competenza dello psicoanalista consulente (Barnà 1988). In particolare è merito dell'analisi del “campo” inconscio della coppia analitica al lavoro, proposta dai Baranger (1961) e riportata da vari autori in contesti operativi diversi (Barnà 1979, 1986, Bonfiglio 1999, Bruni 1986, Corrao 1986, Correale 1991, Corrente 1986, Neri 1985, 1986, 1988, Petrini 1986, Romano 1986), se la psicoanalisi si è qualificata come tecnica d'indagine dei fenomeni inconsci collettivi, molto più di quanto non lo fosse a partire dal paradigma iniziale di ricostruzione dell’inconscio individuale.

La supervisione ai Gruppi istituzionali e alle Comunità terapeutiche

Il gruppo degli operatori

A monte della supervisione esiste sempre un gruppo di operatori che può essere compreso a partire da coordinate che ne definiscono il grado di coesione, di comunicazione e di partecipazione all'attivita' operativa (Rinaldi, 1997); a volte la scelta di un supervisore, effettuata dopo una fase di valtuazione, può indicare quale direzione il gruppo voglia dare ai propri pensieri. Spesso però la supervisione è il prodotto di una decisione di vertice che non ha coinvolto il gruppo nella scelta.

Correale (1991) osserva come ogni gruppo istituzionale, munito di un sistema organizzato di ruoli e funzioni gerarchiche, è da un lato soggetto alle consuete dinamiche dei gruppi e dall’altro è proiettato verso l’esecuzione di un compito socialmente rilevante. La specificità del gruppo istituzionale non gli consente di disporre di un apparato di autoanalisi con cui contenere, selezionare e integrare le esperienze psichiche, vissute dai suoi membri. La conseguenza è che, nel campo istituzionale, una serie di esperienze affettive e fantasmatiche tendono a non trovare contenimento ed elaborazione, ma restano in uno stato scisso e non integrato. In certi casi, i singoli individui contengono al proprio interno queste esperienze, con vari gradi di sofferenza individuale; più spesso tendono a farle circolare nel gruppo comportandosi in modo da indurre in altri membri esperienze analoghe o complementari; altre volte le proiettano, coartando in varia misura i propri vissuti e vivono con la presenza di un senso di peso oscuro e poco comunicabile.

Queste considerazioni conducono al bisogno di riconoscere la diversità tra i vari gruppi istituzionali, in cui i differenti tipi di organizzazione del lavoro esistenti possono favorire od ostacolare i processi comunicativi di gruppo. Un gruppo di operatori che lavorino insieme in una Comunità Terapeutica, pur essendo costituito da professionalita' diverse, può essere più omogeneo di altri gruppi costituiti da operatori della medesima professionalità ma operanti in contesti diversi tra loro. Nella Comunità Terapeutica il livello di collegialità è molto elevato, proprio a causa della quotidianita' del contatto col paziente e della contemporanea riduzione di una strumentazione operativa che rimandi ad un setting tradizionalmente inteso Ferruta et al., 1998). E poichè il lavoro di ogni Comunità si fonda essenzialmente sull'apprendere dall'esperienza e sulla centralità data all'azione terapeutica e all'azione parlante (Racamier, 1982), esso necessita della supervisione come strumento di rielaborazione delle emozioni che si sviluppano nel campo operativo. In mancanza della supervisione una Comunità può facilmente andare incontro appunto ad un accumulo di "residui" non elaborati che generano disfunzionalità del compito. Tanto maggiore è il deposito emotivo non elaborato, tanto piu' risulterà obliterata la possibilita' dei partecipanti di comunicare tra loro, e tanto maggiori saranno i fenomeni patologici di gruppo.

L'abitudine alla condivisione di pazienti e di ambiente di lavoro, consente comunque un piu' facile disporsi alla coralita' della supervisione, rispetto ad esempio ad altre situazioni, come quelle di un servizio territoriale in cui il grado di coesione gruppale e di partecipazione ad un progetto terapeutico-riabilitativo puo' essere estremamente diversificato. In queste situazioni la patologia gruppale si nasconde a volte dietro una rigida aderenza al compito istituzionale o ad una pratica dell'emergenza che riduce o annulla lo spazio per pensare e/o ne fa scomparire persino l'esigenza.

In ogni caso il grado di coesione e di evoluzione di un gruppo produce in supervisione un diverso livello di elaborazione del pensiero. Un gruppo che sia in partenza abbastanza omogeneo e integrato puo' accedere ad una piu' elevata elaborazione del controtransfert e ad una piu' complessa comprensione del paziente, rispetto ad un gruppo che parta da un livello di minore coesione. Tuttavia anche quest'ultimo puo' accedere ad una elaborazione, che pur rimanendo basale e lasciando inesplorati i livelli più complessi di lettura, può essere trasformativa.

Il gruppo, per sua natura, sembra costituire un apparato particolarmente propizio al verificarsi di processi di trasformazione; esso sembra infatti dotato di due funzioni opposte ma integrate (Correale, 1996) : da un lato sembra indurre nei partecipanti fenomeni di più o meno parziale depersonalizzazione (Bion, 1961; Correale e Parisi, 1979), con conseguente emergenza di fenomeni di frammentazione, scissione e concretezza. Sembra cioè in grado di produrre, e al tempo stesso amplificare e rendere più avvertibile, la produzione di elementi beta; i tipi di esperienza, rappresentati dagli elementi beta, possono essere infatti avvertiti come disturbi sensoriali, microallucinazioni (Neri, 1983), alterazioni cenestesiche, disturbi psicosomatici, o come fantasie o pensieri privi di collegamento con altre parti della mente (Bion, 1985). D’altro lato il gruppo sembra particolarmente attrezzato per operare in modo sintetico e integratore su questo tipo di produzioni mentali. Per sua natura, infatti, il gruppo presenta una potente spinta alle funzioni di integrazione e sintesi necessarie alla funzione alfa, e propone quasi fisiologicamente l’idea che ogni intervento non sia soltanto espressione del punto di vista di un individuo, ma costituisca la parte di un tutto, che lentamente prende forma lungo le catene associative del pensiero di gruppo (Kaes, 1993). Un’atmosfera di tolleranza, accettazione e attenzione, modulata e non intrusiva, legata a un buon clima di gruppo, (Neri, 1979), conferisce al gruppo un carattere di buon contenitore; carattere che deve costituirsi preliminarmente alle operazioni di tipo selettivo e integrativo, che il gruppo svolge con la guida del supervisore (Barnà, 1995).

L'incontro di supervisione

a) lo spazio di riflessione

L'allontanamento del gruppo dall'azione e dall'impatto con la risposta urgente, che prevale invece nelle riunioni di équipe, costituisce il momento della supervisione come l'apertura di uno spazio di riflessione (Hinshelwood, 1995, Petrella 1997). E' proprio questa riflessione/ripensamento del rapporto del terapeuta e del servizio con il paziente ed i suoi familiari, articolata con l'alterità del supervisore, che contribuisce a fare uscire l'incontro dai canoni istituzionali delle riunioni abituali, per fargli assumere una diversa configurazione e un diverso significato.

Anche il lavoro di preparazione di un testo, sul caso che viene presentato, pone la supervisione ad un livello diverso dalle normali riunioni di servizio; niente può essere dato per conosciuto e gli operatori che presentano un caso devono necessariamente ripercorrere nella propria mente le tappe della malattia del paziente, le dinamiche contestuali di cui sono a conoscenza ed il proprio rapporto con quella situazione.

a) l'idealizzazione

Un fenomeno utile a far partire il processo trasformativo è costituito dall'idealizzazione iniziale del supervisore da parte del gruppo, ma essa deve successivamente mutarsi nel riconoscimento dell'autorevolezza del supervisore, fondata sulla sua capacità di fornire un ampliamento della comprensione del caso ed una rinnovata fiducia nelle capacità terapeutiche del gruppo stesso. L'autorevolezza del supervisore deve essere però conservata in gran parte, e permanere sotto forma di un certo grado di asimmetria; se le interpretazioni del supervisore diventano troppo paritarie e viene cancellata la sua leadership, il gruppo comincia a presentare dinamiche conflittuali.

A volte però un elevato livello di idealizzazione iniziale viene, piu' o meno consciamente, alimentato dal supervisore stesso; questo accade ad esempio nel caso di supervisori che tendono a stupire con interpretazioni profonde o che utilizzano un linguaggio gergale con cui il gruppo viene tenuto in stato di soggezione.

b) la resistenza

Esistono gruppi che in supervisione esprimono un maggior grado di resistenza; sono quelli in cui è più elevata la difesa corporativa del ruolo professionale e la paura di una sorta di mescolanza confusiva delle professionalità (ad es. medici che non vogliono esporsi con altre professionalità, etc.). Altre volte invece un gruppo chiama il supervisore con l’idea di accedere ad una cura per se stessi; può accadere che il gruppo si ponga davanti al supervisore dichiarando esplicitamente "il caso siamo noi" e tentando di affrontare direttamente le proprie dinamiche conflittuali interne senza la mediazione dell'oggetto comune, costituito dal caso. Il supervisore dovrà valutare quindi se rispondere al livello di emergenza agito dal gruppo o no.

A volte può accadere che il gruppo tenda ad utilizzare la supervisione per attaccare la leadership istituzionale, o anche la supervisione scateni conflitti di leadership più o meno sopiti o presenti ma in modo latente (Kets de Vires, 1993).

Anche la presenza tra gli operatori di un'organizzazione troppo rigida può giocare un ruolo frenante sulle possibilità trasformative della supervisione. In talune supervisioni il caso presentato segnala il livello di patologia esistente nel gruppo stesso, e si può pensare ad una sorta di isomorfismo al contrario, per cui il gruppo rappresenta attraverso il paziente il livello di "peste" che circola tra gli operatori.

In questi casi la funzione del supervisore può consistere nell'aiutare l'operatore o il gruppo intero ad assorbire le sconfitte e digerire le delusioni della pratica quotidiana. La supervisione può quindi essere utile anche quando diventa solo il pretesto per riunire il gruppo degli operatori di un servizio malfunzionante; in questi casi essa è l'occasione per prendere atto della condizione degradata del servizio e delle sue dinamiche o per diagnosticarne la malattia.

c) I fenomeni di campo

Nella seduta di supervisone si verifica l'incontro tra la soggettivita' del supervisore e l'intersoggettivita' gruppale condizionata dai fenomeni dell'intertransfert (Kaes 1999).

La "seduta di supervisione" costituisce un campo di funzionamento mentale che per sua natura e' multicorporale, dove i fenomeni sensoriali ed extraverbali giocano un ruolo molto attivo. Questi fenomeni generano forti tensioni, che si manifestano nella seduta di supervisione sia attraverso il linguaggio corporeo sia attraverso fenomeni di transfert e controtransfert, che in un contesto di gruppo istituzionale sono molto complessi e intrecciati. Con la seduta di supervisione il gruppo contribuisce alla costruzione di un proprio campo esperienziale dove operare le ricostruzioni di una scena frammentata o mai organizzatasi, in cui sia possibile recepire i bisogni e le proiezioni del paziente attraverso l'attivazione dentro i partecipanti di aspetti parziali consonanti o dissonanti dal proprio mondo fantasmatico (Correale, 1991, 1993) .

La mente del supervisore non e' totalmente insatura e a disposizione del gruppo poiche' il supervisore ha spesso una sua idea sul caso presentato, che si e' fatta leggendo il materiale; tuttavia egli deve conservare una disponibilita' a lasciarsi convincere, che duri tutta la seduta. Il campo gruppale offre comunque (Corrao, 1983) una maggiore possibilità di operazioni trasformative in quanto mette a disposizione del supervisore una grossa cassa di risonanza costituita dal gruppo stesso. La risonanza offerta dal gruppo e' tale per cui si assiste ad una diffrazione sul gruppo di elementi mentali provenienti dal paziente che riverberano sui partecipanti e fanno in modo che ciascuno intervenga suonando in una certa misura sempre lo stesso strumento; la risultante armonia richiede però da parte del superviore la presenza di un particolare tipo di ascolto, di coerenza ed un ancoraggio ad un modello teorico dello sviluppo mentale.

Il supervisore che raccoglie i contenuti del gruppo deve riuscire a creare la fiducia che il passaggio di livello che consente di costruire un oggetto immaginifico, sia in realta' utile per avvicinarsi al paziente. La fiducia che facendo lavoro d'immaginazione si stia facendo in realta' un lavoro clinico molto concreto.

Puo' accadere talvolta che alcuni dei partecipanti tentino di trasformare lo spazio della supervisione in un campo di drammatizzazione di propri aspetti interni; quando un gruppo soffre per l'intervento insistente di qualcuno, il supervisore si deve preoccupare della perdita di fiducia nel lavoro di supervisione e deve contenere gli interventi deraglianti. Altre volte alcuni operatori sono portatori di sfiducia rispetto alla supervisione, ma in genere la dimensione narrativa e ricostruttiva della supervisione riesce a convincere anche i piu' riottosi che si tratta di un modo per fare clinica. La lettura narrativa del paziente e della sua storia bonifica la relazione nella misura in cui gli operatori escono dalla supervisione con una idea del paziente piu' risolta e un minore senso di oppressione.

I limiti della Supervisione

Pur valutando positivamente le esperienze di supervisione che si sono svolte in questi anni nei servizi pubblici, vogliamo sottolinearne anche i limiti, per non sconfinare in un qualche tipo di suggestione che veda in questo strumento una specie di panacea adatta ad affrontare ogni problema (Di Marco, 1997, 1999).

Talvolta la supervisione rischia di produrre una dipendenza del gruppo dall’apporto esterno, o una autoidealizzazione del gruppo stesso che si sente eletto in quanto “toccato” dalle illuminazioni del supervisore; ne conseguono processi di scissione nel gruppo, tra gli operatori che partecipano alla supervisione e quelli che non vi partecipano. Ci sono supervisioni che, pur con tutti i tentativi che fanno per calarsi nel servizio pubblico, risentono di un'impostazione che mutua i suoi modelli da una pratica privata, le conseguenze consistono in una proliferazione di psicoterapie difensive, spesso non in sintonia con gli obiettivi del mandato istituzionale.

Occorre sviluppare pertanto un modello di supervisione che tenga conto del “terzo istituzionale”, cioè del quadro legislativo di riferimento, della comunita’ in cui opera, delle sue regole, dell'organizzazione, della gerarchia, ecc.. . Se la supervisione tiene conto del paziente, degli operatori, dell’organizzazione, e della loro reciproca interdipendenza, può trovare soluzione ad alcuni problemi e non ad altri, può tenere conto del giusto equilibrio tra regressione e capacità adulte del paziente, rinunciando ad incoraggiare psicoterapie interminabili.

In ogni caso occorre ricordare che se anche si trovasse un modello adeguato di supervisione, essa non potrebbe da sola migliorare i servizi; per innescare processi positivi di trasformazione c'è bisogno soprattutto di apporti adeguati provenienti dell'organizzazione istituzionale (AA.VV. 1998) .

Le potenzialità della supervisione

Il lavoro di supervisione non corrisponde solo in un inquadramento psicopatologico del caso, ma consiste nel consentire speculazioni immaginative che diventano euristiche. Il pensiero del supervisore, coagulandosi intorno ad immagini fornite dal gruppo, costruisce una sorta di autorizzazione al gruppo a lavorare in modo immaginifico e a fornire elementi grezzi, non elaborati; l'immagine diventa un prodotto intermedio e consente di guardare al lavoro scientifico da un altro vertice (Barnà e Brignone, 1999). L'emozione controtransferale, educata dalla teoria clinica, porta all'acquisizione di una maggiore tolleranza nei confronti del paziente e alla comparsa di un punto di vista nuovo su di lui che aiuta gli operatori ad essere piu' comprensivi. E' quindi un buon accadimento che gli operatori escano dalla supervisione con un po' di sim-patia in piu' rispetto al paziente di quanto non ne avessero quando sono entrati.

La supervisione si prende cura dunque del gruppo sul piano motivazionale e lo porta a sentirsi piu' qualificato sul proprio lavoro, attivando una vitalita' maggiore e mettendo a lucido gli strumenti operativi in uso. Quando la supervisione funziona si assiste ad una sottile trasformazione del gruppo che diviene piu' capace di usare i momenti di riunione come momenti in cui si possono lasciare un pò piu' liberi i pensieri, in cerca di una migliore comprensione del paziente. Una supervisione riuscita ha anche degli effetti terapeutici nel gruppo; un buon funzionamento gruppale nella supervisione sembra avere ricadute interne nei singoli partecipanti e produrre una maggiore integrazione con se stessi e con gli altri.

A partire dalle esperienze fatte in questi anni, possiamo dire che la supervisione facilita l’attività di pensiero e la creatività di gruppo, e permette in molti casi l’integrazione di competenze diverse e la collaborazione fra colleghi. Talvolta essa sviluppa nel gruppo l’affettività e rinforza positivamente sia il clima di lavoro sia i rapporti interpersonali.

Possiamo dire anche che quando la supervisione modifica veramente il gruppo di lavoro, viene favorita la costituzione di un'attitudine alla lettura ricostruttiva e psicogenetica della sofferenza mentale (Barnà 1995) che mette in ombra il criterio nosografico e induce il bisogno di affiancare il trattamento farmacologico con una necessaria terapia relazionale.

Infine possiamo pensare che la presenza nella seduta di supervisione del vertice osservativo proveniente da varie figure professionali produca la progressiva costituzione di un punto di vista e di un linguaggio condiviso tra i partecipanti. Possiamo sperare che l'elaborazione condivisa delle situazioni emotive connesse con la presa in carico dei pazienti e delle loro famiglie, che si verifica nella seduta di supervisione, prosegua nella pratica quotidiana.

Il contributo che la psicoanalisi può dunque dare alle istituzioni in genrale e alle Comunità terapeutiche in particolare, non deve rivolgersi all'indottrinamento degli operatori ed alla creazione di una dipendenza dai modelli teorici del supervisore, quanto a migliorare il dialogo tra le diverse culture degli operatori. Si tratta di un modello di supervisione che non si configura come importazione/imposizione di una monocultura psicoanalitica e delle sue modalità d'intervento e d'interpretazione della sofferenza psichica, ma che vede come proprio contributo originale la creazione di un setting di riflessione, inteso come sospensione della realtà quotidiana, e creazione di uno "spazio per pensare" e per ottenere trasformazioni mentali.

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Speziale Bagliacca R. (a cura di) (1980); Formazione e percezione psicoanalitica. Feltrinelli, Milano, 1980.

1) “Equipe e Supervisione” La supervisione nel lavoro di équipe. Luigi Rinaldi.

2) “La Supervisione dell’équipe nell’Istituzione: un percorso fra il dire e il fare…..” F. Pedriali.

3) “Le Attività di Supervisione” Stefano Bolognini, Magda C. Mantovani.

Abstract

Questa relazione si propone di evidenziare come la supervisione sia lo strumento più attuale che la psicoanalisi può mettere a disposizione dei servizi psichiatrici e delle comunità terapeutiche.

Dopo un breve inquadramento storico del contributo psicoanalitico alle istituzioni, la supervisione viene analizzata sotto vari punti di vista. In particolare viene esaminato il funzionamento nel qui ed ora dell'incontro tra supervisore e supervisore e la presenza in esso di alcune fantasmatizzazioni che hanno a che fare con il Mito.

Vengono considerati inoltre sia i limiti della supervisione, sia le potenzialità positive che da essa promanano; quando la supervisione funziona può mettere in moto processi di trasformazione nel gruppo, sia sotto forma di attivazione controtransferale positiva nei confronti del paziente, sia sotto forma di un cambiamento nel funzionamento del gruppo stesso.


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