PM
--> HOME PAGE ITALIANA
--> ARGOMENTI ED AREE
--> NOVITÁ
--> COMUNITÀ TERAPEUTICHE
PSYCHOMEDIA
|
COMUNITÀ TERAPEUTICHE
CT Salute Mentale
|
Per una "politica" delle Comunità Terapeutiche
Meeting or challanging the demands of policy
di Enrico Pedriali
Relazione presentata, nel 1999, all'annuale Conferenza internazionale di Windsor, organizzata dallì Association of Therapeutic Communities.
Credo di non scoprire niente di nuovo affermando che il contesto sociale, economico, politico e i movimenti culturali e scientifici, si sono sempre reciprocamente influenzati, producendo diversi effetti su tutte le espressioni del vivere civile.
Psichiatria, psicologia, psicoanalisi e scienze umane in genere, non fanno eccezione a questa evidenza. Le loro teorie, le loro pratiche si sono intrecciate, a volte in sintonia, a volte in contrasto, con le vicende politiche di diversi periodi storici. In un certo senso ci si può chiedere se anche chi svolge la propria attività nell'ambito di queste discipline, non contribuisca coi propri orientamenti a "far politica" nel contesto generale in cui operano.
Uno sguardo alle vicende della psichiatria nel secolo che sta per finire ci fornisce dei vistosi esempi di questo intreccio. Basti pensare alla tragica collusione di larga parte della psichiatria tedesca col regime nazista durante gli anni '30 e i primi anni '40; o alla Russia Sovietica ove in anni ancora recenti, una psichiatria accondiscendente ha condiviso e fatte proprie le richieste del regime di isolare ed internare nei manicomi, con diagnosi fittizie, coloro che facevano sentire la propria voce per esprimere diversità e dissenso; o ancora alla tragedia dei Balcani, ove una parte della psichiatria di quelle regioni ha collaborato in diversa misura con la politica di pulizia etnica.
Fortunatamente vi sono state, in questo secolo, anche pagine "gloriose" per la psichiatria in diversi paesi: negli anni '40, gli psichiatri inglesi, imbattendosi nelle drammatiche vicende della seconda guerra mondiale, riuscirono a fare un uso creativo di quel tragico incontro (Kennard), generando e sviluppando lo spirito, la teoria e la pratica della Comunità Terapeutica, e in Francia i fermenti culturali che si erano sviluppati in ambito psichiatrico nei primi anni '40, trovarono un terreno fertile, nell'immediato dopoguerra, e confluirono in un più vasto movimento di rinnovamento sociale innescato dalla Resistenza al nazifascismo, che aveva coinvolto tutta la società francese. Anche nel nostro paese, in anni recenti, un movimento d'opinione di stampo radicale, contrapponendosi alle posizioni conservatrici dell'establishment psichiatrico e riuscito ad affermare le proprie idee tradotte, nel 1978, con la famosa legge 180.
La psichiatria dunque ha sempre preso parte, da diverse posizioni, alle vicende storico-politiche: talvolta ne è uscita onorevolmente, tal altra no.
Il momento che stiamo attraversando, sicuramente non presenta i caratteri drammatici di certi periodi del passato, recente e remoto, ma presenta comunque una fisionomia sempre più chiara col passar degli anni. Notevoli trasformazioni in campo economico, politico e sociale si ripercuotono sulle attività psichiatriche e quindi anche sulle Comunità Terapeutiche.
Di fronte alla domanda: "Meeting or challenging the demands of "policy", io rispondo che tutto dipende dalla direzione verso la quale sta andando la politica, ma anche dalla capacità delle Comunità di esprimere una loro "politica".
Se prendiamo in considerazione i cambiamenti più significativi nel corso degli anni Ô80-'90, dobbiamo certamente includervi la crisi del Welfare State in gran parte dei paesi del mondo occidentale, l'espandersi dell'economia di mercato e il diffondersi della politica d'impresa dai settori dell'industria, del commercio e della finanza anche ai Servizi Sociali. Sul piano culturale, l'espressione "Civiltà dei consumi" è quella che rende meglio l'idea dell'attuale fase storica, mentre sul piano scientifico, stiamo assistendo a una svolta neo-positivista che, per quel che ci interessa più da vicino, significa un forte incremento delle neuroscienze e delle discipline ad esse correlate (psichiatria biologica, epidemiologia, statistica sanitaria).
Come tutte le attività industriali e commerciali, anche le iniziative in campo sociale (scuola, sanità, assistenza, salute mentale, sicurezza sociale) sono costrette a commisurare l'entità della spesa con l'efficacia e l'efficienza delle loro prestazioni: lo Stato si viene sempre più a trovare in condizioni analoghe a un'azienda e, come tale, a fare i conti col problema dei costi-benefici, con tutte le variabili che su di esso incidono. Conseguenza inevitabile di questo fatto è la necessità di utilizzare procedure di valutazione, certificazione e accreditamento anche nell'ambito dei Servizi Sociali. E' così che le varie pratiche psichiatriche, comprese quelle psicoterapiche e psicoanalitiche, sono investite da richieste sempre più pressanti di far chiarezza sulle proprie metodologie, di dimostrare la loro efficacia e di render conto dei loro costi.
La storia della Psichiatria è sempre stata caratterizzata da scissioni e scontri fra opposte tendenze e sarebbe sorprendente se anche a questo proposito non si verificasse qualcosa del genere. Fra gli addetti ai lavori vi è chi si oppone "per principio" a qualsiasi criterio di valutazione, invocando la "non-misurabilità" delle procedure psichiatriche. D'altra parte, sono altrettanto numerosi coloro che accolgono con entusiasmo questa tendenza, ritenendo doveroso porre fine all'arbitrarietà e alla scarsa "scientificità" di certe pratiche terapeutiche e assistenziali. Valutare e accreditare rappresenta, per questi ultimi, un atto dovuto al paziente, alla sua famiglia e al sistema sanitario che finanzia Servizi di cura e assistenza (B. Saraceno, 1999).
Le Comunità Terapeutiche si trovano a loro volta sottoposte a questo tipo di pressione come del resto è inevitabile. La loro attuale posizione è abbastanza delicata sia in paesi come l'Inghilterra, ove esiste una tradizione consolidata, e più ancora in Italia ove la cultura della Comunità è ancor oggi piuttosto debole .
Il mandato che il sistema socio-sanitario sembra affidare loro sta diventando quello di occuparsi di un range di patologia sempre più vasto: dalle gravi forme di nevrosi, ai disturbi lievi di personalità, al disadattamento adolescenziale, si sta ormai arrivando ai disturbi borderline e alle psicosi, comprese quelle schizofreniche. Già questo fatto pone dei problemi importanti sul piano teorico e metodologico.
Vi è poi un clima culturale, in sintonia con la "civiltà dei consumi", che richiede anche ai Servizi Psico-Sociali di produrre prestazioni che consentano, in qualche modo, un superamento, almeno apparente, dei sintomi comportamentali disturbanti.
Last but not least, il sistema politico preme per la ricerca (e la dimostrazione) di soluzioni soddisfacenti non solo dal punto di vista sociale ma soprattutto economico: tempi brevi e costi contenuti !
Questa combinazione di fattori incontra un aperto consenso da parte degli ambienti scientifici: neuroscienze e psicofarmacologia stanno attraversando una specie di nuovo Rinascimento.
La ricerca bio-genetica sta facendo passi da gigante lasciando intravedere l'origine cromosomica non solo dei disturbi del comportamento ma di tutto ciò che caratterizza l'esperienza umanaÊ: felicità, infelicità, fedeltà, tradimento, vocazione religiosa e politica, creatività, pigrizia e via dicendo. L'umanità può trarre dal suo DNA una rassicurante giustificazione ad ogni evento, in attesa che i promettenti successi dell'ingegneria genetica e della psicofarmacologia modifichino ed eliminino ogni problema.
Più complessa dicevo è la posizione in cui si trovano le Comunità.
La loro matrice culturale, fondata più sugli apporti della psicologia sociale, della psicoanalisi e della sociologia che non su quello della medicina scientifica, rende complicato questo passaggio.
Nel corso della loro storia, la Comunità ha già rivolto lo sguardo a problemi di grande rilevanza sociale: la trasformazione dei grandi ospedali psichiatrici, l'attuazione di modelli sperimentali per la popolazione carceraria, le iniziative per i disturbi adolescenziali e il disagio giovanile, lo sviluppo di modelli specifici e differenziati per le tossico-dipendenze. In questi casi il modello teorico e la prassi della Comunità ha saputo venire incontro, entro certi limiti, alle esigenze sociali e alle domande della politica.
Il momento attuale tuttavia non sembra costituire un terreno ove essa possa dimostrare facilmente le sue attitudini.
Sicuramente nuocciono all'intero movimento delle Comunità la frammentazione e talvolta le divisioni esistenti fra le multiformi iniziative che affollano lo scenario.
Spesso esse si presentano come monadi isolate che, anche quando svolgono il loro lavoro con scrupolo e serietà, non riescono a produrre una ricerca teorico-clinica, metodologica, epidemiologica e statistica sufficientemente indicativa. Le dimensioni, generalmente piccole, e i mezzi a disposizione, generalmente scarsi, non lo consentono e ciò finisce col determinare il rischio dell' autoreferenzialità.
In questo momento invece il confronto con le politiche economiche si gioca sui grandi numeri e quello culturale richiede una maggior caratterizzazione del movimento comunitario.
Uno sforzo comune e di vasto respiro per definire meglio teorie, metodi e tipologie di utenza costituisce a mio avviso il primo passo per delineare una politica della Comunità Terapeutica.
Nell'attuale situazione italiana, ad esempio, si sta assistendo a una proliferazione di strutture che si definiscono tout court "comunità".
In Italia il termine evoca di per sé significati molto suggestivi che hanno a che fare con sentimenti di umana solidarietà, con la comunanza religiosa o la militanza politica.
Di fatto molte lo sono solo di nome. Spesso esse presentano caratteri che ricalcano fortemente quelli di un servizio ospedaliero, oppure fondano la loro prassi sull'improvvisazione e l'approssimazione; il tipo di utenza è estremamente vario, in mancanza di criteri rigorosi nella selezione dei pazienti.
Questa situazione, in sintesi, si spiega con la debolezza della cultura comunitaria nel nostro paese (dovuta in parte all'ostilità che il movimento antiistituzionale ha sempre espresso nei suoi confronti) e con l'aumento della domanda di presa in carico di patologie sempre più complesse.
Nel vuoto istituzionale venutosi a creare dopo la 180 si sono sviluppate, sia nel settore pubblico che in quello privato, iniziative di vario genere in maniera, come dicevo, un po' caotica, con motivazioni disparate, non esclusa quella di un vantaggioso business. In questo quadro sarebbe importante che le Comunità riuscissero ad esprimere una loro politica in grado di confrontarsi con quella del contesto in cui si trovano, ma per farlo è indispensabile un consolidamento e una maggior diffusione della loro cultura. Purtroppo anche strutture che da tempo si stanno attrezzando sul piano teorico, metodologico e formativo, non sempre mostrano disponibilità a un confronto e alla ricerca di quei comuni denominatori che consentirebbero di caratterizzare l'approccio comunitario e di distinguerlo dall'eterogeneità di altre pratiche.
Molte Comunità infatti si mostrano restie a un effettivo confronto, o per scelta di un conveniente anonimato, o per un "complesso di primogenitura" che le induce a considerarsi depositarie dell' "ortodossia comunitaria", o per quella specie di "rischio professionale", tutt'altro che raro, che finisce col far considerare Comunità solo ciò che avviene entro le mura della propria casa. Strettamente avvinghiati ai propri orientamenti teorici (psicodinamico, cognitivista, psico-sociale, Bioniano, Foulkesiano, integrato, etc, etc,) ciascuno guarda il vicino con diffidenza o con formale tolleranza.
Non so se questo sia un difetto soltanto italiano: forse sarebbe interessante parlarne. Quel che è certo è che, da una simile posizione, le Comunità, almeno in Italia, rischiano di soccombere alle pressioni culturali, politiche ed economiche del momento. L'esito potrebbe essere quello di una generale sanitarizzazione dei Servizi Psico-Sociali e di un'omologazione delle Comunità a dei semplici centri di supporto assistenziale.
Minacciate da concrete esigenze di sopravvivenza, le strutture comunitarie, o sedicenti tali, sono tentate di seguire una politica, per così dire, di tipo sindacale tesa a salvaguardare l'esistente, al mantenimento di qualche privilegio o più semplicemente a guadagnare "un posto al sole". Quella caratterizzazione così difficile da raggiungere sul piano culturale, sembra possibile, dal punto di vista esclusivamente formale, seguendo una logica corporativa. Dal canto loro, i Servizi Pubblici guardano con malcelata diffidenza le iniziative del settore privato, conservando un pregiudizio di stampo ideologico come se solo i Servizi gestiti direttamente dallo Stato potessero essere garanti degli interessi sociali e del bene comune. Con ciò si stende un pietoso velo sulle condizioni precarie e sulla qualità di molte strutture pubbliche.
Secondo la logica aziendale oggi predominante, anche i servizi sociali, pubblici e privati, debbono sottostare a criteri di valutazione, certificazione e accreditamento, nell'interesse del "cittadino-paziente-consumatore". Solitamente esiste un Ente super partes che rappresenta il garante sia per i professionisti che per gli utenti. Nel caso italiano esso non è rappresentato da un'Authority neutrale, ma dall'Ente Pubblico stesso che si viene a trovare nella veste di chi stabilisce i requisiti delle prestazioni dei vari Servizi; di controllore dell'osservanza di tali requisiti e infine di gestore, in prima persona, di Servizi Socio-Assistenziali. In pratica, lo Stato è nella doppia condizione di valutato e di valutatore.
Conoscendo la situazione in cui versano molte strutture pubbliche, specie quelle che aspirerebbero a svolgere una pratica comunitaria, si può ragionevolmente concludere che parlare di procedure di valutazione, in una situazione del genere, significa giocare con le carte truccate.
Il mantenimento di questo stato di cose finisce col diventare un invito all'ammiccamento fra le parti, pubbliche e private, e al mantenimento di una logica corporativa.
Le sollecitazioni politico-sociali tuttavia offrono alle Comunità alcune chanches importanti, alcune delle quali rappresentano un terreno in cui esse si sono già ampiamente sperimentate. Mi riferisco ai problemi delle istituzioni carcerarie e alla particolare patologia che in esse si riscontra; ai disturbi dell'età adolescenziale e ai problemi delle tossicodipendenze.
I primi due punti (soprattutto il primo) rappresentano a tutt'oggi un terreno vergine per le Comunità Terapeutiche italiane, ma questo non significa che non si tratti di un'ottima opportunità. Riguardo al terzo punto, l'esperienza italiana ha sviluppato, come in altri paesi, una tipologia di strutture su cui non vi è unanimità di consensi, ma che almeno si riferisce a modelli culturali abbastanza consolidati.
Sono questi i settori in cui la Comunità, potendo contare su di un sufficiente back-ground culturale, può esprimere una sua "politica" e confrontarsi con le richieste che le vengono dal contesto. Un numero crescente di dati statistici ed epidemiologici, consente infatti di sostenere che un serio trattamento comunitario è in grado di ridurre la ricaduta nel circuito criminale di una parte della popolazione carceraria, così come è in grado di ridimensionare percentualmente l'esito in più gravi forme psicopatologiche dei cosiddetti adolescenti "a rischio sociale" e di consentire in una certa misura l'uscita dalla dipendenza dalla droga.
In questi casi si può sostenere che le Comunità sono in grado di andare incontro alle richieste politico-sociali ed economiche con buone possibilità di successo. Alla base di questo successo vi è una premessa: la cultura della Comunità, i suoi modelli teorici e metodologici, si prestano sufficientemente bene a questi tipi di patologia. In altre parole, l'Io residuale di questi soggetti è sufficientemente strutturato da consentire un'alleanza terapeutica con l'approccio comunitario.
Vi sono poi altri settori, come accennavo poco fa, da cui le pressioni vengono sempre più forti. Essi riguardano la definitiva trasformazione di ciò che rimane degli ex-Ospedali Psichiatrici (almeno per quel che riguarda la realtà italiana) e la conseguente presa in carico di patologie gravi (gravi disturbi di personalità, borderlines, psicotici, schizofrenici).
Per quanto riguarda il primo aspetto, la Comunità si è già cimentata nel recente passato, col problema della trasformazione istituzionale, realizzando una complessiva umanizzazione dell'ospedale, un ridimensionamento della struttura gerarchica della sua organizzazione e una modificazione qualitativa della relazione fra pazienti e operatori. Oggi tuttavia, la chiusura dei manicomi (mi riferisco ovviamente alla situazione italiana) pone la Comunità di fronte a una richiesta più ardua: quella di offrire un modello istituzionale capace di accogliere, riabilitare e reinserire nei tempi più brevi e ai costi più contenuti possibili, pazienti che portano i segni di una lunga cronicizzazione istituzionale. Questo si ricollega alla tendenza, che ho accennato fin dall'inizio, ad una crescita della domanda d'intervento per patologie di maggiore gravità.
Di fronte a quest'aspetto, la Comunità viene a trovarsi nella necessità di un ripensamento, o meglio, di un riassetto del suo approccio terapeutico, a meno di non volersi cullare nell'illusione di un setting comunitario invariabile e adatto a qualunque tipo di patologia. Quanto più si aggrava la patologia del paziente, tanto più si riducono le possibilità di un'alleanza terapeutica sufficientemente solida con le parti residuali sane dell'Io e si rende sempre più necessaria una maggior attenzione e capacità di comprensione delle parti disfunzionanti. La Cultura dell'Indagine deve in sostanza rivolgersi in primo luogo al mondo interno del paziente perché la Comunità possa svolgere un ruolo utile di mediazione col mondo esterno.
Le patologie gravi, in quanto richiedono spesso una presa in carico istituzionale, pongono anche la Comunità di fronte al problema della cronicità.
Le diagnosi di psicosi "cronica" e di schizofrenia sono fra le più frequenti espressioni adottate da chi si occupa di patologie gravi (G. Foresti, E. Pedriali, 1998). (1)
Esse sono ancor oggi utilizzate per intendere sia soggetti con lunga istituzionalizzazione in Ospedali Psichiatrici, sia pazienti che non provengono da esperienze istituzionali di lungo corso e che tuttavia mantengono in situazione critica e di grande impegno il contesto socio-familiare e i servizi psichiatrici: questi casi in Italia oggi vengono definiti "nuova cronicità". La distinzione fra vecchi e nuovi cronici riflette a mio avviso l'insufficienza concettuale della nozione di "cronicità".
L'ambiguità della sua definizione nosologica contribuisce a determinare approssimazione e indeterminatezza delle risposte istituzionali.
Cosa vuol dire esattamente psicosi cronica o schizofrenia cronica? Nel linguaggio della psichiatria il significato di questi termini rimanda a uno stato deficitario stabile, a un deterioramento progressivo e irreversibile. Oggi possiamo dire che questa concezione in realtà è uno stereotipo semplicistico ed erroneo. Almeno vent'anni di ricerche epidemiologiche sull'evoluzione a medio e lungo termine della schizofrenia dimostrano che questo gruppo di disturbi non rappresenta una malattia progressiva ad esito invariabilmente deficitario.
Vi è spesso tra ricercatori e clinici una notevole divaricazione.
I primi, proprio perché non sono mai stati clinici o non lo sono più da tempo, tendono a disconoscere l'importanza delle relazioni interpersonali e il massiccio impegno emotivo cui gli operatori sono sottoposti nella loro pratica, che mette a dura prova la capacità di pensare, di programmare e di agire. I secondi, tendono a trascurare il fatto che la casistica di un singolo professionista o di una singola istituzione non costituisce un campione sufficientemente rappresentativo. Il fatto di avere sotto gli occhi i propri fallimenti terapeutici, determina una distorsione dell'osservazione e una tendenza alla generalizzazione pessimistica. Personalmente ritengo che i pazienti non possano essere aiutati né da chi crede all'ineluttabile deterioramento della loro vita mentale, né da chi nega o sottovaluta la loro tragedia e i loro inconciliabili conflitti interni.
Le conseguenze terapeutiche e riabilitative di questo discorso sono notevoli. Le variabili che influenzano il decorso e la qualità della vita dei pazienti, non dipendono esclusivamente dai curanti (possibilità di reinserimento sociale, stigma e atteggiamento della società nel suo complesso, politiche sociali e disponibilità di risorse economiche). Il funzionamento istituzionale è tuttavia una variabile che dipende in gran parte dai curanti e determina le caratteristiche del rapporto malattia-decorso-esito (G. Foresti, E. Pedriali, 1998).
Di fronte a situazioni gravi e difficili predominano criteri dettati da pressanti necessità (comprese quelle socio-familiari e politico-amministrative) che inducono a discriminare, il più rapidamente possibile, le parti "sane" dalle parti "malate", per orientare i vari tipi di intervento. Se ciò ha una sua validità nella maggior parte dei casi, può tuttavia mostrare limiti vistosi con le patologie gravi e comportare alcune insidie: quella di cedere alla tentazione di un velleitario attivismo terapeutico-riabilitativo o, per converso, alla rassegnazione e all'inerzia. Inizia così un percorso fra illusione e disillusione destinato a prolungarsi nel tempo in un rapporto a sua volta cronicizzato fra paziente e Istituzione.
Non di rado, il percorso di questi pazienti è costellato da una serie di espulsioni o di rifiuti anche da parte di istituzioni di carattere comunitario che attribuiscono loro una sorta di inadeguatezza. In altre parole, il paziente non è come lo si vorrebbe. Spesso la tendenza a scegliere pazienti giovani e con una breve storia psicopatologica alle spalle, non nasce dall'intenzione di prevenire la cronicizzazione, ma dal bisogno di evitare il fantasma della cronicità.
Storicamente le Comunità si sono occupate principalmente di pazienti non psicotici; le poche esperienze con patologie gravi hanno subito, nel corso degli anni, notevoli trasformazioni e alcune hanno cessato di esistere. Attualmente non sono molte le strutture comunitarie in possesso di una metodologia fondata su una seria impostazione teorico-clinica per questi casi. Una ricerca in tal senso, si imbatte nell'approssimazione che caratterizza la maggior parte delle sedicenti Comunità o nella rigidità di chi si ritiene depositario di verità assolute e di risposte terapeutiche omnicomprensive.
Ritengo che i nodi cruciali in un setting comunitario per pazienti psicotici gravi, siano sostanzialmente due: la capacità di costituire una "residenza emotiva" in grado di accettarne le peculiarità e la costante elaborazione del controtransfert istituzionale, che assume in questi casi caratteri del tutto particolari.
L'incontro fra lo psicotico e l'istituzione avviene spesso in uno scenario ove l'ombra della cronicità incombe su entrambe le parti: il quesito da porre è se un approccio comunitario possa offrire un percorso alternativo al velleitarismo e alla rassegnazione (G. Foresti, E. Pedriali, 1998).
Il quadro che ho tratteggiato mi induce alla conclusione che le Comunità oggi si trovano nella necessità di produrre uno sforzo di rinnovamento culturale che consenta una capacità di diversificare il loro approccio di fronte alle richieste che vengono dalla "politica" e alla particolare maniera con cui vengono formulate dalla cultura predominante.
A talune di queste richieste esse sono già in grado di andare incontro con successo in virtù di un bagaglio culturale e di esperienze che da tempo le mettono in condizioni di fornire risposte più adeguate di altri tipi di approccio ( mi riferisco ai disturbi lievi di personalità, dell'età adolescenziale, alle problematiche carcerarie e della tossicodipendenza).
Diversa è invece la posizione in cui esse vengono a trovarsi nell'impatto con le gravi patologie. Qui occorre un diverso approccio al problema, che tenga conto delle particolari esigenze di questi pazienti e sappia esprimere criteri di valutazione più consoni ad esse che non alla cultura dominante, all'economia di mercato e al sistema d'impresa. Questo intendo quando parlo di una politica della Comunità Terapeutica.
Mi rendo ben conto che la mancanza di criteri di valutazione espone il campo psichiatrico al rischio dell'arbitrarietà e dell'infondatezza di molte sue pratiche, ma ritengo anche che valutare e accreditare in psichiatria comportino l'obbligo di non perdere mai di vista la particolare qualità umana dei problemi della sua utenza.
Se in campo aziendale l'interesse dell'impresa e del cliente possono andare nella stessa direzione (l'azienda infatti ha tutto l'interesse a produrre ciò che soddisfa il cliente, che può scegliere liberamente ciò che più gli conviene), in campo psichiatrico ci troviamo molto spesso di fronte a criteri presuntivi. Valutiamo e accreditiamo ciò che noi presumiamo sia più conveniente per il paziente. Mantenere viva l'attenzione e la tensione etica su questa presunzione, credo sia un dovere di ogni terapeuta e ogni ricercatore.
Più di una volta in psichiatria gli addetti ai lavori si sono appiattiti su posizioni conformistiche rispetto a particolari avvenimenti politici, sociali ed economici: non sempre i loro pazienti ne hanno riportato vantaggio. Credo e spero che la Comunità Terapeutica possa attraversare questo momento non facile conservando, quando occorre, il gusto dell'anticonformismo.
Diversamente correrà il rischio di subire la pressione che le viene dal contesto e di soccombere di fronte ai trionfanti modelli medico-genetico-farmacologici.
BIBLIOGRAFIA
D. Casagrande: La Comunità Terapeutica, in "Questioni attuali in Psichiatria", a cura di V.Pastore, G. Bondi, M. Formichini, Edizioni del Cerro, Tirrenia - 1992;
G.Foresti, E. Pedriali: La Comunità Terapeutica per psicotici cronici, in "La Comunità Terapeutica. Mito e Realtà", a cura di A. Ferruta, G. Foresti, E. Pedriali, M. Vigorelli, Raffaello Cortina Editore, Milano - 1998;
B.Saraceno: Presentazione del "Manuale di accreditamento professionale per il Dipartimento di Salute Mentale", a cura di A. Erlicher e G. Rossi, Centro Scientifico Editore, Torino - 1999.
NOTE
(1) Vengono qui riportati alcuni passaggi del capitolo La Comunità Terapeutica per psicotici cronici del libro "La Comunità Terapeutica. Mito e Realtà" a cui si rimanda chi volesse approfondire l'argomento (vedi Bibliografia).
PM
--> HOME PAGE ITALIANA
--> ARGOMENTI ED AREE
--> NOVITÁ
--> COMUNITÀ TERAPEUTICHE
|