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COMUNITÀ TERAPEUTICHE
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La professionalità dell'Operatore di Comunità: tra funzione psicoterapica e funzione psicoeducativa
Enrico Pedriali
L'articolo pubblicato qui di seguito, costituisce il capitolo dedicato alla Comunità Terapeutica del libro: "Professioni per il Sociale", a cura di Liliana Dozza (docente presso il Dipartimento di Scienze dell'Educazione dell'Università degli Studi di Bologna), edito da Adda Editore, Bari.
Che cos'è una Comunità Terapeutica
Per molto tempo, a partire dalle origini, la Comunità Terapeutica è stata definita più per caratteri antinomici che per una sua chiara identità: il confronto con la pratica arcaica del Manicomio e l'esigenza di un'alternativa rendevano quasi inevitabile che si mettesse in evidenza soprattutto ciò che essa non era o si proponeva di non essere.
Oggi, il superamento della cultura asilare rende possibile definire in positivo queste strutture, collocandole al di fuori di un generico "non essere" e oltre i confini ristretti dell'iniziativa umanitaria e solidaristica. L'utilità di una definizione non nasce da sterili disquisizioni accademiche ma da necessità di chiarezza e di riferimenti, in mancanza dei quali il termine stesso rischia di divenire un contenitore che si presta ad essere riempito di tutto e del contrario di tutto.
Da un punto di vista storico-culturale, la Comunità Terapeutica può essere considerata il prodotto di una felice integrazione fra ottiche diverse realizzatasi, durante la seconda guerra mondiale, in circostanze che ponevano drammaticamente in primo piano le esigenze della collettività e il valore della mutualità, in un contesto, quello inglese, che aveva già dato un notevole impulso, alla fine del XVIII secolo, al cosiddetto Moral Treatment. Discipline come la sociologia, la psicologia e la psicoanalisi, fornirono chiavi di lettura del disturbo psichico e del funzionamento istituzionale totalmente estranee alla cultura medico-psichiatrica. Ciò comportò in primo luogo una considerazione del paziente come parte integrante e paritetica del dispositivo di cura e una concezione sistemica dell'Istituzione nel suo insieme. Veniva così a cessare la rigida distinzione fra una parte "sana" (i curanti) depositaria di tutta la salute mentale e di ogni capacità di cura e una parte "malata" (i pazienti) totalmente passiva e incapace e si affermava la visione di un sistema composto da diverse parti interagenti fra loro con la capacità di analizzare continuamente le modalità e la qualità delle interazioni e del proprio funzionamento: la Comunità doveva essere in grado di "curare" anche sé stessa per poter raggiungere i suoi obbiettivi terapeutici. Nella fase pionieristica, tra i tentativi di individuarne i principi fondanti rimane significativo quello di Robert Rapoport, antropologo americano, che così li sintetizzava: permissivness, democracy, communalism, reality confrontation (R.N. Rapoport, 1960) (1).
Su questi primi assunti si sono sviluppate in diverse parti del mondo, in contesti sociali, culturali e politici differenti, esperienze di Comunità che hanno imboccato percorsi molto diversificati e prodotto una grande ricchezza di modelli ma anche una discreta confusione sul piano clinico-istituzionale.
Sotto questo aspetto, ogni tentativo di definizione deve tener conto di tre determinanti principali che, in diversa misura concorrono a delineare il profilo delle strutture. Esse sono: il particolare tipo d'utenza, la chiave di lettura predominante (psicodinamica, psicosociale, cognitivo-comportamentale, etc) che viene data della storia dei pazienti, dei fenomeni comunitari e dei progetti di cambiamento e infine, il differente contesto in cui si realizzano.
Al di là dell'enfasi iniziale che sembrava proporle come alternativa globale al sistema psichiatrico vigente, i pazienti di cui le Comunità si occuparono originariamente presentavano problemi sostanzialmente nevrotici, disturbi di personalità e di tipo borderline. Successivamente l'interesse si è esteso anche ad altre tipologie d'utenzae alle istituzioni che tradizionalmente le accoglievano. Le caratteristiche psicopatologiche dell'utenza hanno contribuito in misura rilevante a diversificare i modelli: basti pensare alle Comunità per tossicodipendenti che, soprattutto negli Stati Uniti, han finito con l'assumere forme così distanti da quelle originarie, da configurarsi come un filone a sé stante. Anche nel campo propriamente psichiatrico l'approccio comunitario è andato incontro a notevoli variazioni soprattutto sul terreno delle psicosi, che presenta caratteristiche e difficoltà del tutto particolari ma anche feconde di sviluppi interessanti. L'esperienza accumulata in questi anni consente di sostenere che la Comunità non è un setting idoneo a tutti i tipi di problematiche e che in pratica l'inserimento di un paziente può esser preso in considerazione quando sia evidente l'insufficienza di un trattamento ambulatoriale o di breve periodo, quando le caratteristiche del contesto di provenienza siano oggettivamente sfavorevoli e vanifichino un approccio parziale al problema, quando vi sia compatibilità con l'esperienza di gruppo, quando l'ingresso sia frutto di una scelta condivisa (anche minimamente) dal paziente, dalla sua famiglia e dal Servizio competente e infine quando le condizioni non presentino carattere di acuzie tali da richiedere interventi d'emergenza.
Anche in presenza di queste condizioni comunque i quattro principi base di Rapoport vanno incontro a significative modulazioni a seconda del prevalere di questa o quella tipologia d'utenza e rappresentano più delle linee tendenziali che dei punti di partenza.
A determinare in buona misura lo stile di lavoro delle diverse Comunità intervengono anche le chiavi di lettura teoriche utilizzate e le conseguenti metodologie. Si distinguono orientamenti psicodinamici, cognitivi, cognitivo-comportamentali, sistemico-relazionali, psicosociali che hanno dato luogo a una costellazione in cui non è semplice raccapezzarsi. In effetti nessuno di questi orientamenti può identificarsi col concetto stesso di Comunità, né vantare una valenza tale da ritenersi esaustivo di ogni problema. Se è vero che alcuni di essi si prestano particolarmente bene a determinate tipologie di pazienti è altrettanto vero che, il più delle volte, solo un'ottica integrata può proporsi come approccio adeguato. L'Istituzione-Comunità, in definitiva, si configura come spazio-tempo, come campo allargato di operazioni vitali (L. Rinaldi, 1998), che svolge nel suo insieme una funzione terapeutica. A differenza di altre strutture (reparti ospedalieri, ambulatori, studi professionali) che rappresentano il luogo separato per specifici trattamenti (psicoterapie individuali o di gruppo, farmacoterapie, etc) o di strutture residenziali che forniscono prevalentemente i supporti necessari alla vita quotidiana (Case Alloggio, Appartamenti Protetti, etc), la Comunità si costituisce come luogo che dall'interazione delle sue funzioni e dal particolare coinvolgimento di tutte le sue componenti trae il significato terapeutico-riabilitativo più saliente.
Un ultimo aspetto determinante la configurazione della Comunità è rappresentato dal particolare contesto entro cui si costituisce, perché non v'è dubbio che essa assume sembianze diverse se viene realizzata all'interno di una struttura ospedaliera piuttosto che di un servizio territoriale, di un istituto per adolescenti a rischio o di lungo degenza per pazienti psicotici, di un carcere sperimentale o di un istituto religioso con finalità assistenziali, oppure se nasce per iniziativa autonoma di un gruppo di operatori o di qualche leader carismatico al di fuori di un contesto precostituito, in ambito pubblico o privato. In altre parole, la Comunità come microsistema entra quasi sempre a far parte di un sistema più complesso con cui interagisce e da cui è influenzata: quando i legami col contesto assumono la forma di un vero e proprio condizionamento, essa rischia di essere soffocata e snaturata (vedi certe Comunità all'interno dei Servizi Pubblici), quando invece sono troppo labili o inesistenti, corre il rischio di un isolamento mortale (vedi il caso di molte Comunità private). Dalla proposta originaria di alternativa globale al sistema psichiatrico si è così passati a una visione più realistica, in cui le Comunità trovano una giusta collocazione come anello di una rete in cui pazienti, curanti, familiari, contesto istituzionale e sociale contribuiscono, nel loro insieme, a realizzare il dispositivo di cura. Questa è la ragione per cui molti oggi parlano, più che di Istituzione, di "metodo comunitario", inteso come sistema teorico e metodologico applicabile in diversi contesti.
Come si vede, il concetto di Comunità Terapeutica si definisce attraverso una molteplicità di aspetti: oggi si può sostenere che rappresenti una particolare modalità di approccio a diversi problemi in ambito psicosociale e, come Istituzione, trovi la sua collocazione nel contesto delle Strutture Intermedie. Solitamente di dimensioni ridotte, essa si sviluppa a partire dai bisogni e dalle caratteristiche di persone con diverso grado di disturbo psichico, per finalità terapeutico-riabilitative. Offre loro una residenza che costituisce per lungo tempo uno spazio fisico ed emotivo condiviso con altri simili e con un certo numero di operatori, utilizzando i vari momenti della vita quotidiana in una costante mediazione fra mondo interno dei pazienti e mondo esterno, per affrontare problemi e compiti terapeutici, organizzativi e domestici in una dimensione marcatamente gruppale. Lo stile di vita compartecipativo e la costante riflessione sui fenomeni e le dinamiche relazionali che si sviluppano, costituiscono le direttrici terapeutiche fondamentali, al di là dei diversi strumenti teorico-metodologici che ogni Comunità tende a privilegiare.
Il lavoro d'equipe, la soggettività, il gruppo e il ruolo di educatore in
Comunità.
Si può affermare, senza timore di eccessiva enfasi, che in Comunità il lavoro d'equipe assume un significato cardinale. Qui la professionalità si distingue per il suo carattere collettivo, connesso ad un gruppo, a un ambiente e ad un complesso di conoscenze; gli interventi si caratterizzano più che per abilità individuali, per le capacità complessive dell'equipe e del suo contesto (C. Kaneclin, A.Osenigo, 1992). A differenza di altre figure professionali, l'operato dei singoli componenti l'equipe è in stretta articolazione con quello degli altri e da essa trae senso: non si tratta di semplice spirito di corpo o di fede incondizionata nella dimensione gruppale, ma di un naturale sviluppo della concezione di Comunità come insieme e, come vedremo, anche di una preziosa risorsa per chi vi lavora.
La vita quotidiana in Comunità è solitamente ricca e movimentata, fortemente coinvolgente e caratterizzata da maggior dinamismo, minor rigidità e prevedibilità che in altre istituzioni. Gli operatori sono sollecitati a svolgere molteplici attività, che richiedono l'assunzione di funzioni organizzative diverse da parte di una stessa persona anche in presenza di una precisa distinzione di ruoli all'interno dello staff ((C. Kaneclin, A.Orsenigo, 1992) Le richieste e le pressioni, spesso emotivamente intense e a volte contraddittorie, richiedono capacità di elaborazione personale e collettiva da parte di tutta l'equipe per dar senso alle risposte e formulare ipotesi di lavoro fondate sulla flessibilità e la ricerca del significato di ciò che accade più che sulla fedeltà a delle procedure rigidamente prestabilite. Questo è il motivo per cui risulta praticamente impossibile raccogliere in un mansionario tutti i problemi con relative soluzioni e ciò rappresenta uno degli aspetti più sconcertanti per chiunque si attenda di svolgere un ruolo rigidamente legato a una specifica formazione professionale. L'equipe quindi svolge la funzione di integrare diverse abilità individuali, di metabolizzare gli avvenimenti, di contenere efficacemente i momenti critici, conservando la capacità di muoversi come un collettivo e non come una semplice sommatoria di operatori, sia pur bravi. (C.Kaneclin,A.Orsenigo, 1992) Ciò è tanto più importante se si pensa che un contesto così coinvolgente e un contatto così prolungato e quotidiano coi pazienti e il loro mondo interno determina un gioco intenso di proiezioni, scissioni, identificazioni proiettive con cui il gruppo degli operatori entra inevitabilmente in risonanza. Non si tratta soltanto della necessità di elaborare il controtransfert dell'equipe, ma di costituire innanzitutto uno spazio di riflessione e di ricomposizione delle parti frammentate attraverso una funzione cognitiva che consenta una miglior comprensione del paziente.
Questo effetto di contenimento, di supporto emotivo e di pensiero che lo staff può esercitare, è stato definito da Antonello Correale, la "funzione ecologica del gruppo", volta a stabilire un ambiente propizio e a generare la sensazione di entrare "in un terreno di cultura comune a tutto il gruppo dei curanti, ove contare su rapporti di vicinanza e di sostegno, specie quando compaiano minacce al senso di sicurezza e valutazione di se stesso." Se inoltre si considera che in Comunità "la scena della terapia si identifica con la totalità dell'istituzione, si intuisce facilmente come l'occhio allargato dello staff rappresenti una sorta di lente grandangolare in grado di abbracciare un ambito di osservazione molto più ampio e di cogliere molti più dati" (A. Correale, 1996) .
E' noto a chi ne abbia qualche esperienza, che ogni Comunità si caratterizza anche per la presenza di un numero e una tipologia variabile di operatori, definiti in base a formazione personale, esperienza pregressa o a sbrigativa promozione sul campo. Si potrebbe fare un lungo elenco di figure in base all'area in cui svolgono prevalentemente la loro attività (area della/e psicoterapia/e, delle attività espressive corporee e artistiche, delle attività espressive verbali e non verbali, delle attività ludiche, artiginali etc) (2), ma preliminarmente alla competenza specifica è indispensabile che ogni operatore, nessuno escluso, entri in possesso di una competenza di base che solo un'adeguata consuetudine alla vita della Comunità e la contemporanea acquisizione di un bagaglio di conoscenze teoriche essenziali potranno conferirgli. Il lessico delle Comunità offre una ricca nomenclatura per definire le figure che svolgono ruoli determinati: socioterapista, arteterapista, tecnico della riabilitazione, terapista occupazionale, animatore, educatore, etc, oltre a quelli tradizionalmente in uso anche in altri contesti (psicologo, psichiatra, infermiere, assistente sociale). La distinzione è piuttosto artificiosa e i termini sono usati spesso in maniera intercambiabile; a volte nascondono carenza di contenuti e non di rado corrispondono più ad esigenze di ordine amministrativo e burocratico che ad altro. A parere di chi scrive, l'espressione "operatore di Comunità", per quanto prosaica e generica, ha il pregio di evitare confusioni terminologiche.
Considerando in particolare una funzione psicoeducativa propria di questo ruolo, occorre subito mettere in chiaro che si tratta di un attributo importante e delicato che si differenzia sensibilmente da analoghe funzioni svolte in altri contesti. Il paziente che si rivolge alla Comunità infatti, presenta quasi sempre parti del Sè danneggiate e una struttura di personalità carente di risorse egoiche di base (A. Lombardo, 1998); talvolta il livello di regressione è marcato e il grado di autonomia sociale piuttosto basso. Spesso, nelle fasi iniziali d'inserimento di nuovi ospiti, all'operatore è richiesto di svolgere un compito di Io ausiliario in un'opera a volte di sostituzione, a volte di integrazione dell'Io deficitario del paziente. Sono soprattutto le patologie psicotiche gravi che, prima ancora della ricerca di un alleanza con l'Io residuale non-psicotico, richiedono l'accettazione e la capacità di comprensione degli aspetti "sintomatici" come espressione di bisogni e di compromessi fra parti non integrate del Sé.
Si può facilmente intuire che con questi soggetti la funzione psicoeducativa non consiste nel fornire istruzioni su cosa e come fare o non fare, ma si esplica innanzitutto nella capacità di stare-con, cioè di stabilire una relazione in cui le aspettative di cambiamento non rappresentino l'unica moneta di scambio col paziente. E' questa un'attitudine che contrasta spesso con un malinteso intento di cura: non è sempre facile scegliere consapevolmente di astenersi da una qualsivoglia iniziativa se non quella di testimoniare al paziente, con la propria presenza, l'accettazione della sua specificità, piuttosto che impegnarlo in un attivismo senza scopo.
Ciò non significa che in Comunità la funzione psicoeducativa si risolva in un'attesa rassegnata e afinalistica, ma che la condivisione di ogni progetto di cambiamento passa attraverso la preliminare "comprensione e vicinanza alla sofferenza profonda del paziente" (A.Ferruta, 1998) . Su questa base è possibile avviare un percorso evolutivo che si sviluppa attraverso i gesti e i fatti della quotidianità, seguendo il filo che lega ogni avvenimento della vita di gruppo. Qui si rende evidente una particolare qualità della funzione psicoeducativa che si esplica nella transizione dal rapporto individuale a quello di gruppo, punto nodale nella prassi di ogni Comunità, che richiede all'operatore di declinare la propria attività a volte sul registro genitoriale (materno o paterno), a volte su quello fraterno, a volte su quello del gruppo dei pari. Questo gioco delle parti comporta un continuo entrare e uscire, un saliscendi fra soggettività e oggettività, fantasmatico e reale, personale e professionale, che mette alla prova le capacità degli addetti ai lavori. Si può ben comprendere che per svolgere un'attività del genere è indispensabile acquisire l'attitudine ad osservare ciò che accade, ad ascoltare ciò che viene espresso (e a cogliere anche ciò che non accade e non viene espresso), a riflettere sui possibili significati, a registrare i propri "movimenti interni" e ad utilizzare le riunioni d'equipe come un luogo non solo di riflessione e di progettazione, ma anche come un contenitore dei propri vissuti e delle molteplici dinamiche che si sviluppano in Comunità.
Queste considerazioni possono evocare l'immagine di un negozio di porcellane attraversato da un elefante che, comunque si muova, rischia di mandare in frantumi ogni cosa, oppure di un congegno sofisticatissimo che richiede continue acrobazie intellettuali. In effetti si tratta di un rischio presente come, del resto, quello contrario di uno spontaneismo assunto acriticamente come unica linea di condotta a scapito di un minimo di riflessione. L'estremo intellettualismo e spontaneismo rappresentano due eccessi che annullano di fatto la possibilità di apprendere dall'esperienza, poiché il modo di essere, il fare quotidiano, il sentire di ciascuno, costituiscono un terreno di apprendimento che il contesto di gruppo amplifica, consentendo un'esperienza conoscitiva in tutti i sensi. In certo qual modo si può affermare che è la Comunità nel suo complesso a svolgere, in maniera diffusa, una funzione psicoeducativa offrendo un'infinità di occasioni di scambio, di riflessione, di confronto con la realtà che produce nei suoi componenti l'effetto di uno specchio poliedrico dove l'immagine di ciascuno viene proiettata e riflessa da diverse angolazioni. E' quindi artificioso pretendere di delimitare in un ruolo specifico una funzione che appartiene a tutto il contesto e deve invece entrare a far parte della competenza di base di ogni operatore.
Per uscire tuttavia dalla genericità e dal rischio di una definizione ancora una volta in negativo, si può descrivere un po' più concretamente come si svolge questa funzione; in che cosa si differenzia dalla pratica psicoterapeutica, così diffusa in tante Comunità e quale formazione sia più appropriata per chi dovrà svolgerla.
Su uno sfondo come quello fin qui descritto, gli operatori si trovano alle prese con alcuni punti nodali: i peculiari bisogni dei pazienti, la dimensione relazionale in cui essi stessi entrano a far parte come componenti del gruppo,
le finalità a cui tendere, gli strumenti a disposizione per raggiungerli.
La vita quotidiana in Comunità è scandita da consuetudini ed esigenze proprie della vita in comune (starei per dire familiare se ciò non comportasse il rischio di un malinteso familiarismo) e da pratiche più specificamente legate a progetti terapeutici. L'operatore quindi parteciperà coi pazienti ad alcune operazioni concrete, rituali o informali: l'avvio di una nuova giornata, la cura della persona, il riordino degli spazi personali e comuni, il disbrigo di varie mansioni domestiche, l'osservanza di impegni programmati, l'organizzazione del tempo, l'attesa di avvenimenti previsti o auspicati, l'affiancamento e il sostegno dei soggetti più regrediti oltre a tutt'una serie di riunioni di piccoli e grandi gruppi. Ognuno di questi eventi si può accompagnare a significati che vanno oltre la cronaca quotidiana e chiamare in causa valori affettivi importanti che forniscono, a un osservatore attento, una mole di informazioni preziose che, adeguatamente valutate, rappresentano altrettanti indicatori del comportamento più idoneo da assumere.
A differenza che in un tradizionale contesto ospedaliero l'operatore di Comunità si muove secondo una direttrice che consiste nello stare e nel fare - "con" - piuttosto che - "per" - il paziente. La tanto decantata condivisione (della quotidianità, delle attività, etc) va intesa in senso letterale: dividere-con, cioè tendere a una possibile distribuzione dei compiti fra operatori e pazienti, lungo un continuum che va dall'affiancamento più o meno consistente (sostituzione/integrazione dell'Io) alla delega progressiva di responsabilità. "Il fine è sempre quello di consentire un'esperienza conoscitiva": anche "fare qualcosa di sbagliato, come acquistare cibo che non va o saltare un incontro, è un'utile esperienza di apprendimento, se è seguita da un feedback, da una discussione, dalla comprensione delle ripercussioni emotive di ciò che si è sbagliato e dalla possibilità di riprovare" (D. Kennard, 1998). Il che vale, oltre che per i pazienti, per gli stessi operatori: "ciò che vien preso a modello è un approccio non difensivo all'incertezza, una spinta a mettersi in gioco" (D. Kennard, 1998), supportato dalla capacità di elaborazione di tutta l'equipe.
Sono anche altri gli aspetti in cui l'operatore si trova a svolgere direttamente o indirettamente una funzione psicoeducativa: nel mantenere chiara, prima di tutto col proprio comportamento, l'esistenza di regole e confini funzionali alla convivenza e alle finalità terapeutiche (importanza dei tempi, degli spazi e dei loro scopi); nel tendere alla distribuzione delle responsabilità organizzative e decisionali, anche quando sarebbe più semplice se se ne occupasse un membro dello staff; nel facilitare gli incontri di gruppo per affrontare dinamiche o tensioni relazionali. Qui si rende necessaria quella competenza di base di cui ogni operatore deve entrare in possesso e che non va confusa con la specifica competenza legata a particolari attività che pure svolgono una funzione importante in ogni Comunità. Tanto per esemplificare:
il socioterapista o educatore ( a seconda della denominazione in uso), mentre si accinge a organizzare l'avvio della giornata di un gruppo di pazienti, potrà trovarsi di fronte a molte variabili: qualcuno dorme ancora ostinatamente, altri rifiutano di lavarsi, la colazione non è ancora pronta o non è gradita, qualcuno fa chiasso e disturba, si avanzano richieste di modificare i piani della giornata e così via. E' chiaro che in simili frangenti non gli sarà possibile appellarsi alle risorse che derivano da una competenza professionale specifica, ma dovrà prendere iniziative che tengano conto delle esigenze individuali, della situazione di tutto il gruppo e del senso globale degli avvenimenti in quel momento. Soprattutto dovrà conservare un'ottica gruppale evitando, per quanto possibile, di assumere atteggiamenti direttivi, cercando di facilitare il confronto fra le parti, stimolando l'analisi della situazione, senza mai perdere di vista l'obiettivo di utilizzare le risorse del gruppo per raggiungere un risultato possibile (ad esempio ridefinire gli obbiettivi della giornata, evidenziare le difficoltà che ostacolano i piani prestabiliti, valutarne le conseguenze ed il significato per i singoli e per il gruppo).
Buona parte di queste argomentazioni rinviano a una domanda cruciale: esiste in Comunità un confine preciso tra psicoterapia e funzione psicoeducativa? Il quesito richiederebbe un intero capitolo a parte, poiché la risposta è resa complicata dai diversi modi di intendere la psicoterapia. In termini generali, la Comunità si presenta come un particolare setting terapeutico che richiede una costante riflessione da parte di tutte le sue componenti su ciò che vi succede e sul suo funzionamento. Da questo punto di vista quindi la si può considerare un contesto psicoterapico in senso lato, ma la cosa non deve generare equivoci. L'equipe di una Comunità non è un'accolita di specialisti psicoterapeuti e il modello del setting psicoterapico (qualunque esso sia) non vi può essere trasferito tout-court. Anche là dove viene formalizzata una pratica psicoterapica in senso stretto, si rende indispensabile una precisa delimitazione di confini e un'estrema chiarezza del rapporto fra questa e il resto della vita comunitaria. Oltre tutto, perché possa avere un'effettiva utilità, occorre sia sufficientemente provata la sua idoneità per la tipologia di pazienti a cui viene proposta.
Per quanto riguarda l'operatore di Comunità di cui ci si occupa in questo capitolo, si può senz'altro affermare che non vi è identità fra il suo ruolo e quello di uno psicoterapeuta in senso tradizionale. Non è certamente l'interpretazione veicolata freddamente con le parole lo strumento congeniale a chi lavora quotidianamente in Comunità! Molto più importanti sono quelle azioni e quegli oggetti che Paul Claude Racamier definiva "parlanti" (P. C. Racamier, 1997), cioè un qualcosa di condivisibile rivolto alla parte vitale del paziente, per proporgli l'avventura" di entrare in relazione con altri (P. Diliberto, 1998). Le occasioni per sviluppare queste azioni e creare questi oggetti sono spesso frutto di una felice intuizione o il risultato di una lunga e paziente interazione che finiscono col diventare patrimonio di tutto il gruppo e hanno il potere di rimettere in movimento situazioni apparentemente bloccate e immodificabili.
La supervisione in Comunità e l'esigenza di formazione degli operatori
La natura degli interventi, la complessità della loro integrazione, le dinamiche che investono lo staff o che si generano anche al suo interno, richiedono una particolare attenzione al suo funzionamento e al suo equilibrio. Ogni Comunità può trovarsi nella necessità di analizzare questi fenomeni se non vuole correre rischi di frammentazione o di tensioni intollerabili. Solitamente il compito di contenimento delle ansie che si sviluppano nell'equipe e di fornire gli strumenti per elaborarle viene assunto da chi svolge (o viene delegato a svolgere) il ruolo di leader. Si tratta di una posizione a volte scomoda, ma di fatto necessaria. Non è questa la sede per addentrarsi nelle complesse dinamiche che si sviluppano intorno alla leadership o nella disamina delle diverse posizioni che il gruppo assume nei suoi confronti. Chi volesse approfondire questi argomenti, troverà in letteratura un'ampia rassegna di studi, a partire da quelli storici di Bion sugli assunti di base (W.R. Bion, 1961) fino a quelli più recenti di Hinshelwood sulle dinamiche nei gruppi e sulla supervisione in Comunità (R.D. Hinshelwood, 1989, 1997). Mi limito tuttavia a considerare questo argomento perché spesso l'innescarsi di questi fenomeni richiede la costituzione di un particolare spazio mentale e istituzionale che solitamente viene definito supervisione. Fra le tante riunioni dello staff (giornaliere, settimanali, a carattere clinico, di analisi istituzionale, etc), la supervisione merita una considerazione a parte.
Quasi tutte le Comunità prevedono degli incontri di questo tipo nell'articolazione della loro attività: le differenziazioni riguardano il diverso significato che vi attribuiscono, il taglio teorico-tecnico della sua conduzione e il rapporto che si viene a stabilire fra supervisore e staff. Esistono Comunità ove queste riunioni assumono quasi aspetti di sacralità, trasformandosi in un rito officiato da un celebrante da cui lo staff si aspetta di ricevere illuminazione. Si materializza cioè un'identificazione proiettiva da parte di tutto il gruppo (o quasi) nei confronti di una sola persona cui viene delegata la capacità di comprensione e di intuizione (T. Main, 1989) e da cui ci si aspetta passivamente la somministrazione di qualcosa che metta in condizione di capire e di fare. Non è difficile individuare i limiti di una siffatta concezione della supervisione che genera fantasie di onnipotenza del supervisore, ingigantisce il rapporto di dipendenza da lui (mentre l'equipe, soprattutto in momenti di difficoltà, avrebbe bisogno di essere aiutata a riattivare le proprie risorse potenziali) e suscita anche sentimenti d'invidia nei suoi confronti; è molto facile inoltre che si instauri una dinamica competitiva fra la figura del supervisore e quella del leader dell'equipe con effetti che non tarderanno ad evidenziarsi nella pratica quotidiana.
Per contro, in altri contesti, la supervisione assume caratteri meno vistosi, si svolge con modalità diffuse, giocate tutte all'interno dell'equipe: le riunioni organizzate a questo scopo si moltiplicano, vengono distinte per funzioni, oppure si preferisce evitare il termine stesso facendole rientrare nella routine delle abituali riunioni d'equipe. Questa impostazione, per così dire autarchica, non è sempre espressione di maturità dello staff, spesso anzi maschera un atteggiamento difensivo nei confronti di una figura, il supervisore esterno, vissuto come intrusiva e persecutoria e si riscontra frequentemente in quelle strutture ove la debolezza dell'impianto teorico o le sue caratteristiche rigidamente monoculturali vengono compensate dalla personalità carismatica di un leader (A. Orsenigo, 1998). I rischi insiti in questo tipo di funzionamento sono quelli di non acquisire una visione prospettica delle situazioni, di non riuscire a contenere al proprio interno le tensioni che si generano oltre un certo limite, di sviluppare, in momenti di crisi, dinamiche di tippo paranoide con la ricerca di un colpevole tra i pazienti, tra gli operatori o all'esterno della Comunità.
Tra questi due estremi, che rappresentano entrambi una concezione deformata, la supervisione trova una corretta collocazione come strumento di verifica, come evidenziatore di particolari significati sommersi, come occasione per cogliere nuovi elementi di conoscenza, come contributo allo sviluppo di formazione, come luogo di decantazione degli umori e dei vissuti dell'equipe.
Stabilire a priori se essa debba costituire un aspetto scontato e costante della prassi comunitaria o uno strumento da utilizzare in determinati periodi di transizione, se sia preferibile un taglio psicodinamico o psicosociale o cognitivo, se il supervisore debba essere una figura esterna alla Comunità o viceversa questo ruolo possa essere svolto con maggior cognizione di causa da chi è in qualche modo coinvolto dall'interno, è praticamente impossibile.
Fermo restando che la supervisione rappresenta uno degli strumenti più tipici con cui la Comunità può analizzare il proprio funzionamento e quindi sviluppare una sua cultura dell'indagine, credo che la scelta della frequenza, dei tempi e dei modi dipendano dalla maggior o minor capacità che l'equipe dimostra di avere nel riconoscere le proprie necessità.
Situazioni di empasse nel rapporto coi pazienti, dinamiche conflittuali che si prolungano nel tempo, demotivazine degli operatori, turnover dei pazienti o di figure particolarmente significative per la Comunità, possono segnalare altrettante necessità di riflessione su aspetti particolari riguardanti una o più delle sue componenti o tutta la struttura nel suo complesso.
Non ha quindi molto senso pretendere di indicare una formula adatta a tutte le circostanze: è più importante che l'equipe non scivoli inconsapevolmente nella posizione di negazione onnipotente dei propri bisogni o che, all'opposto, si mantenga in un perenne rapporto di dipendenza patologica. La capacità di riconoscere la natura delle proprie necessità, al contrario, può mettere lo staff in condizione di individuare i contenuti e i modi più idonei della supervisione stessa.
Tra i possibili significati della supervisione ho prima accennato anche ad una sua funzione formativa. Per quanto preziosa possa risultare nell'acquisizione di conoscenze, va tuttavia chiarito che essa non esaurisce di per sé questo compito, specialmente per chi si avvia a intraprendere un training in Comunità. Quasi inevitabilmente il discorso porta ad affrontare il nodo del particolare tipo di formazione necessaria a questi operatori. Prima ancora però sarebbe utile mettere a fuoco la motivazione di chi aspira a svolgere questo lavoro. Sé è vero che non si diventa operatori di Comunità per predisposizione ereditaria è tuttavia indubbio che una certa carica motivazionale non guasta: l'importante è che non sia troppo inquinata da idealizzazioni o spinte missionaristiche. La possibilità di frequentare una o più strutture comunitarie per un certo tempo, prima di intraprendere l'iter formativo, permetterebbe forse un salutare confronto fra aspettative e realtà operativa (E. Pedriali, 1997).
Negli ultimi anni le pressanti richieste dell'utenza e la conseguente proliferazione di strutture a carattere residenziale e semiresidenziale, ha posto sul tavolo il problema di una normativa che ne regoli i caratteri, i titoli di studio necessari per accedervi e quindi il percorso formativo. Sono sorte così diverse Scuole pubbliche, private o a carattere universitario, impostate secondo differenti orientamenti teorici (generalmente di tipo sanitario o psicosociale) e metodologie riabilitative (prevalentemente cognitivo-comportamentali). Se, in teoria, si riconosce la necessità di un certo bagaglio di conoscenze e l'utilità di un tirocinio esperienziale, in pratica i maggiori ostacoli che si frappongono alla realizzazione di un modello formativo efficace riguardano principalmente i contenuti teorici, le modalità concrete di apprendimento e l'integrazione fra teoria e prassi.
Grosso modo i percorsi formativi di più frequente riscontro si possono raggruppare in due principali modelli. Il primo, che si potrebbe definire un percorso fai-da-te o della promozione sul campo, prevede di fatto un apprendimento in presa diretta, privilegiando l'acquisizione di conoscenze attraverso l'assimilazione, giorno dopo giorno, della prassi e dello stile di vita della Comunità.
Un secondo modello, accentua invece l'acquisizione di un bagaglio teorico, a volte considerevole, ma in un contesto separato e spesso scollegato da un'effettiva esperienza di Comunità.
L'uno e l'altro comportano dei rischi.
Il primo porta facilmente alla creazione di una monocultura, poco o per niente aperta al confronto con altri orientamenti e metodologie; all'adesione, a volte fideistica, a un unico modello di riferimento con forte accentuazione della dimensione ideologica; all'instaurarsi di meccanismi di dipendenza dalla figura del leader.
Il secondo, sviluppa prevalentemente uno schema tradizionale di rapporto fra docente/i e allievi, fornendo pochissimi stimoli alla conoscenza, all'apprendimento ed al lavoro di gruppo; il carattere prevalentemente duale dell'insegnamento tende a facilitare la tendenza a ricercare forme di dipendenza da un'autorità che definisca le soluzioni dei problemi, che dica cosa si deve fare (A. Orsenigo, 1998) . E' facile inoltre che si stabilisca una frattura netta fra la lettura teorica dei fenomeni che avvengono in Comunità e la concretezza metodologica che occorre per affrontarli; che si sviluppino difese di tipo razionale e intellettualistico di fronte a problemi di coinvolgimento emotivo nel contesto specifico.
Si può considerare poi un particolare aspetto del percorso formativo da taluni considerato una precondizione, un passaggio obbligato o l'esito scontato del training, da acquisire attraverso lunghi e costosi percorsi personali (analisi personale, psicoterapie di gruppo e simili).. "Non di rado, questi percorsi contribuiscono a sviluppare forti identificazioni professionali con psicoterapeuti e psicoanalisti; soprattutto se centrati su rapporti duali, tendono a confermare l'idea che la relazione terapeutica (e psicoeducativa) passi fondamentalmente attraverso rapporti di coppia. Da ciò spesso deriva la costruzione di un'identità lavorativa inadeguata a questo specifico lavoro, a volte fantasie di poter essere psicoterapeuti di Comunità, ma anche sentimenti di inadeguatezza per la diversa qualità del contesto" (A. Orsenigo, 1998).
Indubbiamente una psicoterapia può contribuire a "una consapevolezza non intellettuale del contatto con la sofferenza psichica, per acquisire una capacità di empatia con le sofferenze profonde del paziente e per conoscere e padroneggiare i propri movimenti contotransferali" (A. Ferruta, 1998), ma a un percorso di questo genere si può arrivare solo in base a una libera scelta, che può essere sollecitata anche da circostanze legate alla propria attività, ma che non deve essere condizionata da una specie di prescrizione istituzionale implicita né da conformismo con gli orientamenti del gruppo di lavoro.
Non va dimenticato infine, che non tutte le Comunità si ispirano ad un modello teorico di tipo psicoanalitico, il che rende ancor più evidente la separazione fra aspetti personali e istituzionali.
Malgrado sulla formazione si sia detto e scritto molto, rimane innanzitutto da colmare lo jato fra teoria e prassi. Tenendo conto di quelle che sono le caratteristiche del lavoro in Comunità, la formazione dei suoi operatori non dovrebbe prescindere da tre criteri base: una modalità di apprendimento gruppale, un taglio compartecipativo e dinamico, il contemporaneo sviluppo di conoscenze teoriche e di esperienze dirette.
Le conoscenze teoriche che servono ad un operatore di Comunità riguardano sostanzialmente le principali teorie dello sviluppo umano (bio-psico-sociale) e dei principali modelli di cambiamento (psicodinamico, psicosociale, cognitivo, comportamentale, biologico e sistemico-familiare), gli elementi fondamentali della psicopatologia e alcuni rudimenti di nursing, il funzionamento di piccoli e grandi gruppi, i meccanismi di difesa e le principali dinamiche che li caratterizzano, alcune metodiche della ricerca statistica (compilazione di protocolli, somministrazione di questionari), alcune informazioni sulla teoria dei sistemi e della loro organizzazione, ma anche della storia della Psichiatria e delle Comunità Terapeutiche in particolare.
Le modalità più adeguate a sviluppare queste conoscenze sono quelle che utilizzano strumenti dinamici di apprendimento: cicli di lezioni su argomenti specifici per gruppi di studio seminariali, tecniche di simulazione (role play, psicodramma), worckshops esperienziali, mezzi audiovisivi, problem solving, si prestano bene a un tipo di insegnamento che capovolga la tradizionale passività del rapporto docente-allievo. Ma anche in questo modo si rischia di mantenere una separazione artificiosa e controproducente se contemporaneamente non si sviluppa un'esperienza in diretto contatto con la vita di Comunità. In altre parole, ciò che serve a chi si orienta verso questa attività è la possibilità di integrare le proprie conoscenze teoriche con ciò che l'esperienza concreta gli offre di sperimentare. Così lo spazio e il tempo dedicato alla teoria può diventare il luogo di elaborazione delle esperienze proprie e degli altri componenti del gruppo di studio (E. Pedriali, 1997) e, viceversa, la Comunità, come campo esperienziale può rappresentare il terreno di verifica delle acquisizioni teoriche. Si intuisce facilmente che un modello di formazione di questo tipo è sostanzialmente radicato in una cultura di gruppo che tuttavia non va intesa come un processo di omologazione delle individualità o una forma di fusionalità. Al contrario, la formula della Comunità Terapeutica, se intesa correttamente, consiste nel liberare le potenzialità soggettive dei suoi "abitanti" (pazienti e operatori) attraverso l'amplificazione gruppale di un'esperienza condivisa.
Per quanto riguarda la specifica formazione alla prassi comunitaria, l'esigenza principale degli operatori consiste nella possibilità di svolgere un percorso graduale, con tempi e modalità flessibili, all'insegna dell'osservare, provare e riflettere, per acquisire una competenza di base indispensabile anche a svolgere compiti particolari (E. Pedriali, 1997).
In uno schema riportato a fine capitolo sono descritte sinteticamente le fasi di un possibile percorso che passa attraverso un periodo iniziale di osservazione, in veste di residente, seguito da una graduale partecipazione più attiva alla vita di Comunità, per finire con l'assunzione progressiva di responsabilità e lo sviluppo di attitudini specifiche.
Per quanto rimanga motivo di divergenza, il tentativo di definire un progetto di formazione per operatori di Comunità si impone come una necessità per non lasciare il campo esclusivamente all'improvvisazione, all'eclettismo o all'arbitrio di questa o quella ideologia.
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NOTE
(1) Una traduzione troppo letterale dei termini potrebbe generare equivoci. Il loro significato più autentico potrebbe essere: accettazione reciproca (permissiveness); corresponsabilizzazione (democracy); condivisione (communalism); confronto con la realtà (reality confrontation).
(2) Tutte queste attività specifiche si inseriscono in uno sfondo costituito da quella vasta mole di lavoro quotidiano che potrebbe essere definito "Area di attività funzionali al particolare stile di vita della Comunità e dei suoi abitanti".
PM
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