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PSYCHOMEDIA
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FORMAZIONE PERMANENTE
Formazione e Supervisione
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Integrazione tra teoria e prassi nella formazione dell'operatore di comunità
di Enrico Pedriali
(lavoro presentato alla Conferenza di Windsor 1997 - versione in inglese)
Qualche tempo fa, rileggendo "Il bambino deprivato", mi sono soffermato su alcune considerazioni riguardanti le Comunità per adolescenti di cui Winnicott si occupò negli anni epici della seconda guerra mondiale. Egli riteneva caratteristiche ideali degli operatori la stabilità emotiva, la capacità di apprendere dall'esperienza, di assumersi responsabilità, di agire in modo schietto e spontaneo nei confronti degli eventi e dei rapporti di cui è fatta la vita.
Credo proprio non si possa dare una miglior descrizione teorica del profilo di chi lavora in una Comunità Terapeutica.
Mi sembra interessante riportare alcuni passaggi del libro per le riflessioni che ne possono derivare: "....i nostri educatori migliori erano molto diversi l'uno dall'altro quanto a istruzione, esperienza precedente, interessi, e provenivano da professioni piuttosto varie. Eccone alcune: maestro elementare, assistente sociale, sagrestano, disegnatore, istruttore e direttrice di un riformatorio, direttore e direttrice di carcere preventivo, impiegato in un'istituzione che si occupava di assistenza pubblica, assistente sociale di una prigione ... riteniamo che il tipo di formazione professionale ricevuta e di esperienze fatte abbia un peso relativo di fronte alla capacità di assimilare l'esperienza e di agire in modo schietto e spontaneo nei confronti degli eventi di cui è fatta la vita". Più avanti aggiunge: "... le nostre attuali case di cura non sono adatte per questi bambini che, in genere, sono sani ed hanno bisogno di un trattamento prolungato da parte di educatori appositamente scelti a questo scopo...Inoltre gli infermieri che lavorano nelle case di cura sono inadatti al compito a causa del genere di addestramento professionale che hanno ricevuto, e molti pediatri poi hanno una chiusura mentale per la psicologia ..."(D.W. Winnicott: "Il bambino deprivato", Raffaello Cortina Editore - Milano, 1986).
Una domanda che mi vien subito in mente è questa: è preferibile una selezione spontanea che si limiti ad accogliere chi è naturalmente dotato di queste qualità, o invece potrebbe essere utile un progetto formativo?
Del resto lo stesso Freud parlava delle tre attività impossibili: educare, governare, analizzare....(S.Freud, "Analisi terminabile e interminabile", Opere, vol.11 - Boringhieri - Torino).
Talvolta poi capita di incontrare operatori che col crescere della loro esperienza e conoscenza sembrano perdere la naturalezza di cui erano dotati inizialmente. Si deve concludere allora che il processo di formazione tende a trasformare ciò che è naturale in qualcosa di artificiale?
Credo sia più realistico prendere atto che oggi le conoscenze e gli strumenti di cui disponiamo hanno raggiunto una vastità, un grado di profondità e complessità di cui non possiamo non tener conto. Il problema allora è: come utilizzare queste conoscenze e questi strumenti per arricchire le persone e non per inaridirle, per conservare naturalezza e spontaneità in chi le possiede e consentire di acquisirle a chi non le ha?
Vorrei evitare, in questa relazione, di esporre formule astratte sul training di chi aspira a lavorare in queste strutture. Mi riesce infatti più facile esprimere delle ipotesi sulla base di ciò che l'esperienza ha insegnato a me, attraverso la prassi quotidiana, i successi e gli insuccessi, i pazienti per cui e con cui ho lavorato, i diversi destini cui sono andati incontro e il patrimonio di riflessioni, confronti, scambi e divergenze con chi ha condiviso con me quelle situazioni.
Per comprendere meglio ciò che dirò, va tenuto presente il particolare contesto in cui si collocano le Comunità italiane, le Scuole di Formazione esistenti ed i criteri cui si ispirano. In Italia infatti non si può dire che esista una vera e propria cultura di Comunità, almeno così come la si intende in Inghilterra. Le poche esperienze originali, che si riferivano principalmente a quelle inglesi e francesi , si esaurirono intorno agli anni '65-'75, mentre a partire dagli anni '80, anche per effetto della legge di riforma, si è assistito ad un fiorire di iniziative molte delle quali si possono considerare Comunità più di nome che di fatto al di là degli intenti dichiarati. Le esigenze di training incontrano qualche difficoltà per scarsità di modelli teorici chiari e di un background storico-culturale sufficientemente consolidato. A rendere ulteriormente complicato il problema, c'è poi il fatto che la maggior parte di queste strutture accoglie una tipologia mista di pazienti in prevalenza affetti da gravi patologie (border-line, gravi disturbi narcisistici, ma soprattutto psicotici) e un certo numero di soggetti che, dimessi dai vecchi ospedali psichiatrici, continuano ad avere necessità di una residenza appropriata , con l'aggravante di portare con sé i segni evidenti di lunghi anni di permanenza in manicomio. Se da un lato tutto ciò non consente facili improvvisazioni, né soluzioni semplicistiche, dall'altro coglie impreparata buona parte dell'entourage psichiatrico.
Per quanto mi riguarda, la mia esperienza si è sviluppata in direzioni diverse: inizialmente (1971-1976) si è trattato di una Comunità ad orientamento psicodinamico per giovani psicotici, poi (1983) di un progetto per pazienti cronici che aspirava a realizzare un modello integrato d'intervento all'interno di un Ospedale Psichiatrico privato e attualmente, di una C.T per adolescenti ove svolgo il ruolo di supervisore degli educatori. In quest'ultimo anno, ho anche condotto gruppi allargati di lavoro per operatori di un ex O.P. gestito da un ente religioso, impegnati nella trasformazione dei loro reparti in unità ad orientamento comunitario.
I sentimenti che nutro riguardo il mio curriculum sono un po' ambivalenti: da un lato tendo ad assumere una posizione critica riguardo certe esperienze, terminate per difficoltà amministrative o per dinamiche istituzionali distruttive, dall'altro conservo l'interesse teorico e l'aspirazione a svolgere parte della mia attività in Comunità, per cui praticamente continuo ad occuparmene, sia pure da posizione più marginale.
Non so se nel persistere di questo interesse si possa vedere un'insufficiente elaborazione del lutto o una ferita narcisistica che ancora mi spinge alla ricerca di gratificazione; questo comunque mi da modo di introdurre il discorso che voglio fare partendo dall'idoneità di chi comincia o da tempo lavora in queste strutture, il che porta ad affrontare la questione della motivazione (o vocazione) terapeutica e conseguentemente della selezione degli operatori. Da qui parte ogni discorso sulla formazione di chi intraprende questo cammino, sia che si tratti di una scelta iniziale (presumibilmente in giovane età), come pure di un cambiamento nel percorso professionale, o di semplice opportunità di lavoro.
Anche se non penso che operatori di Comunità si nasca in base a una particolare predisposizione ereditaria, ma che invece lo si diventi con un buon training e una sufficiente esperienza sul campo, credo tuttavia che una certa carica motivazionale sia auspicabile ma non, di per sé stessa, garanzia di idoneità.
Se la chiarezza sulle proprie scelte è utile a tutti nell'intraprendere qualunque percorso, a mio parere essa è indispensabile quando si tratta di una "professione d'aiuto"1, per l'intensità del coinvolgimento relazionale e la facilità con cui le difese caratteriali vengono messe in atto e alla prova al tempo stesso. Non si tratta di selezionare una "schiera di eletti" per un'attività esclusiva e riservata a pochi, ma di contribuire preliminarmente a un'opera di conoscenza e comprensione di sé utile innanzitutto all'aspirante operatore, che consenta di valutare se la Comunità sia o meno confacente alla sua personalità e predisposizione umana, con l'intento di evitare che la prassi lavorativa diventi troppo frustrante e conflittuale. Non basta infatti la curiosità per il mondo dello psicotico, né la generica vocazione a curare o l'aspirazione all'uguaglianza e al sostegno dei diritti degli emarginati. Tutto ciò può rappresentare una molla propulsiva, ma non è condizione sufficiente ad evitare il rischio dello spontaneismo o di un dannoso velleitarismo. La ricerca di gratificazione nel curare gli altri non coincide sempre con la gratificazione di chi è oggetto e soggetto al tempo stesso della propria terapia in una Struttura di questo tipo.
Sui possibili criteri d'idoneità a questo genere di lavoro non esistono in Italia ricerche particolarmente accurate, né pubblicazioni di rilievo. I tipi di selezione sono, il più delle volte, empirici: se viene privilegiata la modalità che io definisco del fai-da-te o della promozione sul campo, l'ingresso del candidato passa di solito attraverso uno o più colloqui conoscitivi ed un periodo di tirocinio più o meno lungo. L'una e l'altra cosa, più che aiutare l'interessato a chiarirsi le idee, servono a chi gestisce la Comunità per accertare grossolani elementi di inidoneità, ma soprattutto per stabilire il grado di accettazione dell'orientamento teorico, la disponibilità ai metodi, all'intensità dei ritmi di lavoro ed il feeling più o meno positivo che si può stabilire con lui : una selezione quindi basata su criteri prevalentemente empatici e soggettivi. Questo anche nel caso che la valutazione, anziché individualmente, avvenga collegialmente, cioè con l'incontro del candidato con tutto lo staff. Al gruppo dei pazienti, l'arrivo di un nuovo operatore viene (non sempre) preannunciato in riunione di Comunità come un fatto scontato di cui è più o meno possibile discutere. Le cose spesso si complicano se la struttura fa parte del Servizio Pubblico. Qui l'assunzione passa anche attraverso una serie di meccanismi (lentezze burocratiche, concorsi, titoli di studio, diritti acquisiti per anzianità, limitazioni di carattere sindacale e amministrativo, etc.) che rendono più difficile una valutazione della motivazione.
Negli ultimi anni le pressanti richieste dell'utenza e la conseguente proliferazione di strutture eterogenee, a carattere residenziale e semiresidenziale, ha posto sul tavolo il problema di una normativa che ne regoli i caratteri, i titoli di studio necessari per accedervi e quindi il percorso formativo. Sono sorte così diverse Scuole pubbliche, private o a carattere universitario, impostate secondo differenti orientamenti teorici (generalmente di tipo sanitario o psicosociale) e metodologie riabilitative (prevalentemente cognitivo-comportamentali). Sulle caratteristiche e i limiti di queste scuole ritornerò più avanti. E' comunque importante tener presente che le normative riguardanti le Comunità e gli stessi criteri della formazione vengono promulgati per lo più da parte di Enti (regionali o statali) cui spetta la gestione del Sevizio Sanitario Nazionale e questo comporta la tendenza ad una visione generalmente medicalizzata dei problemi. Così si spiega la richiesta di una elevata presenza di infermieri in strutture come quelle comunitarie che non ne avrebbero bisogno, o l'applicazione di norme igienico-sanitarie come indicatori di qualità per strutture che si occupano, caso mai, dell'igiene mentale dei loro residenti. Infine questo spiega anche l'inserimento, in alcuni piani di studio, di materie che avrebbero senso nel corso di laurea di uno studente di Medicina, ma non in quello di chi dovrà svolgere un'attività che richiede soprattutto una buona conoscenza di altre discipline.
In un recentissimo contributo ad un libro di prossima pubblicazione in Italia (2), Aldo Lombardo esprime l'opinione che alla base dell'interesse per la Comunità Terapeutica da parte degli operatori vi siano spinte riparative inconsce verso le proprie figure genitoriali interne. A sostegno di tale ipotesi egli riporta le conclusioni degli studi di R.Websby, D. Menzies, B. Dolan e K. Norton (1995) sulle tipologie psicologiche più frequenti in Comunità e di O. Khaleelee (1994) sui tests per individuare motivazione e possibilità di sviluppo professionale di chi intende svolgervi la propria attività. I primi evidenziano nei membri dello staff (e anche nei residenti) tratti di personalità che si possono definire di tipo introverso-intuitivo; i secondi mettono in risalto l'esistenza di un'identificazione inconscia con un'immagine materna o paterna deteriorata che genera un bisogno di riparazione, oppure con un individuo deprivato/danneggiato, che induce ad adoprarsi per farlo star meglio.
Trovo queste analisi molto condivisibili e ritengo che da questi dati si possa partire, ponendosi alcuni obiettivi:
1) portare l'aspirante operatore a una miglior consapevolezza della natura della propria motivazione;
2) far sì che, raggiunta una sufficiente conoscenza e accettazione delle sue problematiche, egli diventi capace di gestirle con le proprie risorse egoiche, oppure di modificare la propria scelta;
3) mettere a punto una metodologia per arrivare a questo scopo.
Come può tutto questo entrare a far parte del training?
Considerando il percorso di molti operatori che ho conosciuto e la mia stessa esperienza in Comunità, mi è possibile descrivere grosso modo due modelli di formazione, cui se ne può aggiungere un terzo che preferisco trattare separatamente, poiché lo considero un percorso distinto dal training in senso stretto.
Un primo modello si può definire un percorso fai-da-te o della promozione sul campo, in cui molto dipende dalla maggior o minor intraprendenza del soggetto, dalla sua personale capacità di osservazione, da meccanismi di imitazione e identificazione con alcune figure leaders. E' questo un modello che teorizza un apprendimento esclusivamente in presa diretta, attribuisce minor importanza al possesso di un bagaglio teorico (anche se non lo esclude) e privilegia l'acquisizione di conoscenze attraverso l'assimilazione, giorno dopo giorno della prassi e dello stile di vita della Comunità. Una simile concezione del training può comportare alcuni rischi:
- la creazione di una monocultura poco o per niente aperta al confronto con altri orientamenti e metodologie, soprattutto in quelle strutture ove la debolezza o povertà dell'impianto teorico e la genericità degli obiettivi vengono compensati dalla personalità carismatica di un leader (A. Orsenigo, contributo a "La Comunità Terapeutica tra Mito e Realtà" , vedi nota 2);
- un'adesione, a volte fideistica, all'unico modello di riferimento riconosciuto e praticato, che spesso porta ad una forte accentuazione della dimensione ideologica ed ostacola l'esame di realtà soprattutto nei momenti di crisi;
- l'instaurarsi di meccanismi di dipendenza all'interno dello staff e inevitabilmente fra staff e pazienti, tenuti a loro volta ad adeguarsi al clima culturale e allo stile di vita che ne deriva.
n Un secondo modello formativo è quello che privilegia l'acquisizione di un bagaglio teorico, a volte considerevole, in un contesto separato e spesso scollegato da una effettiva esperienza di Comunità. Anche questo tipo di training presenta dei rischi:
- il carattere prevalentemente duale che l'insegnamento tradizionale conserva non consente alcuno stimolo al lavoro, alla conoscenza e all'apprendimento in gruppo. Questo tipo di formazione tende ad inibire la capacità di relazioni plurime e non contribuisce allo sviluppo di capacità quali l'autonomia, l'assunzione di responsabilità e la capacità di misurarsi con pensieri complessi. Il tradizionale rapporto docente-allievo può sviluppare una tendenza a ricercare forme di dipendenza da un'autorità che definisca le soluzioni dei problemi, che dica cosa si deve fare (A. Orsenigo, vedi nota 2);
- lo stabilirsi di una frattura netta fra la lettura dei fenomeni che avvengono in Comunità
e la concretezza metodologica che occorre per affrontarli;
- lo sviluppo di difese di tipo razionale e intellettualistico di fronte a problemi di coinvolgimento emotivo nel contesto specifico;
- lo scarso significato che una formazione esclusivamente teorica può avere al fine di sviluppare una capacità di insight e di conoscenza del proprio funzionamento come operatore.
Detto per inciso, è bene tener presente che la forza, l'invasività e talvolta la contraddittorietà delle esperienze nella relazione con i pazienti sono tali che la sola preparazione e competenza tecnica e umana dell'operatore non sono sempre sufficienti a fronteggiarle. Qui subentra l'importanza del gruppo dei curanti come apparato di contenimento, supporto ed elaborazione degli strumenti cognitivi ed affettivi del singolo operatore. (A. Correale, "Il campo e i suoi organizzatori nelle fasi iniziali della terapia con pazienti gravi". Relazione presentata al Centro di Psicoanalisi Romano il 12/2/1994)
Si può considerare poi un particolare aspetto del percorso formativo da taluni considerato una precondizione o un passaggio obbligato, o l'esito naturale del training. In Comunità la formazione al lavoro è in buona misura di carattere clinico, a volte acquisita attraverso costosi percorsi personali. Questi ultimi, generalmente centrati su rapporti duali, tendono a confermare l'idea che la relazione terapeutica (e psicoeducativa) passi fondamentalmente attraverso rapporti di coppia. Inoltre, non di rado, questi percorsi personali contribuiscono a sviluppare forti identificazioni professionali con psicoterapeuti e psicoanalisti. Da ciò spesso deriva la costruzione di un'identità lavorativa inadeguata a questo specifico lavoro, a volte fantasie di poter essere psicoterapeuti di Comunità, ma anche sentimenti di inadeguatezza per la diversa qualità del contesto (A. Orsenigo, vedi nota 2).
In effetti, conosco Comunità ove vengono accettate solo persone che abbiano già effettuato o abbiano in corso un trattamento psicoanalitico individuale o di gruppo. Personalmente non considero obbligatorio questo requisito, né che esso costituisca una garanzia di qualità del candidato, anche se ritengo l'analisi individuale e di gruppo un'esperienza importante di autoconoscenza e di maturazione per ogni individuo.
Penso tuttavia che ad un percorso di questo genere si possa arrivare solo in base a una libera scelta che può essere sollecitata da varie circostanze, fra cui anche quelle legate alla propria attività, ma che non debba essere condizionata da una specie di prescrizione istituzionale implicita né da conformismo con gli orientamenti del gruppo di lavoro.
Non va dimenticato infine, che non tutte le Comunità si ispirano ad un modello teorico di tipo psicoanalitico, il che rende ancor più evidente la separazione fra aspetti personali e istituzionali.
Indubbiamente una psicoterapia può contribuire ad una consapevolezza non intellettuale del contatto con la sofferenza psichica, per acquisire una capacità di empatia con le sofferenze profonde del paziente e per conoscere e padroneggiare i propri movimenti contotransferali (A. Ferruta, "La Comunità Terapeutica tra Mito e Realtà" vedi nota 2) ma non la considero conditio sine qua non per raggiungere questi obiettivi.
In altre parole, non penso che soltanto psicoanalisti e "psicoanalizzati" possano entrare a far parte dello staff di Comunità.
Esporrò tra breve come, secondo me, il training possa favorire l'apprendimento di queste capacità a prescindere dal fatto che l'operatore abbia o meno intrapreso un trattamento psicoterapico.
Il Focus sulla Motivazione
Ogni Comunità, pur con tutte le caratteristiche che le differenziano l'una dall'altra, dovrebbe contenere all'interno della propria cultura e metodologia, opportunità, tempo e spazio per una riflessione sul modo di essere dei singoli operatori e sul modo di essere in gruppo di tutti i componenti dello staff. L'esistenza di un'effettiva Cultura dell'Indagine potrebbe riguardare allora anche l'accoglimento di chi aspira a farvi parte ed essere utilizzata per metterne a fuoco le motivazioni.
Non intendo, sia ben chiaro, proporre una specie di vivisezione del candidato da parte dell'equipe, ma semplicemente un periodo preliminare di Osservazione a Scopo Orientativo, senza alcun investimento operativo, col solo obiettivo di fornirgli sul campo l'opportunità di una partecipazione "neutrale" a tutti gli aspetti della vita comunitaria e di una riflessione sulle componenti personali della propria scelta (identificazioni inconsce, bisogni riparativi e compensativi, tratti narcisistici e onnipotenti della personalità) , coadiuvato in questa fase di chiarificazione da tutto il gruppo dello staff.
Questo primo contatto con la vita di Comunità, senza aver la pretesa di costituire un test attitudinale, si inserisce nella logica di ridurre l'evenienza, piuttosto frequente, che persone sprovviste di qualsiasi formazione, o provenienti da una preparazione di base eterogenea e poco correlata col lavoro specifico, tendano a far riferimento alla propria esperienza familiare, scolastica, lavorativa (o alle proprie inclinazioni ideologiche), riproducendo nel rapporto con colleghi e pazienti, problemi personali non risolti. Ciò assume una valenza particolare in quelle Strutture che ospitano prevalentemente pazienti psicotici che hanno la capacità di risvegliare e di eccitare parti problematiche della personalità di tutti gli operatori, relative alla sessualità, all'aggressività, al rapporto di autorità e via dicendo (C. Kaneclin, A.Orsenigo: "Il lavoro di Comunità", Nuova Italia Scientifica - Roma, 1992).
Un approccio di questo tipo offrirebbe oltre tutto a chi fosse sprovvisto di qualsiasi esperienza in questo campo, la possibilità di un primo impatto con l'operare in gruppo, dimensione peculiare di ogni Comunità. E' fuor di dubbio infatti che qui la professionalità si distingue soprattutto per il suo essere collettiva, ossia connessa ad un'equipe, ad un ambiente o ad un complesso di conoscenze: ogni intervento si caratterizza più che per abilità individuali, per le capacità terapeutico-riabilitative complessive dell'equipe e del suo contesto. Questa è una delle caratteristiche essenziali che differenzia la professionalità di un operatore di comunità da altre, esercitate in contesti differenti, come ad esempio quelle dello psicoterapeuta e dello psichiatra, che hanno personalmente in carico il "loro paziente" in un rapporto diadico (C. Kaneclin, A. Orsenigo; idem).
Una questione non secondaria in questa fase è se sia utile o meno l'affiancamento di un tutor o se l'intera equipe possa farsi garante di questa funzione. Credo che a tale proposito si debba fare una distinzione fra chi già possiede un minimo d'esperienza pratica e qualche conoscenza del funzionamento dei gruppi, da chi invece si affaccia per la prima volta sul campo psichiatrico in condizione, diciamo così, di verginità.
La mia personale esperienza di formazione e quella attuale di supervisore di gruppi di operatori, mi fanno ritenere che, almeno nel secondo caso, la presenza di un tutor sarebbe molto utile per mediare l'impatto con la dimensione gruppale, per facilitare la possibilità di espressione ed il contenimento di ansie ed emozioni quando divenissero troppo forti.
Parlando di queste cose, penso inevitabilmente ad alcune esperienze capitate a me quando, appena laureato in medicina e animato dai migliori propositi, fui accolto come tirocinante in una Comunità per giovani psicotici. Una volta venni incaricato di accompagnare un piccolo gruppo di pazienti a compiere delle commissioni. Scoppiò una rissa fra alcuni di loro e finii con l'essere coinvolto fisicamente per separare i contendenti. La cosa mi turbò e al ritorno sentii il bisogno di esprimere, con molta ingenuità, i miei dubbi ad un collega dello staff, un simpatico psichiatra con diversi anni di analisi alle spalle: avevo fatto bene ad intervenire? avrei invece dovuto astenermi? esistevano "parole magiche" per evitare situazioni del genere? c'era qualcos'altro che avrei potuto o dovuto fare? Il collega, solitamente affabile e spontaneo, mi rispose con un certo sussiego che non poteva aiutarmi dicendomi come avrei potuto o non dovuto comportarmi, ma che io stesso avrei capito cosa fare imparando col tempo a riconoscere ed a padroneggiare le mie emozioni. Tutte cose vere. Che tuttavia mi lasciarono più disorientato e angosciato di prima! Forse furono anche esperienze di questo genere che accelerarono l'avvio della mia analisi personale che ebbe il merito di farmi comprendere come essa non fosse un mezzo per divenire una sorta di superman in grado di fronteggiare qualsiasi situazione, incurante delle proprie emozioni, ma al contrario, un'esperienza che consente, tra molte altre cose, di riconoscere i propri vissuti e quando occorre di accettare i propri limiti.
E' probabile che la possibilità di un periodo di osservazione preliminare all'avvio del training vero e proprio contribuisca ad un duplice scopo:
- per il candidato: una maggior consapevolezza della sua motivazione e la possibilità di confronto fra aspettative e reazioni al primo impatto con una Comunità;
- per la Comunità: una prima valutazione dell'opportunità o meno di far intraprendere un training a un data persona in quel particolare momento della sua storia personale.
Non si tratta di emettere sentenze definitive, ma di rendere più evidenti quelli che potrebbero essere aspetti problematici nell'intraprendere questa attività. Non è sempre facile riconoscere l'eventuale inidoneità a qualcosa che si desidera ed a cui ci si sente portati, ma è sicuramente preferibile far emergere i problemi, quando esistono, nei termini più realistici possibili per evitare future e più dolorose delusioni per l'interessato, ma anche spiacevoli complicazioni per tutto il gruppo della Comunità.
Credo non si debba mai dimenticare che queste Strutture, oltre a consentire la crescita maturativa di chi vi lavora, sono innanzitutto istituzioni che dovrebbero svolgere attività, erogare servizi e prestazioni a favore di soggetti con seri disturbi psicopatologici o gravi problemi esistenziali e che in funzione di ciò debbono prestare particolare attenzione nella selezione e nell'accoglimento dei propri operatori.
Con tutto quanto detto finora non pretendo di delineare un metodo che funzioni come filtro infallibile per evitare qualsiasi sorpresa. Semplicemente ho voluto prospettare un problema che mi sembra di importanza preliminare, ritenendo che il metodo comunitario abbia in sé le risorse per poterlo affrontare con vantaggio anche per lo stesso candidato, sia nel caso di una conferma della validità della sua motivazione sia quando una miglior conoscenza di aspetti problematici gli consenta di modificare la propria scelta.
Un'Osservazione Partecipe
Il problema che si pone successivamente è quello della modalità di sviluppo del training. Già prima ho accennato ad una sorta di scissione che spesso si realizza fra apprendimento teorico e sul campo e agli inconvenienti che più frequentemente si riscontrano. Non credo proprio si tratti di stabilire quale dei due sia più importante, ma caso mai quanto dell'uno e dell'altro siano indispensabili all'aspirante operatore, con quale modalità debbano svilupparsi per essere di reale utilità e soprattutto come possano reciprocamente integrarsi fra loro.
Se dovessi far ricorso ai ricordi della mia personale esperienza, che avvenne tutta all'insegna del fai-da-te e dell'apprendimento in presa diretta, la prima cosa che mi verrebbe in mente è la fame di teoria che a poco a poco cominciai a provare, malgrado mi trovassi a lavorare in un ambiente ad elevato tasso psicoanalitico. Posso dire che col crescere delle mie capacità di operatore, capitava a volte che, se mi interrogavo sul perché facessi certe cose, in base a quale modello teorico, non sempre sapevo darmi una risposta precisa. Nel mio caso si trattava evidentemente di un modello di training poco equilibrato, tuttavia mi capita ancor oggi di riscontrare in gruppi di operatori con cui ho occasione di lavorare, una certa carenza concettuale ed un eccesso di empirismo legato alla ripetitività di consuetudini vigenti nella struttura di appartenenza e del tutto prive di una riflessione sui significati che esse hanno. Ho conosciuto Comunità che, nate dall'entusiasmo, dall'improvvisazione e dal carisma di un leader, sono naufragate per inconsistenza del bagaglio teorico e metodologico. Per contro mi capita anche di constatare il fenomeno opposto e cioè la tendenza a far rientrare entro schemi concettuali precostituiti aspetti della realtà che presentano un significato evidente di per sé, a volte in stridente contrasto con la lettura teorica che ne viene fatta. Nell'uno e nell'altro caso si viene a determinare uno scollamento, direi quasi una perdita del senso di realtà per un marcato squilibrio fra prassi e teoria.
Credo sia opportuno, per intenderci, distinguere fra una preparazione di base ed una formazione, per così dire, più avanzata che tenga conto delle caratteristiche specifiche dell'ambiente ove l'operatore si troverà a svolgere le proprie attività. Viste le cose in questi termini , penso che il possesso di alcune conoscenze siano indispensabili al tirocinante nel momento in cui comincerà a cimentarsi con l'esperienza concreta.
Mi riferisco ad una Conoscenza Teorica di Base limitata ad alcuni contenuti semplici ed essenziali di psicologia, di psichiatria, di psicoanalisi e di sociologia, alle teorie sullo sviluppo umano, alla conoscenza di piccoli e grandi gruppi, dei meccanismi di difesa e delle dinamiche che li caratterizzano, ma anche di storia della psichiatria, in particolare delle Comunità Terapeutiche, dei modelli di trasformazione maggiormente in uso (psicodinamico, cognitivo, comportamentale, biologico e sistemico-familiare) e alle diverse modalità con cui vengono utilizzati in Comunità (D. Kennard, contributo a "La Comunità Terapeutica tra Mito e Realtà", vedi nota 2). Indispensabile mi pare anche un minimo di conoscenza sulla teoria dei sistemi e della loro organizzazione e così pure ritengo utile una certa conoscenza di psicopatologia, di psicopedagogia e di nursing, soprattutto per coloro che si occuperanno di pazienti psicotici.
Non si tratta però di trasmettere agli allievi semplici informazioni astratte secondo uno schema tradizionale ed enciclopedico di insegnamento, ma di fornire stimoli per una elaborazione attiva e un concomitante confronto con la realtà.
Come può essere realizzato allora un'efficace modello di formazione ?
La mia proposta è che, fin dall'inizio, il training assuma contemporaneamente le caratteristiche del gruppo di lavoro e di studio, capace di stimolare la discussione, la partecipazione attiva e l'integrazione fra i singoli componenti, la ricerca di contenuti, l'elaborazione dei problemi di gruppo e individuali, differenziandosi quindi dal classico rapporto docente-studente. Non si tratta di enfatizzare il collettivo come dimensione ideale, né di proporre un modello fusionale di aggregazione, ma semplicemente di creare, fin dall'avvio del percorso formativo, condizioni che consentano di sviluppare attitudini che saranno indispensabili nella prassi comunitaria, dove il pensiero, la persona e il gruppo costituiscono aspetti abituali di lavoro e trasformazione.
Come ho già detto, quando parlo di attitudini necessarie per diventare operatore di comunità, non mi riferisco a qualità innate: se è vero che esistono persone più idonee di altre a questo tipo di lavoro (come del resto in ogni attività umana) è anche vero che gli aspetti salienti di questa "professione" si possono apprendere attraverso un iter formativo adeguato, sol che ci sia la disponibilità ad intraprenderlo al di fuori di schemi preconcetti.
Così io credo che una modalità gruppale di apprendimento, sia di conoscenze teoriche che di esperienze derivate dalla prassi di lavoro, consentano a chi inizia il suo percorso di sviluppare l'attitudine ad osservare i fatti che accadono, ad ascoltare le persone che lo circondano, ad esprimere le proprie considerazioni, a riflettere sui propri vissuti; ma soprattutto l'attitudine a considerare il gruppo come un contenitore oltre che di contenuti di lavoro e studio, anche della propria incertezza, ansietà, aggressività etc.
Secondo Bateson (G. Bateson, "La pianificazione sociale e il concetto di deutero apprendimento" in : "Verso un'ecologia della mente" Adelphi edizioni - Milano 1976) è indispensabile a chi opera in certi contesti, lo sviluppo di un'attitudine mentale, che egli chiama apprendere ad apprendere, ad assumere la posizione di osservatore attento nel cogliere la tendenza evolutiva nelle dinamiche dei processi emotivi che si sviluppano dentro di lui, tra lui e i residenti, all'interno dello stesso gruppo dello staff e di tutta la Comunità . E' chiaro che nessun corso teorico di formazione potrà sostituirsi all'esperienza diretta, ma ritengo che il possesso di talune conoscenze, acquisite secondo uno stile dinamico e non passivizzante, possano coadiuvare lo sviluppo di attitudini apprese da un'esperienza svolta contemporaneamente sul campo.
Quando parlo di stile dinamico dell'apprendimento teorico, mi riferisco ad esempio al modello seminariale, in cui gruppi generalmente piccoli di operatori si costituiscono con regolarità a discutere le lezioni di un conduttore o per commentare la lettura di testi consigliati o per elaborare le esperienze che i componenti vanno via, via facendo nel corso della loro esperienza pratica.
Progressivamente potranno essere impiegate diverse tecniche: dall'impiego di mezzi audiovisivi al problem solving, al role play, alla sensibilizzazione alle dinamiche di gruppo, allo psicodramma utilizzato a scopo formativo e via dicendo.
In altre parole, la mia concezione della formazione teorica trova espressione in un gruppo di apprendimento ove si possa sviluppare una conoscenza di base, ma anche l'elaborazione di contenuti inerenti le attività di Comunità, relative all'esperienza che i suoi componenti vanno facendo nel corso del tirocinio pratico.
Mi sembra infatti indispensabile che i due aspetti procedano gradualmente e in contemporanea così che i tirocinanti siano inseriti in gruppi di studio esterni e al tempo stesso in una Comunità Terapeutica in veste di operatori-residenti, in maniera da favorire un continuo feed-back tra prassi e teoria.
Vorrei anche specificare meglio cosa intendo per tirocinio pratico in Comunità. Almeno nella fase iniziale, credo che l'aspirante operatore non debba essere investito di responsabilità operative, né che gli debba essere lasciata la più totale facoltà di intervenire a vari livelli, a sua completa discrezione. A mio parere il tirocinio deve offrirgli la possibilità di vivere come residente e come osservatore al tempo stesso, partecipando pienamente alla vita quotidiana e ai vari momenti di lavoro dello staff.
Il progressivo coinvolgimento nelle riunioni, nelle attività, nei contatti diretti coi pazienti rappresentano la strada maestra per sviluppare quell'attitudine ad Apprendere dall'Esperienza che trova, nella Comunità Terapeutica, il significato più autentico.
Forse perché è ancora vivo il ricordo dei miei primi passi, io considero molto importante e delicata questa fase del percorso formativo.
Se è indispensabile una certa disposizione mentale ad apprendere, lo è altrettanto la capacità del gruppo comunitario ad accogliere chi deve sviluppare la sua esperienza, a facilitargli i primi movimenti, a stimolarlo e sostenerlo nelle difficoltà.
Considerando il periodo del training nel suo complesso come un percorso di crescita, bisogna allora che anche la Comunità sviluppi "cure materne sufficientemente buone" che facilitino questa crescita. Non si tratta naturalmente di instaurare rapporti di dipendenza, ma di accompagnare i nuovi arrivati verso lo sviluppo di una progressiva autonomia e di una effettiva compartecipazione alla dimensione di gruppo.
Soprattutto in questa fase, sono favorevole alla figura di un tutor, che potrebbe essere un componente anziano dello staff, che funga in un certo senso da supervisore di tutto quanto accade al tirocinante nei primi mesi di permanenza in Comunità. L'atteggiamento del tutor non dovrà essere quello di un docente che spiega ciò che si deve sapere e fare, ma piuttosto quello di un allenatore un po' speciale che, osservando i movimenti dei suoi allievi e conoscendo le regole del gioco, si ponga l'obiettivo di portarli ad una maggior consapevolezza evitando atteggiamenti troppo direttivi, con la costante attenzione non solo a ciò che fanno, ma anche a ciò che tendono a non fare (ad esempio a non esprimere, a non vedere o ad evitare).
Spero, da quanto detto fin qui, che risulti chiara la mia opinione sulla modalità e sugli scopi della prima fase del tirocinio pratico: esso dovrebbe avvenire con gradualità, evitando investimenti che l'allievo potrebbe non essere pronto ad assumersi e con una costante attenzione e disponibilità da parte dello staff a seguirlo nei suoi passi. Gli obiettivi di questa prima fase dovrebbero tendere a sviluppare sul campo la sua capacità di osservare, ascoltare, esprimere e cominciare ad entrare nella particolare atmosfera di gruppo della Comunità.
Ciò che mi sembra importante è che si eviti il modello dei tradizionali corsi di formazione per infermieri, assistenti sociali, ed operatori psichiatrici in genere che tendono spesso a riprodurre il curriculum studii del medico, dello psicologo e dello psichiatra col risultato di crearne una brutta copia senza alcun aggancio con la realtà concreta. Chiunque sia approdato in C.T., dall'infermiere all'assistente sociale, dall'arte terapeuta allo psicologo, dallo psichiatra allo psicoanalista, si è trovato nella condizione di doversi costruire una nuova identità professionale attraverso una diversa conoscenza teorica e pratica. Mi pare quindi che sia conveniente in termini economici e di tempo, che il training formativo per chi si affaccia a questa esperienza sia impostato fin dall'inizio secondo modalità più consone alla realtà che il futuro operatore si troverà di fronte.
Quando mi capita di affrontare l'argomento con colleghi che ben conoscono questi problemi o che si occupano di formazione, una delle obbiezioni più frequenti all'impostazione che ho appena descritta è che essa comporta il rischio di non sviluppare un adeguato sentimento di appartenenza o, in altre parole, di presentare un'artificiosa separazione fra un luogo di formazione esterno e la Comunità stessa. In effetti io credo che questa obbiezione nasca più dal timore di alcuni leaders carismatici di aprirsi ad un confronto come se ciò comportasse il pericolo di una perdita di identità. Senza dubbio l'integrazione fra teoria e prassi comporta il ridimensionamento di certi eccessi nell'uno e nell'altro senso, obbliga in certo qual modo a costruire una visione dei problemi più complessa (e a mio avviso più completa), impedisce che si crei una controproducente separazione fra queste due componenti della formazione, ma soprattutto un'ingiustificata supremazia dell'una sull'altra.
Io trovo vantaggioso e salutare che esista una sede esterna ove le conoscenze di base indispensabili per accedere ad una cultura di comunità e le stesse esperienze che gli aspiranti operatori vanno contemporaneamente sviluppando nel loro tirocinio pratico diventino oggetto di elaborazione, di scambio e di confronto fra i componenti del gruppo di studio.
Ciò che considero determinante quindi è una stretta interdipendenza fra teoria e prassi tale da consentire lo sviluppo di conoscenze teoriche e attitudini concrete che mettano in condizione di pensare perché, come e dove "mettere le mani" e di acquisire strumenti per decodificare ciò che accade nel contesto.
Riassumendo, gli aspetti salienti di questa fase della formazione, che chiamerei fase di avvio, sono:
1) l'inserimento del tirocinante in un gruppo di studio condotto da un tutor per l'acquisizione di conoscenze teoriche di base e lo sviluppo di quella particolare attitudine che è l'apprendere ad apprendere;
2) l'impiego di modalità quali seminari di studio e discussione e di tecniche specifiche come i mezzi audio-visivi, il problem solving, il role play, lo psicodramma a scopo formativo, e cosi via;
3) il contemporaneo inserimento in Comunità ove svolga un tirocinio, in qualità di residente a scopo di osservazione, partecipando a tutti i momenti della vita comunitaria e di lavoro dello staff, con la supervisione di un tutor.
Tutto ciò comporta, ovviamente, un rapporto integrato di effettiva collaborazione fra Scuola di Formazione e Comunità Terapeutica nella realizzazione di un progetto di formazione capace di farsi carico del percorso globale dell'allievo.
Si tratta in sostanza di affrontare aspetti organizzativi, di impostazione dei programmi, di valutazione dei risultati e dei candidati secondo criteri concordati, di uno scambio continuo di informazioni sull'andamento delle cose sui due versanti, sull'insorgenza di qualsiasi problema e di sintesi finale.
Un'ipotesi che considero auspicabile è che i conduttori dei gruppi di studio abbiano o abbiano avuto esperienza di Comunità.
Credo che il momento opportuno per passare alla fase successiva del training sia quando l'aspirante operatore comincerà a prendere coscienza di quel particolare carattere della Comunità che consiste in un impegno condiviso, finalizzato all'apprendimento dell'esperienza di vivere e lavorare insieme (D. Kennard, contributo a "La Comunità Terapeutica tra Mito e Realtà" vedi nota 2). Non è sempre facile determinare questo momento e credo che soltanto una valutazione aperta e sincera fra il tutor, il candidato, lo staff e i conduttori dei gruppi di studio, possano suggerire con buona approssimazione quando sia opportuno passare a una fase più avanzata del training.
La Competenza di Base
Superata qesta fase iniziale, che potrà avere una durata variabile, non necessariamente uguale per tutti (a mio avviso non meno di 6/8 mesi), si prospetta la necessità di orientare la formazione verso lo sviluppo di competenze adeguate.
Credo di non scoprir niente di nuovo affermando che in genere il lavoro, in una Comunità Terapeutica, è ricco e movimentato, porta solitamente ad un forte coinvolgimento personale e si caratterizza per un maggior dinamismo, una minor rigidità e prevedibilità rispetto ad altri tipi di istituzioni (ad esempio reparti ospedalieri). Di solito esso richiede agli operatori di svolgere funzioni tra loro diverse: organizzare gruppi di attività, far colloqui, stendere relazioni, tenere la contabilità, organizzare la pulizia della casa,(occuparsi di esigenze corporee ed affettive dei pazienti), tenere contatti coi familiari, conservare la capacità di analizzare le situazioni, il tutto registrando sempre i propri movimenti interiori. Si tratta spesso di esigenze lavorative più complesse e pressanti che in altri servizi. Tutto ciò comporta, anche in presenza di una precisa distinzione di ruoli all'interno dello staff, un'assunzione di funzioni organizzative diverse da parte di uno stesso operatore. Le richieste formulate e le pressioni che gli vengono rivolte non di rado sono contraddittorie, emotivamente intense e richiedono una capacità di elaborazione personale e complessiva da parte di tutta l'equipe che riesce a sviluppare ipotesi di lavoro ed a contenere efficacemente i momenti critici se conserva la capacità di muoversi come un collettivo e non come un insieme frammentato di operatori, sia pur bravi. (C. Kaneclin, A. Orsenigo; idem)
Si può dire quindi che una caratteristica saliente del lavoro di Comunità consista nella capacità di integrare diverse abilità e di muoversi all'interno di un contesto che consenta di elaborare e metabolizzare gli accadimenti e di dare senso alle risposte che vengono sollecitate dai pazienti. E poiché tali risposte spesso devono essere adeguate a sollecitazioni mutevoli, contraddittorie e multiformi (come l'universo psicotico che le produce), è indispensabile che esse si fondino più sulla flessibilità e sulla capacità globale di elaborazione dell'equipe che sulla fedeltà a delle procedure rigidamente prestabilite.
Questo è il motivo per cui risulta praticamente impossibile in Comunità raccogliere in un mansionario tutti i problemi e le relative soluzioni (specie se ospita pazienti psicotici) e ciò rappresenta uno degli aspetti più delicati da affrontare per chiunque si aspetti di svolgere un ruolo legato rigidamente ad una formazione professionale specifica (C.Kaneclin, A.Orsenigo, idem). In altre parole si delinea un profilo di operatore capace di svolgere diverse funzioni quando le circostanze lo richiedano. Ma vi è dell'altro. In Comunità, a differenza di altre realtà, si richiede anche la capacità di funzionare come Io ausiliario del paziente, in grado di delegare in misura crescente le mansioni da svolgere, di tollerarne gli eventuali deficit e di fornirgli la possibilità di un feed-back, in definitiva di un'esperienza conoscitiva.
Tutto ciò non si sviluppa per caso, ma solo attraverso una gradualità che consenta di addentrarsi a fondo nella relazione col paziente, mantenendo sempre distinto il confine tra il versante personale e quello professionale. Il gruppo dei residenti e dello staff costituiscono lo sfondo su cui si sviluppano dinamiche e relazioni intersoggettive ed a questa dimensione vanno sempre ricondotti fatti e fenomeni della Comunità anche quando assumono una dimensione apparentemente individuale o diadica.
Man mano che acquisisce maggior familiarità e conoscenza dell'ambiente comunitario, il tirocinante dovrà orientarsi all'apprendimento di competenze che, entrando maggiormente nel merito degli aspetti relazionali e delle dinamiche gruppali, gli consentano di muoversi con crescente autonomia. Contemporaneamente sul piano teorico si potranno approfondire conoscenze già avviate nella fase iniziale e concettualizzare nuovi stimoli prodotti nel corso del tirocinio pratico. Quando parlo di competenza, mi riferisco alla particolare capacità di utilizzare quelle abilità o attitudini di base di cui prima ho parlato, in misura e combinazione variabile a seconda delle funzioni da svolgere in momenti e circostanze diverse, perché non vi è dubbio che la C.T. richiede molta flessibilità nello svolgimento di diverse attività in rapporto alle più o meno deficitarie funzioni egoiche dei pazienti e alle finalità che si perseguono.
Distinguerei innanzi tutto una Competenza di Base, di cui ogni operatore deve entrare in possesso ed una competenza specifica legata al ruolo (psichiatra, psicologo, arte-terapeuta, socioterapista, etc).
Va tenuto presente che ogni Comunità nasce e si sviluppa prima di tutto intorno ai bisogni e alle caratteristiche di persone con diversi gradi di disturbi psichici, offre loro una residenza che costituirà per lungo tempo uno spazio fisico ed emotivo condiviso con altri simili, si caratterizza in qualche modo come un particolare setting gruppale (piccolo o grande) che si propone finalità di crescita e riabilitazione attraverso una costante mediazione fra mondo interno del paziente e mondo esterno. Per realizzare questi obiettivi utilizza strumenti riferiti a modelli di cambiamento diversi, che tuttavia non si esauriscono in una semplice somma di rapporti duali, ma si estrinsecano in un'ampia rete di relazioni che nel suo insieme costituisce il più importante potenziale di trasformazione.
In questo contesto gli operatori, che rappresentano l'altra componente residenziale, si troveranno alle prese con questi aspetti:
- le peculiari esigenze del paziente;
- la dimensione relazionale di cui essi stessi entrano a far parte come componenti del gruppo;
- le finalità della Struttura.
Tanto per esemplificare:
il socio-terapista o educatore o tutor ( a seconda della denominazione in uso), mentre si accinge ad organizzare l'avvio della giornata di un gruppo di pazienti secondo i programmi prestabiliti, potrà trovarsi di fronte a molte variabili: qualcuno dorme ancora ostinatamente, altri rifiutano di lavarsi, la colazione non è ancora pronta o non è gradita, qualcuno fa chiasso e disturba, si avanzano richieste di modificare i piani della giornata e così via. E' chiaro che in simili frangenti non gli sarà possibile appellarsi alle risorse che derivano da una competenza professionale specifica, ma dovrà prendere iniziative differenziate che tengano conto di esigenze individuali, della situazione di tutto il gruppo e del senso globale degli avvenimenti in quel momento. Soprattutto dovrà conservare un'ottica gruppale evitando, per quanto possibile, di assumere atteggiamenti direttivi, cercando di facilitare il confronto fra le parti, stimolando l'analisi della situazione da parte dei componenti senza mai perdere di vista l'obiettivo di utilizzare le risorse egoiche del gruppo per raggiungere un risultato possibile ( ad esempio ridefinire gli obbiettivi della giornata, evidenziare le difficoltà che ostacolano i piani prestabiliti, valutarne le conseguenze ed il significato per i singoli e per il gruppo).
Ancora un esempio:
l'esperto di attività espressive potrà trovarsi, nel corso di svolgimento del proprio gruppo di arte o musico-terapia di fronte alla possibile crisi psicotica di un paziente, o al dissidio fra i componenti del gruppo, o al rifiuto di svolgere ogni attività o a cento altre evenienze ed è evidente che in simili circostanze dovrà essere capace di mettere fra parentesi la competenza specifica che caratterizza il suo ruolo e ricorrere ad una competenza di base che gli consenta di affrontare la situazione con tutte le operazioni che comporta.
Naturalmente queste qualità non si apprendono e non si sviluppano se non "in presa diretta", osservando dapprima chi già opera in Comunità e successivamente cimentandosi in prima persona con la guida ed il sostegno dell'equipe.
In sostanza dovrà risultare sempre più chiaro che questo stile di lavoro è ben diverso da quello di un ospedale o di uno studio professionale e che anche l'apprendimento di conoscenze teoriche si sviluppa in maniera molto differente dal tradizionale modello di apprendimento scolastico.
Credo che in questa seconda fase il tirocinio pratico debba offrire al candidato la possibilità di una sempre più intensa immersione nelle attività, nelle relazioni coi pazienti, ed un crescente coinvolgimento negli aspetti organizzativi e nelle riunioni dello staff.
Per il tirocinante si tratterà di passare da una posizione di osservazione ad un graduale coinvolgimento nei diversi momenti della vita comunitaria con la possibilità di cimentarsi progressivamente ad esprimersi in un ambito relazionale di gruppo e nell'acquisire l'abitudine a cogliere le proprie emozioni e a trasmetterle nelle riunioni di staff: è indispensabile che non venga lasciato a sé stesso ma possa contare sul sostegno e la disponibilità dei colleghi più anziani nell'analisi non solo dei suoi dubbi e delle sue difficoltà, ma anche di ciò che gli appare facile e scontato.
Man mano che crescerà nella esperienza diretta di Comunità , una questione cruciale per la sua formazione sarà la sottile, difficile, ma indispensabile distinzione fra coinvolgimento personale nella relazione col paziente e ruolo terapeutico, tanto più quando si ha a che fare con soggetti psicotici ed il gioco di proiezioni, scissioni e identificazioni proiettive di cui sono maestri.
In un contesto relazionale così stretto è molto facile che si instaurino rapporti di collusione, così come fra residenti, anche fra operatori e fra gli uni e gli altri con un progressivo svuotamento di significato del ruolo terapeutico. Per contro, è anche possibile che si verifichino rapporti conflittuali, con reazioni di rifiuto dei pazienti e l'irrigidimento dietro ruoli terapeutici formali.
Chi fra quanti lavorano in Comunità può dire di non essere caduto, almeno una volta, in questa trappola ?
Altro aspetto importante del tirocinio è l'apprendimento di quella funzione di Io ausiliario del paziente di cui prima parlavo, che comporta la capacità di porsi al suo fianco nei momenti di difficoltà e di assumere la funzione di "uno specchio" che consenta lo sviluppo di insight : questione abbastanza delicata perché si tratta di evitare il mantenimento di una dipendenza patologica, ma anche di non pretendere l'esercizio di una piena autonomia da parte di chi potrebbe essere incapace di esprimerla in un dato momento.
Particolarmente con soggetti che presentano gravi patologie ed una marcata regressione, è importante che gli operatori sappiano svolgere quelle funzioni che Racamier chiamava sostituzione e integrazione dell'Io (P.C. Racamier, "Le psychanalyste sans divan", Payot-Paris - 1972). Sono anche del parere che con pazienti gravi (leggi schizofrenici), una buona conoscenza teorica di psicopatologia e di psicodinamica degli stati psicotici sia di notevole utilità .
Quanto più ci si addentrerà in questa fase, tanto più sarà necessario il supporto emotivo e di pensiero da parte di tutto lo staff. Qui, in un certo senso, viene messa alla prova la capacità dell'equipe di svolgere quella funzione facilitante la crescita cui prima accennavo.
Si tratta infatti di stabilire un clima in cui l'aspirante operatore avverta la possibilità di esprimere con spontaneità il proprio pensiero e le proprie emozioni, che sappia far emergere anche le sue eventuali resistenze o ambivalenze con modalità non giudicanti e in cui lo staff svolga a sua volta la parte di Io ausiliario e di specchio nei suoi confronti.
Lo stesso linguaggio in uso nelle riunioni di staff acquista una particolare importanza a questo riguardo poiché è ben diverso accedere ad un luogo ove tutti si esprimono in maniera ermetica ed esoterica e trovarsi invece in un contesto ove ci si esprime con spontaneità e naturalezza, sia nelle parole che nei gesti.
Questi potranno sembrare rilievi banali, ma personalmente sono sempre indotto a una certa diffidenza quando mi trovo in Comunità in cui lo stile espressivo (gestuale, scritto e verbale) assume caratteristiche gergali estremamente sofisticate: a volte mi chiedo, cercando di mettermi nei panni di un tirocinante (o di un paziente), se più che un tutor non possa tornar utile un traduttore !
In queste circostanze vengono in mente gli studi di Tom Main sui grandi gruppi e sull'intensità del senso di annullamento e anonimità che attanaglia i suoi componenti. E' come se ciascuno ritenesse che si possano esprimere solo interventi da premio Nobel (Tom Main, "The ailment and other psychoanalytic essays", Free Association Boocks - Great Britain, 1989). L'esprimersi invece con un linguaggio comune e quotidiano, può liberare da questa fantasia e consentire sicurezza nel proprio modo di pensare e parlare (D. Kennard, vedi nota 2).
Per certi versi questa modalità di formazione richiama vagamente gli aspetti di una psicoterapia e del resto in tutto il setting comunitario si può cogliere anche un significato psicoterapico, con regole e caratteristiche sue proprie. Parlando tuttavia del contenimento e del supporto emotivo e di pensiero che lo staff può fornire , io preferisco usare l'espressione "funzione ecologica del gruppo", diretta a stabilire un ambiente propizio, sufficientemente vivibile (A. Correale, "L'equipe come supporto emotivo e di pensiero per gli operatori psichiatrici", relazione presentata al convegno: "Strumenti psicoanalitici in psichiatria", Bologna, 1996 ), soprattutto per i più inesperti e per coloro che sono ancora in formazione.
Una condizione del genere è estremamente importante perché contribuisce a consolidare nel tirocinante la sensazione di entrare in un terreno di cultura comune a tutto il gruppo dei curanti, ove poter contare su rapporti di vicinanza e sostegno quando sono presenti sensazioni di bisogno, che diventano preziosi quando compaiano gravi minacce al senso di sicurezza e valutazione di se stesso (A. Correale, idem).
Oltre a ciò lo staff svolge una parte importante nel permettere agli operatori di utilizzare al massimo grado le proprie possibilità cognitive, relative all'esperienza clinica e di gruppo. Già la funzione di contenimento emotivo svolto dal gruppo può avere di per sé il significato di un supporto cognitivo sollevando il singolo operatore dalle angosce che possono nascere, riducendo il senso di solitudine e fungendo come rinforzo dell'identità. Se inoltre si considera che in Comunità la scena della terapia si identifica con la totalità dell'istituzione, si intuisce facilmente come l'occhio allargato dello staff rappresenti una sorta di lente grandangolare in grado di abbracciare un ambito di osservazione molto più ampio e di cogliere molti più dati (A. Correale, idem)
E' inoltre noto a chiunque abbia lavorato con pazienti psicotici come il mondo interno del paziente influenzi l'equipe attraverso proiezioni e attivazioni di vario tipo per cui diversi aspetti del gruppo degli operatori finiscono col coincidere con aspetti diversi e distinti del mondo interno del paziente. Diventa quindi fondamentale che la riunione di staff rappresenti il luogo fisico, psichico e affettivo ove questa rifrazione di parti sia ricondotta all'unità consentendo una funzione cognitiva essenziale nella comprensione del paziente. (A. Correale, idem)
Risulterà chiaro, da quanto detto fin qui come io pensi che in questa fase del tirocinio la funzione di tutor e di "supervisore" sarà svolta in toto dall'intero staff di Comunità che attraverso le varie riunioni e momenti d'incontro può fornire la possibilità di un continuo feed-back al tirocinante che dovrà passare attraverso una full immersion quotidiana nei vari aspetti della vita di Comunità, affiancando i diversi componenti dello staff in tutte le attività in una posizione di Osservatore Partecipe, con un coinvolgimento sempre maggiore fino a poter svolgere con gradualità piccoli incarichi e mansioni. In particolare, è importante che sviluppi quell'ottica gruppale che gli sarà indispensabile per una partecipazione consapevole alle frequenti riunioni di piccoli e grandi gruppi. Soltanto l'impatto diretto infatti consente di sperimentare le proprie emozioni nell'interazione con gli altri, di trovare il proprio modo di esprimersi e addestrarsi a cogliere il filo che sempre lega gli avvenimenti in un gruppo. Le riunioni di staff consentiranno poi l'elaborazione di queste esperienze. A questo riguardo, come dicevo all'inizio, molti ritengono indispensabile un'esperienza personale di terapia. Io penso che per raggiungere una soddisfacente attitudine a muoversi in gruppo possano essere allestiti nell'ambito del corso di formazione teorica appositi workshops con frequenza periodica che comprendano un certo numero di sedute con un conduttore esterno, abbinate a sessioni di riflessione, discussione e lettura di testi fondamentali (Bion, Foulkes, etc.). In altre parole, ritengo che questo particolare aspetto della formazione debba mantenersi al confine tra gruppo di terapia e gruppo di studio con finalità formative legate all'esperienza pratica ed alle conoscenze che gli operatori vanno sviluppando. E' possibile che a seguito di ciò alcuni maturino una domanda di analisi individuale o di gruppo: ciò che mi sembra importante è che essa si sviluppi liberamente e spontaneamente.
In questa seconda fase del training, la formazione teorica dovrà occuparsi anche di approfondire le conoscenze di base già acquisite precedentemente, mantenendo caratteristiche gruppali di apprendimento e sviluppando anche la conoscenza su temi e circostanze sollecitate dalle esperienze pratiche dei tirocinanti.
Un'attitudine spesso trascurata è quella di usare la parola scritta. In molte Comunità si parla, anche troppo, ma si scrive quasi niente, non so se per insufficienza del bagaglio teorico o per una forma di narcisismo. Credo che invece la consuetudine di dare anche espressione scritta alle proprie osservazioni e riflessioni possa essere un utile complemento all'attività di pensiero. La richiesta di presentare relazioni o sintesi scritte di particolari aspetti dell'esperienza in corso di sviluppo, di trasmettere in questa forma ai colleghi comunicazioni chiare ed esaurienti, oltre ad avviare un'utile consuetudine può anche fornire spunto di discussione e confronto all'interno dei gruppi di studio.
L'obiettivo comune dei due aspetti della formazione (teorico e pratico) dovrebbe tendere a ridurre la distanza fra pensiero e azione, considerandoli in un rapporto circolare anzichè lineare, che favorisca un continuo scambio dialettico, una reciproca interazione e una possibile alleanza (A. Orsenigo, vedi nota 2).
In sintesi gli obiettivi di questa seconda fase del training (di durata variabile da otto a dodici mesi) si possono così riassumere:
1) full immersion del tirocinante nella vita di Comunità in veste di osservatore partecipe, affiancando i componenti dello staff; delega progressiva di piccole mansioni;
2) supervisione costante da parte di tutto lo staff;
3) approfondimento delle conoscenze teoriche di base, sviluppo di nuove conoscenze stimolate dall'esperienza, elaborazione e scambio di informazioni fra i componenti il gruppo di studio; workshops esperienziali e di studio su piccoli e grandi gruppi.
Le Competenze Specifiche
Una volta raggiunta una sufficiente familiarità con l'habitat comunitario e una certa autonomia di movimento, si potrà prendere in considerazione lo sviluppo di quelle competenze specifiche che contribuiscono a delineare i ruoli degli operatori nelle diverse strutture, ove opera un'ampia varietà di figure in base alla precedente formazione scolastica o all'esperienza sviluppata durante la permanenza in questa o quella Comunità. Se ne potrebbe fare un lungo elenco, ma per motivi di spazio credo risulti più utile tratteggiare le Aree di Attività di più frequente riscontro.
Senza la pretesa di elencarle tutte, mi limito alle principali:
- Area della psicoterapia: (di gruppo o individuale, svolte all'interno o all'esterno della struttura) si tratta di un'attività ben distinta da quel particolare setting psicoterapico che ogni Comunità dovrebbe costituire nel suo insieme. Sull'opportunità dell'esistenza o meno di uno specifico setting psicoterapico interno o esterno all'istituzione le opinioni non sono concordi. E' chiaro comunque che chi svolge questa attività in veste di psicoterapeuta dovrà essere in possesso degli adeguati requisiti ed aver svolto un regolare training riconosciuto da Società accreditate. Questo aspetto esula dagli scopi della mia relazione 3;
- Area delle attività espressive corporee: attività motorie di vario tipo, ginnastica di diversa ispirazione, danza, etc;
- Area delle attività espressive artistiche: musica, disegno, pittura, scultura, manipolazione, etc;
- Area delle attività espressive verbali e non verbali: teatro, mimo, psicodramma (che alcune Comunità includono nell'area delle psicoterapie);
- Area delle attività ludiche;
- Area delle attività artigianali: le più svariate;
- Area della riabilitazione e del reinserimento sociale
La delimitazione in un'area a se stante di attività riabilitative è questione complessa e dibattuta come in generale è controversa la distinzione netta fra terapia e riabilitazione. Giustamente alcuni osservano che spesso i pazienti, specialmente se psicotici, necessitano di acquisire abilità più che di recuperare quelle che non hanno mai avuto. Il discorso andrebbe approfondito. Vorrei però far notare che una distinzione troppo rigida può risultare arbitraria e più funzionale agli operatori che ai pazienti. Molte delle attività sopra elencate hanno infatti un duplice significato, terapeutico e riabilitativo, cosicchè ciò che appare specifico per una finalità assume significato anche per l'altra e viceversa.
Si tratta di delimitazioni forse un po' arbitrarie: tutte queste attività comunque si differenziano da quella vasta mole di lavoro che caratterizza la Competenza di Base di cui ho parlato finora, che invece si potrebbe collocare in un'"Area di attività funzionali al particolare stile di vita della Comunità e dei suoi abitanti" che tra l'altro comprende tutte le attività gestionali domestiche, ma non solo. Tenendo conto della diversa estrazione scolastica e culturale degli aspiranti operatori, il training dovrà porsi, a questo riguardo, tre obbiettivi su precise indicazioni delle Strutture ove essi svolgono il loro tirocinio:
- una conoscenza generica ed elementare delle principali attività e del loro significato terapeutico-riabilitativo;
- lo sviluppo e l'affinamento nelle specifiche attività verso cui questo o quell'operatore si mostri particolarmente dotato;
- la verifica delle effettive capacità di coloro che già fossero in possesso di formazione specifica (artistica, artigianale, etc).
In pratica: in ogni gruppo di lavoro e di studio vi sarà chi proviene da scuole professionali, artistiche, artigianali e chi no. Si tratta di fornire a chi ne è sprovvisto una conoscenza elementare delle varie attività in modo che ciascuno abbia cognizione del loro significato in relazione ai pazienti ed al contesto comunitario e si possano formare un'idea di ciò che in futuro loro stessi potrebbero svolgere. Al tempo stesso, si tratta di avviare il processo formativo vero e proprio sulle singole competenze per coloro che risultino effettivamente tagliati e motivati verso questa o quell'attività. Per chi invece fosse già in possesso di tali competenze si tratta di verificarne l'effettiva preparazione e capacità da parte dei conduttori dei gruppi, del candidato stesso e dello staff.
La formazione comunque procederà ancora integrando aspetti teorici e pratici ; i gruppi di studio potrebbero fra l'altro essere utilizzati vicendevolmente dai loro componenti come campo d'esercitazione (ad esempio: chi si prepara a svolgere attività espressive, potrebbe utilizzare il suo gruppo di studio in una sorta di esercitazione al futuro ruolo).
Non mi pare inutile insistere sulla necessità di integrazione fra la Comunità, intesa come campo esperienziale, e le scuole di formazione intese come generatrici di conoscenze teoriche e di concettualizzazioni. Per integrazione non intendo giustapposizione o sovrapposizione, ma una reciproca influenza dell'una sull'altra.
L'ultima fase del percorso formativo dovrebbe consentire il raggiungimento di una soddisfacente autonomia dell'operatore ed il suo investimento anche negli aspetti gestionali della vita quotidiana . Ciò comporta una chiara consapevolezza degli obbiettivi per cui la Comunità esiste: mi riferisco ai servizi ed alle prestazioni che essa è tenuta ad erogare ai suoi clienti interni (i pazienti) ed esterni (i familiari, gli enti committenti, etc).
Se infatti l'analisi, l'elaborazione delle dinamiche interpersonali, dei desideri, delle ansie, dei vissuti e dei conflitti degli operatori rappresentano una delle caratteristiche più qualificanti del lavoro dello staff, non andrebbe mai dimenticato che esse sono connesse e subordinate a garantire prestazioni utili per i clienti. Diversamente la Comunità può tendere a trasformarsi inconsapevolmente in luogo di cura e assistenza per gli operatori e fonte inesauribile di lavoro per consulenti e supervisori (A. Orsenigo, vedi nota 2). Per esperienza diretta sono portato a pensare che quando in Comunità il lavoro si trasforma in sofferenza e nell'estenuante fatica di star vicino ai pazienti, oppure quando succede che chi vi lavora continui a svolgere la sua attività senza aver chiaro quali finalità essa abbia per gli utenti, sia giunto il momento di far suonare un campanello d'allarme.
In un celebre articolo di Monica Meinarth e Jeff Roberts ("On being a good enough Staff Member", I.J.T.C, 1982, vol.3, no1) venivano presi in considerazione particolari strategie basate sull'ipotesi di una collusione tra il concentrare troppe energie sui pazienti e il trascurare le proprie esigenze di terapeuti. Io credo che occorra anche la capacità complessiva, da parte della Comunità di ripensare sé stessa, di rivedere la propria organizzazione in rapporto alle finalità quando l'incidenza del burn out diventa elevata.
La conclusione di questa fase del training (dopo un periodo di 8/12 mesi) dovrebbe puntare al raggiungimento di alcuni obbiettivi minimi:
1) l'acquisizione di un bagaglio essenziale di conoscenze riguardo le competenze specifiche verso le quali il tirocinante esprimerà maggior attitudine;
2) la possibilità di addestramento in concreto su tali competenze;
3) il raggiungimento di un sufficiente livello complessivo di autonomia e di integrazione col gruppo di pazienti e con lo staff.
Un problema particolare si può porre per chi, già operando in Comunità o in altri settori psichiatrici o avendo comunque un suo bagaglio di esperienza, desiderasse o si trovasse nelle condizioni di dover dare una veste ufficiale alla propria preparazione. Credo che questi casi potrebbero essere valutati, volta per volta, dall'equipe di una struttura comunitaria ricorrendo, quando occorra, al periodo di osservazione orientativo, per decidere poi a quale livello del percorso (prima, seconda o terza fase) inserire il candidato, delineando eventualmente un piano di studi ad hoc, che tenga conto delle conoscenze di base, delle attitudini e delle competenze già in possesso da parte dell'interessato.
E' molto probabile che nel corso del training possano verificarsi modificazioni d'orientamento, lacune più o meno vistose o deficit motivazionali. Ad ognuna di queste eventualità il complesso Scuola-Comunità dovrà saper fornire risposte adeguate di sostegno, di ulteriore approfondimento, di elaborazione delle difficoltà e, ove occorra dovrà riproporre una riflessione sulla motivazione e sulle propensioni personali di chi, alla luce dell'esperienza, si rivelasse più idoneo ad una scelta e ad un percorso diverso da quello intrapreso.
Mi rendo conto che tutto quanto ho detto è facile da scrivere e da leggere più che da fare. In effetti io non so quanto sia possibile racchiudere in schemi più o meno precisi i concetti ispiratori di un training per operatori di Comunità data la fluidità della materia, l'eterogeneità degli orientamenti e la molteplicità degli obbiettivi.
Ciò che mi ha indotto, non da oggi, a riflettere su questi problemi deriva in gran parte dall'esperienza che mi ha insegnato come la superficialità, l'eclettismo, il velleitarismo, l'eccesso di razionalità o la totale mancanza di background culturale siano d'ostacolo ad una pratica come quella di Comunità. Se può esservi, nel mio modo di pensare al training, un certo rigorismo è perché ho appreso a non perdere di vista , in Comunità come altrove, le esigenze, i deficit e gli interessi dei pazienti.
Bibliografia
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A. Correale: "Il campo e i suoi organizzatori iniziali nella terapia con pazienti gravi". Relazione presentata al Centro di Psicoanalisi Romano. (12-2-1994).
A. Correale: "L'equipe come supporto emotivo e di pensiero per gli operatori psichiatrici". Relazione presentata al Convegno "Strumenti psicoanalitici in Psichiatria" - Bologna, 1996.
A. Ferruta: "La Comunità Terapeutica fra Mito e Realtà " Raffaello Cortina Editore - Milano - Prossima pubblicazione
S. Freud: "Analisi terminabile e interminabile" - Opere - vol.11, Boringhieri - Torino.
C. Kaneclin, A. Orsenigo: "Il lavoro di Comunità", Nuova Italia Scientifica - Roma, 1992
e inoltre:
da "Therapeutic Communties" (The International Journal for Therapeutic and supportive organization):
vol. 3 , no1:
M. Meinrath, J. Roberts , "On being a good enough staff member".
vol. 15 , no1:
C. Khaleelee , "The defence mechanism Test to aid for Selection and Development of staff".
vol. 16 , no1:
R. Websby, D. Menzies, B. Dolan, K. Norton "A survey of psychological types in a Therapeutic Community"
Note:
1 - Con questa espressione mi riferisco a tutte le professioni volte a migliorare le condizioni di vita di chi soffre di qualche svantaggio, quindi non solamente a quelle medico-sanitarie.
2 - Si tratta de "La Comunità Terapeutica tra Mito e Realtà" a cura di A. Ferruta, G. Foresti, E. Pedriali, M. Vigorelli, (Raffaello Cortina Editore - Milano), tratto dall'omonimo Convegno svoltosi a Milano nel 1996 con la partecipazione di numerosi autori italiani e stranieri.
3 - Così pure non mi dilungo nel delineare un'Area della Farmacoterapia che pure trova impiego in alcune Comunità. E' evidente che la competenza specifica in questo caso spetta al medico o allo psichiatra. Tutt'altro discorso è il significato dell'uso degli psicofarmaci in Comunità, ma il tempo e lo spazio non me lo consentono.
PM
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