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PSYCHOMEDIA
Salute Mentale e Comunicazione

Dibattiti svoltisi sulla Lista PM-PT Psicoterapia


Dibattito su "Farmaci e psicoterapia"
avvenuto nella lista "Psicoterapia"
di PSYCHOMEDIA (PM-PT)
nel marzo-aprile 1999
 
Editing a cura di Paolo Migone, co-owner della lista PM-PT

Vai all'Addendum del Dibattito, avvenuto nell'aprile-maggio 2000


25 Marzo 1999, Piero Porcelli:
Il 24/03/1999 Gennaro Esposito ha scritto:
>Questa e-mail propone problematiche che potrei definire opposte a quella
>sollevata a proposito di "psicologi e farmacoterapia". Attendo commenti.
>Il mio è: se lo psichiatra fa "un'analisi" che bisogno c'è di
>prescrivere anche un farmaco?
 
Le mie 100 lire di commento:
Non penso che farmaci e psicoanalisi siano antitetici: il farmaco viene prescritto e assunto dal 
paziente all'interno di una relazione terapeutica, e quindi ha forti connotazioni transferali. 
Analizzare la relazione, e tutti i suoi contenuti, è ciò che gli analisti fanno di mestiere. 
Quindi ritengo che il problema non sia "che" il paziente prenda i farmaci ma "come" viene 
gestita la terapia farmacologica all'interno della relazione terapeutica
 
Riguardo alla affermazione:  
>A meno che non sia cognitivista... mah?!:
 
Se la situazione è clinicamente definita, che differenza fa se il terapeuta è analista o cognitivista? 
Voglio dire, se il paziente ha, mettiamo, un disturbo depressivo maggiore per cui si pone 
indicazione clinica al trattamento antidepressivo, quale può essere la differenza fra una formazione 
cognitivista ed una analitica da parte dello psicoterapeuta?
 
25 Marzo 1999, Gennaro Esposito:
Premetto che non sono analista, ma gli analisti che ho conosciuto hanno
sempre affermato che dare i farmaci equivaleva a rompere il setting, o
qualcosa del genere...
Personalmente sono d'accordo con te, tutto dipende dalla relazione e non
dall'orientamento... giusto!
In conclusione: l'"analista-medico" deve richiedere una consulenza
psichiatrica tout court solo perché è analista, o non è ammissibile
porre delle regole a proposito, cioè tutto dipende dalla relazione
terapeutica nella quale si va ad inserire una proposta/richiesta di
terapia farmacologica?
da buon cognitivista non ho problemi a riguardo: associo le due strategie.
E gli analisti? Che farebbero o fanno?
Grazie Piero. Passo...
 
26 Marzo 1999, Paolo Roccato:
Essendo fra i chiamati in causa, cerco di rispondere.
Non è affatto detto che l'uso di psicofarmaci sia antitetico al trattamento
psicoterapico o psicoanalitico, a meno che non si abbiano concezioni
feticistiche della psicoterapia o degli psicofarmaci.
Che sia lo stesso operatore, invece, che faccia lo psicoterapeuta e
contemporaneamente il prescrittore di psicofarmaci con lo stesso paziente è
cosa, io credo, da evitare, se ciò è possibile, altrimenti c'è il rischio
che nelle sedute di psicoterapia si parli di milligrammi anziché di esperienze.
O che si riduca l'interesse per le esperienze al solo decidere i milligrammi.
Per questo motivo è utile, se possibile, che lo psicoterapeuta, o lo
psicoanalista, invii ad un collega per l'eventuale cura farmacologica, e che
lo psichiatra che sta prescrivendo farmaci invii ad un collega per
l'eventuale psicoterapia. Si tratta di livelli differenti che possono
collassare se si passa dall'uno all'altro, confondendoli. E la tendenza
umana a proteggersi dall'angoscia può spingere il terapeuta a passare
dall'un livello all'altro senza accorgersene, favorendo l'uso di difese
della serie dell'evitamento, che comprometterebbero il lavoro psicoterapico.
Io, pertanto, invio ad altri per la terapia farmacologica i miei pazienti in
analisi o in psicoterapia. So che l'inconscio c'è anche in me, e che
spesso, anche in me, può far di tutto pur di non entrare in risonanza col
dolore e con l'angoscia, senza che me ne accorga, se non, magari, dopo.
Cordiali saluti.
 
26 Marzo 1999, Emilio Vercillo:
Vorrei chiedere a Roccato se fa rientrare nell'evitamento il passare dal
piano dell'interpretazione a quello dei "milligrammi" (che potrebbe essere
però anche quello dei sintomi e della psicopatologia), o considera anche
il passaggio inverso un evitamento, dato che la sua frase sembrerebbe
intendere questo.
Per il resto: preferisco anch'io dividere le funzioni, inviare a un collega
psicofarmacologo (possibilmente non psicoanalista, data la difficile
compresenza delle due competenze), un paziente nei cui confronti io mi
assuma il ruolo del psicoterapeuta. Lo faccio perché non mi ritengo sicuro
personalmente di riuscire a gestire con intelligenza e abilità i due
momenti, quello analitico e quello farmacologico: si tratta in fondo di due
modi di far funzionare la propria mente, assolutamente non antitetici,
ritengo, ma comunque differenti.
Non penso ci sia una controindicazione assoluta nell'assommare le due
funzioni nella stessa persona, e conosco persone, con maggiore esperienza
e abilità delle mie, farlo con profitto dei pazienti. Si tratta di
psichiatri psicoanalisti che non soffrono dei peccati originari della
anelasticità e dell'integralismo. Cari saluti
 
27 Marzo 1999, Paolo Migone:
Il 25/03/99 Gennaro Esposito ha scritto:
>premetto che non sono analista, ma gli analisti che ho conosciuto hanno
>sempre affermato che dare i farmaci equivaleva a rompere il setting, o qualcosa del genere...
>Personalmente sono d'accordo con te [Piero Porcelli], tutto dipende
>dalla relazione e non dall'orientamento... giusto!
 
A mio parere la questione dei farmaci + psicoterapia è interessante solo
perché rivela la cultura, la teoria psicoterapeutica, a monte di chi solleva
il problema (per una trattazione più dettagliata 
di questo argomento, vedi il lavoro, che è anche su Internet,  
"L'associazione tra psicoterapia e farmaci: perché discuterne ancora?"). 
Chi si chiede se e come è possibile combinare farmaci e
psicoterapia già tradisce il fatto che, sempre a mio parere, utilizza una
teoria che io definirei "antipsicoanalitica". Il farmaco è un input
nell'organismo che, come ogni altro input, ha ogni tipo di effetti, sia
"biologici" che "psicologici" (placebo, non placebo, ecc.). Dovremmo forse
rifiutare di prendere in analisi un paziente che ha il brutto vizio di
prendere un caffè al mattino? Il caffè è un farmaco con effetti specifici.
Dovremmo interpretare quella stimolazione psichica da lui ricevuta dal caffè
come dovuta al transfert? Solo al transfert? In parte al transfert e in
parte al farmaco-caffè? Solo al caffè? Ma non sono questi i problemi
quotidiani dello psicoanalista? E che dire della donna in tensione
premestruale e quindi depressa e tesa? E' influenzata (solo) dal transfert?
Essendo affetta da una condizione "organica", dovremmo allora interrompere
subito l'analisi e inviarla ad un medico? E così via.
Subito si obietterà che certi input li fornisce l'analista e che quindi
sono diversi da quelli forniti da altri (vedi la questione della "divisione
del lavoro" tra analista e farmacologo: inviare il proprio paziente a uno
psicofarmacologo per fare un lavoro "pulito"). Anche questo ragionamento a
mio parere rivela la concezione "antipsicoanalitica" sottostante, che è
sempre la stessa: non usare l'interpretazione, ritenere che l'intepretazione
sia già data, già implicita nei dati da interpretare, sia cioè iscritta nel
dato comportamentale, come appunto nella psicologia "comportamentistica".
E' una psicologia di tutto rispetto, ma non è psiconanalitica, rientra in una
sorta di "teoria delle etichette". Perché mai l'effetto di un farmaco dato
da un altro sarebbe, o non sarebbe, interpretabile (avrebbe un
significato dato a priori?), o sarebbe necessariamente diverso dall'effetto
dello stesso farmaco dato da me, senza contare che sono stato io a
consigliare al paziente di rivolgersi a quello psicofarmacologo? Sicuramente
sarà diverso, perché l'effetto placebo può essere diverso, a seconda di come
viene somministrato (ma anche a seconda di chi invia al somministratore, del
modo con cui avviene l'invio, e delle giustificazioni date per l'invio,
ecc.). Perché uno o più di questi aspetti deve essere eliminato dal campo
interpretativo? Perché non potrebbe essere arricchente anche analizzare gli
effetti (placebo e non placebo, transferali e non, ecc.) di un farmaco dato
da me? (così pure come analizzare la reazione ai farmaci dati da altri). E così via.
Inviare il proprio paziente a uno psicofarmacologo per i farmaci secondo me
sarebbe giustificato solo dal fatto che il terapeuta non può dare farmaci o
si ritiene non abbastanza aggiornato. Vi è chi argomenta che fare tutte e
due le cose insieme è "più difficile": questo a prima vista sembrerebbe un
ragionamento convincente, ma rivela solo la illusione che la "analisi
normale" sia "facile", "pulita", tratta dati "psicologici puri" (vedi
l'antico mito della "analisi classica", dove si rispetterebbe il setting).
Anche dietro a questa posizione vi è una concezione antipsicoanalitica: il
dato psicologico (o somatico) non viene così scoperto o interpretato, ma è
conosciuto a priori, tramite un pregiudizio, e l'analisi è solo una
razionalizzazione delle idee preconcette dell'analista o della sua malcelata
cultura behavioristica di appartenenza (o forse anche di una cultura
filosofica basata sul dualismo corpo-mente). (perdonate le mie
estremizzazioni, lo faccio per trasmettere meglio l'idea di quello che voglio dire).
Per riassumere: non si capisce come mai il farmaco in quanto tale dovrebbe
appartenere ad una categoria logica diversa da quella di qualunque altro
intervento o evento sia dentro che fuori al setting (stringere la mano al
paziente, tossire, ridere, essere depressi o felici, NON DARE UN FARMACO invece 
di darlo, avere una poltrona comoda o scomoda, avere il mal di testa  per il fumo del sigaro 
dell'analista, o invece amare quel fumo, ecc.). Il fatto che una certa tradizione psicoanalitica 
abbia teorizzato nel modo sopra citato da Esposito non sorprende affatto, esistono molte 
"tradizioni psicoanalitiche", alcune opposte alle altre, ed è sempre meglio non seguire
pedissequamente quello che dicono altri (magari ricorrendo all'uso della
citazione), ma usare la propria testa, la propria logica, motivando fino in
fondo i ragionamenti che stanno dietro alla teoria della tecnica.
 
27 Marzo 1999, Giobatta Guasto:
Caro Paolo, dalle righe che ho riportato, chi non sia abituato a leggerti, potrebbe essere indotto 
a pensare che tu usi un tono di supponenza nei confronti di teorie psicoanalitiche che consideri sbagliate 
o "antipsicoanalitiche", (concetto questo, che mi fa sentire vicino al tuo modo di pensare, anche se
é indubbiamente molto difficile distinguere ciò che é psicoanalitico da ciò che non lo é, 
in salutare lontananza da qualsiasi Chiesa che pretenda di amministrare il Verbo),
Il fatto che "una certa tradizione psicoanalitica" sostenga cose
contestabili, rivedibili, o rifiutabili in toto, non può e non deve
sorprendere, perché é del tutto normale. Ciò che non ci piace può
(anzi deve) essere rifiutato, ma non é detto che non sia fondato su ragioni
più che rispettabili (quasi sempre storicamente determinate).
Tu hai posto il problema della (presunta?) incompatibilità tra psicoanalisi
e cura farmacologica. Essa non é fondata soltanto, a mio avviso, sugli
aspetti di inanalizzabilità ai quali ti riferisci (e con i quali concordo:
riteniamo non analizzabile tutto ciò che non comprendiamo, e fino a che non
l'abbiamo compreso, a cominciare dal Freud che non riteneva analizzabili
gli psicotici e i bambini).
Mi pare che dalla tue osservazioni manchi l'aspetto dell'agito e del
contro-agito, che in caso di contemporanea somministrazione farmacologica
diventa particolarmente difficile da gestire.
Di solito noi terapeuti affidiamo ai farmaci parti dei contenuti mentali
che non raggiungono al nostro interno un sufficiente grado di
rappresentazione: il ricorso a questi degnissimi strumenti terapeutici é
spesso lo specchio del nostro grado di comprensione di quanto sta
avvenendo all'interno del paziente.
D'altra parte, anche i pazienti ci sollecitano a questa scelta: tutti noi
abbiamo esperienza di persone che ci chiedono prescrizioni o ricorrono a
farmaci, per tentare inutilmente di evitare l'angoscia della tensione
relazionale, per mettersi dentro qualcosa che non parli, per addormentare
la loro voce interiore, per tenerci in tasca, per portarci via per il fine
settimana, per tenerci sul comodino e richiamarci a loro piacimento, ecc.
So di dire cose banali e scontate, ma il livello della discussione sulla
rete varia molto, e ogni tanto é utile per tutti tornare ai concetti di base.
Uno di questi riguarda certamente l'accumularsi della tensione nel
terapeuta, e la conseguente prescrizione del farmaco per fuggire da una
situazione di grave imbarazzo, connotata dal non sapere che cosa dire o
fare. Non avere il farmaco a disposizione impedisce al terapeuta questa via
di fuga: non é meglio così? Saluti
 
27 Marzo 1999, Paolo Migone:
Vedo che tu innanzitutto poni la questione non in termini netti (si può fare
- non si può fare), ma nella categoria del "difficile-facile". Nella mia
mail io contestavo anche questo, nel senso che così si rischia di dare per
scontato che il "difficile-facile" riguardi solo gli agiti delle
prescrizioni farmacologiche e non i mille altri agiti, che invece sarebbero
ingenuamente ritenuti "facili" da analizzare. Io ritengo che non vi sia
alcuna differenza tra agiti, tutti sono difficili o facili, a seconda di
vari fattori ([contro]transferali, ecc.). Ad esempio, prendiamo, tra i
tanti, due tipi di agiti: 1) quella che possiamo chiamare "razionalizzazione
psicofarmacologica", cioè il parlare di farmaci per evitare altre cose (come
tu giustamente sottolinei); 2) quella che possiamo chiamare
"razionalizzazione psicoanalitica", cioè una serie di elucubrazioni
metapsicologiche (edipi vari ecc.) campate per aria, totalmente frutto della
mente dell'analista per calmare la sua ansia e per far deviare
difensivamente il paziente su altri temi. Sono questi agiti quelli di gran
lunga più frequenti, soprattutto perché molti pensano (difensivamente) che
gli agiti sono altri, quelli farmacologici. Se non fosse così, non si
porrebbe mai il problema della combinazione farmaci+psicoterapia, ma si
parlerebbe solo della questione degli agiti in quanto tale, come concetto.
Non a caso molti continuano a parlare (secondo me in modo imbarazzante
perché senza accorgersene tradiscono il loro retroterra teorico) dei
problemi posti dalla combinazione farmaci+psicoterapia, tema che in quanto
tale è privo di senso.
Riguardo poi alla questione, che tu poni, secondo cui i farmaci impedirebbero
al terapeuta una via di fuga, per cui sarebbe meglio non averli a disposizione,
ritengo che se deve esserci una via di fuga essa ci sarà sempre,
l'analista per primo la utilizzerà, perché ha mille opportunità per farlo,
nei modi a cui ho accennato prima e in tanti altri modi. Il punto
fondamentale che volevo sottolineare è che è un ragionamento
"antipsicoanalitico" attribuire a priori una determinata valenza (es.
difensiva) a una via di fuga e non a un'altra. E' questo modo di trattare i
dati (interpretandoli prima di conoscerli, tramite uno stereotipo culturale)
quello che è squisitamente non psicoanalitico. Per farti capire meglio: se
quello che io dico non fosse vero, nessuno parlerebbe mai del problema
della combinazione farmaci+psicoterapia, perché non esisterebbe in quanto
tale (in altre parole, i farmaci in quanto tali possono essere o non essere un agito, 
così come qualunque altra cosa, per cui non si parlerebbe di quelli,
se non per fare un esempio - se lo è - di un qualunque agito).
(vorrei ricordare che il termine "antipsicoanalitico", anche se lo ritengo
logicamente corretto, viene da me qui usato volutamente in modo
provocatorio, per mostrare meglio la contraddizione interna di certi discorsi).
Grazie del tuo commento
 
27 Marzo 1999, Giobatta Guasto:
Hai ragione. Io, però, dal mio canto, ho imparato da alcuni maestri ad
eliminare tutto quanto può essere d'intralcio, e non ho ancora, se non in
misura molto limitata, trovato utile rinunciare a quelle opzioni. E' una
presa d'atto dei propri limiti. Altrimenti la psicoanalisi, come il
digestivo Antonetto "si potrebbe prendere anche in tram" (il che é
teoricamente possibile, ma molto, molto difficile).
 
Quando poi dici:
>Il punto fondamentale che volevo sottolineare è che è un ragionamento
>"antipsicoanalitico" attribuire a priori una determinata valenza (es.
>difensiva) a una via di fuga e non a un'altra. E' questo modo di trattare i
>dati (interpretandoli prima di conoscerli, tramite uno stereotipo culturale)
>quello che è squisitamente non psicoanalitico.
 
sono completamente d'accordo. Per farti capire meglio: se
>quello che io dico non fosse vero, nessuno parlerebbe mai del problema
>della combinazione farmaci+psicoterapia, perché non esisterebbe in quanto
>tale (in altre parole, i farmaci in quanto tali possono essere o non essere un agito,
 
é vero, ma una volta che hai iniziato a prescriverli, devi continuare
secondo il "loro" paradigma, e non secondo le necessità interpretative.
Riguardo al tuo commento:
>(vorrei ricordare che il termine "antipsicoanalitico", anche se lo ritengo
>logicamente corretto, viene da me qui usato volutamente in modo
>provocatorio, per mostrare meglio la contraddizione interna di certi discorsi).
 
é molto chiaro, ed é un concetto utile.
 
28 Marzo 1999, Gennaro Esposito:
Scusate, cari Colleghi, se riporto in questa interessante discussione su
"farmaci e psicanalisi" la replica dell'utente che mi ha contattato la
prima volta il 24 marzo, e che mi disse che "aveva iniziato un'analisi"
ma lo psichiatra "le aveva prescritto una terapia farmacologica già al
primo incontro", sollevando le sue perplessità su questa proposta e i
nostri dubbi/ipotesi sul termine "analisi", su "chi la conducesse",
sull'eticità (possiamo dire così?) di proporre il farmaco insieme
all'analisi. Ecco svelati i dubbi: la stessa utente mi ricontatta e racconta:
(messaggio tratto da "Psicoterapeuta on the web" -
sito di counseling on-line - 27 marzo 1999). Maria, 33 anni:
>"Le avevo scritto il 24/3 per fugare alcuni dubbi sulla terapia
>prescrittami dallo psichiatra. La ringrazio per la celerità con cui mi
>ha risposto e per i suoi chiarimenti. Ora sono più serena per quanto
>riguarda il mio approccio coi farmaci. Relativamente alla sua domanda se
>lo psichiatra mi ha proposto una psicanalisi o una psicoterapia, posso
>dirle (da profana) che mi ha consigliato di incontrare regolarmente uno
>psicologo che mi aiuti a tirar fuori tutto quello che ho tenuto dentro
>in questi anni (ho avuto una vita familiare molto difficile), perché
>lui purtroppo non è abilitato a farlo".
 
Davvero interessante, non credete?
Lo psichiatra invia la sua paziente dallo "psicologo" (sarà analista? psicoterapeuta?)
perché dice "...non è abilitato a farlo..." (so che gli psichiatri
sono stati tutti inseriti "d'ufficio" - anche se a domanda - negli albi
degli psicoterapeuti), quindi è uno psichiatra "biologico" (termine
provocatorio, come quello di Migone "antipsicanalitico"), che non se la
sente di accogliere ciò che "la paziente ha tenuto dentro tutti questi anni...".
Quindi lo sconcerto della paziente è stato causato:
a) dalla prescrizione ex-abrupto del farmaco al primo colloquio? (non si
fida del farmaco o dello psichiatra?) oppure...
b) dall'invio allo psicologo (psicoterapeuta?), vissuto dalla paziente come
"ti scarico a qualcun altro"?
Io chiederò all'utente come si è vissuto l'invio allo psicologo e cosa
le è passato per la mente in quel momento.
Questa domanda (e l'eventuale risposta di conferma dell'ipotesi
invio=rifiuto) potrebbero chiarire meglio il rapporto che esiste tra chi
chiede aiuto (paziente) e chi accoglie la domanda d'aiuto (psy-), a
prescindere (in questo caso) se chi accoglie la domanda d'aiuto utilizzi
o meno i farmaci associati al trattamento psicoterapico o sia o meno
psicoterapeuta "legittimato".
Ciò che conta, a parer mio, è accogliere in maniera globale la
richiesta d'aiuto, magari evitando di proporre già nel primo incontro
strategie terapeutiche combinate (come l'invio ad altro collega), senza
prima aver favorito l'empatia paziente-terapeuta e strutturato una relazione
"positiva" e "fruttuosa" per entrambi.
Che ne pensate? Passo...
 
28 Marzo 1999, Piero Porcelli:
Il 27/03/1999 Paolo Migone ha scritto:
>Per riassumere: non si capisce come mai il farmaco in quanto tale dovrebbe
>appartenere ad una categoria logica diversa da quella di qualunque altro
>intervento o evento sia dentro che fuori al setting (stringere la mano al
>paziente, tossire, ridere, essere depressi o felici, NON DARE UN FARMACO 
>invece di darlo, avere una poltrona comoda o scomoda, avere
>il mal di testa per il fumo del sigaro dell'analista, o invece amare quel fumo, ecc.).
 
Concordo con Paolo sul farmaco come elemento di realtà, ma non so se
possa essere considerato alla stregua di qualsiasi altro elemento o evento dentro o 
fuori dal setting. Come su tante altre cose in questo mestiere, non
ho idee chiarissime al riguardo e trovo molto istruttive le varie posizioni espresse.
Durante la mia formazione analitica "di base", mi è stato continuamente
ripetuto che bisogna separare chi dà i farmaci da chi fa l'analisi. Solo
che, a questo livello, per me il problema non si è mai posto in questi
termini perché sono uno psicologo e non do ovviamente farmaci. Ma il
problema non è solo a questo livello, mi pare. Ed io, anche in questo caso,
come già altre volte, non riesco a scindere il problema teorico da quello
prettamente clinico.
Nella mia esperienza gran parte dei miei pazienti prendevano e prendono
farmaci. E nella stragrande maggioranza di questi, i pazienti tendono a
includere nella stessa categoria logica le due esperienze nel campo psy ed i
due terapeuti. Non sono la stessa cosa, ma appartengono allo stesso genere.
Ciò, fra le altre cose, potrebbe significare che i due terapeuti abbiano
funzioni diverse all'interno di un unico campo terapeutico, che è diverso
da altri campi terapeutici come ad esempio il paziente che è seguito da un
oculista (almeno a grandi linee, poiché il problema dei farmaci e della
malattia organica si ripropone negli stessi termini nel campo "unico" della
clinica psicosomatica). Il problema che mi si è sempre posto, visto da
questa angolazione di "due funzioni in un unico campo", è: chi e come
gestisce queste due funzioni?
Mi sembra che la gestione del problema dipenda da due principi sovraordinati
di integrazione versus scissione o dispersione. Faccio riferimento a questioni
cliniche perché non riesco a discutere del problema senza aggancio alla clinica.
Ho una paziente con un grave disturbo depressivo che non risponde ai farmaci
e che dura da anni, rendendola progressivamente invalida a tutte le funzioni
psicosociali normalmente svolte prima dell'insorgenza del disturbo. Ha
cambiato molti psichiatri ed effettuato molte terapie farmacologiche, senza
grandi risultati, ed ha anche effettuato altri due tentativi
psicoterapeutici, di cui uno di tipo analitico "classico" (lettino, 3-4
sedute settimanali, analista-mummia che non parla, ecc.) ed uno di tipo
cognitivista. Indipendentemente dal problema depressivo, alla mia
osservazione (ed ai test che le ho somministrato, MMPI-2 e Rorschach) la
paziente ha un severo tratto narcisistico che si manifesta in maniera molto
subdola con la sua fantasia inconscia di manipolare l'attenzione degli altri
mantenendosi il più passiva possibile. Questo atteggiamento viene
manifestato con tutti (famiglia, me, psichiatra) e si evidenzia in un
sabotaggio sistematico di tutto ciò che la possa aiutare. Tanto per fare un
esempio, ogni seduta inizia con un ostinato silenzio e la paziente che dice
"allora, di cosa vuole che parliamo oggi? scelga lei, tanto è tutto uguale
(nel senso che tutto fa schifo)". Poiché, come si può comprendere, gli
"attacchi al setting" sono all'ordine del giorno, il mio primo problema è
stato quello di "delimitare il setting", cosa che piano piano sta avvenendo.
Lo psichiatra che la tratta vive in un'altra città ed appartiene ad un
notissimo gruppo universitario. Fa controlli grosso modo mensili, ma
puntualmente la paziente telefona per dire che sta malissimo per questo o
quel sintomo (ansia, ideazione suicidaria, insonnia, ipersonnolenza,
irrequietezza, ecc.) e parte per 1-2 settimane ogni 1-2 mesi per farsi
osservare e tentare complicati (per me, ma solo per me?) cocktail di farmaci
(assume circa 15 compresse al giorno di vario tipo). Lo psichiatra non
condivide il fatto che la paziente venga da me, non perché ha qualcosa di
personale contro di me ma perché ritiene più valida la terapia
cognitivo-comportamentale mentre la psicoanalisi amplificherebbe la sua
tendenza ossessivo-compulsiva. A me pare evidente che il gioco manipolatorio
abbia campo libero con lo psichiatra, rimproverando me (più o meno
velatamente) che non le credo abbastanza sul fatto che sta davvero male:
infatti, il medico la invita subito ad andare da lui quando gli telefona, la
riceve in ambulatorio tutti i giorni e le dà tanti farmaci. Quale sarebbe
la strategia terapeutica migliore qui? Credo che andrebbe integrata a
livello dei terapeuti la gestione clinica e invece scissi gli ambiti
specifici delle due funzioni psy. Al contrario, è la paziente a tenere le
fila, a scindere le persone dei terapeuti ma ad unificare confusivamente le
due funzioni psy. In questa situazione, l'assenza dell'integrazione
terapeutica e della differenziazione delle funzioni va in direzione di una
cattiva gestione terapeutica di un serio problema psicopatologico. Il mio
problema adesso è come trovare il modo per offrire alla paziente una
funzione integrativa all'interno del nostro rapporto (ci stiamo muovendo in
questa direzione, il come è troppo lungo spiegarlo ed anche meno
interessante per il discorso che stiamo facendo). Ciò che vorrei
sottolineare è che, pur non avendo io a priori alcuna competenza di
intervento farmacologico, mi trovo in ogni caso ad affrontare la questione.
Situazione opposta sull'altro polo del problema. Negli anni scorsi, i
pazienti con disturbi funzionali gastrointestinali (colon irritabile,
dispepsia funzionale, ecc.) venivano regolarmente visti in ambulatorio
nell'ospedale dove lavoro da vari gastroenterologici ed alcuni li inviavano a me.
Si tratta di pazienti che in genere hanno pacchi di esami e terapie in
passato. La loro tendenza è quella di scindere le funzioni terapeutiche ed
i rispettivi campi, per cui si va dallo psicologo se si hanno problemi di
testa, e non di pancia o di stomaco. La situazione, classica, era quella del
gastroenterologo che dava la terapia farmacologica appropriata ed io che
tentavo di fare in qualche modo il mio lavoro. Risultati: generalmente
scarsi. Finché non abbiamo deciso di riflettere e di cambiare metodo.
Insieme ad un collega gastroenterologo con cui ho una particolare sintonia,
abbiamo messo su un ambulatorio in cui in prima battuta questi pazienti
vengono visti da entrambi. Poi si decide se continuare a vederli insieme
(gestione: prescrizione di farmaci e discussione dei vari problemi
psicologici legati ai sintomi, controlli periodici con visite "lunghe" di
circa mezz'ora), se si dividono i pazienti o si dividono solo le competenze
con gli stessi pazienti. I risultati sono ottimi, anche utilizzando farmaci
che in passato non hanno sortito effetti benefici. Qui il punto è l'opposto
del caso precedente: sono i pazienti che difensivamente scindono le funzioni
terapeutiche e l'obiettivo è quello di trovare il miglior modo per offrire
loro una funzione integrativa. Anche in questo caso, ciò che voglio
sottolineare è che, pur non avendo ancora una volta alcuna competenza
farmacologica, la gestione della funzione di integrazione versus dispersione
rientra nel mio campo analitico di relazione paziente-terapeuta, sia che
avvenga in ambito "privato" psicoanalitico sia che avvenga in ambito
"pubblico" ospedaliero.
La mia domanda è quindi: è possibile che il problema non sia sulle persone
ma sulle funzioni e sulla loro gestione all'interno di un rapporto
psicoterapeutico?
 
28 Marzo 1999, Carlo Pasino:
Concordo pienamente con Piero Porcelli, la mia esperienza, seppur
diversa, ha portato alle stesse conclusioni. Piero Porcelli ha detto:
>Nella mia esperienza gran parte dei miei pazienti prendevano e prendono
>farmaci. E nella stragrande maggioranza di questi, i pazienti tendono a
>includere nella stessa categoria logica le due esperienze nel campo psy ed i
>due terapeuti. Non sono la stessa cosa, ma appartengono allo stesso genere.
 
Quale sarebbe la strategia terapeutica migliore qui? Credo che andrebbe integrata. 
A livello dei terapeuti la gestione clinica e invece scissi gli ambiti
specifici delle due funzioni psy. Al contrario, è la paziente a tenere le
fila, a scindere le persone dei terapeuti ma ad unificare confusivamente
le due funzioni psy. In questa situazione, l'assenza dell'integrazione
terapeutica e della differenziazione delle funzioni va in direzione di una
cattiva gestione terapeutica di un serio problema psicopatologico. Il mio
problema adesso è come trovare il modo per offrire alla paziente una
funzione integrativa all'interno del nostro rapporto
Non sempre è possibile ma diventa necessario parlare dei farmaci in
seduta, entrano nel setting come un ospite che di diritto ha una sua
importanza nel vissuto della psicoterapia e in quella giornaliera del paziente
Quante volte abbiamo cercato insieme, paziente e psicoterapeuta, la ragione
inconsapevole del dimenticarsi regolarmente di assumere i soliti farmaci.
Ma siamo su un piano di fantasie perché il paziente mi vive come chi non ha
voce in capitolo sulla sua prescrizione farmacologica.
Attualmente seguo una signora con un grave diabete che si scompensa
regolarmente, con alti e bassi della glicemia. L'insulina e i regolari
autocontrolli dei livelli di glicemia nel sangue occupano spesso le
nostre sedute, dove la signora ha potuto proiettare liberamente e
trasferalmente le sue fantasie di morte e di rabbia per una madre
sentita come troppo fragile per sopportare tali emozioni. Se fossi stato
io, invece del diabetologo, a doverla inseguire sulle sue montagne russe
delle curve glicemiche, forse non si sarebbe mai evidenziato un mondo
fantasmatico così ricco e determinante sulle vicissitudini somatiche del
soggetto interessato.
Condivido con Porcelli che la cura deve partire da una coppia
terapeutica al lavoro, nel rispetto non solo dei propri ambiti
professionali, che non stato quasi mai un problema, ma per le
rappresentazioni fantasmatiche dei pazienti.
 
28 Marzo 1999, Paolo Migone:
Riguardo all'intervento di Carlo Pasino, tutto può essere, anche che
il "rumore sordo e fastidioso" non fosse stato ben analizzato, e
vissuto come tale a causa di un controtransfert (viverlo
come causato solo dai farmaci, o dal loro significato nella relazione,
significato però che potrebbe essere diverso se non avessimo alle spalle una
concezione pregiudiziale sui farmaci... Poteva significare - dico a caso -
una aggressività del paziente verso il terapeuta che glieli ha consigliati
mentre questa non era la risposta che il paziente sentiva come la più vera,
oppure poteva significare la paura del paziente che il farmaco fosse contro
i significati della psicoterapia, paura magari trasmessa inconsciamente dal
terapeuta, ecc.).
L'esempio che tu citi è un esempio tipico, comunque, quello di ricorrere al
farmaco per ansia nostra e poi accorgersi che era stato un errore. Concordo
anche sul fatto che per la grande maggioranza dei pazienti ambulatoriali il
farmaco viene usato in modo difensivo. Ma il mio discorso mirava a collocare
nella giusta posizione il ruolo delle difese, che si annidano dovunque, non
da una parte soltanto, ecco perché la discussione farmaci+psicoterapia,
secondo me, non significa niente "in quanto tale".
Grazie comunque delle tue osservazioni.
 
28 Marzo 1999, Fabio Canegalli:
Riprendo brevemente l'intervento di Paolo Migone del 27-3-99,
intervento che mi pare condivisibile non solo per la posizione che esprime,
ma in modo particolare per la dismostrazione che ci da di come sia possibile
"svelare" certe posizione preconcette e spesso prese a prestito senza una reale
rivisitazione ed interiorizzazione dei modelli con le necessarie conseguenze
nell'operare pratico quotidiano, per segnalare che nell'ambito dei seminari
di clinica psicodinamica dell'Università di Milano, che verranno pubblicati
integralmente a breve con l'apertura di un forum di disussione moderato,
soltanto alcuni giorni fa è stato toccato, direi "violentemente", lo stesso
argomento.
Analizzando un caso clinico specifico, che rientra comunque nella pratica
media attuale della psichiatria nei servizi pubblici italiani, si è potuto
verificare quante di queste posizioni rendano effettivamente inutile se non
addirittura dannosa ed in quel caso pericolosa (per il paziente) la pratica
di un lavoro di équipe che resta solo sulla carta, lasciando il soggetto in
balia di riferimenti diversi.
Ognuno opera nel suo "settore", senza confrontarsi con il resto del gruppo,
in una aristocratica posizione di isolamento, colludendo in tal modo con la
patologia del soggetto, nella convinzione che chi si occupa di aspetti
psicologici debba rimanere fuori da ciò che la somministrazione di un
farmaco comporta e, specularmente, chi somministra farmaci lo possa fare
prescindendo dai vissuti e dal percorso che il soggetto sta facendo con lo
psicoterapeuta o l'analista.
Le drastiche suddivisioni di ruoli professionali, oltre che le separazioni
delle stesse scuole di formazione, stanno conducendo a questo.
Se qualcuno è interessato a tali argomenti troverà materiale abbondante di
discussione nella trascrizione del citato seminario ove i relatori ed il
pubblico, di fronte alle conseguenze sul paziente (defenestrazione annunciata,
come qualcuno ha sostenuto) si sono espressi in termini chiari e polemici.
 
28 Marzo 1999, Luca Panseri:
Cari colleghi, esordisco oggi in lista intervenendo nel dibattito su farmaci e
psicoterapia. Prima, mi presenterò brevemente.
Mi chiamo Luca Panseri, ho 35 anni, vivo e lavoro a Bergamo in libera
professione come psichiatra e psicoterapeuta dopo aver lavorato per otto
anni nel Servizio Pubblico. Nei mesi precedenti ho seguito gli interessanti dibattiti in lista 
da cui ho tratto un notevole arricchimento professionale. Sono perciò molto grato ai colleghi 
che hanno discusso di questioni rilavanti per la teoria e la prassi terapeutica. Da oggi mi 
piacerebbe portare anche il mio piccolo contributo in lista.
In merito alla discussione in corso, ritengo che Paolo Migone abbia focalizzato
con chiarezza e incisività il nucleo del problema affermando che:
>non si capisce come mai il farmaco in quanto tale dovrebbe
>appartenere ad una categoria logica diversa da quella di qualunque altro
>intervento o evento sia dentro che fuori al setting (stringere la mano al
>paziente, tossire, ridere, essere depressi o felici, NON DARE UN FARMACO invece 
>di darlo, avere una poltrona comoda o scomoda, avere il mal di testa per il fumo del sigaro 
>dell'analista, o invece amare quel fumo, ecc.).
 
Affrontare in questo modo la questione, significa riaffermare il presupposto
fondamentale a lungo discusso in lista nei mesi precedenti, e cioè che non può
esistere una buona terapia senza un' attenta e costante "analisi della relazione".
Se questa è la base di ogni terapia , allora la somministrazione del farmaco non è niente altro 
che uno dei molteplici aspetti di cui dobbiamo tener conto all'interno della relazione terapeutica.
Ritengo che escludere a priori dal campo terapeutico questa possibilità di intervento non ci 
garantisce certo dal pericolo di compiere degli agiti e sinceramente ho difficoltà nel comprendere 
cosa intende Carlo Pasino quando afferma :" Ma, appena possibile, riduco tutti gli acting-in e 
out a zero, perché sono un "casino" che non mi permette di "ascoltare" quello che succede nella 
stanza del trattamento psicoterapeutico".
Come fai a essere così sicuro di quali siano gli acting in e out da ridurre a zero senza che 
questo privi il processo di possibilità terapeutiche importanti?
Che cosa dovremmo pensare allora, a proposito di agiti, degli interventi che includono elementi 
di terapia corporea ? Ci troviamo in questo caso di fronte a condannabili trasgressioni del setting 
da ridurre a zero, oppure possiamo pensare che anche la psicoterapia corporea possa talvolta 
essere un potente strumento terapeutico, a patto che sia utilizzata in modo consapevole all'interno 
della relazione (se a qualcuno interessasse mi piacerebbe discutere in maniera più approfondita 
di questo argomento).
Tornando all'argomento iniziale vorrei proporre un breve resoconto di un'esperienza clinica. 
Qualche mese orsono mi venne inviata per una visita una donna di 67 anni afflitta da 17 anni da 
una sintomatologia di tipo ansioso depressivo ( la vecchia "depressione nevrotica") che recentemente 
 in concomitanza con eventi esistenziali dolorosi si era molto accentuata al punto di divenire invalidante. 
La paziente infatti oppressa e sfiancata dal suo "malessere" si stava lentamente spegnendo, 
impossibilitata a fronteggiare da sola l'angoscia quotidiana (che si esprimeva con ansia generalizzata, 
somatizzazioni e una flessione del tono dell'umore di carattere reattivo).
La paziente assumeva da circa 15 anni un antidepressivo triciclico a dosaggio medio alto che 
non aveva mai avuto significativi effetti terapeutici ma che era stato impostato e non più sospeso 
da una neurologa che negli anni aveva talvolta visitato la paziente. Il recente peggioramento dei 
sintomi e l'impossibilità della collega neurologa nel poter continuare a seguire la paziente hanno 
determinato l'invio al sottoscritto. La richiesta della paziente era precisa: voleva cambiare il farmaco 
(che secondo il suo parere ora non funzionava più) e provare un'altra terapia farmacologica che 
l'aiutasse a combattere il suo malessere.
Inizialmente ho deciso di accogliere la richiesta della donna di riprovare con una nuova terapia 
farmacologica, proponendole però delle visite ravvicinate che permettessero sia un monitoraggio 
della terapia farmacologica che una più approfondita espressione e comprensione degli aspetti 
conflittuali in gioco. Di fatto, la mia iniziale disponibilità ad accogliere le aspettative magiche di 
una soluzione puramente farmacologica dei suoi disturbi ha permesso al processo terapeutico di 
mettersi in moto e di aprire uno spiraglio per una comprensione dei conflitti familiari ma soprattutto 
della sua profonda sofferenza personale per le vicende della sua esistenza.
La paziente ha successivamente deciso di dedicare due sedute alla settimana per "la sua terapia" 
poiché si era accorta "che ci sono tante altre cose oltre al farmaco che possono aiutarla ad affrontare 
il suo malessere".
Vi chiedo scusa per la lunghezza dell'esposizione ma ho preferito ricorrere ad un esempio clinico per 
supportare la mia ipotesi sulla necessità di non escludere a priori l'associazione dell'intervento 
farmacologico con quello psicologico.
Chiaramente uno psicoterapeuta non medico non ha questa possibilità, ma come ha mostrato 
Piero Porcelli nel suo ultimo prezioso intervento del 28 Marzo 1999, in questo caso si potrebbe 
tentare di praticare altre strade molto interessanti:
>Finché non abbiamo deciso di riflettere e di cambiare metodo.
>Insieme ad un collega gastroenterologo con cui ho una particolare sintonia,
>abbiamo messo su un ambulatorio in cui in prima battuta questi pazienti
>vengono visti da entrambi. Poi si decide se continuare a vederli insieme
>(gestione: prescrizione di farmaci e discussione dei vari problemi
>psicologici legati ai sintomi, controlli periodici con visite "lunghe" di
>circa mezz'ora), se si dividono i pazienti o si dividono solo le competenze
>con gli stessi pazienti. I risultati sono ottimi, anche utilizzando farmaci
>che in passato non hanno sortito effetti benefici.
 
Per oggi mi fermo qui. Grazie per l'attenzione. Saluti a tutti
28 Marzo 1999, Tullio Carere:
Caro Luca, il caso clinico con cui ti sei presentato in lista è un ottimo esempio
di come l'integrazione psicoterapia/psicofarmaci sia spesso non solo possibile,
ma doverosa. Noi psichiatri abbiamo il privilegio e l'onere di poter tentare questa integrazione, 
e il dovere di tentare di farlo come meglio si può. Gli psicologi debbono collaborare 
con uno psichiatra, e trovarne uno con cui stabilire un buon affiatamento. Non li invidio. 
La realtà media delle équipe, infatti, è quella descritta da Fabio Canegalli:
>Analizzando un caso clinico specifico, che rientra comunque nella pratica
>media attuale della psichiatria nei servizi pubblici italiani, si è potuto
>verificare quante di queste posizioni rendano effettivamente inutile se non
>addirittura dannosa ed in quel caso pericolosa (per il paziente) la pratica
>di un lavoro di équipe che resta solo sulla carta, lasciando il soggetto in
>balia di riferimenti diversi.
>Ognuno opera nel suo "settore", senza confrontarsi con il resto del gruppo,
>in una aristocratica posizione di isolamento, colludendo in tal modo con la
>patologia del soggetto, nella convinzione che chi si occupa di aspetti
>psicologici debba rimanere fuori da ciò che la somministrazione di un
>farmaco comporta e, specularmente, chi somministra farmaci lo possa fare
>prescindendo dai vissuti e dal percorso che il soggetto sta facendo con lo
>psicoterapeuta o l'analista.
>Le drastiche suddivisioni di ruoli professionali, oltre che le separazioni
>delle stesse scuole di formazione, stanno conducendo a questo.
 
Allo stato attuale delle cose è più facile, e soprattutto più produttivo per il
paziente, integrare psicoterapia e farmaci all'interno di una sola relazione,
piuttosto che con due operatori distinti: pratica quest'ultima abitualmente non
integrativa, ma nettamente disintegrativa.Benvenuto in questa lista di discussione.
 
28 Marzo 1999, Paolo Migone:
Il 27/03/99 Gianni Guasto ha scritto:
>Non avere il farmaco a disposizione impedisce al terapeuta questa via di fuga: non é meglio così?
 
E io avevo risposto:
>No, ritengo che se deve esserci una via di fuga essa ci sarà sempre,
>l'analista per primo la utilizzerà, perché ha mille opportunità per farlo,
>nei modi a cui ho accennato prima e in tanti altri modi.
 
Gianni ha continuato:
>Hai ragione. Io, però, dal mio canto, ho imparato da alcuni maestri ad
>eliminare tutto quanto può essere d'intralcio, e non ho ancora, se non in
>misura molto limitata, trovato utile rinunciare a quelle opzioni. E' una
>presa d'atto dei propri limiti. Altrimenti la psicoanalisi, come il
>digestivo Antonetto "si potrebbe prendere anche in tram" (il che é
>teoricamente possibile, ma molto, molto difficile).
 
Sono d'accordo, ognuno ha il proprio criterio di difficoltà, e va
rispettato. Se è per questo, a me capita a volte di trovare molto difficile
non dare farmaci, in quanto, a livello di input biologico o danno al
paziente, può essere maggiore del darli. Cioè può essere più difficile, può
essere più un intralcio. Altre volte la penso come te. Non ho cioè un
criterio a priori, che attribuire al farmaco un valore dato. Capisco
benissimo però quello che vuoi dire.
Io poi avevo detto:
>Per farti capire meglio: se
>quello che io dico non fosse vero, nessuno parlerebbe mai del problema
>della combinazione farmaci+psicoterapia, perché non esisterebbe in quanto
>tale (in altre parole, i farmaci in quanto tali possono essere o non essere un agito
 
E Gianni aveva risposto:
>é vero, ma una volta che hai iniziato a prescriverli, devi continuare
>secondo il "loro" paradigma, e non secondo le necessità interpretative.
 
Sì, ma i farmaci, come ogni altra cosa, possono essere soggetti a eventuali
interpretazioni, pur nel rispetto del loro eventuale paradigma. Anche il
"non dare i farmaci" è un intervento molto "farmacologico", perché si
deprima l'organismo di un eventuale input biologico che si suppone mancante,
per cui si squilibra comunque l'organismo rispetto a quanto potrebbe essere
riequilibrato. In altre parole, "dare i farmaci" o "non darli" sono due
interventi equivalenti, molto attivi, dipende dalle variabili in gioco. Ecc.
Mi sembra comunque che sostanzialmente ci siamo capiti, e mi fa molto piacere. 
Grazie dei commenti
 
28 Marzo 1999, Tullio Carere:
Se la somministrazione di farmaci da parte dello psicoterapeuta sia o non
sia un agito (acting out, cosa da non farsi) si può decidere a patto di
chiarire in via preliminare che cosa sia un agito. Per questo occorre
superare più livelli di fraintendimenti. Primo fraintendimento: il
terapeuta "agisce" tutte le volte che si allontana dalla posizione
neutrale. Si basa sull'illusione che si possa non agire: ma ormai è a tutti
chiaro che la relazione terapeutica, come qualsiasi altra, è
intrinsecamente interattiva. Secondo fraintendimento: è accettabile
l'interazione spontanea o involontaria, non quella deliberata o
intenzionale (posizione di Gill, o di Katz il cui lavoro
sull'argomento è attualmente in discussione sulla lista del
Journal of the American Psychoanalyitc Association). A parte la difficoltà
di distinguere le due modalità (un'azione spontanea è di fatto deliberata, se
decido di agire spontaneamente invece che controllarmi), una relazione può
essere detta terapeutica solo in quanto si basa su un'intenzione
terapeutica: e questa implica necessariamente una continua selezione, che
favorisce atteggiamenti e atti ritenuti terapeutici ed esclude quelli
ritenuti non terapeutici (quale che sia il criterio di distinzione
applicato). Terzo fraintendimento: chiarito che la relazione è
necessariamente un'interazione, e che questa include necessariamente anche
azioni intenzionali, si vuole che almeno queste azioni siano "poche" o
"piccole": per non allontanarsi troppo dall'ideale mai abbandonato di
neutralità. Ma il far valere la "neutralità" (comunque definita) come
criterio principe, cui ogni altro deve subordinarsi, questo sì è un
"agito", nel senso negativo del termine: significa imporre uno stile di
relazione stereotipato, che non tiene conto della realtà dell'interazione
presente e si sottrae alla responsabilità di decidere momento per momento,
assieme al paziente, la modalità interattiva che il processo richiede. (Mi
pare che l'intervento di Paolo Migone fosse in questo senso).
Poste queste premesse - sgomberato il campo, spero, dai più comuni
fraintendimenti - si può capire meglio la questione del farmaco. Primo,
nessuno più discute che a volte i farmaci, in corso di psicoterapia, sono
utili o anche necessari. Ne consegue che lo psicoterapeuta ha il dovere,
quando è il caso, di inviare il paziente al farmacoterapeuta oppure di
prescriverli lui stesso. Già questo elimina i primi due fraintendimenti:
proporre un farmaco, chiunque lo somministri, o anche solo inviare il
paziente allo psichiatra, è un'uscita dall'illusoria neutralità, o dal
campo delle interazioni puramente "intrinseche" o non intenzionali. Ma
veniamo al terzo fraintendimento: lo psicoterapeuta, anche se è psichiatra,
non dovrebbe somministrare lui stesso il farmaco per "non alterare il
setting". Tesi fondata sull'ideale detto sopra, del setting il più
possibile asettico. Ma se dall'ideale/ideologico scendiamo alla realtà,
come molto opportunamente ha fatto Piero Porcelli, che cosa troviamo?
Troviamo quello che è ovvio: le due interazioni - psicoterapeutica e
farmacoterapeutica - debbono essere sintonizzate e integrate, altrimenti ne
nasce ogni sorta di pasticci. Ne consegue che se è possibile creare
un'équipe affiatata, come quella che è riuscito a costruire Piero, le cose
vanno bene. Ma se tra le due figure - lo psicoterapeuta e il
farmacoterapeuta - l'integrazione è scarsa, come assai spesso accade, è
molto meglio un'integrazione realizzata da un terapeuta unico, che gestisce
entrambi i ruoli, piuttosto che la disintegrazione operata da due terapeuti
non sintonizzati.
Questa in ogni caso è la mia testimonianza: dopo avere seguito anch'io, per
anni, la regola di inviare ad altri colleghi i pazienti bisognosi di
psicofarmaci - e aver sperimentato fino in fondo le complicazioni di questa
pratica - ho ricominciato a darli io stesso, nella maggior parte dei casi.
E le cose sono andate molto meglio. Conclusione: la somministrazione di
farmaci è un'azione come un'altra, e come ogni altra va valutata caso per
caso, per il significato e il valore che prende nel processo in corso. La
terapia non ha bisogni di azioni "piccole" o "poche", ma di azioni, per
quanto è possibile, giuste.
 
28 Marzo 1999, Gaetano Dell'Anna:
Un contributo. Dal margine di questo interessante dibattito ho pensato se non
occorra riflettere sul bisogno inconscio del paziente di mantenere un
qualche controllo sul suo stato e come il farmaco si presti meglio di ogni altro
elemento a essere manipolato a tale scopo in modo strumentale.
Infatti il paziente può rifiutarlo; può assumerlo fiduciosamente, remissivamente,
voracemente, scetticamente, eccetera, e poi coltivare attese di fallimento o di
risoluzione del tutto illusorie;
può dire di rifiutarlo e assumerlo in segreto (se il medico dirà "iocomunque
glielo prescrivo");
può dire di assumerlo e non farlo;
può assumerlo senza seguire le indicazioni, quindi modificare tempi, dosi e
associazioni, e riferire gli effetti come lode o critica della prescrizione;
può somministrarlo, o pensare di somministrarlo, ad altri;
può assumere farmaci prescritti ad altri;
e mi fermo qui, certo che ciascun collega avrà una casistica nutrita cui
fare riferimento.
Io ritengo che, qualunque sia il metodo, le cose che il paziente riferisce
della sua esperienza, e quelle che il terapeuta può pensare della narrazione,
debbano prevalere sempre nella considerazione dei fattori clinici.
Superata l'epoca della coazione manicomiale il "locus of control" della
terapia è oggi fluttuante, ed è il paziente che formula la domanda di
cura, a suo modo. Questo anche se il rapporto tradizionale tra "chi cura",
"chi è malato" e "ciò che è farmaco" ha ancora una forte componente
costrittiva alla quale ci si deve adeguare.
 
28 Marzo 1999, Emilio Vercillo:
Paolo Migone ha scritto:
>Vi è chi argomenta che fare tutte e
>due le cose insieme è "più difficile": questo a prima vista sembrerebbe un
>ragionamento convincente, ma rivela solo la illusione che la "analisi
>normale" sia "facile", "pulita", tratta dati "psicologici puri" (vedi
>l'antico mito della "analisi classica", dove si rispetterebbe il setting).
>Anche dietro a questa posizione vi è una concezione antipsicoanalitica: il
>dato psicologico (o somatico) non viene così scoperto o interpretato, ma è
>conosciuto a priori, tramite un pregiudizio, e l'analisi è solo una
>razionalizzazione delle idee preconcette dell'analista o della sua malcelata
>cultura behavioristica di appartenenza (o forse anche di una cultura
>filosofica basata sul dualismo corpo-mente).
 
Gianni Guasto ha scritto:
>Io, però, dal mio canto, ho imparato da alcuni maestri ad
>eliminare tutto quanto può essere d'intralcio, e non ho ancora, se non in
>misura molto limitata, trovato utile rinunciare a quelle opzioni. E' una
>presa d'atto dei propri limiti. Altrimenti la psicoanalisi, come il
>digestivo Antonetto "si potrebbe prendere anche in tram" (il che é
>teoricamente possibile, ma molto, molto difficile).
 
Paolo Migone ha scritto:
>Sono d'accordo, ognuno ha il proprio criterio di difficoltà, e va
>rispettato. Se è per questo, a me capita a volte di trovare molto difficile
>non dare farmaci, in quanto, a livello di input biologico o danno al
>paziente, può essere maggiore del darli. Cioè può essere più difficile, può
>essere più un intralcio. Altre volte la penso come te. Non ho cioè un
>criterio a priori, che attribuisce al farmaco un valore dato. Capisco
>benissimo però quello che vuoi dire.
 
Grazie
 
28 Marzo 1999, Gaetano Giordano:
Gaetano Dell'Anna ha scritto:
>Dal margine di questo interessante dibattito ho pensato se non
>occorra riflettere sul bisogno inconscio del paziente di mantenere un qualche
>controllo sul suo stato e come il farmaco si presti meglio di ogni altro
>elemento a essere manipolato a tale scopo in modo strumentale.
 
Gaetano tocca, come sempre (sarà l'omonimia), un punto secondo me determinante.
Per quanto mi riguarda, io ho paura a prescrivere i farmaci perché ho sempre la
sensazione che il paziente li chiede per avere la legittimità di "percepire"
che la sua è una "malattia" - vale a dire, uno stato sottratto in qualche modo
al suo "psichico" e alla sua possibilità di intervento - e dunque per creare
resistenze invalicabili.
Il farmaco a mio avviso rischia sempre di dare al paziente il potere di parlare
di una "malattia" e non di se stesso. Personalmente, lo uso dunque in modo
molto strategico, paradossale, facendo leva dunque sul fatto che - nella mia
epistemologia - è un'esperienza. Lo utilizzo dunque dandogli il significato di una
delle leve da poter utilizzare per generare una riflessione - non una soluzione.
Gaetano Dell'Anna continua:
>Infatti il paziente può rifiutarlo;
>può assumerlo fiduciosamente, remissivamente, voracemente, scetticamente, 
>eccetera, e poi coltivare attese di fallimento o di risoluzione del tutto illusorie;
 
...prima o poi rischia di dire che quello che né il farmaco, né la psicoterapia
possono farci nulla, con lui. Deve solo aspettare che il primo non faccia
l'effetto che lui comunque gli attribuisce. E non credo che in questi casi
basti avvertirlo che gli psicofarmaci non risolvono del tutto il problema.
Una volta avevo una paziente - una gravissima ossessiva - che mi scongiurò per
settimane di prescriverle "qualcosa". Dal contesto e dalle modalità della
richiesta, a me sembrava evidente che volesse sancire, attraverso "i sedativi",
la legittimità a sostenere che la sua era una malattia sganciata totalmente dal
suo controllo. Riuscii a resistere alla richiesta, e così passarono dei mesi. 
La tizia migliorò in modo eclatante e stravagante: in ufficio non aveva sintomi, a casa ne 
era piena. Siccome si lamentava di stare malissimo - pur contro le evidenze - un giorno 
le dissi chiaro e tondo che, se stava così male, era venuto DAVVERO il momento di prendere 
dei farmaci. Fu un attimo: con una incredibile faccia di bronzo cambiò completamente tono e discorsi, 
e mi disse senza esitazioni - e nel giro di un incredibile secondo - che da qualche tempo aveva notato 
dei veri miglioramenti, e dunque non riteneva opportuno assumere dei sedativi. Evidentemente, 
aveva fiutato il paradosso nel quale si stava cacciando, relativo al controllo del controllo. 
Io feci finta di non sentire, e glielo feci ripetere due o tre volte. Dopodiché le chiesi se 
si rendeva conto della contraddizione con quanto detto poco prima. Mi rispose di sì, 
ma disse che non sapeva come spiegarla. Fino a poco prima le sembrava veramente 
di star male e ora le sembrava di non volere i farmaci perché "inutili".
Per la cronaca, la signora abbandonò la terapia dopo un anno circa.
Fu quando si rese conto che non poteva più negare gli evidenti miglioramenti in
ufficio e la tragica assenza di cambiamenti in casa.
Quando non poté fare a meno di dare una spiegazione, disse una cosa
emblematica: - Non mi sembrava carino star male in ufficio perché i colleghi
erano buoni con me e mi aiutavano. - Cercai di farle dire di più e non si fece pregare: 
mi spiegò che le colleghe e i colleghi scrivevano per lei gli elenchi delle A.R. (lavorava alle poste), 
così come quelli dei vagli o dei C.C. Non le era sembrato bello ricambiare con il muto persistere 
dei cupissimi suoi sintomi, e li aveva "ricompensati" guarendo.
Fu qui che mi persi: insistetti troppo per cercare di farla ragionare sulla
differenza con la casa e la famiglia, ambiti nei quali non vi erano stati
miglioramenti. Quasi psicoticamente, in tale situazione lei si sentiva
impotente e malatissima, ridotta allo stremo delle forze e totalmente in balia
dei sintomi - anche se, in realtà, anche qui aveva avuto dei leggeri
miglioramenti. Scappò quando la misi di fronte all'evidenza che le due logiche erano incompatibili, 
e che il problema doveva essere in qualche modo nel suo rapporto col marito. 
Molto probabilmente dovevo essere più cauto nell'avvicinarla a quella consapevolezza.
Ritornando però al problema dei farmaci, credo che se avessi dato seguito alla
richiesta che la signora mi fece, quella terapia sarebbe finita molto prima.
Saluti a tutti
 
29 Marzo 1999, Paolo Roccato:
Il 26 Marzo 1999 Emilio Vercillo ha scritto:
>Vorrei chiedere a Roccato se fa rientrare nell'evitamento il passare dal
>piano dell'interpretazione a quello dei "milligrammi" (che potrebbe essere
>però anche quello dei sintomi e della psicopatologia), o considera anche
>il passaggio inverso un evitamento, dato che la sua frase sembrerebbe intendere questo.
 
A mio parere, è differente il tipo di ascolto e di risonanza cui
l'operatore si dispone, e la differenza è data dallo "scopo".
Nell'ascolto psicoterapico lo scopo è cercare di cogliere i vari aspetti
del Sé del paziente e vedere come essi si articolano fra di loro;
nell'ascolto finalizzato alla somministrazione di farmaci lo scopo è
cogliere gli aspetti della psicopatologia presentata dal paziente, per
poterla influenzare in modo non direttamente mentale, ma biologico.
E' la mente del terapeuta che, io credo, non riesce a seguire due scopi
contemporaneamente e che rischia di passare dall'uno all'altro per evitare
l'impatto con l'angoscia, e non per gli scopi che ritiene di perseguire.
Trovo fuorviante considerare agito o non agito la prescrizione di farmaci
fatta da uno psicoterapeuta, o la psicoterapia attuata da uno che prescrive
farmaci. A me pare che si tratti, semplicemente, di qualche cosa che
persegue uno scopo differente da quello che ci si è proposto.
Vorrei precisare, di passaggio, che per me non si tratta tanto del piano
dell'interpretazione, quanto di quello della risonanza. Credo che il
concetto di interpretazione debba essere da noi molto, ma molto rivisto,
all'inizio del secondo secolo di psicoanalisi. Ma questa è un'altra storia.
Cordiali saluti.
 
29 Marzo 1999, Paolo Migone:
A mio parere non bisognerebbe separare la psichiatria dalla psicoanalisi,
nel senso che, anche nello spirito di Balint, il livello "biologico" non esiste
mai allo stato puro, essendo sempre colorato da significati psicologici
(esplicitati o non). Anche nell'analisi tradizionale non vi sono aree di
purezza, anche lì il corpo c'è sempre, in molti modi.
Come dissi una volta in modo volutamente provocatorio, ritengo che non vi
sia una alternativa alla "psicoanalisi" (nel senso di porre attenzione alla
relazione, come fanno bene anche molti cognitivisti, sistemici, ecc.).
 
29 Marzo 1999, Paolo Migone:
Ringrazio Tullio per il preziosissimo intervento chiarificatore del 28-3-99.
Vorrei fare due brevi commenti a latere:
Tullio Carere ha scritto:
>Se la somministrazione di farmaci da parte dello psicoterapeuta sia o non
>sia un agito (acting out, cosa da non farsi) si può decidere a patto di
>chiarire in via preliminare che cosa sia un agito...
 
A proposito del concetto di agito (acting), ricordo alcune belle pagine nel
primo volume del "Trattato di terapia psicoanalitica" di H. Thomä & H. Kächele 
(1985, Torino: Bollati Boringhieri, 1990, cap. 8.6, pp. 386 sgg.),
dove demitizzano molto il concetto di agito, tradizionalmente visto in termini
negativi, ma da vedersi invece anche in termini positivi (l'agito in un certo
senso fa parte della terapia, come anche della vita, soprattutto nei processi
di cambiamento, ecc.).
Continua Tullio:
>Ma se tra le due figure - lo psicoterapeuta e il
>farmacoterapeuta - l'integrazione è scarsa, come assai spesso accade, è
>molto meglio un'integrazione realizzata da un terapeuta unico, che gestisce
>entrambi i ruoli, piuttosto che la disintegrazione operata da due terapeuti
>non sintonizzati.
 
Qui, a voler essere pignoli, farei una osservazione. Sì, può essere
"meglio" avere un terapeuta unico (siamo quindi nella dimensione "più facile
o più difficile" avere un terapeuta o due, non nella dimensione "deve
esservi un terapeuta e non due" o viceversa). Ma a rigor di logica è
indifferente, in quanto non siamo mai "terapeuti unici" (la moglie del
paziente, gelosa, può dirgli che sbagliamo in questo o in quello, il
paziente parla con un amico che va dall'analista e gli fa dire che il suo
analista farebbe in un altro modo ecc.). Certo, un'altra figura professionale
è più "autorevole" di una figura non professionale concorrente (ma sappiamo
che l'autorevolezza è proprio quella che andrebbe analizzata e smitizzata,
cioè non è seguendo l'autorevolezza degli altri che vogliamo che il nostro
paziente ragioni, anche nel senso che magari la moglie del nostro paziente
vede le cose molto meglio di noi). Intendo dire questo: se il nostro
paziente va a farsi dare i farmaci da un altro medico, e se questo medico ha
una linea diversa dalla nostra, o se addirittura ci si mette contro (magari
colludendo con una tendenza scissionale inconscia del paziente), quale è il
problema? Questo sarebbe un problema come un altro, da affrontare
tranquillamente in terapia, all'ordine del giorno. Cosa c'è di più bello che
due opinioni diverse? Vediamo quale può esser la migliore, discutiamone.
Magari ha ragione il farmacologo! Avremmo un arricchimento. L'analista
analizza dal suo punto di vista, e tutti i dati rientrano nel processo
interpretativo, compresi i comportamenti dell'altro collega (che sono
comunque anche oggetti interni del paziente): questi comportamenti
potrebbero essere "usati" dal paziente, oppure potrebbero rappresentare una
possibile interpretazione diversa dei dati, che noi vaglieremmo, e, come
facciamo sempre, cercheremmo di capire cosa è meglio fare. Vi sono qui
ottime occasioni, nell'affrontare questo problema, di mostrare al paziente
come lavoriamo (es. non mettendoci in competizione con l'altro collega -
cosa che rivelerebbe solo una nostra debolezza o la nostra invidia e
l'inconscio del paziente la coglierebbe subito; rispettando la opinione
degli altri, ecc.). Insomma anche qui vi sarebbero infiniti test
potenzialmente terapeutici se noi sappiamo superarli, al punto che
addirittura potrebbe considerarsi una felice opportunità terapeutica questo
"problema", che peraltro è un modello di problema come tanti il paziente ne
deve affrontare nella vita, e non c'è niente di meglio per lui che vedere
come noi lo affrontiamo.
 
11 Aprile 1999, Tullio Carere:
Caro Paolo, un breve commento (scusa il ritardo) a questo tuo importante
contributo. Sono d'accordo con riserva con quello che dici. Tu dici:
>Cosa c'è di più bello che
>due opinioni diverse? Vediamo quale può esser la migliore, discutiamone.
>Magari ha ragione il farmacologo! Avremmo un arricchimento. L'analista
>analizza dal suo punto di vista, e tutti i dati rientrano nel processo
>interpretativo, compresi i comportamenti dell'altro collega (che sono
>comunque anche oggetti interni del paziente)
 
D'accordo, è un "problema come un altro, da affrontare tranquillamente in
terapia". E' una posizione filosofica basilare (di vertice O, tra l'altro:
quello su cui finora meno siamo riusciti a intenderci). Da questo vertice
tutto quello che accade va bene. Da ogni problema c'è qualcosa da imparare,
anche il dolore più profondo è un'occasione per andare più in profondità.
Anche quando il problema sembra non avere soluzione, anche se si arriva al
limite di ciò che può essere elaborato cognitivamente, dove saltano tutte
le abituali griglie interpretative e ci si trova nella più completa
impotenza (Kierkegaard e Nietzsche hanno pagine magistrali su quella che
Jaspers ha chiamato l'"esperienza limite"). Infatti è molto nietzscheana la
tua esclamazione: "Cosa c'è di più bello di due opinioni diverse?"
Ma, proprio perché è una posizione filosofica - una posizione non
speculativa, ma esistenziale, che mette radicalmente in questione i
presupposti su cui si basa un'esistenza - richiede una relazione
terapeutica piuttosto evoluta, con un paziente dotato di una struttura
personale abbastanza solida, capace di tollerare livelli elevati di
conflittualità, fino al livello "catastrofico". Sappiamo bene che con le
persone fragili, a mala pena capaci di affrontare a poco a poco i propri
conflitti interni, la presenza di un conflitto esterno di rilievo (come una
figura autorevole del mondo esterno che si pone in aperta contraddizione
con la terapia) può far crollare quel precario equilibrio che ci permetteva
di lavorare: o perché l'"attacco al legame" è rafforzato oltre il limite
della rottura, o perché l'angoscia supera il livello che attualmente il
paziente può sopportare.
Credo che in ogni terapia, anzi in ogni seduta, si debba trovare il giusto
punto d'incontro, la giusta sintesi tra il lavoro psicologico (remaking) e
quello filosofico (uncovering). Con un certo paziente, in un certo momento
della terapia, l'apertura di un nuovo fronte conflittuale (come può essere
quello con un farmacoterapeuta) può essere benvenuta e feconda. Con un
altro, o con lo stesso in un momento diverso, la stessa apertura può avere
conseguenze ingestibili, e quindi è bene fare il possibile per evitarla.
Costruendo un buon affiatamento tra psicoterapeuta e farmacoterapeuta, se è
possibile. O unificando i due ruoli nella stessa figura, se non lo è.
 
12 Aprile 1999, Paolo Migone:
Caro Tullio, sono d'accordo col tuo discorso. Bisogna sempre fare attenzione
a come il paziente vive determinate cose. Certi pazienti non riuscirebbero a
tollerare ogni minima area di incertezza o di riflessione, e quindi hanno bisogno
di poche cose ma chiare, nella speranza che in seguito arrivino a tollerare le
varie divergenze o difficoltà di comprensione, sia dentro che fuori alla
terapia. Forse questi pazienti in certi casi hanno bisogno anche di un
approccio apertamente "suggestivo" o mirato più a chiudere i discorsi più
che ad aprirli, onde diminuire le loro sofferenze, in quanto ogni ricerca di
significato potrebbe essere vissuta come minacciosa.
 
13 Aprile 1999, Emilio Vercillo:
Eppure, anche dopo i complessi interventi di Paolo Migone e di Carere,
per citarne due, non rimango del tutto convinto.
Difficile non trovarsi d'accordo con Migone, che evidenzia con forza il
fatto che a voler considerare il dato farmacoterapia come una evenienza a
parte degli altri 'fatti' non verbali che avvengono nell'analisi, si
alimenta il mito di una psicoanalisi che viva solo di parole, o meglio di
contenuti delle parole, invece che della relazione tra due persone, e della
comprensione di quello che accade tra loro. (Spero di non aver travisato
troppo nella mia volgarizzazione).
Paolo Migone dice:
>Vi è chi argomenta che fare tutte e
>due le cose insieme è "più difficile": questo a prima vista sembrerebbe un
>ragionamento convincente, ma rivela solo la illusione che la "analisi
>normale" sia "facile", "pulita", tratta dati "psicologici puri" (vedi
>l'antico mito della "analisi classica", dove si rispetterebbe il setting).
>Anche dietro a questa posizione vi è una concezione antipsicoanalitica: il
>dato psicologico (o somatico) non viene così scoperto o interpretato, ma è
>conosciuto a priori, tramite un pregiudizio, e l'analisi è solo una
>razionalizzazione delle idee preconcette dell'analista o della sua malcelata
>cultura behavioristica di appartenenza (o forse anche di una cultura
>filosofica basata sul dualismo corpo-mente).
 
La questione per cui, varie mail fa, accennavo a un problema
"facile-difficile", riguardava non tanto la possibilità di valutare
l'effetto nel paziente del farmaco, o delle sue prescrizione e somministrazione
da parte del curante, quanto piuttosto, a monte, la difficoltà insita
nella necessità di porsi da parte della stessa persona in due modi di
funzionamenti differenti, allorché valuta sintomi, sindromi e forme
morbose per cui formulare un piano terapeutico farmacologico, o invece fa
con il paziente tutte quelle cose che si fanno in una psicoterapia psicoanalitica,
ma che mirano comunque tutte ad una ricerca si spera comune di senso.
La commutazione, e la interazione temporale, tra queste due funzioni mi
appariva difficile, anche se, come dicevo, ho avuto modo di constatare
colleghi al contrario capacissimi.
La discussione si è sviluppata, mi sembra, più su quello che avviene a
valle di questi eventi, (nella valutazione NEL paziente di questi atti e
chimiche) che invece mi paiono porre fortemente il problema della
"integrazione" (e su questo Carere potrà aiutarmi). Cari saluti
 
14 Aprile 1999, Tullio Carere:
Il 13/04/99 Emilio Vercillo ha scritto:
>Eppure, anche dopo i complessi interventi di Paolo Migone e di Carere,
>per citarne due, non rimango del tutto convinto (...)
>La questione per cui, varie mail fa, accennavo a un problema
>"facile-difficile", riguardava non tanto la possibilità di valutare
>l'effetto nel paziente del farmaco, o delle sue prescrizione e somministrazione
>da parte del curante, quanto piuttosto, a monte, la difficoltà insita
>nella necessità di porsi da parte della stessa persona in due modi di
>funzionamenti differenti, allorché valuta sintomi, sindromi e forme
>morbose per cui formulare un piano terapeutico farmacologico, o invece fa
>con il paziente tutte quelle cose che si fanno in una psicoterapia psicoanalitica,
>ma che mirano comunque tutte ad una ricerca si spera comune di senso.
>La commutazione, e la interazione temporale, tra queste due funzioni mi
>appariva difficile, anche se, come dicevo, ho avuto modo di constatare
>colleghi al contrario capacissimi.
>La discussione si è sviluppata, mi sembra, più su quello che avviene a
>valle di questi eventi, (nella valutazione NEL pz di questi atti e
>chimiche) che invece mi paiono porre fortemente il problema della
>"integrazione" (e su questo Carere potrà aiutarmi).
 
Sono d'accordo, c'è una questione "a valle" e una "a monte". A valle, si
tratta di valutare il significato che ciascuno dei partner della coppia
terapeutica attribuisce a tutto ciò che viene detto e fatto nella relazione
(inclusa la somministrazione di farmaci). A monte, il problema è quello di
disporre (di fornirsi) di una griglia, o mappa, che permetta di collocare
ogni tipo di intervento in un quadro unitario (questo per evitare
l'eclettismo radicale in cui tutto va bene, a patto di interpretarne il
significato - anche, perché no?, andare a letto con il/la paziente, purché
se ne interpreti prima, durante e dopo il significato).
Possono andare bene diverse mappe, ma bisogna dichiarare quale si sta
usando, e lavorare per correggerla e raffinarla continuamente. Per la
psicoterapia io uso una mappa con due assi ortogonali e quattro vertici che
mi permette di orientarmi in qualsiasi momento del processo (v. mio lavoro
su PM-TR). Per la psichiatria uso una mappa a tre vertici
(psicoterapeutico, farmacoterapeutico, socioterapeutico). Se si disegna il
triangolo del campo psichiatrico, i tre settori compaiono come figure
quadrangolari: ognuno di questi settori può essere visto a sua volta come
un campo definito da due assi ortogonali e quattro vertici, allo stesso
modo del campo psicoterapeutico. Per es. la somministrazione del farmaco
può avvenire da un vertice materno (rassicurante), paterno
(responsabilizzante), scientifico (basato sulla conoscenza oggettiva del
farmaco e l'osservazione dei suoi effetti), mistico (il farmaco come
oggetto simbolico, capace di attivare le potenze inconsce di guarigione -
buona parte dell'effetto placebo proviene da questo vertice).
Non dico che la mia mappa sia la migliore (è la migliore di quelle che
conosco, ma chiunque abbia disegnato una mappa direbbe lo stesso della
propria). Possono andare bene altre mappe, ripeto, ma è importante averne
almeno una (se sono più di una, occorre poi una chiave per coordinarle).
Altrimenti, o lavorate su un modello di scuola (ad es. psicoanalisi
freudiana, comportamentismo skinneriano), e allora l'integrazione è
impossibile (che il farmaco sia somministrato dallo psicoterapeuta o da
qualcun altro, è lo stesso); oppure adottate uno stile feyerabendiano alla
"everything goes" - e allora spiegatemi come fate a non finire a letto con
le vostre/i vostri pazienti.
 
14 Aprile 1999, Paolo Migone:
Il 13/04/99 Emilio Vercillo ha scritto:
>La questione per cui, varie mail fa, accennavo a un problema
>"facile-difficile", riguardava non tanto la possibilità di valutare
>l'effetto nel paziente del farmaco, o delle sue prescrizione e somministrazione
>da parte del curante, quanto piuttosto, a monte, la difficoltà insita
>nella necessità di porsi da parte della stessa persona in due modi di
>funzionamenti differenti, allorché valuta sintomi, sindromi e forme
>morbose per cui formulare un piano terapeutico farmacologico, o invece fa
>con il paziente tutte quelle cose che si fanno in una psicoterapia
>psicoanalitica, ma che mirano comunque tutte ad una ricerca si spera comune di senso...
 
Il 14/04/99 Tullio Carere ha scritto:
>Sono d'accordo, c'è una questione "a valle" e una "a monte". A valle, si
>tratta di valutare il significato che ciascuno dei partner della coppia
>terapeutica attribuisce a tutto ciò che viene detto e fatto nella relazione
>(inclusa la somministrazione di farmaci). A monte, il problema è quello di
>disporre (di fornirsi) di una griglia, o mappa, che permetta di collocare
>ogni tipo di intervento in un quadro unitario (questo per evitare
>l'eclettismo radicale in cui tutto va bene, a patto di interpretarne il significato...
 
Ringrazio Emilio e Tullio per aver sollevato questa ulteriore riflessione
nel dibattito "farmaci+psicoterapia", quella della questione "a valle" e
"a monte". Se ho capito bene, vi sarebbe una differenza tra la griglia che
usiamo per analizzare i fenomeni a monte e quelli a valle. Pare che siamo tutti
d'accordo che "a valle" usiamo una sola griglia, quella, nelle parole di
Tullio, "di valutare il significato che ciascuno dei partner della coppia
terapeutica attribuisce a tutto ciò che viene detto e fatto nella relazione
(inclusa la somministrazione di farmaci)".
"A monte", però, vi sarebbero dei problemi nell'usare una sola griglia, a
causa, nelle parole di Emilio, della "difficoltà insita nella necessità di
porsi da parte della stessa persona in due modi di funzionamento differenti"
(valutare i sintomi come criterio per dare dei farmaci oppure ricercare il
senso nella psicoterapia).
Provo a rispondere in questo modo. Supponiamo che sia vero che vi sia
differenza tra operazioni a monte e operazioni a valle, e che in quelle a
monte occorrano due griglie diverse. Allora chiedo: se ad esempio una
paziente mi dice che ha un forte mal di testa, e non è sicura perché ce
l'ha, se per un conflitto di aggressività verso suo marito (o verso me),
oppure perché si trova adesso in periodo premestruale, oppure, come anche
sospetta, perché vi è aria viziata o piena di fumo nella mia stanza, io come
terapeuta che griglia devo usare?
Quella medica (anamnesi, storia di precedenti mal di testa nel periodo
premestruale e non, ecc.) oppure psicodinamica (eventuali cause - o concause
- "non fisiche" del mal di testa)? Questa è una situazione a monte o a valle?
Questa analisi del sintomo in che modo è diversa da quella di mille altre
situazioni in analisi? (quando ad esempio un paziente "psicologizza" come
difesa, e io sospetto che invece la causa sia un'altra o viceversa, ecc.)
Ho l'impressione che se riusciamo a rispondere a questi quesiti con
chiarezza, ci avviciniamo di più a risolvere la questione che ci interessa.
 
18 Aprile 1999, Emilio Vercillo:
Proverò a rispondere alla consueta ricchezza e duttilità di Paolo Migone
con la mia piccola ossessività, che mi porta a distinguere, pensando che
 
1) non è uguale la situazione di contesto in cui il paziente si presenta da noi
all'inizio per una valutazione, o, essendo già in psicoterapia,
psicologizza sul suo mal di testa
 
2) se porto fino in fondo quello che Paolo suggerisce, devo pensare che a
quel punto possa mettersi a valutare riflessi, Romberg, ecc., prescrivere
un EEG, un MRI, e infine operi il paziente per il tumore in fossa posteriore
che ha trovato, senza che questo configuri alcunchè di diverso dagli eventi
reali che entrano nella relazione terapeutica. Sto ovviamente supponendo
che, come è possibile, Paolo sia anche un buon neurochirurgo.
 
3) supponiamo l'evenienza più semplice di una prima presentazione di un
paziente. Ho difficoltà (maggiore che a ritenerlo buon neurochirurgo) a vedere
Paolo sottoporre il paziente a una intervista che valuti tutti gli elementi come
frequenza delle crisi depressive, loro ricorrenza stagionale, peso
determinato delle componenti d'umore, dell'inibizione psicomotoria,
variazioni diurne, misura delle componenti ansiose, e poi "le capita che
attività e interessi da cui prima traeva piacere non riescano a
interessarla più?", "come riesce a dormire? Si sveglia presto al mattino, o
ha ripetuti risvegli?", "com'è il suo appetito, diminuito o aumentato; ha
perso peso? quanto?", "direbbe che il suo umore depresso ha una qualità
diversa di quando in precedenza si è sentito triste?", "a volte è così
irrequieto da non riuscire a sedere tranquillo?", "in precedenza quanto è
durato un episodio simile?", "ha mai avuto in precedenza dei periodi in cui
si sentiva innaturalmente su di giri", " periodi in cui si irritava per un
nonnulla, in cui si litigava con tutti?", ecc. ecc. ecc. (e un episodio
depressivo è solo un caso tra le possibilità da valutare per il singolo paziente,
per non parlare di patologie mediche concomitanti di cui devo tenere conto).
Ho difficoltà, dicevo, a pensare che questo tipo di colloquio (dettagliato
per una terapia farmacologica che non sia data secondo criteri di massima),
che sottopone (ripeto il verbo) il paziente a una dettagliata serie di domande
possa essere lo stesso di (o possa non influire su) un trattamento
psicoterapeutico psicoanalitico condotto dalla stessa persona.
 
4) Secondo quanto sopra, intendo che non si tratta solo di una diversa
"griglia che usiamo per analizzare i fenomeni a monte e quelli a valle",
ma anche di strumenti e manovre differenti, atti a elicitare elementi utili
differenti alle diverse griglie di analisi
 
5) Il fatto che Paolo rimanga convinto che la persona che ha in stanza di
analisi non sia puro spirito, ma si tratti di una persona concreta, e
perciò corporea, non può che fargli onore, dato che al cambiare di laurea
(e a volta anche senza questo cambiamento) questa appare teoria non
condivisa, ma non comporta, a mio parere, che la distinzione di funzioni
terapeutiche implichi in sé una concezione dualistica dell'essere umano.
Se non avessi scritto una mail già lunga (per i miei standard almeno), e
se non fosse questa una lista che discute di psicoterapia solo per via
teorica - o modellistica, o come vi pare -, parlerei anche di un caso che in
questo momento mi pone particolari problemi proprio per quanto sopra.
Cari saluti
 
20 Aprile 1999, Paolo Migone:
Il 18/04/99 Emilio Vercillo ha scritto:
>1) non è uguale la situazione di contesto in cui il pz. si presenta da noi
>all'inizio per una valutazione, o, essendo già in psicoterapia,
>psicologizza sul suo mal di testa
 
Non sono sicuro di capire perché dovrebbero essere diverse le due situazioni:
in entrambe può "psicologizzare" o non, se è per questo.
Inoltre ha scritto:
>2) se porto fino in fondo quello che Paolo suggerisce, devo pensare che a
>quel punto possa mettersi a valutare riflessi, Romberg, ecc., prescrivere
>un EEG, un MRI, e infine operi il paziente per il tumore in fossa posteriore che
>ha trovato, senza che questo configuri alcunché di diverso dagli eventi
>reali che entrano nella relazione terapeutica. Sto ovviamente supponendo
>che, come è possibile, Paolo sia anche un buon neurochirurgo.
 
Certo, fai bene a portare fino in fondo la logica dei nostri ragionamenti,
perché è così che si capisce meglio se tengono. Il "valutare i riflessi"
(prendo questa operazione come esempio di tutte le altre che citi, tutte
"mediche" o "chirurgiche") è una operazione omologa a quella di dare i
farmaci. Entrambe richiedono conoscenze mediche. Se uno non è un medico non
le fa. Ma se è medico può farle. In che senso non fanno parte degli "eventi
reali che entrano nella relazione terapeutica"? Il fatto che non siano
usuali da parte dei terapeuti non significa niente, potrebbe essere dovuto
al fatto che in genere non c'è bisogno di farli. Ma se ad esempio il
paziente ha i sintomi di un tumore cerebrale, come fai ad accorgertene? (tra
l'altro: siamo qui a valle o a monte?). Quale ragionamento clinico ti
permette di non continuare a interpretare, fino alla morte del paziente, gli
eventuali sintomi organici come dovuti unicamente a un conflitto inconscio?
Ogni terapeuta, di fatto (medico o psicologo che sia) possiede (o dovrebbe
possedere) delle minime conoscenze di base che gli permettono di non fare
questo tipo di errori. Dovrebbe subito, se ha dei sospetti, suggerire al
paziente di farsi vedere da uno specialista, ma solo perché in genere non è
lui quello che conosce quel tipo di informazioni specialistiche. Se, caso
rarissimo, quello psicoanalista facesse un lavoro part-time come
neurochirurgo e fosse un ottimo specialista neurochirurgo, potrebbe anche
dare consigli in tal senso, con tutta tranquillità (la stessa con cui parla
di qualunque altro sintomo "psicologico"). Tu allora dirai, mosso più che
altro dalla sorpresa per una cosa che in genere non si fa (il fatto che una
cosa in genere non si fa non significa niente): ma allora deve essere lui ad
operarlo al cervello? Deve essere lui, se ginecologo, a visitare la
paziente? Questa problematica si pone, ma così allo stesso modo come si
pongono tutte le altre problematiche in psicoterapia: quale impatto potrà
avere sul paziente il fatto che il suo terapeuta si avvicina così tanto al
suo "corpo" e non solo alla sua "mente"? Cosa può significare per entrambi
modificare così tanto le regole abituali del loro rapporto? Questo è un
ottimo terreno di analisi e di scoperte di nuove cose. Dopo aver esaminato
tutte le varie implicazioni, si può concludere che è meglio che lo
specialista sia un altro, oppure no, così come nel caso dei farmaci.
Ti ricordo anche che nella grossa tradizione psichiatrica americana (ma
anche europea, es. svizzera) dell'approccio interpersonale (vedi Chesnut
Lodge, ecc., cioè dove lavorò Sullivan, la Frida Fromm-Reichmann, ecc., e
dove dagli anni '50-'60 inevitabilmente si danno anche farmaci) regolarmente
da sempre vi è stata una commistione di interventi diversi nelle terapie
psicoanalitiche che venivano condotte sui pazienti istituzionalizzati. Non
era così facile non "sporcarsi le mani". Basta leggere un qualunque
resoconto di casi clinici pubblicati, anche negli ultimi anni, di pazienti
seguiti con terapia psicoanalitica in queste istituzioni, o in ambulatorio
(sia privato che pubblico), per vedere come l'intervento "medico" (es. il
farmaco) faccia regolarmente parte della logica interpretativa, pur valendo
anche come "farmaco", così come qualunque altro intervento.
Rimango sempre perplesso dalla difficoltà da parte di molti colleghi ad
accettare questo modo di vedere le cose, come se improvvisamente ci si
scordasse del tutto di Balint, di tutta la tradizione della "dynamic psychiatry" ecc.
 
Ancora:
>3) supponiamo l'evenienza più semplice di una prima presentazione di un
>paziente. Ho difficoltà (maggiore che a ritenerlo buon neurochirurgo) a vedere
>Paolo sottoporre il paziente a una intervista che valuti tutti gli elementi come
>frequenza delle crisi depressive, loro ricorrenza stagionale, peso
>determinato delle componenti d'umore, dell'inibizione psicomotoria,
>variazioni diurne, misura delle componenti ansiose, e poi "le capita che
>attività e interessi da cui prima traeva piacere non riescano a
>interessarla più?", "come riesce a dormire? Si sveglia presto al mattino, o
>ha ripetuti risvegli?", "com'è il suo appetito, diminuito o aumentato; ha
>perso peso? quanto?", "direbbe che il suo umore depresso ha una qualità
>diversa di quando in precedenza si è sentito triste?", "a volte è così
>irrequieto da non riuscire a sedere tranquillo?", "in precedenza quanto è
>durato un episodio simile?", "ha mai avuto in precedenza dei periodi in cui
>si sentiva innaturalmente su di giri", " periodi in cui si irritava per un
>nonnulla, in cui si litigava con tutti?", ecc. ecc. ecc. (e un episodio
>depressivo è solo un caso tra le possibilità da valutare per il singolo paziente, 
>per non parlare di patologie mediche concomitanti di cui devo tenere conto).
 
Vedi sopra. Inoltre, anche ogni psichiatra che fa una intervista strutturata
o semistrutturata per scopi di ricerca non può prescindere mai dalla
attenzione che deve dare alla relazione interpersonale e all'impatto
dell'intervista sul paziente. Queste sono cose arcinote, forse solo in
qualche più o meno grande anfratto sottoculturale della psichiatria italiana
si crede che esista lo psichiatra che fa solo la intervista arida per dare
farmaci.
In breve: se voglio dare un farmaco per ottenere degli effetti, e se per
questo, come tu dici, ho bisogno di avere rapidamente altre informazioni che
ritengo possano servirmi, quale è il problema a fare tutte le domande di cui
ho bisogno? Il paziente, sapendo bene il contesto da cui nasce la mia
esigenza, sarà lietissimo di collaborare, nel suo interesse. Non riesco
proprio a capire dove sia il problema. Forse che il paziente vive male il
fatto che io penso che abbia bisogno di farmaci? E perché? E se vivesse male
il contrario? ecc. (ma di questo abbiamo già parlato le altre volte).
Più vanti ha scritto:
>Ho difficoltà, dicevo, a pensare che questo tipo di colloquio (dettagliato
>per una terapia farmacologica che non sia data secondo criteri di massima),
>che sottopone (ripeto il verbo) il paziente a una dettagliata serie di domande
>possa essere lo stesso di (o possa non influire su) un trattamento
>psicoterapeutico psicoanalitico condotto dalla stessa persona.
 
Hai mai visto un videotape di una "intervista strutturale" di Kernberg? Fa
molte domande che tu chiami "mediche" (eppure è uno psicoanalista,
almeno alivello istituzionale, essendo stato eletto presidente
dell'International Psychoanalytic Assoiciation [IPA]). Queste rientrano
perfettamente nell'intervista, perché il loro impatto "medico" fa
parte del materiale da analizzare. (da notare che, secondo la logica che uso
io, anche le domande "non mediche" sono biased, fanno già parte del
pregiudizo dell'analista che crede che abbiano un determinato significato
per il paziente).
Al punto 4 dice:
>4) Secondo quanto sopra, intendo che non si tratta solo di una diversa
>"griglia che usiamo per analizzare i fenomeni a monte e quelli a valle",
>ma anche di strumenti e manovre differenti, atti a elicitare elementi utili
>differenti alle diverse griglie di analisi.
 
Sì, ma il dato "psichiatrico" che emerge da una certa griglia "psichiatrica"
sarà necessariamente anch'esso filtrato dall'altra griglia, quella
"psicologica", cioè rientrerà sempre all'interno di una logica comunque
presente nell'interazione. Pare che tu creda nella esistenza di una griglia
psichiatrica pura, ma non esiste uno psichiatra che non sia nello stesso
tempo anche uno psicoterapeuta. Lo "psicofarmacologo puro" è una finzione,
già il medico non specialistico deve avere determinate conoscenze
relazionali, figuriamoci uno che non dà farmaci ma psicofarmaci. Lo
"psicofarmacologo puro" mi ricorda l'anatomopatologo, che lavora coi
pazienti come se fossero sul tavolo autoptico.
Al punto 5:
>5) Il fatto che Paolo rimanga convinto che la persona che ha in stanza di
>analisi non sia puro spirito, ma si tratti di una persona concreta, e
>perciò corporea, non può che fargli onore, dato che al cambiare di laurea
>(e a volta anche senza questo cambiamento) questa appare teoria non
>condivisa, ma non comporta, a mio parere, che la distinzione di funzioni
>terapeutiche implichi in sé una concezione dualistica dell'essere umano.
 
Non sono sicuro di questo.
Mi fa piacere continuare a discutere con te, il mio unico problema a continuare
a conversare in lista è la eventuale mancanza di tempo.
Riguardo ad una nostra differenza di vedute, una possibilità (ma non ne sono
sicuro, dato che mi sembra di averla sempre pensata così) è che essa dipenda
anche dalla diverse culture a cui siamo stati esposti: la cultura
psichiatrica americana è stata "psicoanalitica" fin dagli anni '20-'30, per
cui ha quasi 50 anni di anticipo rispetto a quella italiana. Là certe cose
sono state date sempre per scontate. Anche la ondata biologica recente
(dagli anni '70-'80 in poi) a mio modo di vedere ha sempre avuto un
importante retroterra dinamico non del tutto invisibile. Come ben sai, molti
dei principali creatori del DSM-III (a cominciare da Spitzer) erano stati
psicoanalisti e avevano anni di pratica clinica (a quattro sedute alla
settimana! Spitzer lavorò otto anni in questo modo), e se non avevano
completato il training erano stati immersi nella cultura psicoanalitica per
tutta la loro formazione, essendo di quella generazione. Questa ideologia
psicosociale, come è ben noto, ha da sempre caratterizzato la psichiatria
del nuovo mondo rispetto all'Europa, e spesso si tende a dimenticarlo
 
18 Aprile 1999, Tullio Carere:
Riguardo alla mail di Paolo Migone del 14-4-99,
"A valle" significa: qualcosa è già avvenuto (qualsiasi cosa: un evento
casuale o voluto, un intervento tecnico o una manifestazione emotiva
spontanea, il racconto di un sogno o la somministrazione di un farmaco). Si
tratterà di vedere in che modo questa cosa è vissuta e interpretata da
ciascuno dei due partner della coppia terapeutica.
"A monte" significa: qualcosa deve ancora accadere (per esempio fornire una
certa interpretazione, prescrivere un certo homework o un certo farmaco).
La cosa accadrà o meno, e accadrà in un modo o in altro, a seconda della
mia decisione, e del modo in cui io cercherò di farla accadere. La
questione allora è: con quale criterio io decido come muovermi?
Prima risposta: con lo stesso criterio che uso a valle. Cioè cerco di
esplorare in anticipo il significato che il mio intervento potrà avere sia
per me, sia per il paziente, e mi regolo di conseguenza. Ma che cosa vuol
dire precisamente che "mi regolo di conseguenza"? Vuol dire che in base
alla mia valutazione (secondo scienza e coscienza) dei diversi fattori in
gioco, e dei significati ad essi attribuiti da entrambe le parti, io decido
di fare qualcosa (fornire un'interpretazione o un farmaco o quant'altro) da
cui posso ragionevolmente aspettarmi un risultato terapeutico, e di
astenermi dal fare qualcos'altro, le cui conseguenze sono dubbie.
Ma se le azioni che io prendo in considerazione derivano da paradigmi
diversi e incompatibili (ad esempio: fornire un'interpretazione freudiana o
kohutiana, prescrivere un antidepressivo o un rimedio omeopatico - si può
fare, lo dice anche la Bindi) come farò a confrontare tra loro atti che
appartengono a sfere diverse e non comunicanti? Risposta: o dispongo di (o
creo sul momento) uno schema sovraordinato che includa le due pratiche
(incompatibili se prese ciascuna al proprio livello), e che mi permette di
stabilire, ad esempio, quando intervenire in modo freudiano e quando in
modo kohutiano, oppure vado "a naso", ma in questo caso dovrei fidarmi
proprio tanto del mio olfatto (al punto che non procederei più secondo
scienza e coscienza, ma secondo coscienza e olfatto).
Non voglio dire nulla contro il naso, organo preziosissimo e in tanti casi
insostituibile. Ma saremo tutti d'accordo, credo, che non dovrebbe essere
l'organo guida di un terapeuta, quanto piuttosto la risorsa di emergenza,
quando i procedimenti più regolari e affidabili per qualsiasi motivo non
siano utilizzabili. Tornando, per concludere, alla questione dei farmaci,
se il terapeuta dispone, poniamo, di una strumentazione psicoterapeutica di
tipo psicoanalitico, ma per somministrare un farmaco non può fare altro che
sottoporre il paziente a un interrogatorio come quello riportato da
Vercillo nel suo messaggio di ieri, per "integrare" le due cose non gli
resta proprio altro che il naso, e che Dio la mandi buona, a lui e
soprattutto al suo paziente. Se invece il terapeuta dispone di schemi o
mappe o modelli sovraordinati (anche parziali e provvisori) che includono,
o mettono in relazione dialettica, le due sfere di per sé incompatibili se
lasciate ciascuna al proprio livello, allora e solo allora, a mio parere,
si può cominciare a parlare di integrazione.
Grazie a Paolo Migone a Emilio Vercillo per questa stimolante discussione
 
20 Aprile 1999, Paolo Migone:
Caro Tullio, mi sembra di non essere d'accordo con te. A me sembra che
"l'interrogatoriocome quello riportato da Vercillo nel suo messaggio di ieri" sia
uno stimolo come un altro, o forse addirittura meno potente di altri, analizzabile
come qualunque altra cosa. Forse una certa interpretazione psicoanalitica può
essere ancor più destrutturante, ancor più difficile da analizzarne gli
effetti. Una interpretazione psicoanalitica può essere altrettanto difensiva
(se questo è il caso), offensiva, intrusiva, o forse altrettanto empatica,
ecc. Magari solo con un interrogatorio psichiatrico di quarto grado il
paziente, che ne so, a causa del suo transfert, si sente veramente capito
dal suo terapeuta e di questo poi se ne può parlare. E magari proprio un
atteggiamento psicoterapeutico classico o "empatico" viene vissuto malissimo
da un paziente, che si aspettava qualcos'altro.
Mi sembra che vi sia il solito pregiudizio di fondo: i "dati" voi li conoscete già,
sapete già quali sono quelli psicologici e quali sono quelli medici...
Sembra un dualismo culturale, nel terapeuta. Per me i dati sono sempre
psicologici e ovviamente anche biologici, altrimenti non esisterebbero.
 
P.S.: se ho capito bene, in questa tua mail tu poi di fatto abolisci la
differenza, fatta in una precedente mail, tra "a monte" e "a valle", nel
senso che in entrambi i casi si tratta pur sempre di usare un criterio di scelta.
 
29 Aprile 1999, Tullio Carere:
Caro Paolo, credo che per riuscire a intenderci la questione delle valutazioni
"a monte" e "a valle" vada riformulata, anche a costo di ripartire da cose per
noi arcinote e di dilungarmi più di quanto sia mia abitudine. Per
l'analista tradizionale (e in questo senso anche Gill, almeno fino al 1984,
lo è) qualsiasi intervento deliberato (come una prescrizione
comportamentale o farmacologica, o la ricerca di un'esperienza emotiva
correttiva) deve essere evitato. Se si ammette solo un'interazione
involontaria, implicita o intrinseca, il senso si dà solo "a valle", cioè
a posteriori, per un evento non attivamente cercato (posizione
tradizionalista ancora recentemente ribadita da Katz e definita da Gillet,
sulla lista di discussione del Journal of the American Psychoanalytic
Association, "espressione della resistenza ortodossa a nuove idee"
[expression of orthodox resistance to new ideas]).
Per chi ha superato la "resistenza ortodossa", invece, anche le azioni
terapeutiche deliberate sono lecite, e anzi doverose. Di queste il senso
deve essere valutato "a monte", cioè prima di effettuarle, e rivalutato "a
valle", dopo che sono state compiute. Ma, una volta superata la
"resistenza ortodossa", e quindi introdotta la necessità di valutazioni
anticipatorie, lo scenario cambia completamente rispetto a quello
"psicoanalitico classico". In questo, infatti, c'è un'unica azione
terapeutica deliberatamente cercata, ed è l'interpretazione. Questa
"verità" non è mai messa in discussione: in questo orizzonte si discute
solo sulla giustezza dell'interpretazione, sulla sua tempestività, e simili.
Nel nuovo scenario, invece, che mi sembra giusto chiamare
"psicoterapeutico", o "terapeutico" tout court, si ammette la legittimità e
anzi la necessità di molteplici azioni terapeutiche, oltre a quella
interpretativa. Naturalmente il significato di tutte queste azioni deve
essere valutato, a monte e a valle, ma si tratta di valutazioni (o
interpretazioni) ben diverse da quelle dello scenario precedente. Infatti
l'interpretazione "psicoanalitica" è ritenuta terapeutica di per sé, in
qunato porta alla conoscenza un materiale inconscio, o lega in un processo
secondario un materiale primario. Invece l'interpretazione "terapeutica" si
propone di stabilire in primo luogo se una certa azione, o un certo
movimento del processo, sono o non sono terapeutici, e ha quindi
l'obiettivo di favorire certe azioni o certi processi ritenuti terapeutici,
e di frenarne altri, ritenuti non terapeutici (per es. dare o sospendere un
certo farmaco, incoraggiare un'esperienza ritenuta correttiva, scoraggiarne
un'altra ritenuta patogena). In questo quadro la "psicoanalisi" diventa
solo un settore particolare della terapia: portare alla coscienza un
materiale inconscio, o comunque fornire un'interpretazione, è un'operazione
che può essere terapeutica oppure no (sappiamo tutti come può essere
patogena un'analisi), e quindi va attuata o evitata a seconda di tale
valutazione, al pari di qualsiasi altra azione.
Ma una volta usciti dal quadro ristretto e tranquillizzante in cui sappiamo
che "in ultima analisi" quello che conta è solo "fornire buone
interpretazioni", ci troviamo calati in un orizzonte ben più vasto in cui
ogni cosa può essere terapeutica o patogena: un'interazione affettiva come
un farmaco, un'interpretazione come un santino di padre Pio. A questo punto
la distinzione tra valutazioni "a monte" e "a valle" perde di senso (sono
d'accordo con te): è evidente che in un processo interattivo ci troviamo
continuamente a monte di qualcosa e a valle di qualcos'altro. Quello che
conta, allora, è installare all'interno della relazione terapeutica un buon
vertice conoscitivo, in cui esplorare continuamente e assieme al paziente
il significato di tutto ciò che accade, inclusi i progetti e le intenzioni
(che stanno "a monte" delle azioni che saranno poi effettivamente
compiute). In alcuni casi la conoscenza che in tal modo si ottiene ha di
per sé valore terapeutico: si produce per così dire un "effetto
psicoanalitico". In altri casi il lavoro di conoscenza ha valore
preparatorio per azioni diverse, di ordine psicoterapeutico (come la
ricerca di un'esperienza emotiva correttiva), psichiatrico (la prescrizione
di un farmaco), medico (il suggerimento di una gastroscopia), o altro
ancora. Conclusioni:
 
1. La questione delle valutazioni "a monte" non si pone in un
trattamento analitico tradizionale, che ammette solo un'interazione
implicita o intrinseca. Si pone invece in un trattamento che prende in
considerazione e tenta di integrare molteplici fattori terapeutici: ma in
questo caso la "griglia" di valutazione è appunto una griglia terapeutica
(essendo una griglia psicoanalitica solo una sottoscala di tale griglia
generale), e vale tanto a monte, quanto a valle di ogni singola interazione
terapeutica.
 
2. Una volta ammessa la legittimità, e anzi la doverosità,
dell'integrazione di molteplici e svariate interazioni terapeutiche, tale
integrazione non può peraltro assolutamente essere data per scontata, dal
momento che abbiamo a che fare con universi teorico-tecnici disparati e a
tutta prima incompatibili (di qui la perplessità di Emilo Vercillo, credo).
L'integrazione è, piuttosto, un problema e un compito. Una delle vie
all'integrazione - quella che, come sai, preferisco - è la costruzione di
mappe in cui i fattori terapeutici essenziali sono organizzati in strutture
coerenti e passabilmente unitarie (ne ho parlato a Miami nei giorni scorsi, al
congresso della Society for the Exploration of Psychotherapy Integration
[SEPI], con Mike Basseches e Hilde Rapp, anche loro "cartografi"
come me: abbiamo deciso di organizzare assieme un panel sul tema al
prossimo congresso). Invece non sono sicuro di avere capito bene, Paolo,
qual è la tua via all'integrazione. Intendi dire che il dialogo terapeutico
è di per sé una condizione necessaria e sufficiente per l'integrazione,
senza alcun bisogno di strumenti concettuali supplementari? (E' la tesi di
Arthur Egendorf, ma non credo che ti riconosceresti nei suoi presupposti
heideggeriani). Aspetto lumi.
 
30 Aprile 1999, Paolo Migone:
Caro Tullio, innanzitutto ben tornato dal convegno della SEPI a Miami.
Spero che sia stata una esperienza ricca di stimoli.
Ti ringrazio per questa tua ultima mail, che tocca importanti punti con la
solita lucidità. Mi sembra di essere d'accordo con te su quasi tutto. Vengo
quindi sui punti critici e sulle domande che fai.
Innanzitutto devo dire che ho sempre avuto delle perplessità a separare
terapia da conoscenza (cioè dalla interpretazione), nel senso che lo scopo
della psicoanalisi, da come lo ho sempre capito, e da come a mio parere lo
intendeva Freud, è curare le persone, e la interpretazione veniva usata solo
perché serviva a quello scopo. Freud era alla ricerca di tecniche per
modificare le persone. La "conoscenza" era al servizio della cura, e non
viceversa, anche per ovvi motivi etici. Lo "junktim" freudiano (legame
inscindibile tra terapia e conoscenza) era un'ipotesi, confermata anche dal
fatto che la conoscenza può fare male. Infatti tu dici:
>la "psicoanalisi" diventa
>solo un settore particolare della terapia: portare alla coscienza un
>materiale inconscio, o comunque fornire un'interpretazione, è un'operazione
>che può essere terapeutica oppure no (sappiamo tutti come può essere
>patogena un'analisi), e quindi va attuata o evitata a seconda di tale
>valutazione, al pari di qualsiasi altra azione.
 
Quindi, soprattutto dopo l'avvento della Psicologia dell'Io (concetti di
difesa, ecc.) è diventata prassi normale non dare conoscenza se questa è
patogena, ma lavorare sulle difese, anzi, rafforzarle, e così via. Il fatto
che certe scuole psicoanalitiche lavorino ancora su basi teoriche della
"Psicologia dell'Es" (cioè interpretare la "verità" come massimo compito
dell'analista), es. certi kleiniani, certi lacaniani, ecc. (ammesso che poi
lavorino così, cosa improbabile), non cambia la questione, almeno io ho
sempre visto le cose in questo modo. Quindi, in questa prospettiva, e
volendo insistere sul mio modo provocatorio con cui ho posto sempre la
questione, non sarebbe vero che, come dici, "la "psicoanalisi" diventa solo 
un settore particolare della terapia" ma la "psicoanalisi" (così come la 
intendiamo noi, cioè come una pratica a tutto campo) è la "terapia", in quanto nelle 
premesse teoriche di questa psicoanalisi vi è ben chiaro l'assunto che "non si deve affatto 
interpretare per il gusto di interpretare". Tu citi autori "ortodossi" che la pensano
diversamente, ma allora si potrebbero citare altri autori e così
all'infinito. Proporrei invece di non citare nessuno (neanch'io Gill, che
peraltro ho sempre citato a scopo retorico, per convincere il lettore, non
perché mi servisse per la logica del discorso) e di basarci solo sui nostri
ragionamenti. Ho l'impressione che potremmo essere d'accordo, ma vorrei conferma.
Il secondo punto che sollevi, collegato al precedente, è quello della
integrazione. Devo dire che ho sempre avuto delle perplessità anche a usare
questo termine, in quanto l'ho sempre trovato un pò privo di senso. Si
possono integrare due cose solo se queste due cose esistono separatamente,
cioè se una non contiene già l'altra. E qui, alla luce delle cose dette
prima, ho dei problemi. Pensa solo a un Gedo (altro che terapia integrata!),
oppure allo stesso Freud che era meno "freudiano" di tanti suoi seguaci.
Casomai si è imparata una maggiore raffinatezza interpretativa, ad
analizzare ad esempio meglio la ubiquità del transfert, ma questo solo come
arricchimento alla totalità e complessità della terapia (sai benissimo poi
quanta importanza venga data, nella psicoanalisi recente, alla interazione
inconscia come ipso facto terapeutica (es. Stern et al. nell'International
Journal of Psychoanalysis, 1998/5, http://ijpa.org/archives1.htm).
In altre parole, se Gillett parla di "expression of orthodox resistance to
new ideas", c'è da chiedersi quali sono queste "nuove" idee: quelle di Ferenczi 
degli anni '20? quelle di Alexander degli anni '30 e '40?
(Un'ultima osservazione, dato che questo dibattito riguarda "Farmaci e
psicoterapia": chi è favorevole a una psicoterapia cosiddetta "integrata",
allora forse dovrebbe, a maggior ragione, essere favorevole a una figura
unica che, se gli è consentito e se ne ha l'expertise, somministra farmaci e
psicoterapia). Un caro saluto
 
1 Maggio 1999, Piero Porcelli:
A proposito dell'ultima osservazione di Paolo Migone della sua mail del
30-4-99, come ho già detto in un altro intervento su questo tema, poche
volte durante il mio training analitico è stato trattato il rapporto tra farmaci
e psicoterapia (un po' più spesso nelle supervisioni, ma mai approfondito)
ed in ogni caso la versione ufficiale sostenuta quasi come dato scontato è
la divisione fra chi somministra i farmaci e chi fa la psicoterapia. Ritengo
che la maggior parte dei colleghi adoperi questa linea di comportamento
nella prassi clinica routinaria. Ripeto questa nota perché dai discorsi di
Paolo Migone e Tullio Carere sembra che la realtà "normale" sia l'opposto e
che ci sia una sostanziale unanimità sul modo critico di intendere questo
rapporto così come viene discusso in lista.
Chiunque abbia una concezione laica della psicoanalisi e della psicoterapia
non può che salutare con entusiasmo l'idea di abolire legittimamente gli
steccati rigidi eretti dalle "resistenze ortodosse". In effetti, pretendere
di impiegare una tecnica psicoterapeutica (quella analitica classica) quale
metro di misura di ogni intervento terapeutico (il "si fa così") appartiene
ad una concezione molto fideistica e religiosa della psicoanalisi.
Partendo da questo punto, l'affermazione di Paolo sulla figura unica del
terapeuta è del tutto consequenziale all'idea che la terapia sia una
analisi dei significati della relazione. Questa, che è senz'altro una idea
psicoanalitica, identifica la terapia non con la psicoanalisi come tecnica
(che credo resti una delle tante tecniche psicoterapeutiche, come dice
Tullio) ma con una filosofia molto ampia che intende la psicoterapia
anzitutto come rapporto, per cui in questi rimandi di equivalenze semantiche
la psicoanalisi è "la" terapia perché ogni psicoterapia è rapporto, come
dice Paolo. In sostanza, non vedo contraddizioni fra le due posizioni di Tullio e Paolo.
Cosa significa figura unica del terapeuta? Me lo chiedo per ovvie ragioni,
essendo io psicologo e non medico. Figura unica potrebbe significare che il
terapeuta (nel senso ampio che intende Tullio) si assume la
"responsabilità" della terapia e quindi dell'integrazione fra i diversi
momenti della terapia. L'expertise di cui parla Paolo non si riduce soltanto
al possesso dei requisiti legali (laurea in medicina) ma, nell'ottica della
relazione fra terapeuta e paziente, al fatto che il terapeuta si assume la
responsabilità diretta della terapia in toto, ossia si identifica al
paziente come agente responsabile della cura. Ancora più nello specifico,
significa che il terapeuta accetta di identificarsi socialmente come figura
di riferimento della terapia e per il paziente come vertice responsabile di
aiuto all'analisi dei vari momenti della relazione, compresa la
somministrazione dei farmaci come di altri interventi sanitari.
Inviare il paziente dallo psichiatra per la terapia farmacologica non è un
semplice atto qualsiasi, non è privo di conseguenze. Primo, lo psicofarmaco
ha una valenza potente poiché interviene nella mente stessa del paziente ed
ha effetti diretti e collaterali nel processo mentale del paziente. Non è
cioè una molecola che ha riflessi indiretti e mediati, simbolici, per il
paziente in quanto oggetto esterno alla propria mente intesa come soggetto.
Pertanto, la somministrazione di una terapia antidepressiva per un episodio
depressivo grave non è la stessa cosa della somministrazione di una terapia
antibiotica per l'eradicazione dell'HP nello stomaco. Secondo, il paziente
viene inviato ad un medico per la gestione chimica di un pezzo della propria
vita mentale e porta al medico anche un pezzo di rapporto transferale. Chi
si assume, in questo caso, la responsabilità della terapia? La cosa più
difficile che accade in psicoterapia - ed è la mia esperienza quasi
costante con pazienti seguiti farmacologicamente da uno psichiatra - è che
è il paziente stesso a gestire l'integrazione fra le figure terapeutiche.
Quando questo significa confusione di livelli (e va da sé che le manovre di
gestione da parte del paziente sono largamente inconsce), il mio compito va
al di là dell'integrazione poiché inizia dove è necessario operare in
senso opposto, con la scissione di livelli sovrapposti in modo confusivo.
Estremizzando in maniera spinta quello che voglio dire, è come se il
paziente in analisi si rivolge ad un terapeuta comportamentale per risolvere
con la desensibilizzazione in relativamente breve tempo un fastidioso
sintomo fobico ben circoscritto. Se nel corso dell'analisi sono io stesso a
compiere interventi in questa direzione (cosa che ho anche fatto in più di
una occasione), sono comunque consapevole del significato di ciò che sto
facendo e pronto a chiarirne gli aspetti di relazione con il paziente. Se lo
demando ad un collega (infatti, se posso inviare il paziente allo psichiatra
per una sindrome depressiva, perché non dovrei inviarlo da un terapeuta
comportamentale per una sindrome fobica?), chi gestirà l'integrazione fra i
diversi aspetti della terapia e dei canali transferali aperti?
 
3 Maggio 1999, Tullio Carere:
Certo, è tanto spesso il paziente a "gestire" l'integrazione, visto che non
lo fanno altri. Come notava Petrella, alla dis-integrazione del paziente
corrisponde abitualmente la dis-integrazione terapeutica, in quanto la
terapia è gestita da figure diverse, o dalla stessa figura con paradigmi
diversi e incompatibili. Mi permetto di riprodurre qui sotto il mio
commento del 17-6-1998 all'articolo di Petrella ("Intervento
farmacologico versus intervento psicologico: la questione dell'integrazione"),
perché mi pare che anticipasse il dibattito attuale:
 
La malattia mentale - scrive Petrella nel suo articolo "Intervento
farmacologico versus intervento psicologico: la questione
dell'integrazione" - si presenta, dal punto di vista dell'integrazione
psichica, sotto la forma della perdita o del difetto di tale
integrazione, quindi come scissione fra parti, dissociazione,
frattura o frammentazione". La terapia dovrebbe pertanto
svolgere una funzione reintegratrice, ma "si verifica facilmente che alla
dis-integrazione del paziente corrisponda nel campo dell'intervento un
insieme teorico-clinico esso pure disgregato e travagliato da impostazioni
e concezioni diverse".
La terapia dei disturbi mentali è dunque "naturaliter" integrata: ma
questa integrazione è ostacolata dalle resistenze opposte dai modelli
clinico-terapeutici, che "aspirano ciascuno a un certo imperialismo". In
questo momento della storia della psichiatria il modello imperialista
dominante è quello psicofarmacologico (che ha soppiantato il tiranno
precedente, il paradigma psicoanalitico), con la riduzione del terapeuta a
"diagnosta-prescrittore, che sembra procedere mediante un protocollo
standardizzato e sicuro, o che perlomeno si presenta sicuro egli stesso dei
suoi strumenti e dei suoi linguaggi".
Alla malattia del paziente come perdita o difetto di integrazione personale
corrisponde la malattia del terapeuta o dell'istituzione curante,
oscillante tra l'imposizione unilaterale di un modello acriticamente e
arbitrariamente assunto da un lato e "l'accozzaglia, la confusione
sistematica" dall'altro. Medice cura te ipsum, dunque. Ma qual è la
terapia del terapeuta che Petrella propone? "Forse le posizioni culturali
possono essere eclettiche, [si può] ammettere un certo pluralismo di
vedute coesistenti; ma al medico si richiede l'integrità personale della
presenza, che vaglia tutte le valutazioni e assume la responsabilità finale
della posizione terapeutica. Questo principio di integrità, che credo anche
Jaspers condividerebbe, non va mai dimenticato. A livello istituzionale il
problema diventa culturale: l'integrazione è il risultato di un cemento
culturale dell'insieme".
Si fa giustamente appello a un "principio di integrità", che può essere
reso operante tanto negli individui quanto nei gruppi. Non si può non
apprezzare, in un autore che in questo momento presiede un'istituzione
psicoanalitica in cui ancora serpeggiano antiche e non sopite tentazioni
egemoniche, questa posizione super partes e "antiimperialistica". Su questa
base ci si può davvero incontrare. Ciò detto e riconosciuto, occorre
chiedersi: come deve essere inteso questo principio di integrità?
Si tratta, in primo luogo, di prendere le distanze dalle pretese di
supremazia avanzate dai vari modelli. Ma come è possibile una così
radicale presa di distanza che sospende la validità di ogni presupposto
teorico? E' la chiave di volta della questione ed è il tema che stiamo
dibattendo da alcuni mesi sulla lista PM-PT: la domanda si pone per la
psichiatria allo stesso modo che per la psicoterapia. E' possibile la messa
in dubbio di tutto ciò che è noto senza un atto di affidamento
all'ignoto, la posizione che Bion ha indicato con la formula F in O?
Non si tratta di dare una fondazione "bioniana" alla psichiatria. La "fede
filosofica" di Jaspers, opportunamente citato da Petrella in questo
contesto, è una nozione che ampiamente anticipa l'F di Bion, e va
altrettanto bene per denotare la capacità, che lo
psichiatra-psicoterapeuta deve conquistare, di soggiornare in uno spazio
libero da teorie, di attingere al fondamento ateoretico di ogni teoria, di
lasciarsi guidare dalla "cosa in sé" del processo senza costringerlo nel
letto procustiano di un modello qualsivoglia.
In secondo luogo, se è basilare per lo psichiatra emanciparsi dalla
tirannide dei modelli, gli è poi necessario riappropriarsi della capacità
di costruire modelli e di usarli come strumenti di orientamento e di
lavoro: cosa che diventa possibile nel momento in cui è visto e superato
il loro uso perverso come strumenti di identificazione e di potere. In
particolare servono dei buoni modelli per riconoscere i bisogni
fondamentali che sono in gioco in ogni relazione psichiatrica-psicoterapeutica,
indipendentemente dall'orientamento delterapeuta.
Molti pazienti portano in terapia un bisogno implicito, a volte dichiarato,
di conoscenza di sé: dei propri conflitti, delle proprie trappole
cognitive e caratteriali. E, oltre a questo, il bisogno di superarsi, di
autotrascendersi, di ritrovare una capacità perduta o mai conosciuta di
rigenerarsi e reinventarsi la propria esistenza a ogni passo. In altre
parole, i pazienti più motivati e più ambiziosi aspirano a raggiungere
essi stessi quella capacità di muoversi lungo l'asse che unisce K e O, la
conoscenza e l'ignoto, che avrebbero il diritto di trovare già minimamente
formata nel loro terapeuta.
Altri pazienti portano in terapia dei bisogni più primitivi,
corrispondenti a carenze patite nel corso dello sviluppo. Essi chiedono al
terapeuta, in modo per lo più indiretto, di svolgere per loro alcune
funzioni basilari che non sono state adeguatamente coperte nel loro
ambiente di origine: essenzialmente di contenimento materno e di
responsabilizzazione paterna. La somministrazione di farmaci si presta
molto bene, come è ben noto a ogni psichiatra, alla modulazione di
risposte su entrambi i registri, rassicurante e responsabilizzante.
Per curare la "dis-integrazione" del terapeuta, Petrella fa appello a un
principio di integrità capace di superare tanto l'imposizione arbitraria
di modelli quanto la confusione velleitaria e impotente. Io aggiungo che il
nostro compito, una volta pervenuti alla formulazione di questo principio,
è di comprenderlo bene nella sua sostanza e articolarlo nel suo
significato. L'integrità del terapeuta significa innanzitutto integrale e
radicale libertà dalla tirannide dei modelli, che implica la radicale e
integrale libertà dall'identificazione con i presupposti teorici e tecnici
di qualsiasi scuola, causa prima della "dis-integrazione". Tale libertà, a
sua volta, si fonda sulla capacità e la volontà, indicateci da Jaspers e
Bion, di affidarsi a un vuoto di sapere.
Solo su questo fondamento è possibile costruire dei modelli in funzione
dei bisogni del paziente, e non dei bisogni di identificazione e
appartenenza del terapeuta. Integrità del terapeuta significa allora
capacità di cogliere i bisogni di cura e di crescita che il paziente
esprime nella relazione e di fornire ad essi una risposta integrata: non
occasionale nè semplicemente eclettica, ma fondata sulla visione globale
della persona che solo al terapeuta provvisto di integrità personale è
accessibile. In questa visione globale i diversi bisogni che di momento in
momento si esprimono nella relazione sono sottratti a una considerazione e
un trattamento parcellare e settoriale per trovare il loro posto
nell'unità della persona.

Vai all'Addendum del Dibattito, avvenuto nell'aprile-maggio 2000

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