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Dibattiti svoltisi sulle liste di discussione |
Dibattito sul film di Nanni Moretti
La stanza del figlio avvenuto nella lista di discussione della Società Psicoanalitica Italiana (SPI) nel marzo-aprile 2001 (Interventi di Francesco Carnaroli, Paola Dall'Ora, Maria Rosa De Zordo, Marino Galzenati, P. Roberto Goisis, Elisabetta Marchiori, Alberto Schön)
A cura di P. Roberto Goisis Presentiamo in questo spazio la discussione che si e' svolta nei mesi scorsi nella mailing list della SPI (Societa' Psicoanalitica Italiana) a proposito dell'ultimo film di Moretti "La stanza del figlio". Nell'introdurre brevemente il dibattito e nel ringraziare i colleghi che sono intervenuti e che, quasi all'unanimita', hanno dato il loro assenso alla pubblicazione dei loro interventi su Psychomedia, vorrei segnalare due piccoli dati. Il primo e' relativo alla nostra lista che in questa occasione si e' animata particolarmente nel dibattito, a differenza di una certa "tranquillita'" che la contraddistingue per motivi legati ad una lenta acquisizione di consuetudine con il mezzo informatico e con la esposizione pubblica delle nostre opinioni. E' questo un ulteriore merito, a mio avviso, del film di Moretti che e' riuscito a stimolarci nel pensiero e nelle emozioni. La seconda, non disgiunta dalla prima, e' che il legame della psicoanalisi e degli psicoanalisti con il cinema (nonostante l'illustre e contrastante parere di Freud) si e' ormai consolidato nel tempo, come dimostrano gli esempi di Musatti, Sigurta', Carloni, solo per citarne alcuni, o le iniziative sorte in molti centri locali della SPI, come a Milano, Bologna, Padova, ecc. A questo proposito mi pare importante segnalare che Moretti stesso si e' ampiamente rifatto nella costruzione del suo film ai contributi di colleghi psicoanalisti che vengono poi ringraziati nei titoli di coda. Fra questi Paolo Migone, che cura la rassegna del dibattito sul film apparso su Psychomedia, Stefano Bolognini, gia' Segretario Scientifico della SPI, e Paolo Boccara, un nostro collega di Roma anche amico del regista. 13 Mar 2001, Da: P. Roberto Goisis: Mi piacerebbe sentire cosa ne pensate, e cosa ne pensano le persone che incontrate, dell'ultimo film di Moretti. Brevemente, a me è sembrato che questo doloroso e straziante film sia al tempo stesso così intenso, bello e metaforico da far pensare ad una sorta di manifesto psicoanalitico. A parte la figura dello psicoanalista, peraltro tratteggiata con umanità e delicatezza insieme ai suoi pazienti, mi sembra che ci sia contenuta una ipotesi di fondo relativa al fatto che sia proprio lo strumento analitico, pur nella sua incertezza, limitatezza e non onnipotenza, quello che può permettere di affrontare e dare un senso agli eventi della vita. Ieri sera è passata su RAI 2 una bella intervista allo stesso Moretti sul film. Le sue parole me lo hanno fatto sentire molto vicino ed in sintonia. Che ne dite? 13 Mar 2001, Da: Marino Galzenati: Non mi è facile parlare del film di Moretti che ho visto subito, appena è uscito nella mia città. Non mi è facile perché provo una serie di sentimenti contrastanti. Da una parte mi sono molto identificato, per la mia recente esperienza che forse qualcuno ricorda, con il protagonista del film. Moretti ha raccontato molto bene, con molto garbo, con molta delicatezza che cosa succede ad un analista che affronta un dolore così grande e così inspiegabile come quello della morte di un figlio. Anche io in un brutto venerdì di luglio ho raggiunto in ritardo i miei per una seduta aggiunta all'ultimo momento per una paziente in difficoltà, ho pianto insieme ad una mia paziente che ha rivissuto attraverso la morte di mia figlia quella del fratellino piccolo avvenuta più di trent'anni prima, ho avuto pazienti che hanno continuato a parlarmi di bambini morti e di morte per molte settimane, anche il mio paziente "perverso" dopo avermi fatto le condoglianze è passato subito a raccontarmi la sua ultima fantasia sessuale sugli animali. Moretti ha ricostruito nel suo film quello che "veramente" accade, ed in questo è stato bravissimo, per quanto mi riguarda commovente. Ma non sono d'accordo sul fatto che tutto questo porta, poi, il protagonista del film ad abbandonare: lì mi sono sentito tradito come analista e come spettatore. Non ho mai pensato che i miei dolori potessero tenermi lontano dai miei pazienti e da quel "cerchiamo di capire" che il protagonista ripete spesso all'inizio del film e che ha strappato l'unico ironico sorriso alla mia compagna. Credo nel valore dello strumento analitico e credo che i nostri dolori, i nostri vissuti possano e debbano avvicinarci ai nostri pazienti. Spero non sia questa una forma di onnipotenzialità analitica, ma di fiducia nella psicoanalisi. D'altra parte, riconoscerci dolenti, addolorati, forse anche disperati non ci avvicina assai più alla condizione di molti dei nostri pazienti e non ci restituisce, allo stesso tempo, quel distacco di cui anche Moretti parla? Al di là dei miei personalissimi vissuti per i quali questo film ha una valenza tutta particolare, ho trovato significativo che Moretti volesse parlare del dolore per la perdita di un figlio proprio interpretando la figura di uno psicoanalista, quasi come se solo attraverso questa particolare figura professionale i sentimenti, le emozioni potessero essere "viste". Le domande che questo film, credo, lasci in sospeso a noi psicoanalisti riguardano la nostra identità e come la nostra vita privata, i nostri dolori, le nostre gioie interagiscano, ogni momento, con i nostri strumenti e, soprattutto, quanto di noi stessi siamo disposti a "mettere in gioco" nel quotidiano rapporto con i nostri pazienti. D'accodo con Schinaia per (...) la fedele ricostruzione della figura dello psicoanalista, mi piacerebbe però parlare con il regista del significato del dolore.... 19 Mar 2001, Da: Maria Rosa De Zordo: Ho visto La stanza del figlio, bello, umano, talora intenso, commovente. Il regista tratta con affetto la psicoanalisi. Ma non mi sembra che Nanni Moretti sia un regista da medaglie, mentre mi pare interessante che presenti il suo film in un incontro con psicoanalisti. Ho seguito l'intervista su RAI 2 e mi piacerebbe che si potesse parlare con lui. Affronta con delicatezza e sensibilità il dolore umano più grande, contro natura, quello di perdere un figlio. Lo fa attraverso un analista allenato alla sofferenza umana, che ha paura della sua quando è coi suoi pazienti. Ma forse questo è marginale nell'economia del film. Ma Nanni Moretti non è un analista e, nell'intervista che ha rilasciato, ha detto di non avere esperienza di un'analisi propria. Proprio per questo sarebbe interessante parlare con lui, che si avvicina al tema del dolore con la sua sensibilità di artista e ha scelto la mediazione della nostra figura professionale. E ha scelto personaggi che sono persone di tutti i giorni, cui la terribile disgrazia cambia la vita di tutti i giorni. Un saluto.
20 Mar 2001, Da: P. Roberto Goisis: Ringrazio tutti gli intervenuti finora per le loro riflessioni ed in particolare Marino Galzenati per la sua testimonianza, così coraggiosa mi vien da dire. Mi pare che si rincorrano nel film tanti filoni diversi (ho sentito anche un paio di pareri negativi, "falso", "troppo narcisistico"). Io penso che sia interessante lo 'stacco' che Moretti propone rispetto al suo lavoro: non smette di fare l'analista, fa uno stacco, si prende una pausa. Questo è il suo modo, la sua proposta per la gestione del dolore, il tempo che chiede di potersi dare per viverlo. Mi vengono in mente le nostre vacanze, i nostri modi di staccare che, questioni economiche a parte, sappiamo di aver bisogno che siano lunghe e complete per poter funzionare. E poi lui opera una sospensione nel suo 'fare' lo psicoanalista, ma continua ad essere uno psicoanalista, nel senso di usare le competenze analitiche che nel film mi sembrano essere presentate come le uniche possibili per affrontare il dolore. Penso al ruolo che assume la figlia, alla corsa cieca e disperata nella notte nel porto (così diversa dalle altre corse mostrate prima), allo stordimento al Luna Park (dolore per sostituire dolore, inutilmente), ai segni sulle cose che non si possono più nascondere, ai pezzi di teiera tenuti insieme alla meno peggio, alla comparsa di un elemento esterno (un terzo?) che ridà carica libidica sia alla memoria del ragazzino sia alla famiglia, fino al viaggio notturno con le gallerie (!!) che piano piano da semplice atto di cortesia, poi accompagnamento alla crescita, diventa un piacere ed una catarsi, passando un confine, arrivando ad un altro mare per ritrovare e fare pace con il mare. Questi pezzi di famiglia che nell'ultima scena faticosamente si ritrovano camminando in maniera mirabile sulla spiaggia, ognuno per sé, ma tutti verso un direzione. E cominciano in questi giorni le prime reazioni dei pazienti: 1) donna di 35 anni single che ha iniziato l'analisi da sei mesi quasi senza capire bene di cosa poi si trattasse che ne esce stravolta, ma contenta; si è enormemente emozionata quando la paziente ossessiva reagisce alla notizia dell'interruzione dell'analisi dicendo che avrebbe aspettato la data della ripresa (quante cose sul tempo, sull'ossessività, ecc. in quel passaggio). Si accorge così del suo problema sulla dipendenza negata, sulla qualità del suo rapporto con me ecc. Considera che l'analista nel film le sembra non cambiare mai nei passaggi dalla vita professionale a quella privata (esisto io per lei, fuori dal lavoro?). Esce e chiama la madre per dirle di andare a vedere il film per farle capire cosa sia il lavoro che sta facendo con me. 2) un ragazzo di 25 anni, a proposito dei pazienti nel film dice: "Purtroppo non sono l'unico nel mio malessere...ma per fortuna non lo sono!!" 3) "ah, ma voi siete delle persone...mi sono reso conto che quando le telefonavo io non pensavo che lei fosse una entità reale..." 4) "certo che è difficile mettersi su questo lettino dopo aver visto il film di Moretti..." E poi le curiosità sul film, sulla gestione del dolore, sulla scelta della nostra professione per parlarne... 22 Mar 2001, Da: Paola Dall'Ora: Ho letto con attenzione così come ho ascoltato con curiosità commenti e reazioni di amici e pazienti a questo film. Mi mancava qualcosa, forse una recente seduta con un mio paziente mi ha aiutato a capire. Il paziente era tra i molti a notare con emozione il modo delicato con cui è tratteggiata la persona dell'analista ma era deluso del modo in cui erano stati rappresentati i pazienti. Certo, abbiamo lavorato un po' sulle inquietudini del caso, su quali pazienti lo esponevano a temute immedesimazioni ecc. ma ho riflettuto poi sul fatto e mi sono chiesta: forse avere messo la cinepresa sul volto umano dell'analista ha reso un po' caricaturali i pazienti? Un altro paziente: con la sua storia di separazione dei genitori in tenera età che ha imposto in primo piano la 'figura' del genitore, i suoi affetti e problemi esistenziali, lasciando per un tratto 'sullo sfondo ' le esigenze di attenzione e protezione del proprio sé infantile ha visto il film e si è molto inquietato nel ritrovare il rischio di un rovesciamento di ruoli: le parole del paziente potevano scatenare delle reazioni vendicative dell'analista? Chi aiutava chi? In una parola, mi sembra che la gratificazione di poter curiosare un po' dietro le quinte (soprattutto per il modo intelligente in cui avviene nel film) non compensasse il turbamento di vedere l'analista uscire dalla riservatezza che fa di lui uno sfondo che lascia al paziente la parte di protagonista. Un ultimo commento: il carattere (temporaneamente) inelaborabile del dolore provato dall'analista (chi per professione dovrebbe aiutare ad elaborare e trasformare la sofferenza) sembra dovuto al fatto traumatico, acuto di un evento improvviso, senza alcuna preparazione, non era una malattia, ma un impensabile incidente. Credo che questa irruzione dell'imprevedibile nel contesto regolare/rassicurante della vita e della relazione analitica (portato all'estremo: non posso più farti da analista) sia come un modo per dare una idea della relazione che esiste tra il tratto di vita che i pazienti passano con noi e la vita, con tutta la sua imprescindibile imprevedibilità. E' quello che mi ha comunicato con passione un paziente (in odore di fine analisi e quindi meno turbato, a differenza di altri pazienti, da un ridimensionamento delle idealizzazioni fatte su analisi e analista) che mi sembra abbia utilizzato in questo modo le vicende occorse all'analista del film. Scusate se mi sono dilungata ma era forse per dire che è un film di cui molto si discute e forse come ogni discussione non vanno ricordati solo gli elementi pro, pur avendo io stima e apprezzamento per il regista (e per la persona che si intuisce sia) Moretti. Saluti. 22 Mar 2001, Da: Alberto Schön: La discussione (...) mi coinvolge e dico: 1) il cinema è l'arte che ha meno bisogno di nuovi premi; 2) il cinema è il solo punto di divergenza tra Musatti e Freud; Musatti amava il cinema, Freud no. Mi sa che in questo io sono freudiano; 3) mi pare che di recente siano stati alcuni filosofi a dire qualcosa di utile della e alla psicoanalisi e forse può essere avventuroso, ma appunto utile pensare a un filosofo; 4) nella Lingua del Santo Mazzacurati fa apparire una simpatica strega volante, ma non pretende che sia la metapsicologia; 5) perché premiare il campo che più di tutti ha frainteso e ridicolizzato il nostro lavoro? Si veda il delizioso libro di S. Argentieri e A. Sapori Freud a Hollywood dove si dimostra che in tutto il cinema hollywoodiano il migliore analista è un maggiordomo mai appartenuto all'IPA (per quanto IBA, Int. Butler Ass., potrebbe suonare simile); 6) forse a molti analisti il cinema piace perché è molto diverso dal nostro lavoro e pertanto è un riposo; 7) per 8-10 ore al giorno i miei pazienti "pagano per insegnarmi" dice Winnicott, e io dovrei pagare per fare gli straordinari? 8) poiché sono esigente, mi aspetto molto dall'arte: ne consegue che spesso ne sono deluso e quello che ho scritto sopra ne è la prova. Resta valido l'intento di premiare chi ci apre la mente. Cordialmente 23 Mar 2001, Da: Marino Galzenati: Può essere vero che il cinema é l'arte che ha meno bisogno di premi... se si considera il cinema come arte. Molto più banalmente oggi il cinema è solo una forma espressiva che raramente diventa arte... Ma è una forma espressiva che spesso si sforza di indagare sulla società che ci circonda e su altri mondi che per noi analisti sono spesso sconosciuti ed inaccessibili. Forse siamo così impegnati ad occuparci del mondo interno di nostri pazienti e, perché no, del nostro, da non renderci conto che quello che succede fuori dalla porta del nostro studio ci è troppo spesso oscuro ed ignoto... E forse é proprio per questo che sono possibili fraintendimenti come quelli che ci raffigurano nelle più riuscite gag dei film di Woody Allen e C. E' proprio la nostra "trasparenza sociale" a permettere che il miglior analista di Hollywood sia un maggiordomo e che permette ai più accreditati "psicoanalisti" dei nostri media di non essere per nulla IPA. Non sono d'accordo sul fatto che il cinema sia molto diverso dal nostro lavoro, non c'è forse nel cinema l'identificazione con il protagonista, una trama narrativa... un'interpretazione ecc. Tra l'altro il fatto che in due film italiani di cui in questo momento si parla molto (La stanza del figlio di Moretti e L'ultimo bacio di Muccino) vi siano tra i protagonisti degli psicoanalisti dovrebbe farci molto pensare... Cos'è, una banalizzazione del nostro lavoro (Muccino?), un'attenzione alla figura dell'analista (Moretti) oppure dopo aver goduto per anni di una sacrale e forse ideale inviolabilità, oggi anche quello dell'analista è un mestiere come un altro del quale si può parlare e non solo per ironizzare. 24 Mar 2001, Da: Alberto Schön: Galzenati rilancia molto bene il gioco e rende più appassionante la discussione nella mailing list. Infatti afferma: - il cinema è una forma espressiva che spesso si sforza di indagare sulla società che ci circonda e su altri mondi che per noi analisti sono spesso sconosciuti ed inaccessibili. - Forse siamo così impegnati ad occuparci del mondo interno, da non renderci conto che quello che succede fuori dalla porta del nostro studio ci è troppo spesso oscuro ed ignoto... Così la riflessione supera il confine della sala cinematografica. E questo mi piace. Chi fa il nostro lavoro compie viaggi nel mondo interno e da questi trae esperienze per quello che accade fuori dalla porta. Ciascuno di noi poi esce a fare la spesa o i convegni, guarda dalla finestra, bazzica mostre d'arte e ne cava stimoli per lavorare meglio. Parrebbe un circolo virtuoso. Guardando fuori vediamo spesso dei "fraintendimenti come quelli che ci raffigurano nelle più riuscite gag dei film di Woody Allen e C.". Certo questo dipende tanto dal nostro comportamento quanto dalle fantasie altrui. Molti film makers sono dei pazienti ed hanno diritto al transfert.
Certo; ma finora mi hanno pagato per fare l'analista, raramente per andare a vedere film (potrebbe essere un'idea in tempi di scarsità di pazienti). Penso all'intenzione di chi fa film, che è differente dalla mia in seduta. Il prodotto finito può in effetti avere molto in comune: sogno, narrazione, traduzione da un linguaggio ad un altro e altro ancora.
D'accordo sulle ipotesi. Aggiungerei che anche in questi due prodotti, per molti versi di buona qualità rispetto alla media(set), circola un'ambivalenza, un'irritazione, un tentativo di denigrare il genitore, che non tutti gli analisti meritano (fuori dal setting). E poi, insisto, facciamo già un sacco di ore di studio per necessità e per interesse; dobbiamo anche fare gli straordinari, e pure gratis? il rabbino interno protesta. 27 Mar 2001, Da: Francesco Carnaroli: Schon ha detto che non ha voglia di infliggersi un supplemento di lavoro, riflettendo su La stanza del figlio. Se capisco bene, questo vuol dire che egli pensa che si potrebbe fare una lettura analitica, sintomale, della filmografia di Moretti. Se è davvero questo quello che Schon pensa, mi trova d'accordo. Dico appena un po' ciò che Moretti mi fa pensare (ma mi piacerebbe che l'autore potesse partecipare a questa mailing-list attualmente morettiana, o almeno essere informato dei nostri commenti: non mi piace parlare degli assenti). A Moretti non piace la realtà mal definita, sciatta e cialtrona. A Moretti piacciono le cose chiare e distinte. Non ha gran simpatia per chi si fa portare dal cieco flusso della corrente, per vaghe intuizioni: per chi (vedi Ecce Bombo) va a vedere l'alba a Ostia, per accorgersi poi... che il sole sorge ad oriente. Ma nel suo cercar chiarezza, Moretti cerca una definizione statica delle cose: se A in un certo momento è stato A, non può mica diventare B. Se qualcosa è arrivato ad essere in un certo modo, il fatto che poi venga ad essere in un altro modo è vissuto da Moretti in modo catastrofico: la cosa lo mette in ansia, lo fa arrabbiare, tanto che in Bianca immaginò di ricorrere all'omicidio. In Bianca gli amici erano schedati, secondo connotazioni che ne permettevano il controllo definitorio, e chi sgarrava, cioè fuoriusciva dalla definizione datane in scheda, era considerato un portatore catastrofico di disordine, e meritava d'essere punito. Così Moretti ci mostrava l'autoanalisi della propria ossessività, della propria ''freccia ferma'' (Fachinelli). E in La stanza del figlio torna a citare quel pezzo di autoanalisi, quando nella fantasia si gemella con la paziente ossessiva, mostrandole l'armadio pieno di scarpe, una coppia di scarpe per ogni specifico uso. Ciò che cambia dà un senso di angoscia catastrofica, di morte. Un figlio, dunque, che e' una forma vivente che sguscia come un'anguilla via da ogni definizione statica, e che costantemente si ridefinisce, dà motivi d'ansia a chi il cambiamento lo vive maluccio. A Moretti non è morto un figlio, ma credo che il film gli sia stato ispirato dal fatto di avere (come ci ha raccontato in Aprile) un figlio: mi sono immaginato che proprio l'amore per il figlio lo ponga di fronte a un dilemma: cosa fare col proprio intelletto definitorio quando una forma, in quanto vivente, cambia pur continuando ad essere se stessa. I figli (come tutte le persone) non sono piatti né teiere, non sono forme rigide. Se cambiano, non vuol dire che si sbocconcellino. Il cambiare della forma viva non è sbocconcellamento, deperimento, morte, ma, appunto, soltanto cambiamento: per il quale gli psicoanalisti hanno sviluppato (e sono impegnati a continuare a sviluppare) una modalità di pensiero adeguata: che non è quella di Moretti. Cordiali saluti. 1 Apr 2001, Da: Elisabetta Marchiori: Mi permetto di entrare in questa discussione sul film di Moretti, regista che ho sempre molto amato. Ieri sera sono uscita dalla sala cinematografica in cui proiettavono La stanza del figlio con un senso di impotenza... Nemmeno a me piace parlare agli assenti, e nemmeno rendere pan per focaccia, ma mi pare che questo sia un film sull'assenza, o che abbia come unica presenza quelli che sono i vissuti e i sentimenti di Moretti, come hanno rilevato Schön e Carnaroli. Credo che un regista abbia diritto, come artista, di esprimere sullo schermo quello che desidera o di cui ha bisogno. Se in questo film Moretti si è sentito di interpretare il ruolo di padre, marito e analista, non me la sentirei di dire che "tratta con affetto la psicoanalisi", ma piuttosto che tratta la psicoanalisi come lui ce l'ha in mente, e ha tutto il diritto di farlo. Credo che il protagonista del film avrebbe potuto fare il regista, il manager, l'impiegato... Come persona, interpretata da Moretti, la sua storia si sarebbe evoluta nello stesso modo. Come padre pare che abbia un rapporto quanto meno problematico con il figlio: si preoccupa (esageratamente?) del furto del fossile, teme che il figlio sia un ladro, non sembra chiedersi che senso possa avere per il figlio la vicenda, non sa avvicinarsi a lui o parlargli, lo riprende perché perde a tennis e sostiene che bisogna giocare per vincere, senza porsi assolutamente il problema di capire quali sono i bisogni e i desideri del figlio, che pare acconsentire passivamente alle proposte del padre per trascorrere del tempo insieme: andiamo al porto di corsa, poi torniamo, poi ritorniamo... Che sollievo quando è arrivata la telefonata del paziente, il ragazzo può fare quello che ha voglia! E, guarda caso, è qualcosa di pericoloso. Con i pazienti prima sembra troppo distaccato, poi si coinvolge eccessivamente... Faccio queste rilevazioni (tra le tante che mi vengono in mente) per dire che io credo che un analista, lungi dall'essere perfetto nelle relazioni interpersonali o immune dal dolore, dovrebbe avere per lo meno la capacità di porsi delle domande su se stesso quando ci sono dei problemi personali di relazione e avere acquisito degli strumenti per elaborare anche dolori indicibili e per non perdere le sue funzioni psicoanalitiche quando si trova ad affrontarli. Un conto è prendersi una pausa quando è necessario, un conto è (come sembra nel film) saper fare andare bene le cose solo finché le cose vanno (o sembrano andare) realmente bene a tutti gli effetti, e dare la sensazione di essere tranquillo quando non c'è nessun motivo per stare male, e incoraggiare il paziente quando si ha una bella famiglia, una bella casa, una grande cultura (la casa trabocca di libri), i soldi (visto che può permettersi di smettere di lavorare, per fare cosa?)... I pazienti vanno dall'analista o dallo psicoterapeuta perché soffrono, magari proprio perché hanno perso la presenza di una persona giovane, nel pieno della vita, figlio, figlia, fratello, sorella, partner. Come tutti, anche gli analisti possono aver vissuto o vivere simili lutti, possono soccombere al dolore o magari, con grande fatica, anche attraverso l'analisi personale, le supervisioni, le discussioni con i colleghi, forse possono affrontarli in modo diverso, non solo andando al Luna Park. E' un film che non lascia certo indifferenti - come potrebbe! - dal momento che racconta della morte di un figlio, di una persona giovane, bella, che ha la vita davanti, che è "nostra". Ma mi permetto di dire che forse è troppo facile colpire, il bersaglio è talmente vicino, il centro è così morbido, basta in effetti una "freccia ferma" per fare centro (e qui sto pensando al libro di Fachinelli, pubblicato da Adelphi). Detto questo, visto che Moretti ha recitato la parte dell'analista e ha trasmesso (forse) una certa immagine dell'analisi, almeno a questo proposito, penso che un messaggio da parte di quelli che non recitano una parte, ma che sono psicoanalisti, potrebbe cercare di dare al pubblico una lettura più ampia di alcuni temi proposti dal film. Alcune riflessioni, come quelle di Carnaroli, a mio avviso, dovrebbero essere fruibili da chi è interessato alla psicoanalisi senza essere psicoanalista, perché l'idea che il pubblico si fa della psicoanalisi, non sia quello di una teiera che all'apparenza è integra, ma al primo colpo si rompe, perché era già rotta ed è stata incollata! Cordiali saluti. 4 Apr 2001, Da: Una collega: Lo confesso, sono una morettiana da sempre. Perché sono cresciuta parallelamente, malgrado e grazie ai film di Moretti (sono nata nel 1954). Perché nei suoi film eravamo, dico eravamo nevroticamente e argutamente rappresentati, noi giovani di allora, politicamente illuminati, divoratori di libri, pieni di ideali e di dubbi, ma sempre e comunque "garantiti" da una più o meno solida famiglia e soprattutto dalla possibilità di scegliere il nostro futuro. Dunque, con tutto l'affetto e la stima che nutro per il Nanni nazionale, mi sono immediatamente infastidita per la osannante campagna promozionale prima della prima. Il mio disappunto risiedeva nella indifferenziazione degli elogi provenienti sia dai suoi aficionados che dai suoi detrattori di sempre. Poi mi sono fermata(deformazione professionale)a pensare e, con qualche difficoltà, ho giovanilmente dedotto l'impossibilità strutturale del regista a confezionare un filmone strappa lacrime per ricevere più consensi del solito. Ancora una volta per amore sono andata a vedere quella stanza in cui, oltre ai meravigliosi figli che noi tutti vorremmo avere, ho trovato un altro figlio di questi tempi complessi e confusi , del sacro terrore di crescere, della mediaticità stritolante e vincente, della paura della solitudine, dell'ambivalenza affettiva fra se stessi e gli altri: Nanni. E ho provato una discreta rabbia e un'infinita tenerezza verso di lui, me stessa e noi tutti. Il film. E' indubbiamente molto bello, poetico, composto, anche nei momenti di dolore insopportabile, sceneggiatura di seta, ambientazione senza sbavature, bella fotografia, attori bravissimi (Moretti, tranne qualche momento, irrinunciabile, nei panni di Michele Apicella, sfiora la perfezione). Nulla è inadeguato, tutto è a posto, come nella grande casa con l'interminabile corridoio che collega la famiglia al lavoro. Ho trovato bellissimo che la fidanzatina del figlio con gli occhi da Bambi si chiamasse Arianna e inconsapevolmente offrisse una possibilità di uscire dal labirinto del dolore. Ho pianto, devo dire che ho pianto, quasi dai titoli di testa, aspettando che la tragedia si insinuasse nella perfezione, e mi sono rimproverata per la sfiducia iniziale, per il preconcetto. Perché la rabbia. Avrei preferito che i genitori litigassero un po' e che si amassero meno, che i figli avessero almeno un pearcing o i capelli gialli o un piccolo tatuaggio e che rispondessero almeno una volta male, che la casa fosse un po' più disordinata e che l'analista avesse qualche tentennamento, ma forse, chissà, il dolore sarebbe stato appena più sopportabile in una vita nella quale c'è già qualcosa di "sbeccato", qualcosa di imperfetto. Ho singhiozzato nel momento in cui chiudono la bara. Immagini terribili per chi le ha già viste e terribili per chi non le ha mai viste. Ma, per una volta, sono d'accordo con il sacerdote quando dice che il padrone non abbandonerebbe la casa se sapesse che sta arrivando il ladro. E' profondamente vero, non si può vivere accanto alle persone pensando ogni istante che potrebbero morire. Ho però sperimentato personalmente che i lutti e le separazioni aumentano la comprensione, la sensibilità e l'ascolto verso le sofferenze e le difficoltà dei pazienti e ho pianto anche per il bravissimo Silvio Orlando che si vede negata la possibilità di soffrire per se stesso. L'infinita tenerezza. Posso immaginare come e cosa mi risponderebbe Nanni Moretti rivendicando la "paternità" del suo operato. Un altro avrebbe creato un'altra storia e un diverso sentire. E dovrei dargli ragione. Ma non completamente. Forse il mio modo di leggere il film deriva da un sogno segreto che fa sentire me e molti della mia generazione eternamente abbandonici e lievemente ipomaniacali, nella insaziabile attesa di ritrovare e riproporre quella famiglia ideale (che non è mai esistita, e per questo se ne sente così tanta nostalgia)nella vita privata, nella politica, nella professione, per poter ritardare ancora un po' la crescita e permetterci di essere ancora figli, anche se siamo già padri e madri con tanta fatica e tante responsabilità. E' per questa ragione, forse, che la morte ci sembra così inaccettabile, tanto da negare la comprensione e l'ascolto ai vivi, perché pone fine all'onnipotenza, alla perfezione, alla speranza che tutto ancora si realizzi come vogliamo noi, perché ci priva della possibilità, nella vita privata e nella nostra professione, di continuare a pensare e a capire all'infinito rimandando ancora la definizione e la realizzazione. Preferisco pensare che sia un film sulla famiglia, sulla vita ideale e reale, in cui la presenza della psicoanalisi non è così centrale, ma è tratteggiata a latere, discreta, un elemento di riflessione insieme con tanti altri, presente, ma non ingombrante. Proprio come cerco di sentire il mio lavoro giorno per giorno. Questa parole finali mi sembrano così vere! Scusate la lunghezza, un salutone ed a presto. |