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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: RISPOSTA AL DISAGIO
Area: Alcologia e Problemi alcol correlati


Il “craving” nell’alcolismo

Luigi Janiri, Fausta Calvosa e Tiziana Dario


Istituto di Psichiatria e Psicologia, Università Cattolica del S. Cuore, Roma


1. Definizione ed interpretazione del concetto di “craving”

Il concetto di craving per l’alcol, pur essendo stato ormai identificato e riconosciuto dalla maggior parte dei ricercatori e dei clinici come un elemento fondamentale nella sindrome di dipendenza da alcol, identifica un’entità fenomenologica la cui esatta definizione, modalità di misura e utilità scientifica nella comprensione dell’andamento della “carriera” del soggetto alcolista, rimangono tuttora controverse.
Il termine craving inizialmente era usato dai soggetti dipendenti da sostanze per descrivere una forte ed irrefrenabile voglia di oppiacei che si manifestava durante l’astinenza. Successivamente ha assunto il significato di desiderio di usare qualsiasi sostanza psicotropa in qualunque situazione.
Alcuni Autori hanno messo in evidenza delle importanti differenze tra il significato che danno al termine di craving i pazienti, che chiedono aiuto per astenersi da condotte tossicomaniche, e l’intepretazione del concetto di craving che invece danno i clinici (Sitharthan, 1992). E’ su quest’ultima che soffermeremo la nostra attenzione.
In riferimento più specifico al decorso della dipendenza da alcol possono essere differenziati due tipi di craving:
1. Craving fisico (non simbolico) che si manifesta in alcolisti che smettono di bere dopo un lungo periodo di consumo eccessivo di alcolici. Questo tipo di craving è per lo più associato a sintomi fisici di tipo astinenziale come aumento della frequenza cardiaca, sudorazione, nausea, ansietà, agitazione psicomotoria, tremori, ecc.
2. Craving psicologico (simbolico) che si manifesta durante l’astensione e spesso conduce alla ricaduta. (van den Brink, 1997).
Il meccanismo con cui il craving contribuirebbe a provocare la ricaduta del paziente in astinenza non è chiaro. Sono stati proposti vari modelli teorici:
&Mac183; Alcuni Autori suggeriscono che il craving condivida alcune specifiche caratteristiche con il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC). Secondo questi studiosi la presenza del craving dipende dalla presenza di pensieri ossessivi relativi al bere. Il comportamento compulsivo che si manifesta nel bere sarebbe generato dal tentativo di neutralizzare tali pensieri ossessivi opponendovi delle resistenze (Modell, 1992; Anton,1995 ).
&Mac183; Secondo un’altra teoria il craving potrebbe essere indotto da fenomeni di condizionamento con meccanismi di rinforzo sia positivi che negativi. Quando un individuo ha ricevuto ripetutamente ed in situazioni ambientali simili (bar, ristoranti, ecc.) la sensazione di gratificazione che si associa all’assunzione di alcol (rilassamento, euforia, eccitazione), per un meccanismo di condizionamento classico, si può predire che il sog getto tenderà a ripetere l’esperienza connessa a tali sensazioni positive in risposta a questi stimoli condizionanti. Così le situazioni associate al bere, andare al bar, vedersi offerta una bevanda alcolica, ecc. produrrebbero un’anticipazione di sensazioni gratificanti simili agli effetti dell’alcol stesso (rinforzo positivo). Il rinforzo negativo del consumo di alcol, invece, può essere spiegato dal meccanismo di adattamento condizionato. L’esposizione ad uno stimolo, correlato al bere, indurrebbe meccanismi di adattamento nel SNC finalizzati a controbilanciare gli effetti centrali dell’alcol. Se l’alcol non raggiunge il cervello nonostante l’esposizione allo stimolo, l’adattamento non è controbilanciato dalla sostanza. Le conseguenze sono sensazioni opposte a quelle indotte dalla sostanza. Nel caso dell’alcol (che provoca rilassamento, euforia, eccitazione, ecc.) si manifestano ansia, depressione, disforia. Il paziente alcolista sa, da passate esperienze, che tali sensazioni potrebbero essere rapidamente interrotte dall’assunzione di alcol e ciò contribuisce a condurlo verso la ricaduta (Littleton, 1995).
Un ulteriore meccanismo invocabile per la comparsa del craving è quello anche chiamato in causa per spiegare la perdita del controllo sul comportamento del bere. Chutuape e collaboratori (1994) hanno studiato il craving e l’effettivo consumo di alcol in condizioni di supposto aumento del craving stesso, somministrando ad esempio esigue quantità di alcol come dosaggio “priming” (in grado di innescare una cascata di eventi biologici a livello del SNC). Investigando gli effetti di un “pre-carico” di etanolo o di placebo in bevitori sociali senza problemi di salute, gli autori ne hanno misurato il craving soggettivo (autoriferito) per una maggiore dose di alcol e successivamente il reale consumo. La maggioranza dei soggetti riportavano un aumentato desiderio e un più alto consumo dopo il “pre-carico” ma non dopo il placebo e coloro che sperimentavano gli effetti più positivi e piacevoli con il dosaggio “priming” di etanolo riferivano la comparsa di un craving più intenso. Con ciò si dimostra la validità del costrutto di sensibilizzazione nella genesi del craving per l’alcol.
Qualunque sia il meccanismo è opinione discretamente condivisa che ci sia una correlazione positiva tra l’intensità del craving e la severità della ricaduta. Ciò è stato anche dimostrato da alcuni studi che valutavano longitudinalmente e prospetticamente l’efficacia di specifiche terapie nella dipendenza da alcol (Paille, 1995; O’Malley, 1992; Volpicelli, 1992); tuttavia altri studi in cui si rilevava una chiara efficacia di farmaci come l’acamprosato nel prevenire le ricadute non confermavano una diminuzione corrispondente dei livelli di craving (Sass, 1995; Whitworth, 1996; Poldrugo, 1997; Geerlings, 1997; Pelc, 1997; Tempesta, in corso di stampa). Una probabile spiegazione di tali evidenti discrepanze tra studi diversi è che di fatto il craving è tuttora suscettibile di interpretazioni e misure molto diverse e non standardizzate.
L’introduzione di nuovi farmaci di tipo non avversativo per il trattamento dell’alcolismo, come l’acamprosato, il naltrexone, i serotonergici e il GHB, ha accentuato la necessità di reperire nuovi criteri di efficacia di una terapia, oltre alla misura del numero di ricadute. Da qui la necessità di reperire una definizione chiara e il più possibile univoca del craving e successivamente una modalità di misura il più possibile valida ed oggettiva.
Il National Institute of Alcohol Abuse and Alcoholism (NIAA) nella circolare “Alcohol Alert” dell’ottobre ‘89 definisce il craving come uno stato emozionale-motivazionale, “un’urgenza appetitiva, come una fame, caratterizzata da sintomi simil-astinenziali. Tale sintomatologia è elicitata da stimoli interni o esterni che evocano alla memoria gli effetti euforizzanti dell’alcol o il disagio legato all’astinenza.”(NIAA,1989)
Modell e collaboratori (1992), come già detto, caratterizzano il craving per la presenza di pensieri e comportamenti simili a quelli del disturbo ossessivo compulsivo.
La Plinius Maior Society, un’organizzazione europea che si occupa dello studio e della gestione clinica della sindrome di dipendenza da alcol, definisce il craving come uno stato emozionale motivazionale caratterizzato da sensazioni soggettive di desiderio o di bisogno di assumere sostanze alcoliche (Plinius Maior Society, 1994).


2. Craving tra impulsività e compulsività

2.1. Aspetti psicopatologici
Una dimensione psicopatologica, attualmente di grande interesse, è quella relativa al cosiddetto “spettro” dei disturbi impulsivi e compulsivi.
Hollander e coll. (1996) hanno proposto che la compulsività e l’impulsività rappresentino gli estremi di un continuum che va da una tendenza alla sovrastima del pericolo ed all’evitamento del rischio da un lato, ad una ridotta percezione della pericolosità di determinati comportamenti ed ad una elevata ricerca del pericolo dal lato opposto. I disturbi compulsivi si caratterizzano fenomenologicamente per un elevata tendenza all’evitamento del pericolo, una spiccata avversione del rischio ed alti livelli di ansia anticipatoria. Questi disturbi includono il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC), il disturbo da dismorfismo corporeo, l’anoressia nervosa, il disturbo da depersonalizzazione, l’ipocondria, la sindrome di Gilles de la Tourette. In questi disturbi comportamenti ritualistici vengono spesso assunti nel tentativo di ridurre l’ansia e diminuire magicamente il senso di pericolo o di rischio.
Al contrario i disturbi impulsivi si caratterizzano per la presenza di comportamenti volti alla ricerca del rischio, con ridotta capacità di evitamento del pericolo e scarsa ansia anticipatoria. Questi disturbi includono i disturbi di personalità del cluster B secondo il DSM IV (borderline, antisociale, istrionico e narcisistico), i disturbi del controllo degli impulsi (disturbo esplosivo intermittente, piromania, cleptomania, gioco d’azzardo patologico e tricotillomania) e le parafilie. Questi disturbi sono caratterizzati da comportamenti che inducono piacere anche se le conseguenze di tali comportamenti possono essere dolorose (Figura 1).
Entrambe le classi di disturbi hanno però lo stesso nucleo centrale: l’incapacità di ritardare o di inibire la messa in atto di comportamenti che tendono comunque ad essere ripetitivi. Nei disturbi compulsivi tali condotte son ripetitive a a causa delle resistenze del soggetto e hanno la funzione principale di ridurre l’ansia e la tensione; i comportamenti impulsivi, sebbene meno ripetitivi, sono invece principalmente vissuti come fortemente piacevoli e perciò tendono a essere rimessi più volte in atto. La caratteristica comune rimane comunque una certa ripetitività dei comportamenti e la difficoltà di inibirli.
Inoltre spesso non è possibile una netta distinzione tra i due tipi di disturbi. Alcuni disordini possono avere sia aspetti impulsivi che aspetti compulsivi o essere a metà tra i due poli estremi. Così pazienti con tricotillomania e gioco d’azzardo patologico possono avere sia sintomi impulsivi che compulsivi in quanto il loro comportamento può sia soggiacere all’impulso di ridurre una tensione sottostante sia di indurre il soddisfacimento di un piacere.
McElroy e coll. (1994) hanno suggerito che la compulsività e l’impulsività possano rappresentare differenti dimensioni psicopatologiche e tali dimensioni si possono intersecare o essere ortogonali l’una con l’altra. Secondo questo autore, anche se i sintomi compulsivi sono generalmente considerati egodistonici, legati ad una sopravvalutazione della minaccia, laddove i sintomi impulsivi sono considerati egosintonici e legati ad una sottovalutazione della minaccia, vi sarebbero numerosi elementi comuni quali la riduzione dell’ansia, la presenza di risposte perseveranti che ostacolano il raggiungimento di obiettivi e l’effettiva compresenza in entrambi i tipi di disturbi di elementi egodistonici ed egosintonici (Figura 2).
I disturbi da uso di sostanze sono stati tradizionalmente considerati come manifestazioni di un ridotto controllo degli impulsi. I criteri per l’abuso e la dipendenza da sostanze includono items che si riferiscono a comportamenti come: assumere quantità di una sostanza maggiori di quanto si intendeva, provare ripetutamente e con insuccesso a interrompere l’uso, usare la sostanza in situazioni pericolose e usare una sostanza pur sapendo che provoca problemi sociali, psicologici e fisici. Tutti questi comportamenti certamente suggeriscono una ridotta capacità di controllo dell’impulso ad assumere la sostanza in questione. Tuttavia la definizione di “dipendenza da sostanze psicoattive” ha subito profonde modificazioni nel DSM-III-R e poi nel DSM-IV, rispetto alle precedenti edizioni del Manuale nelle quali gli aspetti psico-sociali venivano considerati come distinti dai fenomeni di tolleranza e di astinenza che contrassegnavano la dipendenza. E ciò con la sola eccezione, non a acso, della Dipendenza da Alcol e da Cannabis, nelle quali la modalità patologica di uso e la compromissione delle attività sociali o lavorative dovute all’uso sono parte integrante della definizione di dipendenza.
Nella nuova definizione di dipendenza si enfatizza “la natura compulsiva dell’assunzione della sostanza” che si associa a “l’inadeguato controllo dell’uso della sostanza stessa” (Skodol 1989). Quindi i concetti di compulsività ed impulsività si vengono a sovrapporre, o meglio a confondere: il comportamento compulsivo può essere visto come una perdita del controllo in relazione all’uso della sostanza o, al contrario, un ridotto controllo degli impulsi si può manifestare con comportamenti compulsivi.
Appare necessario a questo punto tentare di definire il contesto fenomenologico del craving tra impulsività e compulsività, tenendo presente che esso può situarsi in ben differenti posizioni dello spettro a seconda della sostanza che ne è l’oggetto.
In base ad alcuni studi il craving per l’alcol potrebbe essere visto come un segnale associato a un comportamento automatico (Tiffany, 1990). Implicita in questo concetto è l’idea che il craving esista ad un livello non cosciente (impulso), con una possibile origine sottocorticale, ed a questo venga a sovrapporsi un craving di origine anche corticale, cognitivo, cosciente, che si manifesta in pensieri persistenti e ricorrenti legati all’alcol (ossessioni), comportamenti ripetitivi volti ad assumere l’alcol (compulsioni) e nello sforzo di controllare sia i pensieri che le azioni (Edwards, 1976; Modell, 1992). Da ciò deriva la possibilità che il craving per l’alcol si manifesti, oltre che nella ormai acquisita forma (ossessivo-) compulsiva, anche in una forma impulsiva, in uno stesso individuo in momenti differenti della sua storia, così come preferenzialmente in alcune sottopopolazioni di pazienti (ad esempio nel tipo II di Cloninger).
In contrasto con l’accezione limitata all’uso di sostanze, emerge una tendenza a generalizzare il fenomeno di craving a tutto un insieme di altri disturbi. Costituiscono comportamenti potenzialmente addictive tutti gli atti ripetitivi la cui sospensione provoca l’accumulo di una tensione crescente e la cui esecuzione produce piacere e sollievo (Marlatt, 1988; Marks, 1990). Il craving sarebbe pertanto un segnale associato al raggiungimento di una soglia di tensione e alla memoria delle precedenti esperienze di gratificazione. I comportamenti addictive tendono quindi ad automantenersi nonostante gli sforzi di interromperli o moderarli, e spesso producono effetti deleteri sulla salute o sulla sfera relazionale e sociale del soggetto.
Lo spettro degli addictive disorders/behaviors include comportamenti ai limiti della normalità (le cosiddette “dipendenze socialmente condivise”, quali quelle da stress, da lavoro, da esercizio fisico), comportamenti francamente patologici (anche se non disturbi nosograficamente individuabili), e disturbi veri e propri. Tutti sono caratterizzati da un insufficiente o problematico controllo degli impulsi, da un’inadeguata autoregolazione del funzionamento individuale, nonché da fenomeni comuni a tutte le condizioni di addiction.

2.2. Aspetti psicobiologici della compulsività e dell’impulsività
Numerosi studi sperimentali hanno rilevato che una disfunzione del sistema serotoninergico sia implicata nella neurobiologia sia dei disturbi compulsivi che dei disturbi impulsivi e che, rispettivamente, vi sia un aumento ed una riduzione del tono serotoninergico.
L’attività del sistema serotoninergico può essere misurata attraverso il dosaggio nel fluido cerebrospinale (CSF) dei metaboliti della serotonina (5-HT) come l’acido 5-idrossindolacetico (5-HIAA), attraverso la risposta comportamentale e neuroendocrina ad agenti serotoninergici (m-CPP) e attraverso la risposta al trattamento con inibitori del reuptake della serotonina (ad es. fluoxetina, clorimipramina, fluvoxamina e altri). I disturbi compulsivi come il DOC (Insel, 1985; Thoren, 1980) e l’anoressia nervosa (Kaye, 1991) sono stati caratterizzati da un’aumentata concentrazione di 5-HIAA e una buona risposta agli inibitori del reuptake della serotonina. Laddove è stato riscontrato una diminuzione del 5-HIAA nel CSF dei pazienti impulsivi aggressivi (Linnoila, 1983) e con condotte suicidarie violente (Asberg, 1976).
Entrambe le classi di disturbi, però, sembrerebbero rispondere al trattamento con gli inibitori selettivi del reuptake della serotonina, probabilmente attraverso la stimolazione presinaptica dei neuroni serotoninergici nei disturbi impulsivi e la riduzione della sensibilità dei recettori postsinaptici serotoninergici nei disturbi compulsivi (Coccaro, 1990).
Analogamente a ciò che è stato evidenziato circa i rapporti tra i disturbi impulsivi e compulsivi e sistema serotoninergico, è opinione condivisa che possa esserci una base psicobiologica comune allo spettro degli addictive behaviors. Per il suo ruolo strategico nella regolazione a più livelli del comportamento e dell’emotività, e più specificatamente nell’equilibrio tra sistema reward e punishment, l’attenzione degli studiosi si è anche in questo caso rivolta alla serotonina. A conferma di ciò è stata dimostrata l’efficacia terapeutica dei farmaci serotoninergici.
Tuttavia la ricerca tende a dimostrare con sempre maggior chiarezza l’esistenza all’interno dello spettro di peculiari e complessi patterns di interazioni multitrasmettitoriali, cosicché è prevedibile che in un prossimo futuro si giunga alla formulazione di un nuovo nosografismo su base psicobiologica.


3. Tipologie di alcolismo

Una fra le prime e ancora oggi più importanti classificazioni dell’alcolismo è quella di Jellinek (1960) che ne propose una differenziazione tipologica in 5 categorie. Sia per meriti storici che per meriti clinico-descrittivi, poiché si può dire che tale pionieristica schematizzazione è tuttora valida, pur soltanto come griglia di riferimento mentale per il medico che si accosta al paziente alcolista in tutta la sua complessità, non si può non tentare di porre in correlazione il concetto di craving con le categorie diagnostiche indicate dallo studioso nordamericano.
In realtà sono le ultime 3 che richiamano la nostra attenzione:
- l’alcolismo “gamma” e “delta” differiscono solo per il fatto che nel tipo “delta” il soggetto non va incontro a periodi di astensione e tutta la sua esistenza è incentrata sul bere, mentre nel tipo “gamma” esiste la possibilità, soprattutto all’inizio, che il potus del paziente sia di natura accessuale, alternando l’astensione al bere compulsivo. Comunque in entrambe le categorie sussiste l’incapacità o la perdita del controllo sull’assunzione di alcol e la maggior parte delle classiche sindromi di dipendenza alcolica si situano all’interno di esse. Non è difficile riconoscere, nelle magistrali pagine dedicate da Jellinek alla descrizione di questi malati, il medesimo tipo di craving compulsivo che in seguito sarebbe stato associato alla fenomenologia del DOC: il craving più comune in caso di alcolismo, spesso coinvolto nel determinismo delle ricadute ed elemento interpretativo essenziale per fenomeni quali la perdita del controllo e l’incapacità di astenersi;
- l’alcolismo “epsilon”, identificato con la dipsomania, vera e propria “psicosi” del bere, nella quale l’individuo sperimenta accessualmente, con modalità di crisi, l’impulso a mandar giù qualsiasi tipo di bevanda contenente a vario titolo alcol e in grado di indurre rapidamente euforia e stupefazione fino alle estreme conseguenze fisiche e psichiche. In questa categoria è facilmente riconoscibile un craving di natura impulsiva, di cui in precedenza abbiamo ipotizzato l’esistenza.

3.1. Tipologia di Cloninger e tipologie correlate
Un fattore importante e caratteristico dell’abuso/dipendenza da alcol è l’eterogeneità della malattia. Per molti anni questo fattore è stato tenuto in alta considerazione dalla ricerca e ciò ha portato alla descrizione di diverse tipologie dei pazienti alcolisti.
Nel 1988 Cloninger e colleghi formularono “un modello teorico dei sottotipi di alcolisti e dei tratti della loro personalità”. Seguendo Cloninger, possiamo individuare su base neurobiologica almeno tre distinti sistemi comportamentali da seguire nella descrizione delle caratteristiche della personalità (Cloninger, 1988).
Il primo, Behavioral Activation System (BAS), ha la funzione di incentivare l’esplorazione attiva dell’ambiente alla ricerca di obiettivi di gratificazione; ad esso corrisponde la “ricerca di novità”.
Al secondo, Behavioral Maintenance System (BMS), è demandato il compito di mantenere il comportamento di ricerca per mezzo di rinforzi positivi (premi) o negativi (assenza di punizioni); esso è correlato alla “dipendenza dalla gratificazione”.
Il terzo, Behavioral Inhibition System (BIS), è deputato ad evitare rischi e pericoli di eventi negativi (punizioni) mediante il confronto tra situazioni attese e reali; attraverso tale sistema si realizza il cosiddetto “evitamento del pericolo”.
Cloninger, successivamente, ha definito quattro dimensioni del temperamento (ricerca delle novità, dipendenza dalla gratificazione, evitamento del pericolo e perseveranza) e tre dimensioni del carattere (auto-direzionalità, cooperatività, auto-trascendenza) (Cloninger,1993). Sulla base di queste considerazioni, egli ha descritto l’impulsività come un insieme di alta ricerca delle novità, basso evitamento del pericolo, scarsa perseveranza e, meno frequentemente, basso grado di dipendenza dalla gratificazione.
Il comportamento compulsivo, al contrario, è correlato ad un alto evitamento del pericolo, ad una scarsa ricerca di sensazioni nuove, ad un elevato grado di perseveranza e, più raramente, ad una notevole dipendenza dalla gratificazione.
Cloninger e collaboratori (1988) hanno suddiviso i pazienti alcolisti in due sottogruppi, distinti in termini di differenti tratti della personalità, diversi sintomi alcol-correlati, età di insorgenza della dipendenza e modello di ereditabilità.
Il tipo I è caratterizzato da una personalità tipicamente ansiosa e da un rapido sviluppo di tolleranza e dipendenza dagli effetti anti-ansia della sostanza, che lo inducono a perdere il controllo del potus.
L’alcolista di tipo II trova nel consumo di alcol un rinforzo positivo, dovuto ai suoi effetti stimolanti ed euforizzanti, e in questo caso ciò si correla alla sua innata tendenza ad esplorare sensazioni nuove.
Tenendo presente la tipologia di Cloninger, l’età di insorgenza dei problemi alcol-correlati dovrebbe essere sopra i 25 anni per il tipo I e sotto i 25 per il II. Nel primo gruppo si dovrebbero riscontrare livelli più elevati di dipendenza e periodi più prolungati di astinenza rispetto al secondo. Il tipo II, inoltre, essendo caratterizzato da tratti di personalità antisociale, basso grado di evitamento del pericolo, scarsa dipendenza dalla gratificazione, dovrebbe condurre ad un maggior numero di conseguenze psico-sociali (arresti, risse, comportamenti violenti legati al bere).
Negli stessi anni in cui Cloninger definiva i due sottotipi di pazienti, von-Knorring e collaboratori (1987) li compararono in base a studi sulla personalità mediante l’uso delle “Karolinska Scales of Personality”. Entrambi i gruppi presentavano punteggi elevati sulle scale che misuravano l’ansia psichica, somatica, la tensione muscolare, l’impulsività, il disinteresse e la diffidenza, mentre erano bassi i punteggi sulla scala di misurazione della socialità.
Numerosi studi sono stati avviati con l’intento di conferire una validazione definitiva alla tipologia dell’alcolismo, tuttavia nessuno di essi è stato in grado di classificare, con sicurezza tassonomica e con elevato livello di segregazione di tutte le variabili distintive, la maggior parte dei pazienti nei due gruppi utilizzando i criteri di Cloninger e collaboratori (1988) o quelli di von-Knorring e collaboratori (1987).
Babor e collaboratori (1992) hanno identificato due tipi di alcolisti che ben si correlano ai due gruppi di Cloninger. Un tipo, detto A, è caratterizzato da età d’esordio più tardiva, minori fattori di rischio familiari, dipendenza meno severa, minor numero di problemi alcol-correlati. L’altro gruppo di alcolisti B presenta storia familiare positiva per alcolismo, età precoce di insorgenza di problemi alcol-correlati, maggior severità della dipendenza, poliabuso, maggiori disturbi psicopatologici e periodo più prolungato di trattamento, nonostante la giovane età.
Cannon e collaboratori (1993) hanno condotto uno studio su reduci di guerra ospedalizzati con una diagnosi di alcol-dipendenza, analizzando la relazione fra i tratti della personalità e le caratteristiche del tipo II: la ricerca di novità era correlata ad impulsività, aggressione e criminalità; l’evitamento del pericolo a introversione, bassa ricerca del rischio e difficoltà psicologiche; la dipendenza dalla gratificazione ad estroversione ed empatia.
Un ulteriore studio su volontari realizzato da Hesselbrock (1992) ha confermato l’associazione tra il disturbo di personalità antisociale, diagnosticato in base ai criteri del DSM-III-R (American Psychiatric Association, 1987), un basso evitamento del pericolo ed un elevato grado di ricerca di nuove sensazioni.
Sebbene una recente analisi della tipologia dell’alcolismo secondo Cloninger su un campione di 300 pazienti (Sannibale, 1998) non abbia validato i criteri precedentemente esposti, si ritiene necessario continuare a considerare il comportamento antisociale, il sesso maschile, la storia familiare positiva per alcolismo e la precoce età di insorgenza dei problemi alcol-correlati importanti fattori di rischio per l’instaurarsi di una severa dipendenza alcolica.
Ulteriori direttrici di ricerca si impongono per valutare e validare un’ipotesi emergente da quanto riportato in precedenza: che cioè una costellazione di tratti e caratteristiche come quelle associate al tipo II sia predittiva di un craving di natura più impulsiva e meno mediata, laddove nei pazienti di tipo I si ritrovi un craving più da alcolista tradizionale, di natura più (ossessivo-) compulsiva e più mediato (da vari fattori, inclusi quelli socio-culturali) e conflittuale.

3.2 Tipologia di Lesch
In un filone di ricerca completamente diverso si situano gli studi di Lesch e coll. (1991), i quali, in uno studio prospettico a lungo termine, hanno evidenziato quattro sottogruppi di pazienti alcolisti. Tali sottogruppi riflettono le diverse interazioni tra gli effetti dell’alcol e la vulnerabilità primaria dei pazienti.
&Mac215; Tipo I: questi pazienti non hanno alcun forte desiderio di bere alcol quando sono astinenti e si sentono perfettamente “sani” da un punto di vista psicosociale. Non manifestano particolari tratti di personalità. Tuttavia quando bevono piccole quantità di alcol, cosa che avviene in particolari situazioni, essi sviluppano un craving incontrollabile per l’alcol. Questo gruppo manifesta frequentemente particolari fenomeni astinenziali in una fase precoce della malattia. Successivamente questi pazienti sviluppano severi sintomi astinenziali che possono arrivare fino al delirium tremens e, a volte, all’insorgenza di vere crisi epilettiche (Grande Male). Una possibile spiegazione dell’eziologia di tali casi è che questi individui abbiano una vulnerabilità primaria nella forma di un disturbo del metabolismo dell’alcol. Alti livelli di acetaldeide durante sia la fase di abuso che di astinenza nonché una particolare attività della dopamina sul sistema delle endorfine potrebbero giocare un ruolo rilevante nello sviluppo di questo tipo di dipendenza alcolica.
&Mac215; Tipo II: gli individui con una dipendenza alcolica di tipo II utilizzano l’alcol come una strategia per risolvere situazioni conflittuali. L’effetto ansiolitico dell’alcol migliora lo stile della comunicazione, senza alcol questi soggetti sono eccessivamente controllati, hanno la tendenza ad essere passivi e di solito vivono insieme con un partner dominante. A volte questi pazienti cercano di uscire da questo ruolo con l’aiuto dell’alcol. Allora tendono a sviluppare comportamenti aggressivi, sotto l’effetto dell’alcol, specialmente nei confronti della famiglia. Una sindrome astinenziale e malattie secondariamente indotte dall’alcol sono molto rare in questi casi e, quando insorgono, sono in genere lievi. Le beta-carboline e il loro effetto sul sistema serotoninergico potrebbero giocare un ruolo determinante nell’eziologia di questo tipo di dipendenza alcolica.
&Mac215; Tipo III: un insieme di cambiamenti che alterano gli equilibri familiari, associati ad un periodo di insonnia spingono questi soggetti ad assumere l’alcol come “auto-medicazione”. Tuttavia l’uso di alcol non fa che aggravare tale situazione, oltretutto alterando ulteriormente la qualità del sonno. Quando questi soggetti rimangono astinenti per un certo periodo di tempo vanno incontro quasi sempre ad una rapida risoluzione di questi disturbi cronobiologici. Tuttavia, poiché tali disturbi cronobiologici si possono manifestare ciclicamente (in primavera e autunno) e solo piccole quantità di alcol sono sufficienti per ristabilire una dipendenza, le ricadute sono di fatto frequenti se non si provvede ad un supporto farmacologico. Tendenze suicidarie sono frequenti. Un possibile meccanismo eziopatogenetico sembra sia l’uso di automedicazioni per un sottostante disturbo psicopatologico. La connessione tra depressione ed effetti dell’alcol è correlata ai sistemi serotoninergico, noradrenergico e colinergico.
&Mac215; Tipo IV: gli alcolisti che appartengono a questo sottogruppo si caratterizzano per avere già specifici disturbi prima di iniziare a bere. Precedenti danni cerebrali o condizioni familiari molto difficili determinano disturbi comportamentali già dall’infanzia (ad es. balbuzie, enuresi). Tali individui manifestano spesso comportamenti di tipo ossesivo-compulsivo e mancanza di atteggiamento critico nei confronti del bere che rende loro difficile resistere al desiderio di assumere alcolici. Questo li porta rapidamente ad un abuso cronico che si risolve in danni severi della performance e/o disturbi somatici (polineuropatia, crisi epilettiche anche durante l’astinenza, ecc.). E’ spesso molto difficile stabilire un contatto con questi pazienti e la privazione sociale è in genere il problema principale. L’eziologia di questo tipo di dipendenza viene fatta risalire al sottostante disturbo del controllo degli impulsi e della mancanza di una capacità critica nei confronti della condotta verso l’alcol. Gli sforzi della ricerca sono focalizzati nello studio dei meccanismi dopaminergici e serotoninergi corrispondenti.
Nella tipologia di Lesch sembrerebbero pertanto configurarsi condizioni secondarie e reattive (tipi II e III), in cui la centralità del comportamento di “automedicazione” lascia pensare a un craving determinato soprattutto da meccanismi di rinforzo negativo (bere per non star male) di origine non astinenziale. Un craving fisico (non simbolico) sarebbe appannaggio principalmente del tipo I, nelle fasi più avanzate di dipendenza, mentre all’inizio il craving appare marcare il fenomeno della perdita del controllo, con un meccanismo simile alla sensibilizzazione (kindling) da stimolanti. Il craving dello spettro impulsivo/compulsivo, che abbiamo appreso a ricercare nelle altre tipologie, caratterizza inequivocabilmente il tipo IV, associato all’organicità sia come antecedente dell’alcolismo sia come complicanza frequente e severa di esso.

Nell’insieme la possibilità di riuscire a individuare e differenziare diversi tipi di alcolisti, comporterebbe implicazioni sul piano teorico nel riconoscere l’eterogeneità delle loro caratteristiche e nel costituire valide fondamenta per la valutazione della risposta individuale al trattamento (Babor,1992).


4. Strumenti di misura del craving

Il maggior problema nella quantificazione del craving per l’alcol è che numerose evidenze empiriche indicano che esso possa essere concepito come una misura continua piuttosto che dicotomica. Tuttavia il craving è una dimensione cognitiva soggettiva che può essere difficilmente determinata in modo oggettivo. Così, analogamente a quanto avviene per il dolore, sono generalmente applicate per quantificare il craving le scale analogiche visive (VAS), in quanto forniscono una soluzione abbastanza valida e realistica a questo annoso problema di misurazione. Questi strumenti che si auto-somministrano consistono in una scala lineare di 10 cm con specifici commenti ai due estremi: rispettivamente, nessun desiderio di assumere alcol e una voglia irresistibile di alcol Possono essere somministrate molte volte al giorno. I pazienti sono invitati ad un’autovalutazione facendo un segno sulla linea che corrisponde alla loro percezione. La principale critica che viene fatta a questo tipo di scale è che non tentano di rispondere alla fondamentale questione su cosa esattamente si intende per craving e lasciano essenzialmente al paziente la possibilità di decidere per se stesso. L’incertezza su cosa in pratica si misura risulta, quindi, considerevole e questa potrebbe essere una delle ragioni per cui con questo tipo di scale si hanno dei risultati spesso inconsistenti. Tuttavia sono stati pubblicati alcuni studi in cui si evidenziava una correlazione tra il numero di ricadute e l’intensità del craving misurata con una scala analogica, come ad esempio lo studio di O’Malley e collaboratori sull’uso di una terapia anticraving con naltrexone (O’Malley, 1992). D’altra parte molti studi che hanno mostrato una chiara efficacia di una terapia nell’indurre un calo nel numero di ricadute non hanno evidenziato una diminuzione corrispettiva dell’intensità del craving misurato con scale analogiche visive. Un esempio è lo studio di Whitworth e collaboratori (1996) in cui i pazienti trattati con acamprosato mostravano un numero significativamente minore di ricadute rispetto ai pazienti trattati con placebo ma la misura corrispettiva del craving non confermava tali differenze statisticamente significative.
Poiché, come già in precedenza è stato ricordato, una dimensione centrale del craving alcolico è quella dell’esistenza di pensieri ossessivi relativi al consumo di alcolici e di comportamenti compulsivi volti al bere, è stata sviluppata una scala di auto-valutazione per soggetti alcolisti a partire dalla Yale-Brown Obsessive Compulsive Scale, la cosiddetta Obsessive Compulsive Drinking Scale (OCDS) (Modell, 1992). Il questionario, validato poi da Anton e collaboratori nel ’96 è una scala di 14 items. Le domande sono retrospettive ma non è specificato a quale periodo si debbano riferire; nello studio di Anton si fa riferimento alle 2 settimane precedenti la somministrazione del test. Le domande possono essere così classificate:
&Mac183; 1 domanda sull’intensità del desiderio (Q13)
&Mac183; 7 domande sugli aspetti ossessivi/compulsivi: come i pensieri (Q1-4) e i comportamenti (Q9-11) influenzano la vita quotidiana
&Mac183; 4 domande sul controllo dei pensieri e sul controllo del bere
&Mac183; 2 domande sulla quantità di alcol bevuto ossia sulle ricadute
La scala appare adeguta per la valutazione degli aspetti ossessivo-compulsivi del craving, i dati finora pubblicati suggeriscono che è una misura valida del craving e può essere utilizzata per la valutazione dei pazienti in studi di follow up.
E’ stata tradotta in 8 lingue (tedesco, spagnolo, francese, svedese, olandese, ebraico, giapponese ed italiano dagli Autori).


5. Analisi sperimentale di una versione italiana dell’OCDS

L’Obsessive-Compulsive Drinking Scale (OCDS) è stata tradotta in italiano seguendo la metodologia proposta da Hunt e collaboratori (1991). Il questionario originale in inglese è stato tradotto separatamente da due esperti nel campo dell’addiction; entrambe le versioni sono poi state ritradotte in inglese da due traduttori indipendenti. E’ stato richiesto a dei pazienti alcol-dipendenti di compilare il questionario e, successivamente, essi sono stati intervistati individualmente con l’intento di determinare la comprensibilità e l’accettabilità degli items. Per determinare le sue caratteristiche psicometriche, i punteggi dell’OCDS sono stati comparati con quelli della YBOCS-hd; le correlazioni tra i due strumenti di misurazione variavano tra 0,69 e 0,83, e anche la “alfa-di Cronbach” del totale della scala era significativa (0,86). E’ stata poi esaminata l’attendibilità del test-retest, intervistando nuovamente un campione di pazienti; queste correlazioni variavano da 0,86 a 0,96. Questi dati sono stati utilizzati per definire la versione italiana della OCDS, che può essere considerata l’esatta traduzione della scala originale.
Il reclutamento dei pazienti per il nostro studio è avvenuto nell’ambito dei soggetti che si rivolgevano, con la richiesta di un intervento, all’Ambulatorio di Alcolismo e Farmacodipendenze del Policlinico “A.Gemelli”. Di questi 81 alcolisti pervenuti alla nostra osservazione, alcuni avevano già da qualche tempo intrapreso un programma di terapia disintossicante e di mantenimento presso il nostro Ambulatorio, altri lo iniziavano al momento stesso della somministrazione del questionario, altri ancora, infine, erano ricoverati in diversi reparti del Policlinico, dai quali era stata richiesta la nostra consulenza. Attraverso la visita, l’anamnesi ed i test psicometrici di seguito descritti, abbiamo ricavato per ogni paziente alcuni importanti dati, come quelli anagrafici e di storia personale (con informazioni anche sulle dinamiche familiari, il livello occupazionale e la familiarità per alcolismo), quelli alcologici (prestando particolare attenzione sia alla quantità e al tipo di bevanda alcolica, che alla durata e alle modalità del potus) e quelli psicopatologici. Sono state, inoltre, prese in considerazione informazioni circa precedenti eventuali tentativi di disintossicazione, severità della dipendenza alcolica e tipologia di alcolismo secondo Cloninger, in modo da acquisire, per ciascun paziente, dei profili utili per un più corretto inquadramento del caso. Per tutti i partecipanti allo studio è stata formulata una diagnosi di dipendenza alcolica secondo i criteri espressi nel DSM-IV. I dati demografici e le caratteristiche cliniche dello studio sono riassunti nelle tabelle 1-5.
Con l’intento di stimare il craving per l’alcol, a ciascun paziente è stata presentata una scala analogico-visiva di 10 cm. (VAS), suddivisa da dieci tratti alla distanza di 1cm. l’uno dall’altro, sulla quale si richiedeva di segnare da un minimo di 0 a un massimo di 10 la voglia di bere al momento della valutazione (vedi appendice strumentaria). I partecipanti, dopo aver concesso il loro consenso informato, hanno compilato quindi l’OCDS, questionario di autovalutazione del craving, composto da 14 domande, con un punteggio che va, per ognuna di esse, da un minimo di 0 ad un massimo di 4 punti.
Al test delle correlazioni di Pearson (tabella 6) è risultata una correlazione statisticamente significativa tra il punteggio totale della OCDS da una parte e dall’altra: la quantità complessiva di alcol assunta (correlazione diretta, p<0,01), la presenza/assenza di terapia (correlazione diretta con l’assenza di terapia, p<0,01), il tempo di astensione (correlazione inversa, p<0,01) e la tipologia di Cloninger (i pz classificati come tipo II secondo Cloninger risultavano avere valori più elevati alla OCDS) (p<0,05). Inoltre i valori della VAS risultavano correlati con: la quantità di alcol totale (correlazione diretta, p<0,01), la presenza/assenza di terapia (correlazione diretta con l’assenza di terapia, p<0,05) ed il totale della OCDS (correlazione diretta, p<0,01).
Al test di Regressione, considerando il punteggio totale dell’OCDS come variabile dipendente, l’unica variabile indipendente per la quale è stata evidenziata una relazione significativa con la precedente è stata la quantità totale di alcol assunta, per quanto una tendenza verso la significatività (0,065) è risultata per la tipologia di Cloninger, sempre nel senso di una correlazione tra OCDS e tipo II. Considerando, invece, come variabile dipendente i valori della VAS, non si è evidenziata nessuna relazione significativa con le variabili indipendenti, per quanto una tendenza verso la significatività è risultata per la quantità di alcol assunta giornalmente, nel senso di correlazione atteso (tabelle 7-8).
All’Analisi Fattoriale l’OCDS mostrava un andamento concorde con la quantità di alcol totale; in senso inverso, con la (presenza di) terapia e il tempo di astensione; in maniera meno significativa con la VAS, nel senso di una correlazione diretta (tabella 9).
Dallo studio condotto è emerso che la versione italiana della Obsessive-Compulsive Drinking Scale rappresenta uno strumento valido ed affidabile per monitorare la condizione psicologica del paziente alcolista sia in una situazione di potus attivo, che in condizioni di astensione. Il principale risultato di questo studio è stato, infatti, il riscontro di una evidente correlazione, sia al test di Pearson, che a quello della Regressione, tra il punteggio totale della OCDS e la quantità complessiva di alcol assunto giornalmente. Il craving per l’alcol misurato dalla scala suddetta, perciò, sembra essere, nei nostri pazienti, più una variabile dipendente dal comportamento alcolico, che dalla condizione di astensione dal potus. Essa, infatti, non varia, come invece il craving, con il punteggio dell’OCDS. Ciò riflette, probabilmente, il fatto che il craving possa dipendere dall’assunzione di alcol, al contrario di quanto si verifica per il craving da cocaina, il quale sembrerebbe essere molto intenso e frequente nel periodo astinenziale e post-astinenziale. In ogni caso, nonostante il punteggio totale dell’OCDS e la quota di alcol dimostrino una correlazione sia al Pearson, che alla Regressione e, inoltre, un andamento parallelo all’Analisi Fattoriale, è bene tenere presente che anche la presenza di un programma dei terapia farmacologica disintossicante, a prescindere dal farmaco o dal cocktail di farmaci utilizzati, ed il tempo di astensione dal potus, entrambe secondo una correlazione inversa, sono legate al totale della scala, come dimostrato dal test di Pearson e dall’Analisi Fattoriale.
Il raffronto con la validità della VAS va indagato su due versanti: da una parte il totale della OCDS sembrerebbe in qualche modo correlato alla VAS, come evidenziato dal test di Pearson; dall’altra, quest’ultima dimostrerebbe una certa correlazione con le altre variabili. Essa sembra essere sensibile più a parametri alcologici di base: sobrietà, presenza di terapia, quantità di alcol assunta. Per tale motivo, si potrebbe suggerire la somministrazione della VAS, come strumento di misurazione di una situazione puntuale, in studi di controllo nel tempo su pazienti in corso di terapia anticraving. Con la VAS non sembra correlarsi la tipologia di Cloninger, al contrario di quanto tende a dimostrare l’OCDS: la correlazione tra il punteggio complessivo dell’OCDS ed il tipo II descritto da Cloninger, infatti, mostra una tendenza alla significatività. Ciò sembrerebbe poter facilitare una differenziazione delle due popolazioni proposte da Cloninger sulla base della presenza e, soprattutto, del tipo di craving. Tale distinzione non sarebbe possibile con la VAS; perciò, probabilmente, non sarebbero tanto la presenza ed il livello, quanto la tipologia del craving a permettere la distinzione tra i due gruppi di alcolisti. Tuttavia il tipo di craving misurato dalla OCDS, tendenzialmente compulsivo, sembrerebbe essere più appannaggio del tipo II di Cloninger, che presenta caratteristicamente un comportamento di tipo impulsivo. Inoltre, i pazienti identificati come tipo II mostrano una bassa tendenza all’evitamento del pericolo, caratteristica che sembrerebbe essere in contraddizione con l’alto evitamento del pericolo che caratterizza i soggetti con comportamento tipicamente compulsivo. Non avendo ancora a disposizione gli strumenti adatti a specificare e differenziare un craving di tipo impulsivo da uno di tipo compulsivo, risulta, nella situazione attuale, complesso attribuire un significato a questi risultati. Rimane, perciò, aperta la questione se l’OCDS riesca a misurare, rispetto ad altri metodi di valutazione, un craving di tipo compulsivo, o se misuri piuttosto qualcosa di differente dalla dimensione di impulsività e compulsività. Una possibilità di portare chiarezza in tale questione sarebbe lo studio dell’andamento dell’OCDS in pazienti con personalità di tipo ossessivo-compulsivo, o con vero e proprio disturbo ossessivo-compulsivo.


6. Prospettive terapeutiche

La farmacoterapia ideale dell’alcolismo, secondo Volpicelli e collaboratori (1992), è quella che mira a ridurre il craving per l’alcol così da provocare un calo della motivazione a bere e da inibire gli effetti di rinforzo positivo dell’alcol, per cui un’eventuale nuova assunzione di alcol non sia associata né ad effetti piacevoli né spiacevoli (come nel caso delle terapie con farmaci avversativi) ed a pochi, se presenti effetti collaterali dall’interazione farmaco-alcol. Lo scopo sarebbe, quindi, quello di rendere neutra la sostanza d’abuso.

6.1. Basi psicobiologiche
Numerosi modelli animali sperimentali hanno messo in luce il coinvolgimento nel craving alcolico di diversi sistemi neurotrasmettitoriali, tra cui il sistema dei peptidi endogeni oppioidi, le catecolamine, la serotonina (5-HT), la dopamina e l’acido g-aminobutirrico (GABA) (Koob and Bloom, 1988).
Negli ultimi 25 anni si sono sviluppati numerosi modelli animali per l’alcolismo tra cui un modello basato sulla selezione e l’allevamento di ratti che stabilmente preferiscono bere alcol (P) rispetto ad altri animali che non preferiscono assumerlo (NP).Ciò ha reso possibile lo studio dei correlati neurobiologici delle due popolazioni di animali di laboratorio.
I ratti P mostravano un deficit relativo di 5-HT (in confronto ai NP); (Murphy, 1982) e nei pazienti con alcolismo era stato dimostrato un deficit relativo dell’acido 5-idrossiindolacetico (5-HIIA) nel fluido cerebro-spinale (CSF) (Ballenger, 1979). Bassi livelli di 5-HIIA nel CSF erano stati rilevati anche in un gruppo di pazienti con disturbo del controllo degli impulsi che erano ad alto rischio di sviluppare una dipendenza da alcol (Linnoila, 1989). Gli inibitori dell’uptake della serotonina inducevano un calo del consumo di alcol nei modelli animali e, in alcuni casi, anche in pazienti alcolisti (Naranjo, 1987). Paradossalmente, però, i risultati di numerosi studi sulla deplezione di 5-HT in modelli animali non sono stati concordanti (Weiss e Koob, 1991). La questione della serotonina è ovviamente molto complessa e forse diverrà più chiara quando saranno meglio caratterizzati i diversi sottotipi recettoriali e la loro funzione. L’alcol potrebbe infatti interagire in modo specifico con uno o più sottotipi di recettori.
Il possibile ruolo del sistema dopaminergico nel mediare le proprità di rinforzo positivo dell’etanolo è suggerito sia da studi su ratti P che da ricerche sugli effetti degli antagonisti dei recettori della dopamina in modelli animali e misurazioni tramite microdialisi in vivo della dopamina o dei suoi metaboliti a livello del nucleo accumbens (NA) dopo somministrazione di alcol. Murphy e coll. (1982) hanno evidenziato una diminuzione dei livelli di dopamina nei ratti P rispetto ai NP. Pfeffer e Samson (1988) hanno descritto che gli antagonisti dei recettori per la dopamina inducono un calo nel consumo di alcol in animali di laboratorio. Di Chiara e Imperato (1988) hanno mostrato come l’iniezione intraperitoneale di alcol induce un aumento della concentrazione extraneuronale di dopamina nel NA, più di quanto non faccia qualsiasi altra sostanza d’abuso.
Infine vi sono alcune evidenze cliniche a favore dell’ipotesi che il rinforzo positivo dell’alcol in alcuni individui sia mediato dal suo effetto ansiolitico ed ipnoinducente (Meyer 1986). L’attività ansiolitica dell’alcol è probabilmente mediata di suoi effetti sui recettori del GABA. Tuttavia il meccanismo d’azione dell’alcol sembra essere differente rispetto a quello delle benzodiazepine (BDZ). Suzdak e collaboratori (1986) hanno evidenziato come questo specifico effetto dell’alcol sia inibito dall’agonista inverso parziale delle BDZ, Ro 15-4513. Interessante per lo studio della neurobiologia del meccanismo di rinforzo dell’alcol è anche lo studio di Samson e coll. (1987) che ha mostrato come il Ro 15-4513 produca anche una riduzione dose-dipendente del consumo di alcol in animali di laboratorio.
Una menzione a parte merita il filone di ricerca centrato sulle indagini di “brain imaging”, mirate a esplorare i circuiti neurali e le basi neurofarmacologiche della dipendenza alcolica. In realtà indurre il craving per l’alcol mentre si conduce un esame PET o SPECT è tecnicamente piuttosto difficile: c’è solo uno studio sulla dipendenza alcolica nel quale aumenti di desiderio o craving si associavano a un aumento di perfusione del nucleo caudato destro, la stessa regione cerebrale la cui disfunzione è stata implicata nel disturbo ossessivo-compulsivo (Lingford-Hughes, 1999).
Recentemente è stata trovata una correlazione positiva tra autoriferiti livelli di craving per l’alcol misurato con la VAS e il rapporto leptina plasmatica/BMI (indice di massa corporea) in alcolisti all’inizio della sindrome di astinenza (Kiefer, 1999). Poiché la leptina è una proteina, prodotto del gene dell’obesità, che è coinvolta nel controllo del consumo di cibo e nell’espressione genica della pro-oppiomelanocortina ipotalamica, si è ipotizzato che il ruolo di essa nella regolazione del craving indotto dall’astinenza alcolica sia dipendente da un effetto sul sistema centrale reward modulato dalle endorfine. L’interconnessione tra tale sistema e l’attività dell’alcol sul SNC è alla base di una delle più interessanti prospettive terapeutiche anticraving.

6.2. Naltrexone
Esistono numerose evidenze derivate da studi su animali di laboratorio e da alcune ricerche sull’uomo da cui risulta che l’alcol induce un aumento dell’attività degli oppioidi endogeni.
L’attivazione dei recettori per gli oppioidi, quindi, potrebbe essere implicata nelle proprietà di rinforzo tipiche dell’alcol.
Studi su modelli animali hanno messo in evidenza come gli antagonisti degli oppiacei (es. naloxone e naltrexone), che bloccano i recettori “mu” per gli oppioidi, inducono una riduzione del consumo di alcol (Altshuler, 1980; Myers, 1986; Volpicelli, 1986). Al contrario ratti pretrattati con piccole dosi di agonisti degli oppiacei, come la morfina, mostrano un aumento del consumo di alcol (Hubbell, 1986). I ratti cui è stata indotta una preferenza per l’alcol (P) si caratterizzano non solo per l’elevato consumo di alcol, ma anche per l’alta attività dei peptidi oppioidi endogeni, inoltre in questi roditori il naltrexone blocca il consumo di alcol con una modalità che è dose correlata (Froehlich, 1990). Nell’insieme tutti questi dati suggeriscono che il consumo di alcol è rinforzato dall’interazione con il sistema dei peptidi endogeni e che bloccando i recettori degli oppiacei con specifici antagonisti diminuisce l’attività di rinforzo in maniera analoga a quanto avviene bevendo.
Il primo studio sull’uomo sull’efficacia e la sicurezza del naltrexone nel trattamento dell’alcolismo è stato condotto da Volpicelli e coll. . Era un trial clinico di 12 settimane a doppio cieco in cui 72 soggetti erano stati assegnati random per ricevere o una dose di 50 mg al giorno di naltrexone o un placebo insieme ad un trattamento psicosociale standard. Il gruppo trattato con naltrexone, rispetto a quello trattato con il placebo, ha dimostrato una minore percentuale di ricadute, un numero minore di giorni in cui i pazienti hanno bevuto e minore craving per l’alcol. I risultati hanno dimostrato che meno della metà (23%) dei pazienti trattati con naltrexone sono ricaduti rispetto al 54,3% dei pazienti che avevano assunto il placebo. Gli effetti più evidenti sono stati quelli sui pazienti che hanno bevuto durante il trattamento: 19 su 20 (95%) dei pazienti trattati con placebo sono ricaduti dopo aver bevuto anche solo una volta rispetto ai solo 8 su 16 (50%) dei pazienti che assumevano naltrexone.
In un altro studio a doppio cieco controllato, 97 pazienti alcolisti sono stati trattati in modo random o con placebo o con naltrexone insieme ad una terapia di riabilitazione psico-sociale. Rispetto al gruppo che aveva assunto il placebo, i pazienti trattati con naltrexone hanno bevuto un numero di giorni pari alla metà, una quantità di alcol, nelle occasioni in cui capitava che bevessero, pari ad un terzo e hanno avuto disturbi alcol correlati meno severi. Come nello studio precedente, quei pazienti che assumevano il naltrexone hanno avuto un numero significativamente minore di ricadute durante i 3 mesi di trattamento e questa differenza era ancora presente dopo 6 mesi (O'Malley, 1992).
In entrambi i precedenti studi clinici nordamericani la predittività di effetti positivi era associata a un quadro caratterizzato da vari aspetti, tra cui un alto livello di craving e segni di disfunzione cognitiva. Risultati simili, compreso un più basso livello di craving riportato dai pazienti con naltrexone rispetto ai gruppi di controllo, si sono ottenuti nello Studio Svedese con Naltrexone (Berglund, 1999).
Contrariamente alle evidenze cliniche circa l’efficacia del farmaco negli alcolisti, il naltrexone non ha dimostrato alcun effetto sul desiderio o sul consumo di alcol in normali bevitori sociali, con ciò acquistando rilievo la possibilità che i substrati neurochimici del craving dipendano dalla popolazione presa in esame (Doty, 1997).
La sola indicazione approvata dalla Food and Drug Administration (FDA) per l’uso del naltrexone è nel trattamento della dipendenza da oppiacei. Altri studi sull’uso del naltrexone nell’alcolismo sono in corso e potrebbero aiutare a chiarire l’effettivo ruolo degli antagonisti degli oppiacei in questo disturbo. Sarà importante determinare quali pazienti potrebbero maggiormente trarre giovamento da una terapia con il naltrexone. Le evidenze attuali suggeriscono che il naltrexone sembra essere più efficace nel prevenire le ricadute quando associato con un programma di riabilitazione psico-sociale.

6.3. Serotoninergici
Il complesso ruolo della serotonina (5-HT) nella dipendenza da sostanze emerge direttamente e indirettamente dalla valutazione di un ampio numero di studi sperimentali. Tali studi hanno evidenziato l’esistenza di circuiti neuronali centrali in grado di mediare gli effetti di gratificazione (reward) e di avversione (punishment) dei farmaci, il ruolo di vari neurotrasmettitori nell’ambito di diversi sistemi neuronali e la possibilità di manipolarli farmacologicamente (Koob, 1992).
E’ ancora non del tutto risolta la questione se esista un unico sistema reward alla base della dipendenza da sostanze, o se vi siano più sistemi reward attivati dalle principali classi di farmaci d’abuso (oppiacei, stimolanti, alcol, ecc.).
E’, comunque, plausibile che un unico sistema reward dalla circuitistica complessa e multitrasmettitoriale (a più livelli gerarchici di modulazione) rappresenti la “via finale comune” degli effetti gratificanti e, quindi, della dipendenza.
Secondo la teoria “a cascata” della gratificazione nell’alcolismo di Blum, la 5-HT ricoprirebbe un ruolo gerarchicamente superiore a quello degli altri trasmettitori del sistema reward, modulando per mezzo di interneuroni encefalinergici l’inibizione GABA-indotta dei neuroni dell’area ventro-tegmentale (VTA), e, quindi, facilitando il release di dopamina in accumbens e in amigdala (Blum, 1990).
La 5-HT è, inotre, in grado di modulare tale release attraverso i recettori presinaptici 5-HT3, presenti in relativamente alte concentrazioni lungo le vie mesolimbiche e mesocorticali.
Non è ancora chiaro se l’interazione 5-HT3-dopamina sia di tipo diretto o indiretto; è, però, noto che l’attività modulatoria (negativa) di farmaci 5-HT3-antagonisti è più evidente quando i livelli di dopamina sono abnormemente elevati (Grant, 1995).
Partendo da questi presupposti, inizialmente era stato dato molto interesse all’eventuale applicazione dei farmaci agonisti e bloccanti il reuptake della serotonina nella gestione e nel trattamento dei pazienti alcolisti. Secondo alcune osservazioni fatte su animali di laboratorio, inoltre, nei ratti P, selezionati geneticamente per preferire l’alcol rispetto all’acqua, il consumo di alcol era ridotto dalla somministrazione di L-triptofano e degli inibitori selettivi del reuptake della serotonina (SSRI) (es. fluoxetina), ma non dagli antidepressivi triciclici noradrenergici (Naranjo e Sellers, 1986).
Un altro studio condotto su individui di sesso maschile volontari (Pietraszeck, 1991) aveva messo in evidenza come la concentrazione ematica di serotonina era significativamente ridotta dopo il consumo di alcol, mentre non si osservavano modificazioni nel livello di triptofano. Il ritmo diurno della 5-HT in soggetti che avevano bevuto alcol il giorno prima era abbastanza differente da quello del gruppo di controllo ma molto simile a quello dei pazienti con depressione. Gli Autori concludevano, quindi, che il meccanismo della depressione dopo consumo di alcol potrebbe essere correlato ai livelli serotoninergici.
Uno studio precedente (Gatto, 1990), che ha valutato gli effetti prodotti della fluoxetina e della desipramina sul consumo di alcol indotto in ratti NP rendendo la soluzione più gradevole al gusto, ha evidenziato che la fluoxetina induceva una diminuzione del consumo di alcol in questi animali da laboratorio. Gli Autori hanno suggerito che la fluoxetina aumenta il “pool” fisiologicamente attivo della 5-HT nei circuiti neuronali, mediando le proprietà avversative dell’etanolo. A seguito dei risultati degli studi su animali, sono state fatte indagini sull’uomo sull’uso degli inibitori dell’uptake della serotonina. In uno studio controllato a doppio cieco condotto su pazienti alcolisti (Naranjo, 1987), il citalopram, un inibitore selettivo del reuptake della 5-HT, ha prodotto un significativo aumento dei giorni di astinenza ed una diminuzione della bevande alcoliche consumate, rispetto ai pazienti di controllo.
Un ulteriore studio sul trattamento a breve termine (60 giorni) con il citalopram condotto dagli Autori ha confermato i risultati ottenuti da Naranjo (Janiri, 1998).
In un altro studio controllato a doppio cieco, condotto su pazienti alcolisti disintossicati, è stato dimostrato che il trattamento con fluoxetina (20 mg/die) limita va il numero di ricadute. Tali dati sono stati spiegati dagli Autori come una probabile azione anticompulsiva del farmaco (Janiri, 1996).
Tuttavia, lo stesso farmaco al dosaggio di 60 mg/die ha dimostrato di non essere efficace nel prevenire le ricadute in pazienti alcolisti con una dipendenza di grado da medio a moderato (Kranzler, 1995).
Infine, in un ulteriore studio sull’utilizzo del trazodone come farmaco anticraving nel trattamento di pazienti alcolisti astinenti il farmaco ha dimostrato efficacia clinica sul craving, ma la sua attività, a differenza di quella della fluoxetina, risultava strettamente correlata all’azione ansiolitica ed antidepressiva (Janiri, 1998).
Da ricordare, inoltre, lo studio di Bruno sull’uso del buspirone, in cui si riportava che il farmaco era efficace nel ridurre il craving per l’alcol, ma non nel limitarne il consumo (Bruno, 1989).
In alcuni casi di alcolismo sono state coinvolte anomalie dei recettori serotoninergici 5-HT1b, 5-HT2 e 5-HT3 (Murphy, 1990). In particolare l’antagonista dei recettori 5-HT3 ondansetrone si è rivelato efficace nell’abuso e nella dipendenza alcolica (Sellers et al., 1994) e in volontari sani ha indotto un’attenuazione del desiderio di bere (Johnson et al., 1993).
In generale l’uso degli SSRI nell’alcolismo e nelle varie forme di addiction sembra avere un effetto ben definito ma nell’insieme modesto e i dati ottenuti finora non sembrano essere molto incoraggianti.

6.4. Acamprosato
L’acamprosato (diacetilomotaurinato di calcio) è un analogo dell’acido omocisteico, che è strutturalmente simile all’acido L-glutammico in cui però il gruppo carbossile è sostituito da un gruppo sulfonile. L’acido omocisteico costituisce un ligando endogeno attivo sui recettori per l’aminoacido eccitatorio N-metil-D-aspartato (NMDA) (Knopfell, 1987).
Il rilevamento dell’affinità dell’acamprosato per i recettori sia GABA-A che GABA-B in alcune preparazioni in vitro, è stato inizialmente interpretato come un’evidenza del coinvolgimento del sistema GABAergico nell’azione di questa molecola (Chabenat, 1988; Lhuintre, 1985). Inoltre successivi studi avevano messo in evidenza una possibile azione antagonista sui recettori degli oppiacei.
Tuttavia ricerche più recenti hanno chiarito che l’acamprosato inibisce l’eccitabilità neuronale riducendo l’efficacia a livello postsinaptico degli aminoacidi eccitatori (EAA) e non rinforzando l’inibizione GABAergica; si è dimostrato attenuare l’attività degli EAA e degli agonisti a livello dei neuroni neocorticali e ciò starebbe ad indicare una potenziale azione sulle manifestazioni comportamentali che possono essere associate all’astinenza alcolica (Zieglgansberger, 1992; Zeise, 1994). Inoltre si sospetta attualmente che modificazioni dell’attività trasmettitoriale glutamatergica siano responsabili del craving per l’alcol e di conseguenza delle recidive; del resto lo stesso alcol è in grado di inibire l’attività del subtipo recettoriale NMDA per il glutammato ed è noto che negli alcolisti astinenti vi sia una disfunzione a carico di questi recettori e un aumento dell’attività dei canali per il calcio sensibili al voltaggio.
In alcuni studi effettuati su animali di laboratorio, l’acamprosato si è dimostrato essere privo di proprietà ipnotiche, ansiolitiche e miorilassanti, distinguendosi quindi dalle benzodiazepine e dai barbiturici. Non c’è inoltre alcuna evidenza di una attività antidepressiva o di altri effetti psicotropi.
Due studi pilota con l’acamprosato hanno dimostrato la sua utilità nella gestione dei pazienti alcolisti e l’elevata tollerabilità anche nei soggetti con valori elevati degli enzimi epatici.
In un primo studio controllato, i pazienti sono stati trattati con acamprosato per 12 mesi e seguiti per i 12 mesi successivi l’interruzione della terapia. I risultati hanno messo in evidenza differenze significative nella durata cumulativa dell’astinenza (CAD) a favore dell’acamprosato dopo un anno di trattamento, ma i valori della CAD per il successivo anno di follow-up non erano significativamente diversi nei due gruppi (Paille, 1995).
Sass e collaboratori (1996) hanno riportato invece un efficacia significativa della terapia fino a 48 settimane dopo l’interruzione dell’assunzione del farmaco. Altri studi successivi hanno confermato l’utilità dell’acamprosato nel mantenere la condizione alcohol-free o nel limitare la frequenza e l’entità delle ricadute (Whitworth, 1996; Poldrugo, 1997; Geerlings, 1997; Pelc, 1997)
Anche nel più recente studio controllato di follow-up effettuato su un campione di 330 pazienti alcolisti astinenti il trattamento con acamprosato ha dimostrato un’efficacia significativamente maggiore rispetto al placebo nel mantenere l’astinenza e nel diminuire la severità delle recidive. Non ha dimostrato alcun effetto, però, sull’ansia, la depressione e il craving (quest’ultimo è stato valutato utilizzando come unica scala la VAS) (Tempesta, in corso di stampa). Del resto nella maggior parte degli studi finora pubblicati non vi è alcuna evidenza conclusiva che il farmaco sia in grado di attenuare il craving, pur tenendo in considerazione le già messe in luce limitazioni metodologiche circa la valutazione del craving .
Quindi, nonostante sia stato osservato un evidente effetto dell’acamprosato sul mantenimento dell’astinenza da alcol, il meccanismo d’azione del farmaco non è ancora chiaro. E’ stato ipotizzato (Littleton, 1995) che possa ridurre il craving alcolico, in particolare di esso gli aspetti di condizionamento negativo (in corso di astinenza o di astinenza protratta), come l’ansia, ma, ancora una volta, i dati relativi al craving, come pure all’ansia, non sono sufficientemente chiari o incoraggianti. Altre questioni aperte, per cui sono necessari ulteriori lavori di ricerca, riguardano il periodo ideale per iniziare il trattamento, la sua durata e l’eventuale associazione con altri farmaci psicotropi.


Acido gammaidrossibutirrico (GHB)

L’acido gammaidrossibutirrico (GHB) è un composto tetracarbonico con proprietà neurofisiologiche e neurofarmacologiche tipiche delle molecole di piccole dimensioni, è capace di attraversare la barriera emato-encefalica ed è sintetizzato a partire da un metabolita intermedio del catabolismo del GABA tramite la semialdeide succinico reduttasi. Il GHB è stato identificato in tutte le regioni del cervello dei mammiferi ad una concentrazione che varia tra 1,8 e 20 nmol/g di tessuto fresco; nel cervello umano i livelli più alti di GHB sono stati trovati nell’ipotalamo e nel talamo, i più bassi nella corteccia (Doherty, 1978). E’ stato riportato che il GHB esogeno svolge un ruolo sulla funzione cerebrale e, poiché sono state identificate delle aree centrali con un’elevata affinità per il GHB, è probabile che questo composto agisca come un neurotrasmettitore o un neuromodulatore piuttosto che come un metabolita del GABA (Maitre, 1983). Il GHB esogeno esercita un’azione ipnotica e anestetica nei ratti e nell’uomo ed è stato usato come anestetico generale e come ipnotico per il trattamento della narcolessia (Mamelak, 1981)
Recentemente il GHB è stato proposto come farmaco anticraving per l’alcol in seguito ad alcuni dati sperimentali: il GHB inibisce il consumo volontario di alcol nei ratti bevitori selezionati e la crisi di astinenza nei ratti resi fisicamente dipendenti (Fadda, 1983, 1989).
Alcuni studi effettuati sull’uomo sembrano confermare i risultati delle ricerche sperimentali: il GHB somministrato per via orale in pazienti alcolisti sopprime la sindrome astinenziale e riduce il craving e il consumo di alcol (Gallimberti, 1989, 1992). Anche successivi studi “in aperto” hanno confermato l’efficacia anticraving del GHB e la sua capacità di aumentare la frequenza di astensione dall’alcol anche fino a un anno dalla sospensione della terapia (Addolorato, 1997; Poldrugo, 1999).
Alcuni Autori suggeriscono che il GHB riduca il craving per l’alcol perché ne riproduce, in modo attenuato e stabile gli effetti positivi e gratificanti (Gessa, 1992). Infatti il profilo farmacologico delle due sostanze mostra una stretta somiglianza: entrambe esercitano effetti bifasici dose-dipendenti (dalla stimolazione alla sedazione), sono dotate di proprietà ansiolitiche e rinforzanti, appaiono simili negli studi di “drug discrimination” (Poldrugo e Addolorato, 1999).
Proprio a causa di tale profilo di attività farmacologica è stato segnalato un rischio potenziale d’abuso, confermato da varie indagini cliniche (Galloway, 1997, Addolorato, 1997), nelle quali è stata trovata una stretta correlazione tra gli effetti euforigeni della sostanza e lo sviluppo di craving soprattutto in alcolisti sottoposti a disintossicazione e tendenti ad auto-aumentarsi il dosaggio del GHB.
I dati emersi dalla letteratura relativa all’uso del GHB sono, tuttavia, estremamente discordanti e manca a tutt’oggi un accordo tra gli studiosi non solo sulle reali possibilità d’impiego della sostanza, ma anche sui sistemi biologici sui quali dovrebbe agire.

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