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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: MODELLI E RICERCA IN PSICOTERAPIA

Area: Integrazione delle Psicoterapie

Mistica, religione e psicoanalisi

di Tullio Carere-Comes

Commento a “La dimensione mistica nell’esperienza psicoanalitica”, di Salvatore Freni



Per chi conosce Salvatore Freni come uno psicoanalista impegnato in prima linea nella ricerca scientifica in psicoanalisi e psicoterapia, può essere una grande sorpresa ritrovarlo in prima linea anche nel campo opposto, quello della "Dimensione mistica nell'esperienza psicoanalitica". Soprattutto in un tempo in cui, come osserva lui stesso in questo lavoro, si profilano "nell'orizzonte psicoanalitico due linee di tendenza che tendono a divergere tra coloro che pensano alla psicoanalisi come pratica tecnico-professionale, tesa a conquistare il campo medico e psichiatrico assumendone il relativo linguaggio, e coloro che pensano alla psicoanalisi come la forma più alta di meditazione e consapevolezza laica, tesa a eludere la divisione sano/malato, il linguaggio clinico-nosografico per la sua valenza stigmatizzante e senza porsi tanto la questione di durata, efficacia e sua dimostrazione empiricamente fondata". Con il suo impegno sui due fronti, Freni testimonia della non inevitabilità di questa dicotomia, per chi è in grado di mantenere la tensione dialettica tra polo scientifico e polo mistico del campo psicoanalitico-psicoterapeutico (rispettivamente vertice K e vertice O, per usare le sigle di Bion, altro analista capace di muoversi tra i due poli senza fissarsi a nessuno dei due). Per inciso, si registra una discreta tendenza a riservare, in questa dicotomia, il termine "psicoterapia" al primo corno del dilemma, e quello di "psicoanalisi" al secondo: il mantenimento della tensione dialettica tra i due momenti avrebbe il non piccolo vantaggio secondario di superare anche questa dicotomia terminologica.

In questa ampia relazione, presentata al Centro Milanese di Psicoanalisi il 18 maggio 2000, si possono distinguere principalmente tre temi, tre fili conduttori che si intrecciano nel discorso di Freni: [1] la differenza tra mistica apofatica, o negativa, e mistica catafatica, o affermativa; [2] la differenza tra mistica e religione; [3] le affinità tra mistica e psicoanalisi. Vediamoli brevemente.

[1] La mistica apofatica, o negativa, è la mistica del distacco. Molto rappresentata in Oriente, ha nella tradizione platonica, e soprattutto in Plotino, il suo punto principale d'ingresso nel pensiero occidentale. La celebre esortazione plotiniana afele panta (abbandona tutto) è un invito ad abbandonare ogni possesso, ogni identità e ogni aggancio rassicurante al piano psicologico, un incoraggiamento a perdere tutto per trovare, in questo vuoto spinto alle estreme conseguenze, il vero fondamento dell'identità. Il vero io, insegnava Meister Eckart, altra pietra miliare nel cammino della mistica apofatica o dell'essenza, non è il piccolo io psicologico, quello con cui siamo soliti distinguerci da, e opporci a, ogni altro essere (non-io). L'io vero o essenziale è un io transpersonale, universale, spogliato di ogni accidentalità psicologica. Per contrasto, la mistica catafatica o affermativa "enfatizza la somiglianza che esiste tra Dio e le creature", e quindi "raccomanda l'uso di concetti, immagini e simboli come mezzi per contemplare Dio". Seguendo Vannini, forse il massimo studioso italiano di mistica, Freni considera solo la prima forma, quella negativa o apofatica, come la mistica autentica, realmente emancipata dal piano psicologico, essendo evidente nella seconda il bisogno di mantenere una serie di agganci e identificazioni con il piano psicologico-fenomenico. C'è da chiedersi, tuttavia, se un giudizio di autenticità/non autenticità sia il più pertinente per caratterizzare questa differenza. Indubbiamente solo la mistica apofatica è un processo di radicale superamento di ogni identificazione con tutto ciò che è accidentale. Tuttavia l'indicazione di un percorso esclusivamente negativo che enfatizzi unilateralmente il distacco sarebbe troppo severa, e di fatto impercorribile, per la quasi totalità dei ricercatori: che hanno invece bisogno, almeno in certi momenti o tratti del cammino, di utilizzare determinati concetti, simboli o immagini come punti di appoggio per la meditazione. La discriminante di autenticità riguarderebbe allora non tanto l'uso in sé di tali mezzi simbolici, quanto la consapevolezza o meno della loro funzione strumentale: semplici aiuti per la meditazione o la contemplazione, da utilizzare finché servono e abbandonare quando se ne può fare a meno (come raccomandava, per esempio, Teresa d'Avila). Quando la consapevolezza di tale strumentalità è perduta o comunque assente, si installa nella mente del meditante la convinzione dell'esistenza oggettiva di certi concetti o immagini, che vengono in tal modo appunto oggettivati o sostanzializzati. Per esempio il "nome del padre" evocato e invocato nella mistica catafatica, da significante di straordinaria pregnanza, forse ineludibile sulla via dell'accesso all'ordine simbolico, si trasforma in un significato dotato di esistenza metafisica, un "padre celeste" infinitamente potente e buono, eccetera. In questo "oblio dell'essere" (questo smarrimento in cui l'essere è oggettivato o sostanzializzato a ente, fosse anche "l'ente supremo") Heidegger ha correttamente visto l'origine della metafisica ontologica che da sempre affligge il pensiero dell'Occidente. Il giudizio di inautenticità dovrebbe pertanto essere riservato al procedimento segnato da questo oblio, piuttosto che alla mistica catafatica in sé.

[2] Dall'oblio dell'essere, con la metafisica ontologica che ne deriva, alla religione istituzionale il passo è breve. Molte volte è stata imputata a Freud l'incapacità di distinguere la mistica dalla religione. E' singolare il rapporto intrattenuto con questa tematica dal padre della psicoanalisi. Si direbbe che il bisogno di restare comunque in contatto con questa dimensione, per alcuni aspetti essenziali a lui inaccessibile, lo abbia spinto a cercare per tutta la vita la compagnia di uomini che gli permettessero di tener vivo questo confronto: da Jung a Pfister, da Binswanger a Rolland. A quest'ultimo confesserà nel 1931 che "non ho mai sentito la misteriosa attrazione da uomo a uomo così vivamente come nel Suo caso, forse ciò è collegato in qualche modo alla consapevolezza di tutte le nostre diversità". Sarà proprio Rolland a tentare ripetutamente di portare Freud a riconoscere la differenza tra l'istanza mistica, espressione del bisogno umano più profondo, e la religione, pratica sociale in cui l'autentico anelito spirituale è perduto e soffocato dall'appropriazione chiesastica. Ma invano. Freud non giungerà mai a vedere nella mistica qualcosa di diverso dalla religione, intese entrambe come un cedimento al richiamo regressivo dell'unione narcisistica con il seno o il ventre materno. Non che Freud non possa essere considerato lui stesso in un certo senso un mistico, e a buona ragione, come osserva Freni: egli "si pone in un atteggiamento di ritiro, negazione, distacco, sia nei confronti della maggioranza della società in cui vive in quanto rappresentante di una minoranza, sia rispetto alla minoranza di appartenenza rifiutando il legante fondamentale di tale minoranza, la religione, e mantenendo al contempo una grande apertura verso lo studio della scienza, dell'arte, della filosofia, dell'estetica, della religione stessa e del mito. Sarebbe una forzatura vedere già in questo atteggiamento fondativo un fulgido esempio di 'mistica dell'essenza o speculativa', quella stessa per cui Eckhart, Giovanni della Croce subirono processi…?". C'è in Freud una mistica implicita, che non diventa mai esplicita. O piuttosto un anelito mistico, che non si compie mai, perché manca il passaggio decisivo della fede, dell'affidamento al mistero o salto nel vuoto che è la caratteristica centrale ed essenziale di ogni mistica (passaggio che non mancherà in Bion, mistico a tutti gli effetti).

E tuttavia c'è tra mistica e religione una parentela che Freud, se pure solo in negativo, ha colto, mentre Rolland troppo recisamente ha negato. Lo specifico della religione è analizzato in un'opera di Luigi Giussani (Il senso religioso, Rizzoli, 1998), che cerca di dare una fondazione filosofica critica alla fede cristiana. Alla domanda su quale sia la struttura essenziale dell'essere umano, Giussani risponde come risposero i Presocratici al monito di Apollo: la struttura fondamentale dell'uomo è la finitezza, la creaturalità, la dipendenza. Il "conosci te stesso", infatti, era stato interpretato in un primo tempo come "uomo, riconosci il tuo essere mortale, abbandona la pretesa arrogante (hybris) di essere un dio". Ma l'uomo, nella sua finitezza, cerca naturalmente il suo compimento nell'infinito. Giustamente Giussani sottolinea il nesso necessario tra finito e infinito: il contingente non è pensabile senza il permanente, il divenire senza l'essere, il finito senza l'infinito. Il suo limite – il limite della religione che rappresenta, e probabilmente di ogni religione istituzionale – è quello di considerare la condizione di finitezza, di creaturalità dell'uomo, come la sua realtà ultima, piuttosto che come un momento della sua coscienza di sé, o della "fenomenologia dello spirito". Gli stessi Greci non si sono fermati alla risposta presocratica al monito di Apollo. Già con Socrate e Platone hanno dato una seconda risposta. Accettata la propria finitezza, quindi superata la fase dell'onnipotenza infantile, in cui crede di essere un dio, l'uomo procede oltre, scoprendo il nucleo infinito che sta nel profondo della sua anima finita, come il suo "vero io" (Beierwaltes, 1991). Nel primo momento, di riconoscimento della finitezza, egli supera l'illusione di essere eterno e infinito in quanto tale, nel suo io psicologico. Il superamento di questa fase mette le cose a posto, il finito e contingente è riconosciuto in quanto finito e contingente. Ma se questa riduzione fosse il punto d'arrivo della ricerca l'uomo si ritroverebbe alienato, cioè radicalmente e irrimediabilmente dipendente da un altro da sé. E dunque è necessario il passo successivo: la persona è finita, contingente, dipendente, ma il vero io, il nucleo più profondo dell'anima, è sovrapersonale, universale, infinito. Non pervenendo alla scoperta di quel nucleo – non essendo un mistico – Giussani vede sé stesso, e tutta l'umanità, al di qua della linea che separa il contingente dall'eterno, totalmente dipendente e impotente a varcare quella linea. A quel punto non gli resta che sperare in un intervento misericordioso che provenga dall'altra parte e lo salvi, e crede di trovarlo nella Rivelazione.

Se l'uomo potesse superare l'angoscia relativa alla percezione della sua finitezza scoprendo un nucleo infinito nel profondo della sua anima finita, non ci sarebbe bisogno di alcuna rivelazione, né di alcuna mediazione chiesastica: il che spiega la costante diffidenza della religione verso la mistica. Ma la comprensione della religione come prima fase di un cammino che riconduce l'uomo a sé stesso, se da un lato le sottrae il ruolo di guida spirituale dell'umanità che essa si attribuisce, dall'altro le restituisce un valore parziale ma non illusorio, forse necessario per chiunque non sia pronto al passo ulteriore. Vedere nella religione non semplicemente un errore e un'illusione (come certamente è, nel momento in cui si ritiene depositaria di un sapere assoluto), e quindi in antitesi inconciliabile con la mistica, ma come un primo momento nella dialettica della conoscenza di sé (in quanto tale non alienato né alienante, se non si pone come assoluto), permette di gettare uno sguardo più comprensivo sul fenomeno religioso in generale. Non soltanto sulla religione propriamente detta, ma anche sui fenomeni di trasformazione chiesastica che interessano in modo massiccio le stesse istituzioni psicoanalitiche, con tutto il corredo di santificazione del fondatore, testi sacri, rituali, liturgie, scomuniche, guerre di religione che caratterizza le chiese psicoanalitiche, non diversamente da ogni altra. Nel bene e nel male, l'uomo ha bisogno di religione: lo conferma la psicoanalisi assumendo su di sé molti tratti di quell'illusione che ha creduto di smascherare. E' un bisogno che non si supera rimuovendolo, ma portando a compimento quel processo di cui ogni religione rappresenta un primo momento.

[3] Per non fermarsi al momento chiesastico, o non regredire ad esso, la psicoanalisi, e in generale la psicoterapia, debbono ricollegarsi all'ispirazione mistica che, come Freni mostra, è implicita sin dall'inizio nell'impianto della psicoanalisi, ma può diventare esplicita ed essere consapevolmente assunta solo nel momento in cui, venendo meno l'egemonia del paradigma classico unipersonale, si affermano i nuovi paradigmi bi-pluri-personale, intersoggettivo, transpersonale, di campo gruppale, ecc. Questo sviluppo è ora dunque possibile, ma perché è anche necessario?

La formula più concisa della mistica è la bioniana F in O, fede nel noumeno, nell'ignoto, o nel fondamento inconoscibile di ogni conoscenza. Che cosa accade, se manca questa fede? Accade che il terapeuta, non potendo soggiornare nel vuoto, deve aggrapparsi a un pieno: a una teoria, una tecnica, un setting, una scuola, un'istituzione, un paradigma… Le teorie e le tecniche, le idee e le strutture, tutte cose naturalmente necessarie, cessano di essere strumenti del mestiere per trasformarsi in mezzi di identificazione e di potere. Il terapeuta non può privarsene, non può distaccarsene, perché gli mancherebbe il terreno sotto i piedi e cascherebbe nel vuoto: un vuoto che non può tollerare, perché terribilmente minaccioso per il suo assetto mentale, "finché F in O non è stata istituita" (Bion,1970). La conseguenza di questa identificazione di ciascuno con il proprio apparato teorico-tecnico è che il dialogo è impossibile. E' possibile comunicare con chi condivide lo stesso paradigma, ma un vero dialogo presuppone la capacità di sospendere i propri presupposti per ascoltare l'altro: altrimenti si sente solo quello che li conferma. Non è possibile, senza questa sospensione, dialogare con i colleghi, ma nemmeno con i pazienti: che potranno essere curati, secondo il modello medico, o indottrinati, secondo il modello chiesastico, ma non realmente ascoltati. Si somministreranno trattamenti o saperi, ma una vera terapia, fondata su un vero dialogo, non può esistere con queste premesse.

Se questo è vero, la "dimensione mistica" non è solo un aspetto della relazione psicoanalitica che può essere particolarmente sviluppato in alcuni autori (come Winnicott, Bion e Lacan, di cui Freni propone un'analisi comparata) e del tutto assente in altri; o un settore del campo della psicoterapia, coltivato da alcune scuole e ignorato da altre. Essendo piuttosto il luogo (o, si dovrebbe dire, il non-luogo) del fondamento ateoretico di ogni teoria, o del logos di ogni dialogo, è la possibilità stessa di ogni comunicazione non manipolativa. Senza questo fondamento, infatti, non si vede come il parlante possa evitare di restare rinchiuso nei propri presupposti, e come possa affrancarsi dalla necessità di imporli agli altri. In conclusione, nella mistica si può certo vedere una dimensione dell'esperienza psicoanalitica, come felicemente propone Freni: ma oltre a questa si può intuire un intero orizzonte, quello al cui interno deve collocarsi ogni pratica psicoanalitica o psicoterapeutica che voglia essere realmente dialogica e euristica, e non stereotipata e manipolativa.


Bibliografia

Beierwaltes (1991). Autoconoscenza ed esperienza dell'unità. Vita e Pensiero, Milano, 1995.

Bion, W.R. (1970). Attenzione e interpretazione, Armando, Roma, 1973

Freni, S. (2000). La dimensione mistica nell’esperienza psicoanalitica. Relazione al Centro Milanese di Psicoanalisi "Cesare Musatti", Giovedì 18 maggio 2000.

Freud, S. Lettere alla fidanzata e ad altri corrispondenti 1873-1939. Boringhieri, Torino, 1960.

Giussani, L. (1997). Il senso religioso. Rizzoli, Milano.



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