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Dibattito precongressuale
- avvenuto tra il 20 Maggio 2001 e il
14 Marzo 2002 in preparazione del
I Convegno Nazionale SEPI-Italia (Milano, 16 Marzo 2002)
Integrità e integrazione
in psicoterapia
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Editing a cura di Tullio Carere-Comes e Paolo Migone
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Prima di due parti
(maggio-dicembre 2001). Vai alla Seconda Parte
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al Dibattito post-congressuale (in
quattro parti)
Tullio Carere, 20 Maggio 2001:
Cari amici, solo ora ho potuto completare l'elenco dei relatori al primo Convegno
SEPI-Italia che si terrà a Milano il 16 Marzo 2002. Sono otto in
totale: Sergio Benvenuto, Salvatore Freni, Giovanni Liotti, Paolo Migone,
Diego Napolitani, Fausto Petrella, Mario Rossi Monti, e io stesso (si
aggiungerà fra breve un nono relatore: Giorgio Alberti ). E' un
gruppo che rappresenta orientamenti diversi, psicoterapeutici e psicoanalitici,
SPI e non-SPI. Ci accomuna da un lato il rifiuto delle chiusure parrocchiali,
dello scientismo e dell'accademia, dall'altro l'interesse per il dialogo
e la ricerca di un linguaggio comune che lo renda possibile.
Un linguaggio comune, d'altra parte, rinvia a categorie di pensiero
comuni, e queste a un 'common ground' su cui si suppone che, al di là
delle differenti opzioni teoriche e tecniche, tutti quanti poggiamo
i piedi. Ma questo è precisamente il nodo problematico che il
convegno dovrà cercare di sciogliere, o almeno di illuminare.
Da un lato è evidente che se ogni approccio teorico si costruisse
idiosincraticamente i propri oggetti e il proprio campo di applicazione
(ipotesi del costruzionismo radicale) sarebbe vano cercare qualcosa
di comune tra culture basilarmente estranee l'una all'altra (se anche
si trovasse, potrebbe essere solo qualcosa di contingente e inessenziale).
Dall'altro lato la descrizione del processo terapeutico è sicuramente
condizionata dai presupposti teorici dell'osservatore, tanto che un'osservazione
'teoreticamente neutra' è per lo più vista come una chimera
improponibile. Se non possiamo arrenderci all'incomunicabilità
tra approcci teorici diversi, non è nemmeno chiaro come le barriere
concettuali e linguistiche erette dalle diverse scuole possano essere
superate.
La difficoltà che ci troviamo di fronte, del resto, non sembra
diversa in linea di principio da quella che incontriamo nella comunicazione
con i pazienti. Anche qui un vero dialogo si può sviluppare solo
se rinunciamo a far valere in modo unilaterale le nostre categorie interpretative
(senza questa rinuncia è difficile evitare di cadere in qualche
forma di 'abuso teoretico'); e tuttavia una completa neutralità
- una completa sospensione di ogni presupposto teorico - è difficilmente
pensabile. Di fatto un dialogo si può sviluppare solo se da entrambe
le parti è abbandonata la pretesa di difendere a oltranza la
propria visione delle cose, personale o di scuola che sia; vale a dire
se si realizza una sospensione o neutralizzazione 'sufficientemente
buona' delle categorie gnoseologiche di partenza. Tra gli opposti estremismi
(o le opposte illusioni) del costruzionismo radicale e della neutralità
perfetta, si intravede così uno spazio intermedio 'relativamente
libero da teorie', prodotto da una neutralizzazione sufficientemente
buona.
- Potremmo cominciare a confrontarci su questi temi per e-mail, come
ha proposto Diego Napolitani:
- >Data la vastità e la profondità degli argomenti
in calendario, non credi
>che sarebbe opportuno che coloro che hanno qualcosa da dire in proposito
>lo anticipino per e-mail? Questo consentirebbe una meditazione adeguata
>sulle varie proposte, una preparazione dell'eventuale commento (critico
o
>di adesione), e anche una selezione di quei temi che si mostreranno
>prevalenti per numero e per spessore. Su questi temi, già quindi
noti
>nelle proposte e nelle risposte, potrebbero essere ricapitolati nell'unica
>giornata di confronto per un "viva voce" scambievole come messa a punto
>conclusiva di accordi e disaccordi.
La proposta di Diego ne riecheggia una analoga fatta inizialmente
da Fausto
Petrella. Spero che vorrete raccoglierla, dando inizio a un dibattito
precongressuale su questa minilista. Tullio Carere.
- Riproduco qui sotto il testo introduttivo al Convegno:
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I Convegno Nazionale SEPI-Italia (Milano, 16 Marzo 2002)
INTEGRITÀ E INTEGRAZIONE IN PSICOTERAPIA
NOTA INTRODUTTIVA
"La malattia mentale - ha scritto Petrella (http://www.publinet.it/pol/ital/docustoria2.htm)
- si presenta, dal punto di vista dell'integrazione psichica, sotto
la forma della perdita o del difetto di tale integrazione, quindi come
scissione fra parti, dissociazione, frattura o frammentazione". La terapia
dovrebbe pertanto svolgere una funzione reintegratrice, ma "si verifica
facilmente che alla dis-integrazione del paziente corrisponda nel campo
dell'intervento un insieme teorico-clinico esso pure disgregato e travagliato
da impostazioni e concezioni diverse".
L'integrazione cui la terapia dovrebbe tendere è dunque ostacolata
dalle resistenze opposte dai modelli clinico-terapeutici, che "aspirano
ciascuno a un certo imperialismo". Alla malattia del paziente come perdita
o difetto di integrazione personale corrisponde l'inadeguatezza del
terapeuta o dell'istituzione curante, oscillante tra l'imposizione unilaterale
di un modello acriticamente e arbitrariamente assunto da un lato e "l'accozzaglia,
la confusione sistematica" dall'altro. Il punto su cui far leva per
evitare entrambe le insidie è visto da Petrella nella "integrità
personale della presenza, che vaglia tutte le valutazioni e assume la
responsabilità finale della posizione terapeutica".
Questa integrità è innanzitutto una posizione etica,
di "ascolto tendenzialmente totale" del paziente e della situazione,
non condizionato da pregiudizi teorici o tecnici. Qui si pone una prima
questione: come è possibile un ascolto non condizionato dalla
teoria, quando sappiamo che ogni esperienza ne è impregnata?
In che modo, e fino a che punto, è possibile prendere le distanze
dalle proprie premesse teoriche? Come è possibile, e che cosa
significa precisamente, "lasciarsi sorprendere a ogni svolta" (Freud),
sospendere ogni giudizio e motivazione (Husserl), ascoltare "senza memoria
e senza desiderio" (Bion)? E ancora: come è possibile usare liberamente
tutte le teorie e le tecniche che servono nella conduzione del trattamento
senza esserne condizionati o asserviti, superando il parrocchialismo
delle singole scuole e orientamenti, senza per questo cadere in un eclettismo
disinvolto o privo di rigore?
Le ricerche sui risultati delle psicoterapie condotte finora sono
compendiate dal "verdetto di Dodo": tutti hanno vinto, tutti meritano
un premio. I risultati delle psicoterapie sembrano pressappoco gli stessi,
quali che siano le teorie e le tecniche del terapeuta, e questi risultati
si correlano solo debolmente con i fattori specifici dell'approccio
impiegato, ma più nettamente con fattori relazionali "non specifici",
cioè comuni a tutti gli approcci (Lambert). Il paradosso che
emerge è che la psicoterapia in genere funziona, ma non tanto
per i motivi per cui il terapeuta di scuola crede che funzioni, bensì
in buona parte o in maggior parte per altri motivi, che hanno a che
fare prevalentemente con la relazione che si sviluppa tra terapeuta
e paziente. Altre ricerche mostrano che il modo di operare di un terapeuta
esperto finisce per essere più simile a quello di altri terapeuti
esperti di scuole diverse, che non a quello di terapeuti inesperti della
sua stessa scuola. Si direbbe che l'esperienza allontani sempre di più
i terapeuti dalle teorie delle rispettive scuole per riplasmarli secondo
regole non scritte nei manuali, ma in qualche modo inscritte in qualsiasi
relazione che si proponga di essere terapeutica. E' dunque l'idea di
specifico e aspecifico che va interamente rivista? Che cosa possiamo
e dobbiamo pensare di questa iscrizione preteorica o transteorica? Trattandosi
di una struttura implicita nella relazione terapeutica in quanto tale,
trasversale a tutti i metodi specifici, dovrebbe essere possibile descriverla
servendosi di concetti operativi teoreticamente neutri - o nel linguaggio
e nei concetti di una "metateoria". E' possibile pensare a una metateoria
della relazione terapeutica, cioè una teoria generale del campo
terapeutico, espressa in un linguaggio "experience-near" che
descriva le operazioni basilari di ogni interazione terapeutica? Se
questa metateoria non fosse possibile, non rischierebbe la psicoterapia
di essere un semplice contenitore convenzionale per una congerie di
pratiche disparate e incompatibili (come ad esempio le "medicine alternative")?
Sembra necessario che il terapeuta sia consapevole dei problemi sopra
accennati. Se infatti la psicoterapia fosse, nei suoi tratti essenziali,
un processo bene individuabile, la sua descrizione rigorosa e sistematica
dovrebbe essere un obiettivo prioritario. Se fosse invece un contenitore
convenzionale, cadrebbe la possibilità di parlare di integrazione
tra pratiche concettualmente inconciliabili. Resterebbe solo la possibilità
di integrare teorie che presentano tra loro una chiara affinità
epistemologica (Neimeyer), o di procedere in modo "assimilativo" (Messer),
cioè integrando teorie e tecniche estranee su una base teorica
data, grazie alla loro riformulazione secondo i concetti e il linguaggio
della teoria di partenza. Quali elementi ci possono orientare nella
scelta tra queste diverse opzioni? O piuttosto questi problemi possono
essere diversamente impostati?
Giovanni Liotti, 26 Maggio 2001:
Credo che sia la ricerca scientifica di base -- che segue gli stessi
fondamentali principi quando si declina nei variegati mondi nelle Neuroscienze,
della Psicologia sperimentale, della Psicologia dello sviluppo, del
processo psicoterapeutico e degli effetti delle psicoterapie -- a indicarci
il "linguaggio comune". Solo su questo tema posso dare un contributo
al tema del Congresso. Parlerei di Control-Mastery Theory (CMT)
(come
esito di ricerca sul processo psicoterapeutico), di ricerca sull'attaccamento,
di ricerca neuropsicologica come realtà attuali, già capaci
di fatto di offrire un terreno comune di confronto a psicoterapeuti
di diverso orientamento. Voglio dire che su questa base concreta già
si trovano bene a "parlare" fra loro attraverso articoli o libri (e
persino, nella mia esperienza, a formulare un concreto caso clinico)
Colleghi di formazione psicoanalitica, cognitivista, e sistemico-familiare.
Sono invece del tutto scettico che sia (in linea di principio!) possibile
arrivare all'integrazione fra diverse psicoterapie, se solo ci si mette
a dialogare, pur con le migliori intenzioni, fra psicoterapeuti di diversa
formazione ma senza fare continuo riferimento ad un campo esterno alla
psicoterapia (anche se contiguo ed in comunicazione con essa). Inoltre,
tale riferimento può essere attuato solo assumendo l'epistemologia
scientifica moderna (per me ben rappresentata dal pensiero di Popper:
non, dunque, post-moderna) come fondamento comune tanto al pensiero
clinico psicoterapeutico quanto al pensiero che emerge dalla ricerca
esterna alla prassi concreta della psicoterapia (ricerca neuropsicologica,
sull'attaccamento, sugli effetti delle psicoterapie, sul processo psicoterapeutico
ecc. ecc.) Dirò di più: credo che questo modo di arrivare
all'integrazione dei linguaggi psicoterapeutici non solo sia già
in atto, ma sia destinato a procedere per suo conto senza bisogno alcuno
che noi ci diamo da fare per guidarlo. Guidarlo non possiamo né dobbiamo:
osservarlo mentre prende forma, e commentarlo, sì, potrebbe essere
interessante. Gianni Liotti
Paolo Migone, 27 Maggio 2001:
Cari "colleghi SEPI" (devo chiamarci così?), mando anch'io, come Gianni Liotti, alcune riflessioni sulla questione
della integrazione delle psicoterapie in preparazione del convegno SEPI-Italia.
Sono riflessioni estemporanee, ovviamente.
Concordo con Liotti sulla necessità di un riferimento "esterno",
comune a tutti, per poter far dialogare gli approcci tra di loro. Uno
di questi riferimenti esterni può ben essere la normale "scienza"
(e non post-moderna, come giustamente dice Liotti, altrimenti saremmo
da capo, dato che uno dei connotati dell'idea post-moderna è
proprio l'abbandono di una visione unica). Mi sembra che questo fosse
anche il pensiero di Freud, quando disse che la psicoanalisi non ha
altra weltenshaung se non la scienza della psicologia (e anche
Grünbaum, quando sollevò la questione della importanza della
"ricerca extra-clinica" - non a caso incontrando le critiche di molti
psicoanalisti - toccò questo punto; anche Rubinstein riteneva
che la metapsicologia psicoanalitica non può reggersi da sola
senza un riferimento a dati esterni ad essa, validati da altre discipline).
Che poi quello della "scienza" sia solo un punto di vista, cioè
che non esaurisce tutta la questione della conoscenza (soprattutto in
un campo come la psicoterapia) è un altro discorso, ma almeno
è un punto di vista su cui ci si può confrontare, e si
può iniziare a chiarire certe cose.
Fatta questa premessa, è difficile procedere senza rischiare
di dire cose scontate, o che ci siamo dette tante volte (del tipo "sarebbe
bello integrare" e cose del genere). Evidentemente se si fa fatica a
procedere nella integrazione, devono esserci dei motivi forti (io ho
tutta l'impressione che siano anche di tipo affettivo, nel senso che
è difficilissimo criticare la cosa che amiamo, su cui abbiamo
investito tanto; diventiamo più "obiettivi" solo quando la lasciamo,
quando abbiamo... già cambiato idea). Mi viene in mente quante
volte ho provato a discutere con colleghi, anche molto intelligenti
e colti, che erano però credenti i di una particolare "setta"
(era il caso di dirlo) psicoterapeutica o psicoanalitica (che anni dopo
avrebbero abbandonato completamente). Erano impermeabili, e provavo
un senso di brivido all'idea che forse in certe aree ero così
anch'io senza rendermene conto. Inoltre non va dimenticato che una certa
diversificazione di approcci può essere utile alla disciplina,
nel senso che la ricerca diversificata evita un appiattimento su un
unico modello che può essere anch'esso pericoloso.
Faccio ora un commento stimolato dall'articolo di Petrella, che feci
a suo tempo quando lessi il suo lavoro, dove dice: "La malattia mentale
si presenta, dal punto di vista dell'integrazione psichica, sotto la
forma della perdita o del difetto di tale integrazione... (...) si verifica
facilmente che alla dis-integrazione del paziente corrisponda nel campo
dell'intervento un insieme teorico-clinico esso pure disgregato e travagliato
da impostazioni e concezioni diverse"). Questo ragionamento rischia
però di essere analogico, perché fa leva sulla somiglianza
della parola integrazione usata in due contesti diversi. E poi non ci
dice come si fa a superare tale "dis-integrazione", a meno
che non si specifichi la teoria a monte di concetti quali "difetto di
integrazione, scissione fra parti, dissociazione". O a meno che (cosa
che io penso, e forse anche Petrella vuole dire questo) non si faccia
riferimento al fatto che il cervello è fatto di parti diverse
(tutte responsabili in qualche modo del comportamento) che funzionano
in modi diversi, per cui sono nate diverse teorie (o scuole) a seconda
di quale livello di funzionamento (e/o diagnosi) di volta in volta si
prendeva in considerazione (mi riferisco ad esempio al discorso di Gedo,
che in tempi non sospetti - a cavallo degli anni '70 - tentò
una tale integrazione col suo modello gerarchico, fatto di 5 modi di
funzionamento psichico collegati a 5 modalità tecniche; ma si
pensi anche alle implicazioni della teoria del "codice multiplo" della
Bucci e di tanti altri autori). Faccio un esempio: adesso Fonagy (tra
i tanti) improvvisamente scopre che la interpretazione (il linguaggio
verbale) non serve a niente con certi pazienti (es. certi borderline),
che sono sordi a questo canale di comunicazione, e propone "nuove" modalità
(l'esperienza emozionale ecc.). O si pensi alla recente "scoperta" della
memoria procedurale da parte della psicoanalisi...
Io ho l'impressione che sia centrale la questione del modo con cui
funziona il cervello, cioè non possiamo andare d'accordo se non
concordiamo su una teoria della mente, e anche del rapporto corpo-mente,
perché non si può riparare una macchina che non va se
abbiamo idee diversissime di come è fatto il suo motore. Ma qui
non è tutta "colpa nostra", nel senso che, a quanto mi sembra
di capire, a tutt'oggi il dibattito sulla natura della mente, sul rapporto
mente-corpo ecc., è molto vivo, altrimenti i neurobiologi e i
filosofi della mente non continuerebbero a discutete e a confrontarsi,
cosa che invece fanno, mettendoci di fronte a panorami diversi. Mi sembra
quindi che solo quando si sarà appianato il dibattito e si saranno
raggiunte conoscenze condivise in questo campo allora potremo (forse)
procedere a un maggiore integrazione degli approcci psicoterapeutici
(poi a me sembra, estremizzando il discorso, che non è possibile
essere integrati, perché è la nostra testa che non è
"integrata", cioè veramente abbiamo diversi modi di funzionare
- quello artistico, intuitivo, scientifico, inconscio, ecc.). E poi,
ripeto, la questione è che si continua a ritenere che esista
"il paziente", mentre esistono diversi pazienti con diverse diagnosi
e quindi diverse modalità di funzionamento mentale (e diversi
terapeuti con gusti e modi di funzionare diversi), e questo dovrebbe
essere considerato nel dibattito sulla integrazione in psicoterapia.
Non a caso la vera sfida oggi si gioca sulla migliore terapia per
gli stessi pazienti (vedi il confronto Kernberg-Linehan, e Fonagy per
i borderline che pare abbia dimostrato una efficacia del suo approccio
tecnico). Personalmente, non ho mai avuto dubbi che certi autori diversissimi
e con linguaggi diversi facessero proprio le stesse cose. Se mi permettete
la provocazione, ho sempre pensato che la psicoterapia è sempre
stata integrata, cioè è sempre stata una sola, sono stati
i terapeuti che hanno pensato che non lo fosse.
Un ultimo commento, sempre stimolato da Petrella, quando parla di
"integrità personale della presenza, che vaglia tutte le valutazioni
e assume la responsabilità finale della posizione terapeutica".
Tante volte si è cercato di ricorrere all'etica come elemento
trasversale, forte, per cercare di risolvere la questione delle differenze
tra approcci. Non sono sicuro che sia una strada facile da percorrere,
perché il rischio è che ancora una volta si intendano
cose diverse, cioè che sia una indicazione troppo di massima. Per ora mi fermo, ho fatto solo un paio di commenti di getto, e ringrazio
Tullio Carere e Fausto Petrella per avermi dato lo stimolo. Paolo Migone
Sergio Benvenuto, 30 Maggio 2001:
Cari amici, sono lusingato per essere stato scelto come relatore del primo convegno
SEPI, in un gruppo ristretto di happy few, che personalmente
stimo. Questo mio compiacimento non può però esimermi
dal marcare la mia distanza da quel che alcuni dei colleghi hanno scritto
e, in fondo, dall'impostazione globale del convegno, a giudicare dal
titolo e dalla presentazione. Spero solo che la mia voce - non so se
l'unica dissonante - venga accettata come una possibilità di
arricchimento sinfonico del coro, e non come una brutale stecca. In
effetti, annuncio subito che prenderò posizione CONTRO L'INTEGRAZIONE
IN PSICOTERAPIA. Spero solo che la mia (eccessiva) franchezza non incrini
qualche amicizia.
In effetti, tutto l'accento del convegno è sull'integrazione
tra le varie prospettive psicoterapiche. Si suggerisce che il campo
psicoterapico dovrebbe guarire da un nevrosi di mancata integrazione
tra parti, così come, mutatis mutandis, i pazienti devono guarire
da una mancata integrazione tra le loro parti. Avverto una distanza,
etica ed estetica, da queste preoccupazioni "integrazioniste". Non perché
le trovi sbagliate, ma semplicemente perché non sono le mie -
tutto qui.
Per me la proliferazione delle scuole e dei linguaggi in psicoterapia
è ANCHE un segno di vitalità e di energia della nebulosa
psicoterapica. Per alcuni di voi evidentemente no, è un fenomeno
patologico, da qui la ricerca di una "integrazione" ad ogni costo. A
me non interessa dimostrare che, in fin dei conti, TUTTI i terapisti,
di qualsiasi scuola, fanno la stessa cosa (del resto, come esserne sicuri?
cosa possiamo sapere della pratica di migliaia di psicoterapeuti in
tutto il mondo, delle scuole più diverse?). Io sono più
egoista: bado piuttosto a fare IO qualcosa di convincente. Non ho mire
imperialiste, non mi interessa stabilire le invarianti o gli elementi
universali, fondamentali - senza i quali magari si è espulsi
dalla cerchia degli psicoterapeuti, e si cade nella feccia di chi pratica
"suggestione e manipolazione". Ma il punto è proprio questo:
dobbiamo ancora dimostrare in modo inequivocabile, a chiunque non creda
nelle psicoterapie, che esse NON sono RIDUCIBILI a suggestione e manipolazione.
Nel pamphlet "On Liberty", J.S. Mill mostrò che la pluralità
delle teorie - anche di quelle più bislacche - soprattutto in
campo scientifico, è una ricchezza, anzi, la fonte del vero progresso.
Pluralismo e differenze sono la linfa del cammino del sapere. Oggi tutti
fanno genuflessioni rituali di fronte al proclama di Mill, ma poi in
pratica si temono pluralità e differenze come la peste, e si
cerca di ridurle al minimo - "integrare le differenze" al più
presto! Eppure il darwinismo ci mostra che nella storia della vita non
si integra affatto: si selezionano differenze.
C'è una certa ingenuità da psicoterapisti - cioè,
da persone che soffrono spesso del senso di inferiorità di "essere
poco scientifici" - nell'appellarsi al modello, per esempio, delle neuroscienze,
per superare le eterogeneità tra psicoterapisti. Si dà
il caso che oggi, proprio nel dibattito tra neuroscienziati, si confrontino
proprio modelli alquanto incommensurabili, che non cercano affatto di
integrarsi - anzi, ognuno cerca di soppiantare l'altro. Ho avuto di
recente una bella conversazione con Francisco Varela (che verrà
presto pubblicata sul trimestrale "Lettera Internazionale"), il quale
esalta il modello fenomenologico (di Husserl) nelle neuroscienze, contrapponendolo
a modelli positivistici più classici. E i modelli neo-darwiniani
(come quello di Edelman) non puntano affatto ad integrare l'approccio
cognitivista, ma a confutarlo. Come nel mondo biologico, è una
lotta per la vita e per la morte tra programmi di ricerca scientifici.
Questa pietosa volontà integrativa, di fatto, mi sembra più
un segno della minorità scientifica delle psicoterapie che un
modo di superare finalmente questa minorità.
Liotti ha detto che il suo referente è Popper - autore che ammiro,
anche se considero oggi falsificata la sua teoria falsificazionista.
Ammiro anche T.S. Kuhn. Questi ha distinto in ogni scienza due posizioni
fondamentali: la scienza straordinaria e la scienza normale. Nella prima
un campo scientifico è teatro della lotta tra due o più
paradigmi che si contendono il primato: allora le discussioni tra scienziati
scivolano inevitabilmente verso "il filosofico", perché non c'è
un accordo sull'AB C. In questa fase si confrontano paradigmi tra loro
incommensurabili. Poi, dopo che UNO dei paradigmi prevale, si entra
nella più grigia e conformista scienza normale: tutti gli scienziati
di quella branca condividono i presupposti di un unico programma di
ricerca, per cui si cerca solo di far quadrare i fatti recalcitranti
nell'ambito del paradigma condiviso.
Ora, quando sento parlare in termini salvifici della INTEGRAZIONE tra
strategie psicoterapiche diverse, mi chiedo se non ci sia sotto il trucco:
mi chiedo se essa non si riduca, di fatto, a promuovere il trionfo di
UN solo approccio, svuotando gli altri. (Possibilità che non
deploro. Ma la vittoria di UN SOLO approccio non implica ipso facto
la sua verità. Anche il cattolicesimo, nel Medio Evo, prevalse
su tutte le altre "eresie": ma chi direbbe oggi che prevalse perché
era PIU' VERO delle eresie?)
Ora, per ragioni caratteriali probabilmente congenite, c'è chi
preferisce vivere in epoche STRAORDINARIE e chi preferisce vivere in
epoche NORMALI. Io preferisco le straordinarie. Non c'è dubbio
che le psicoterapie in un secolo non hanno raggiunto uno status di normalità
kuhniana (perciò Kuhn stesso non le considererebbe vere scienze):
a mio avviso i paradigmi a cui si ispirano gli psicoterapeuti sia nella
teoria che nella pratica sono in gran parte incommensurabili. Ma proprio
questa incommensurabilità rende il dibattito - spero anche tra
voi e me - interessante e proficuo!
E' nelle fasi straordinarie che i cultori della disciplina affrontano
questioni filosoficamente davvero essenziali, il che mi piace. L'epoca
straordinaria del dibattito tra cartesiani e newtoniani nel 600 - o
quella tra Einstein e i fisici quantistici all'inizio del 900 - furono
certo tra i momenti più eccitanti della storia della fisica.
E' nel malinteso e nell'incommensurabilità che prosperano le
vere discussioni. Se invece i presupposti sono condivisi, allora potremmo
anche delegare a potenti computer la soluzione dei problemi, come sognava
Leibniz.... "Non discutiamo, calculemus!"
Alcuni di voi, mi pare, cercano il "minimo comun denominatore" tra
le psicoterapie (presupponendo che questo mcd è quel che veramente
conta, il resto sarebbero "pregiudizi teorici") dando quindi per scontato
che esse siano COMMENSURABILI, che giochino con gli stessi elementi
costitutivi. Ma questo è tutto ancora da dimostrare. Io, da quel
che ho potuto vedere delle varie terapie, sono piuttosto incline a vedere
tra loro ciò che Wittgenstein chiamava SOMIGLIANZE DI FAMIGLIA.
Questa idea - che sta avendo applicazioni straordinarie in molti campi,
in particolare nelle neuroscienze - è squisitamente anti-cognitivsta:
rigetta l'idea che certi concetti generali (ad esempio "psicoterapia")
forniscano le condizioni per determinare in modo univoco gli enti che
cadono sotto questi concetti.
In effetti, se prendiamo gli elementi di una certa categoria, molti
di essi possono essere posti in relazione tra loro anche se alcuni non
presentano nessuna delle proprietà che definiscono la categoria
comune a tutti nel modo classico - vale a dire criteri individualmente
necessari e congiuntamente sufficienti. Accade così che certe
categorie possano avere GRADI DI APPARTENENZA ma non confini netti.
Inoltre certe categorie possono avere elementi che sono più rappresentativi
di altri: i prototipi. Quando parliamo di satelliti, il nostro prototipo
è la luna - quando parliamo di psicoanalisi, i nostri prototipi
sono il freudismo e il junghismo. Prendiamo due quasi-estremi, la psicoterapia
junghiana e quella cognitivista: è probabile che tra le due non
ci sia quasi nulla in comune, eppure sono correlate perché ognuna
ha tratti comuni con altre psicoterapie che sono tra loro correlate,
ecc. Ho l'impressione però che alcuni di noi ragionino ancora
nel modo classico (riportato in auge dal cognitivismo) e non nel modo
wittgensteiniano: pensano che davvero quando parliamo di "psicoterapia",
questo sia un concetto definibile una volta per tutte attraverso elementi
costitutivi comuni. Credere che dietro una parola-concetto - ad esempio
"psicoterapia", "religione", ecc. - ci siano forme di vita omogenee
è un'illusione aristotelica che oggi mi pare sfatata (considero
il moderno cognitivismo una forma attardata di aristotelismo).
Tanti psicoterapeuti anelano a diventare "scientifici" come i medici
organici - anelito legittimo. Ma la forza della medicina consiste nel
fatto che essa non propone per qualsiasi malattia, in pratica, sempre
la stessa cura! (Invece la psichiatria farmacologica, purtroppo, tende
a somministrare sempre gli stessi farmaci - non più di una cinquantina
- per quasi o tutti i disturbi.) Capisco gli argomenti di quanti - come
Carere - dicono "quel che funziona è la relazione terapeuta-paziente,
e nessuna metapsicologia oggi in auge descrive questa efficacia". Sono
d'accordo: anch'io cerco in questa direzione. Questo perché le
spiegazioni che OGNI scuola psicoterapica ha finora elaborato della
propria efficacia ci lasciano oggi, tutti, chi più chi meno,
insoddisfatti. Da qui il pungolo a cercare ALTRE descrizioni e spiegazioni
di quel che accade in psicoterapia. (Occorre però dire che spesso
la stessa medicina organica non sa perché guarisce; da qui il
facile ricorso al concetto di "effetti placebo". Conosco medici illustri
che mi dicono "ignoro perché certi pazienti guariscono, e altri
no".)
Quel che mi lascia perplesso, però, è credere che LA RELAZIONE
PSICOTERAPICA SPIEGHI OGNI COSA, dando per scontato che, per ogni soggetto
e per ogni disturbo, OPERI SEMPRE UNA STESSA MEDICINA, cioè UN
certo tipo di relazione. Ma anche questo è un dogma, un pregiudizio
non dimostrato: perché dare per scontato che la relazione che
uno junghiano ha con un suo paziente sia la stessa relazione che un
cognitivista-comportamentale, per esempio, ha con il proprio? Chi ha
mai dimostrato questa omogeneità? Il fatto di aver rilevato,
statisticamente, che le psicoterapie sono tutte ad un tasso simile efficaci
(Verdetto di Dodo) - o ad un tasso simile inefficaci - non dimostra
ipso facto che sono efficaci per le stesse cause! Una depressione può
sparire perché assumo una forte dose di Prozac o perché
ho conosciuto la donna dei miei sogni: basta questo per concludere che
il Prozac e la bella donna siano la STESSA terapia?
C'è un senso in cui dire "è la relazione che cura" è
banalmente vero: come dire "in ogni farmaco efficace opera un principio
chimico attivo". Ma si tratta di capire perché QUELLA specifica
relazione è riuscita a risolvere QUELLO specifico problema, così
come si tratta di sapere, in medicina, perché QUELLO specifico
farmaco ha prodotto QUELLO specifico effetto terapeutico. In fondo,
qualsiasi scuola psicoterapica o analitica è d'accordo che l'elemento
terapeutico è la relazione: il problema è come la si descrive!
Dire "è la relazione che cura" è essere ancora al punto
di partenza. Ma lo ammetto, un buon punto di partenza è meglio
che essere andati molto avanti su una via completamente sbagliata Credere
a priori che le psicoterapie siano commensurabili - e quindi integrabili
- significa prendere per oro colato quel che la cultura sanitaria degli
ultimi 30 anni considera "problemi da psicologo". Ma siamo sicuri che
cose come soffrire di coazioni ossessive, essere dediti ad una sostanza
tossica, credere di essere amati da Raffaella Carrà, essere paralizzati
da una fatica cronica, poter penetrare sessualmente una donna solo se
calza stivali, avere paura di viaggiare, siano tutti "problemi psicologici"
omologabili? Crediamo che ci sia un tratto comune tra tutti questi malesseri
- il misterioso DISORDINE MENTALE, come lo chiama il DSM - perché
all'Università ci hanno insegnato a classificare tutte queste
sofferenze (tra loro forse eterogenee) come "psichiche", il che ha autorizzato
gli psicoterapeuti di ciascuna scuola a proporre, per tutti questi disagi,
SEMPRE LA STESSA MEDICINA, vale a dire un certo tipo di relazione (quella
che il nostro trainer ci ha insegnato). Questo è storicamente
ricorrente: si sa che quando una tecnica o una teoria ha sortito qualche
successo in un campo, si tende ad esportarla in tutti i campi limitrofi.
E' l'imperialismo naturale, spontaneo, di qualunque cosa abbia successo
(così come oggi, in psichiatria, siccome i sali di litio hanno
funzionato bene per certi disturbi, li si tende a prescrivere per TUTTI
i disturbi). Ma il fatto che il Dipartimento di Psicologia chiami "problemi
psicologici" tutte queste sofferenze non implica affatto che al nome-cesto
corrisponda una realtà unica. Per lo meno, non dovremmo dare
la cosa per scontata.
Analogamente, chiamiamo "terapeutici" effetti che in altre epoche non
avrebbero avuto nulla in comune, semplicemente perché la psichiatria
oggi dominante ha deciso che tra tutte queste "mutazioni" c'è un tratto
comune. Ma sappiamo anche che, nel corso degli anni, il concetto stesso
di "curabile" (e quindi di "disordine" o "disturbo") varia ampiamente.
Ad esempio, fino a 20 anni fa si "curavano" ancora uomini e donne della
loro omosessualità; oggi, chi lo dicesse si farebbe espellere
dall'ordine degli psicoterapisti. All'inverso, quelli che un tempo venivano
considerati dei semplici mangioni oggi vanno curati: sono diventati
dei "bulimici". Gli esempi potrebbero essere moltiplicati.
Una mia amica americana di mezza età non ha mai volato perché
il volo la angosciava. Di recente, ha seguito un "corso" organizzato
dall'aeroporto di San Francisco per chi ha paura di volare: si spinge
un gruppo di persone a prendere confidenza, poco a poco, con l'aereo
ed il volo. Nel giro di pochi giorni ha superato la sua antica paura,
e oggi transvola l'Atlantico. Il suo commento è stato: "se avessi
intrapreso un'analisi, ci avrei messo almeno cinque anni per arrivare
a questo risultato, a cui sono giunta in pochi giorni!". Come darle
torto? Ora, non so quale "relazione" sia stata il fattore terapeutico
in questa "cura" dell'aeroporto di San Francisco. Oppure devo relegarla
tra le tecniche suggestive e manipolative? Certo non la si può
considerare una psicoterapia in senso prototipico perché non
fa appello essenzialmente alla parola - ma quale psicoterapia fa appello
unicamente alla parola? - eppure ha somiglianze di famiglia con le psicoterapie.
Insomma, la nebulosa psicoterapica sbrodola in tutte le direzioni possibili.
Ad esempio, c'è qualcosa in comune tra la "terapia" praticata
dagli Anonimi Alcolisti - che, anche se basata su una filosofia spiritualista,
risulta relativamente efficace (più delle psicoterapie classiche!)
con gli alcolizzati - e quella che pratica un lacaniano, ad esempio,
con un soggetto che alza troppo il gomito? Dire che in ambedue "opera
la relazione" è dire solo una ovvia verità: che tra due
o più persone QUALCOSA HA FUNZIONATO. Ma siamo ancora lontani
dall'aver determinato questo "qualcosa".
Credo che faremo un passo avanti nel capire CHE COSA DAVVERO ACCADE
nelle psicoterapie - ognuna con la sua specificità - se abbandoneremo
quel che chiamerei appunto il PREGIUDIZIO INTEGRAZIONISTA e il dogma
della commensurabilità. E' come diceva Wittgenstein: "Se palleggio
contro il muro in modo distratto, e se gioco una partita di scacchi,
in ambedue i casi parlo di gioco. Ma è illusione pensare che,
a parte una certa somiglianza di famiglia, ci sia davvero un qualche
fondamentale tratto comune tra il gioco di palleggiare e il giocare
a scacchi!" (Del resto, quando Edelman propone la sua teoria darwiniana
dello sviluppo cerebrale, va avanti proprio su questa linea wittgensteiniana)
Mi dispiace per qualche amico, ma ho anche qualche dubbio che la stessa
terapia psicoanalitica di TUTTI i nevrotici sia sempre e solo integrazione.
E' vero che Freud, descrivendo le nevrosi in termini di conflitto tra
istanze o parti del soggetto, in qualche modo proponeva un'integrazione
tra queste istanze o parti. Ma allo stesso tempo proponeva anche il
riconoscimento di qualcosa che non può essere né sarà
mai integrabile - i desideri incestuosi, gli impulsi omicidi, l'invidia
distruttiva, la pulsione di morte. Possiamo mai davvero INTEGRARE il
nostro inconscio? Mi auguro di no. Né mi pare che questa integrazione
fosse il messaggio di fondo di Freud (il quale considerava la guarigione
un fatto alquanto misterioso). Non a caso nei suoi ultimi scritti parlava
di "costruzioni" e "ricostruzioni" non di "integrazioni". Certo il non-integrabile
va assimilato, riconvertito. Mi chiedo allora se questo furor
integrazionista non si risolva al servizio di qualche rimozione (in
termini freudiani).
Altri analisti poi (come Winnicott) insistono sulla creatività
come valore terapeutico. E' riducibile la creatività ad una integrazione
di parti? O piuttosto il creatore - ad esempio il grande artista - esprime
in forma accettabile ciò che non è integrabile, che resta
invece ALTRO? Quando Shakespeare ci descrive, in modo così convincente,
Richard III, ci permette di integrare la sua malvagità in noi?
Oppure invece ci permette di separarci da ciò che in noi è
ancora Richard III, di riconoscerlo per rinunciarci? In un certo senso
la creazione e la terapia sono integrazione, ma in un altro senso sono
anche dis-integrazione, abbandono del passato, doloroso superamento
dell'antico, passaggio ad altro. L'analisi riuscita è per me
non solo riparazione e integrazione, ma anche SEPARAZIONE, Gelassenheit
di qualcosa a cui siamo appartenuti.
Mi chiedo insomma se tutte queste odi integrazioniste non riflettano
- nell'ambito della psicoterapia - gli ideali (che rispetto) della cosiddetta
globalizzazione, che vuole ridurre tutto il mondo alla ragione - cioè
alla ragione anglo-americana della democrazia capitalistica liberale.
Non perché io sia ostile alla democrazia capitalistica anglo-americana:
ma perché essa NON SI IDENTIFICA con l'umanità, così
ricca di differenze e variazioni. Integrare, globalizzare, non è
eliminare, uccidere le differenze? A me invece le differenze (non integrabili)
piacciono. Anche perché sono alla fonte del progresso e della
vita. Sergio Benvenuto
Giovanni Liotti, 4 Giugno 2001:
Cari amici e Colleghi, alcune note su due temi fra i tanti che ha suggerito Sergio Benvenuto
potranno, spero, contribuire allo sviluppo delle nostre riflessioni.
- Sergio Benvenuto ha scritto:
- >... il darwinismo ci mostra che nella storia
> della vita non si integra affatto: si selezionano differenze.
> C'è una certa ingenuità da psicoterapisti - cioè,
da persone che soffrono
> spesso del senso di inferiorità di "essere poco scientifici"
-
> nell'appellarsi al modello, per esempio, delle neuroscienze, per superare
> le eterogeneità tra psicoterapisti. Si dà il caso che
oggi, proprio nel
> dibattito tra neuroscienziati, si confrontino proprio modelli alquanto
> incommensurabili, che non cercano affatto di integrarsi - anzi, ognuno
> cerca di soppiantare l'altro. ...
- > E i modelli neo-darwiniani (come quello di Edelman) non puntano
affatto ad
> integrare l'approccio cognitivista, ma a confutarlo. Come nel mondo
> biologico, è una lotta per la vita e per la morte tra programmi
di ricerca scientifici.
- > ... Tanti psicoterapeuti anelano a diventare "scientifici" come
i medici
> organici - anelito legittimo. Ma la forza della medicina consiste
nel fatto
> che essa non propone per qualsiasi malattia, in pratica, sempre la
stessa
> cura! (Invece la psichiatria farmacologica, purtroppo, tende a
> somministrare sempre gli stessi farmaci - non più di una cinquantina
- per
> quasi o tutti i disturbi.)
Sono d'accordo con il tema darwiniano della selezione che
Benvenuto solleva, ma ricordo che, nella biologia evoluzionista, "selezione"
non si pone affatto in antitesi ad "integrazione". Nella vita si integra,
eccome, ciò che è stato selezionato. Posso rispettosamente
consigliare a Benvenuto, a questo riguardo, di riflettere sulla vecchia
simpatica metafora di Jacob, che suggerisce di guardare all'evoluzione
delle forme viventi come ad un bricolage? Vengono selezionati "moduli"
(metabolici morfologici o comportamentali -- se si preferisce, "geni")
che permettono un migliore adattamento alla nicchia ecologica. I nuovi
"moduli" (per quelli che seguono Dawkins, "geni") di successo si accostano
fra loro e ai vecchi moduli (ecco il bricolage) ed interagiscono in
forme organismiche compiute ed evidentemente integrate.
Allo stesso modo, non credo che verranno "selezionate" le Scuole o i
modelli di psicoterapia, quanto piuttosto alcuni fra i numerosi oggetti
del Popperiano Mondo 3 che ciascuna Scuola, o modello, ha coniato. Credo,
in altre parole, che le variegate imprese culturali, cliniche e scientifiche
oggi confusamente racchiuse entro il termine "le psicoterapie" siano
composte da molte idee, ipotesi, teorie, congetture (e altri oggetti
del Mondo 3). E credo che numerose idee, ipotesi, teorie e congetture
avanzate all'interno di diverse Scuole, o modelli generali, di psicoterapia
siano più valide di altre, avanzate all'interno delle stesse
Scuole o modelli. Il problema, ovviamente, è distinguere le prime,
più valide, dalle seconde che lo sono meno. La speranza (lo ammetto,
è solo una speranza) è che le migliori proposte di ogni
Scuola, o modello, siano "commensurabili" con le migliori proposte di
ogni altra, mentre le peggiori potrebbero anche essere fra loro incommensurabili.
Se tale speranza si rivelasse un giorno praticabile, allora ci sarebbe
una vera integrazione TEORICA, ovvero di modello generale, capace di
aprire la porta ad una "psicoterapia" senza aggettivi. Ma capisco che
questa, che per me è una speranza, per altri possa apparire un
incubo. Tuttavia, speranza o incubo che sia, non credo che nessuno potrà
mai imperialisticamente agire per renderla concreta. Casomai, si tratterà
di assistere agli esiti del famoso processo di selezione (e bricolage
evoluzionistico), che, se c'è, procede per conto suo e non perché
pilotato da qualcuno.
Per risolvere il problema di quali singole congetture psicoterapeutiche
(e non, ripeto, quali modelli psicoterapeutici generali) siano migliori,
penso che il vecchio metodo scientifico -- definire chiaramente la congettura
e raccogliere accuratamente e consensualmente informazioni che possano
confutarla (mi sembra ancora buona la vecchia idea di Popper: mai nessuna
raccolta di informazioni dimostrerà che una ipotesi è
vera; potrà solo dimostrare che è falsa) -- sia ancora
l'unica possibilità educata e civile. Penso inoltre che tale
processo di vaglio sia già iniziato. Alcune, singole e limitate,
congetture della psicoanalisi classica, mi pare, sono già state
confutate, non fosse altro a partire dai loro risultati nella pratica
clinica quotidiana, e così alcune congetture della terapia comportamentale,
della terapia cognitiva, della prospettiva familiare-sistemica, e via
dicendo. Altre idee della psicoanalisi, o della terapia comportamentale,
o della terapia cognitiva, invece, per ora reggono al vaglio della ricerca,
e appaiono perciò stesso (Lapalisse?) migliori delle prime che
invece a tale vaglio non hanno retto. Magari a Milano potremmo tentare
di fare un parziale elenco delle congetture psicoterapeutiche che hanno
già affrontato con successo il vaglio dell'esperienza clinica,
degli studi di efficacia, degli studi sul processo psicoterapeutico,
e della ricerca i discipline vicine come le neuroscienze o la psicologia
dello sviluppo. Potrebbe essere interessante, poi, elencare le congetture
che di fronte ha tale vaglio hanno mostrato di essere deboli o insostenibili.
Un esempio paradigmatico, secondo me, è offerto dalla ricerca
sul processo psicoterapeutico del San Francisco Psychotherapy Research
Group, che ha confutato l'idea che il "ritorno del rimosso", o meglio
l'insight, sia necessariamente accompagnato e preceduto da angoscia.
Un altro esempio di idea confutata, questa volta dalla neuropsicologia,
è che il sogno si produca come effetto della censura onirica.
Un terzo esempio è che si possano curare, di regola, gli ossessivi
senza aiutarli a rinunciare ai loro rituali prima di analizzare il contenuto
delle loro immagini mentali intrusive. Regge benissimo invece al vaglio
della critica e della ricerca l'idea opposta, che per curare un ossessivo
bisogna aiutarlo a rinunciare ai suoi rituali prima di analizzare il
significato e l'origine delle sue immagini mentali intrusive (fra l'altro,
anche il meccanismo con cui i farmaci serotoninergici danno benefici
ad alcuni pazienti ossessivi corrobora l'ipotesi che sia di grande importanza
confrontarsi con i comportamenti compulsivi prima che con il significato
delle rappresentazioni mentali ossessive). Credete che a Milano varrà
la pena di allungare l'elenco di questi esempi?
Qualcosa di analogo si osserva nelle neuroscienze. Giustamente, Benvenuto
si sofferma sulla feroce "lotta per la vita" fra i modelli generali
che si confrontano in tali ambiti (un esempio che mi è caro:
la lotta fra il modello della coscienza di Edelman e quello di Damasio).
Tutti i modelli che emergono o che emergeranno nelle neuroscienze, però,
riconoscono che l'ippocampo ha a che fare con la memoria, o l'amigdala
con la paura e altre risposte emozionali, perché le ipotesi alternative
sulle funzioni dell'amigdala, o dell'ippocampo, sono state confutate.
Forse anche nelle psicoterapie si potrà assistere a qualcosa
di simile: coesistenza di modelli generali non integrabili, e di singole
idee accettate da tutti i modelli. Se così fosse, l'integrazione
potrebbe un giorno avvenire fra le singole idee che superano il vaglio
della ricerca (bricolage, che dà vita ad un organismo
integrato), e non fra i modelli che originariamente hanno proposto quelle
singole idee (tutti magari nel frattempo estinti).
Infine, è del tutto evidente che, come la medicina, così
anche la psicoterapia contemporanea non propone affatto la stessa cura
per tutti i disturbi (da dove qualcuno potrebbe mai trarre la strana
idea che, oggi, sia vero il contrario, come forse lo era ai primordi
della psicoanalisi?) Ad esempio, nel mondo psicoanalitico contemporaneo,
ci sono prassi terapeutiche specifiche per i disturbi borderline, che
sono molto diverse dalle prassi suggerite per la cura, che so, di un
disturbo ansioso-fobico semplice. Uno psicoanalista come Basch, per
citare un solo esempio, descrive chiaramente in un suo libro la strategia
terapeutica che adotta con un paziente afflitto da un disturbo di personalità,
e mostra in dettaglio quanto sia diversa da quella che utilizza con
un altro paziente, afflitto da un disturbo psicosessuale classicamente
"nevrotico". In ambito cognitivo-comportamentale, la terapia dialettica
di Linehan per i disturbi borderline è assai specifica, ed assai
diversa dalla cura che la stessa Linehan adotterebbe per trattare un
disturbo ossessivo-compulsivo (presumo che utilizzerebbe le tecniche
proposte da Salkovskis, vista la loro notevole efficacia). Proprio perché,
all'interno di ciascun modello generale di psicoterapia, esistono cure
diverse e specifiche per specifici disturbi, è possibile valutare
quale fra esse sia migliore per un dato disturbo. Così, si può
valutare attualmente che il modello psicoanalitico e basato sulla teoria
dell'attaccamento di Bateman e Fonagy è almeno leggermente più
efficace di quello dialettico-comportamentale di Marsha Linehan. Come
mi piace pensare a Marsha Linehan che, convinta dalla bontà delle
prove di efficacia offerte da Bateman e Fonagy, modifica il suo metodo
di terapia dei Borderline!
Anche in questo caso, riguardante la pratica terapeutica, come nel caso
nelle congetture teoriche, le prassi che funzionano meglio per un determinato
disturbo potrebbero finire per essere accettate da terapeuti formatisi
a Scuole diverse da quelle che originariamente hanno istituito tali
prassi, dando così luogo ad una progressiva "integrazione", per
selezione e bricolage, delle psicoterapie. Giovanni Liotti
Paolo Migone, 4 Giugno 2001:
Caro Benvenuto, faccio alcuni commenti alla tua mail del 30-5-2001. Avevo aspettato
a rispondere perché avevo già mandato una mail, e volevo
prima sentire altri, ma ho pensato poi che tanto valeva rispondere subito
alla tua "stecca", come tu la chiami. Se è vero che ti piacciono
le differenze, perché è così che si tiene vivo
il dibattito e si evidenziano meglio i problemi (e qui concordo molto
con te), sono sicuro che ti farà piacere ricevere dei commenti
critici, e spero poi di essere aiutato anch'io a capire cose che eventualmente
non ho capito dal tuo intervento.
Tu dici:
>Per me la proliferazione delle scuole e dei linguaggi in psicoterapia
è
>ANCHE un segno di vitalità e di energia della nebulosa psicoterapica.
Per
>alcuni di voi evidentemente no, è un fenomeno patologico, da
qui la ricerca
>di una "integrazione" ad ogni costo.
Colgo questa frase perché riassume un po' la tua argomentazione,
più o meno all'inizio della tua mail. Se "la proliferazione delle
scuole e dei linguaggi in psicoterapia è ANCHE un segno di vitalità
e di energia" (concetto che io stesso sottolineavo nella mia mail di
tre giorni prima), significa che può essere anche un segno di
qualcos'altro (es. dell'opposto, cioè "di non vitalità
e di non energia" - da notare che hai scritto la parola "ANCHE" in maiuscolo).
Quindi possiamo essere tutti d'accordo su questo: perché non
studiare i casi in cui la proliferazione delle scuole e dei linguaggi
NON è un segno di vitalità e di energia? Perché
qui dovresti obiettare? O forse vi è una contraddizione nella
tua argomentazione?
Nella farse seguente dici che "per alcuni di noi evidentemente la
proliferazione delle scuole e dei linguaggi è un fenomeno patologico,
da qui la ricerca di una 'integrazione' ad ogni costo". Quali sono le
argomentazioni che ti fanno usare la parola "evidentemente"? La mia
impressione, anche alla luce dei tanti dibattiti svoltisi negli anni
scorsi sulla lista PM-PT, è esattamente opposta: chi si interessa
alla problematica delle integrazione delle psicoterapie sono proprio
coloro che vogliono vedere le differenze, che le studiano a fondo, attentamente,
per vedere cosa si può integrare e cosa assolutamente no. Analizzare
attentamente le differenze, demarcarle meglio, equivale concettualmente
alla operazione di integrare altre cose. L'un concetto implica l'altro.
Mi chiedo come fai a non vedere questo. Ma può darsi però
che io abbia capito male la tua argomentazione.
Come Tullio Carere sa bene, a me non è mai piaciuta la parola
"integrazione". O meglio, va specificato cosa si intende. Anche all'interno
della SEPI anni fa vi fu un dibattito sul nome da dare a questo gruppo
internazionale di colleghi che erano interessati a questo lavoro di
studio comparato dei vari concetti e delle varie tecniche della psicoterapia.
Quello che importa è la sostanza, cosa si vuole fare: sono tutte
persone interessate a non chiudersi nella propria parrocchia, ma molto
interessati a visitare le parrocchie degli altri quartieri della città,
e ancor di più a entrare nelle chiese di altre religioni, ascoltare
le loro omelie, con rispetto e voglia di capire. Non sono molti i momenti
oggi in cui istituzionalmente avvengono tali confronti. Ho sempre avuto
l'impressione che siano pericolosi, perché vanno contro a interessi
corporativi, istituzionali; è molto meglio non farsi certe domande,
tenere i propri allievi nell'ignoranza così la propria scuole
sopravvive meglio. E' lo spirito della SEPI che mi è piaciuto,
che ho visto in alcuni che conobbi (es. Wachtel), gente che ama lo spirito
di contraddizione, che è disposta molto volentieri a modificare
le proprie idee, il cui credo insomma è proprio l'opposto della
integrazione forzata o dell'"imperialismo" di cui parli.
Dici poi:
>A me non interessa dimostrare che, in
>fin dei conti, TUTTI i terapisti, di qualsiasi scuola, fanno la stessa
cosa
>(del resto, come esserne sicuri? cosa possiamo sapere della pratica
di
>migliaia di psicoterapeuti in tutto il mondo, delle scuole più
diverse?).
Anche qui non sono sicuro di capire il ragionamento. Siamo
sicuri o non siamo sicuri che terapisti, di qualsiasi scuola, fanno
la stessa cosa? Io non sono affatto sicuro. Ma il punto è un
altro: se in alcuni casi facessero proprio la stessa cosa? Questo non
dovrebbe interessarci?
- Poi dici, a proposito dell'idea (sostenuta da Carere e altri) che
"quel che funziona è la relazione terapeuta-paziente":
- >Quel che mi lascia perplesso, però, è credere che
LA RELAZIONE
>PSICOTERAPICA SPIEGHI OGNI COSA, dando per scontato che, per ogni soggetto
>e per ogni disturbo, OPERI SEMPRE UNA STESSA MEDICINA, cioè
UN certo tipo
>di relazione. Ma anche questo è un dogma, un pregiudizio non
dimostrato:
>perché dare per scontato che la relazione che uno junghiano
ha con un suo
>paziente sia la stessa relazione che un cognitivista-comportamentale,
per esempio, ha con il proprio?
Anche questo lo trovo scontato, e mi sembra che il punto sia
un altro: per me (e mi sembra anche altri colleghi) è scontato
che non è sempre vero che "la relazione che uno junghiano ha
con un suo paziente sia la stessa relazione che ha un cognitivista-comportamentale".
Ma supponiamo che sia vero: ci interesserebbe? Cosa significherebbe
questo dato? Quali sarebbero le implicazioni teoriche e cliniche? O
forse intendi dire un'altra cosa, cioè alludi alla storica dicotomia
nomotetico-idiografico, cioè dici che ogni persona, o ogni coppia
paziente-terapeuta è unica, irripetibile, idiografica, non paragonabile
ad un'altra? Se è così, mi sembra davvero impossibile
confrontarci, perché non potremmo neppure avere un linguaggio
comune, non potremo neppure comunicare tra noi, non potendo costruire
categorie concettuali perché già questo sarebbe un modo
"nomotetico" di procedere (per brevità rimando al saggio di Holt
del 1962, che sicuramente conoscerai: http://www.publinet.it/pol/ital/documig6.htm)
Ancora:
>Chi ha mai dimostrato questa omogeneità? Il
>fatto di aver rilevato, statisticamente, che le psicoterapie sono tutte
ad
>un tasso simile efficaci (Verdetto di Dodo) - o ad un tasso simile
>inefficaci - non dimostra ipso facto che sono efficaci per le stesse
cause!
>Una depressione può sparire perché assumo una forte dose
di Prozac o perché
>ho conosciuto la donna dei miei sogni: basta questo per concludere
che il
>Prozac e la bella donna siano la STESSA terapia?
Chi ha mai detto che siano la stessa cosa? Se però si
dimostra che hanno lo stesso effetto, questo apre problemi interessanti,
almeno a livello pratico (ma anche teorico).
Dici poi:
>C'è un senso in cui dire "è la relazione che cura"
è banalmente vero: come
>dire "in ogni farmaco efficace opera un principio chimico attivo".
Ma si
>tratta di capire perché QUELLA specifica relazione è
riuscita a risolvere
>QUELLO specifico problema, così come si tratta di sapere, in
medicina,
>perché QUELLO specifico farmaco ha prodotto QUELLO specifico
effetto
>terapeutico. In fondo, qualsiasi scuola psicoterapica o analitica è
>d'accordo che l'elemento terapeutico è la relazione: il problema
è come la
>si descrive! Dire "è la relazione che cura" è essere
ancora al punto di partenza.
- Ed è appunto per questo che si discute e si cerca di specificare
meglio cosa significa "è la relazione che cura". Poi però
dici:
- >Ma lo ammetto, un buon punto di partenza è meglio che essere
>andati molto avanti su una via completamente sbagliata...
Qui pare che siamo d'accordo. Dire che "è la relazione che cura"
è una banalità, come giustamente dici, però è
una banalità fino ad un certo punto, perché certe scuole
psicoanalitiche ancora sostengono con vigore il contrario, ad esempio
che quello che cura è uno specifico contenuto del linguaggio.
Mi fa piacere che tu non sostieni queste posizioni.
Riguardo al termine "integrazione" in Freud, dici:
>Mi dispiace per qualche amico, ma ho anche qualche dubbio che la
stessa
>terapia psicoanalitica di TUTTI i nevrotici sia sempre e solo integrazione.
>E' vero che Freud, descrivendo le nevrosi in termini di conflitto tra
>istanze o parti del soggetto, in qualche modo proponeva un'integrazione
tra
>queste istanze o parti. Ma allo stesso tempo proponeva anche il
>riconoscimento di qualcosa che non può essere né sarà
mai integrabile - i
>desideri incestuosi, gli impulsi omicidi, l'invidia distruttiva, la
>pulsione di morte. Possiamo mai davvero INTEGRARE il nostro inconscio?
Mi
>auguro di no. Né mi pare che questa integrazione fosse il messaggio
di
>fondo di Freud (il quale considerava la guarigione un fatto alquanto
>misterioso). Non a caso nei suoi ultimi scritti parlava di "costruzioni"
e
>"ricostruzioni" non di "integrazioni". Certo il non-integrabile va
>assimilato, riconvertito. Mi chiedo allora se questo furor integrazionista
>non si risolva al servizio di qualche rimozione (in termini freudiani).
Ma è scontato che se si risolve un conflitto tra due
istanze psichiche, dire che si integrano e dire che si scindono di più
e una viene rimossa (o rinnegata - es. nel linguaggio di Schafer) può
essere esattamente la stessa cosa. Se si tratta di due modi per descrivere
lo stesso fenomeno, bisogna vedere le implicazioni insite in ciascuno
dei due modi. Tanti sono i punti che vorrei commentare della tua mail, ma non posso
dilungarmi. Volevo solo mandare una mail prima della mia partenza (sono
di fretta, dopodomani vado in USA e ci resto una decina di giorni).
Mi viene in mente quell'autore (mi sembra Ceccato, anni fa) che diceva
che un albero e un tavolo sono uguali perché sono entrambi di
legno, oppure che sono diversi perché servono a cose diverse
(uno fa i frutti, sull'altro ci si poggiano delle cose in casa), oppure
uguali perché sono entrambi marroni, oppure diversi perché
uno ha una gamba e l'altro quattro, e così via all'infinito giocando
con tutti gli oggetti. E allora?
In sintesi, è possibilissimo che io non abbia capito la tua
mail, e mi farebbe molto piacere se tu mi dicessi, senza peli sulla
lingua, cosa non ho capito, anche per limiti miei. A me piacciono molto
le differenze di opinione, mi aiutano a chiarirmi le idee. Devo dire
che in generale ho trovato la tua mail un po' "fuori dal coro", nel
senso che sollevi questioni di fondo che mi sembravano già chiarite
tra noi (ricorderai ad esempio che già nel 1998 vi fu un lungo
dibattito in PM-PT, pubblicato poi su Psychomedia nel maggio
1999: http://www.psychomedia.it/pm-lists/debates/psic-int.htm).
Ma se tu avevi queste obiezioni da fare, hai fatto benissimo a proporle,
e questa può essere un'altra opportunità di trovare un
modo di chiarirle.
Riguardo agli ultimi tuoi accenni alla "globalizzazione, che vuole ridurre
tutto il mondo alla ragione - cioè alla ragione anglo-americana
della democrazia capitalistica liberale" devo dire che li ho trovato
fuori luogo, nel senso che mi sembra che queste tematiche non centrino
assolutamente niente coi problemi che interessano a noi, cioè
alla questione dello studio dei diversi concetti utilizzati nei vari
approcci psicoterapeutici. Provenendo da universi di pensiero diversi,
ritengo che queste osservazioni rischino di rimanere al livello analogico,
e quindi scorretto, soprattutto per chi, come coloro che si interessano
alla questione della integrazione teorica dei concetti delle psicoterapie,
hanno a che fare continuamente con diversi sistemi di pensiero, e ragionamenti
di questo tipo sarebbero proprio quelli che andrebbero evitati. Paolo
Migone
Giorgio Alberti, 9 Giugno 2001:
1. E la prima volta che prendo la parola in un confronto di
questo tipo, su Internet, agendo come se parlassi ma consapevole del
fatto che ogni mia affermazione resta scritta. Confido quindi nella
indulgenza di tutti Voi, colleghi e amici, a cui mi avvicina un interesse
per il dialogo e, in prospettiva, una qualche forma di integrazione
tra le psicoterapie. Cercherò di definire e commentare quelli
che mi sembrano i due punti nodali della dicussione fin qui da me letta.
Successivamente esporrò la mia personale opinione sul problema
integrazione.
2.1. Una prima posizione che mi sembra chiaramente espressa è
quella per cui lintegrazione, un fatto teorico da distinguere
dal semplice eclettismo tecnico, incontra difficoltà di almeno
tre tipi: in primo luogo delle resistenze di carattere affettivo (come
ben dice Migone <<...è difficilissimo criticare la cosa che amiamo...>>),
poi delle obiezioni connesse allidea che essa impoverirebbe le
potenzialità creative insite nella varietà dei pensieri
teorici e delle prassi curative (si veda Benvenuto), e infine una vera
e propria impossibilità intrinseca, che sarebbe dovuta al fatto
che le diverse terapie sono incommensurabili e quindi incomparabili
tra loro. Di questultima idea è ancora Benvenuto, ma essa
sembra essere considerata anche da Carere come unalternativa possibile,
per cui egli ammette che <<...se (la psicoterapia) fosse un contenitore
convenzionale, cadrebbe la possibilità di parlare di integrazione
tra pratiche concettualmente inconciliabili.>> In realtà Benvenuto
è ancora più pessimista sulla comparabilità delle
psicoterapie, ritenendo che neanche le diverse patologie psicogene siano
tra loro apparentabili, costituendo ognuna di esse un unicum
privo di ogni somiglianza con ogni altro. Devo dire di essere in disaccordo
con questa sua seconda idea, ma in parte daccordo sulla prima.
Infatti vi sono certamente teorie patogenetiche (come anche teorie del
cambiamento terapeutico) riguardanti uno stesso disturbo, che non sono
conciliabili, essendo anzi seccamente alternative le une alle altre.
Tuttavia questa inconciliabilità è spesso solo parziale,
e risparmia a mio vedere sia certi aspetti teorici di psicoterapie aventi
una radice o una base epistemologica comuni, sia anche molte prassi
terapeutiche (seppur non tutte). Tengo a sottolineare limportanza
delle possibili identità o somiglianze tra le diverse cose concrete
che gli psicoterapeuti realmente fanno in quanto si tratta di unampia
area di cui pochissimo si dice (essendo le comunicazioni tra psicoterapeuti
spesso limitate a concetti teorici e restando quelle più descrittive
delle concrete pratiche curative allinterno delle singole scuole),
e che dovrebbe avere invece rilevanti conseguenze per il risultato terapeutico.
Di ciò appaiono consapevoli diversi di noi, tra cui in primo
luogo Migone, quando afferma <<...non ho mai avuto dubbi che certi autori
diversissimi e con linguaggi diversi facessero proprio le stesse cose.>>,
ed anche Carere.
2.2. Qualche tempo fa mi è occorso di trovare una segnalazione
di certi autori su un fenomeno simile di dissociazione tra
prassi e teoria in S. Freud. Credo valga la pena di citare quanto lui
scrive in Wege der psychoanalytischen Terapie, in:
Schriften zur Neurosenlehre und zur psychoanalytischen Technik
(1913-1926), Vienna, 1931, p. 411-422 . Egli scrive (mia traduzione):
La nostra tecnica è nata nel trattamento dellisteria,
ed è tuttora calibrata su queste affezioni. Ma già le
fobie ci obbligano a andare oltre al nostro abituale comportamento.
Non si riuscirà a dominare una fobia se si aspetta che il malato
sia indotto dallanalisi a rinunciarvi. Egli non porterà
mai in analisi quel materiale che è indispensabile per una soluzione
convincente della fobia. Bisogna procedere diversamente. Prendete lesempio
di un agorafobico; ve ne sono due classi, una più lieve e una
più grave. I primi soffrono dansia ogni volta che vanno
per strada, ma non hanno ancora smesso di uscire da soli; gli altri
si proteggono dallansia rinunciando alluscir da soli. Con
questi ultimi si ha successo solo se, attraverso linfluenza dellanalisi,
li si induce a tornare a comportarsi come fobici di primo grado, ad
uscire da soli e a combattere così con lansia. Si deve
quindi prima attenuare la fobia, e solo quando ciò è riuscito,
attraverso la sollecitazione del medico, il malato torna a disporre
di quei ricordi e di quelle intuizioni che rendono possibile la soluzione
della fobia. Linsieme di procedure che qui Freud illustra
farebbe credo contento Giovanni Liotti, che ha menzionato analoghe architetture
procedurali dimostratesi particolarmente efficaci per gli ossessivi:
in primo luogo una prescrizione, quella di affrontare la situazione
ansiogena e lansia stessa, e un cambiamento comportamentale del
paziente, poi una conseguente modificazione dellassetto intrapsichico
con affioramento in coscienza di contenuti di rilevanza patogenetica,
infine lanalisi di tali intuizioni e ricordi, a completamento
del processo di cambiamento. Tuttavia il punto è un altro: se
pur Freud dava prescrizioni in molti aspetti identiche a quelle di un
terapeuta cognitivo-comportamentale (configurandosi, come dice Migone,
come uno psicoterapeuta da sempre integrato) nella
teoria del cambiamento terapeutico della psicoanalisi la funzione e
la rilevanza delle prescrizioni di comportamento sono, come tutti sappiamo,
nulle o quasi. Di contro, vi sono molti fondati motivi che inducono
a ritenere che tali prescrizioni rivestano agli effetti del risultato
terapeutico un ruolo di rilevanza almeno pari a quello delle interpretazioni.
Mi sembra lecito supporre che Freud abbia privilegiato certi aspetti
della sua tecnica terapeutica sostenendoli e motivandoli teoricamente,
ma ne abbia invece messi in ombra altri, non riconoscendo loro un ruolo
altrettanto determinante nel processo terapeutico. Ora, proprio il superamento
di queste omissioni selettive (che certo non ha commesso solo S. Freud)
e landare a vedere cosa si fa nelle diverse psicoterapie in termini
di concretezza prassica, offre interessanti prospettive a chi voglia
cercare e studiare le comunanze tra le psicoterapie.
2.3. Posizioni come queste mi appaiono potenzialmente convergenti nellidea
di seguire, nelleventuale cammino integrativo, un percorso diverso
da quello di arrivare direttamente e in primo luogo a una sintesi teorica
e a una comunanza concordata dei linguaggi, e di partire piuttosto da
singole parti delle singole psicoterapie, da singoli elementi
tecnici, e di farne oggetto di studio prima di arrivare a una teoria
onnicomprensiva, e proprio in funzione di questo compito Questa posizione
viene espressa chiaramente Liotti alla fine del suo intervento.
3.1. Laltro grande nodo tematico che mi sembra emerga dalla
discussione è quello della relazione terapeutica in quanto fattore
comune universale di efficacia, e quindi area privilegiata di esplorazione
nel cammino verso una futura integrazione. Questa possibile via integrativa
mi sembra sostenuta principalmente da Carere, che valorizza in modo
particolare la classica distinzione tra fattori specifici e fattori
aspecifici di efficacia. Ora, su questa via ho alcune perplessità
che derivano non certo dal voler negare la importanza della relazione
terapeutica, ma da altre cause. La prima è quella di una certa
confusione che secondo me è stata fatta (non certo da Tullio
Carere, ma dagli americani che hanno iniziato questo discorso) tra fattori
aspecifici, fattori comuni e fattori relazionali. Infatti, non necessariamente
le tre categorie coincidono. Se possiamo concordare, credo, che aspecifico
significhi non esplicitamente designato come elemento tecnico, allora
vi possono essere fattori defficacia aspecifici e non comuni,
come anche aspecifici e non relazionali. Proprio il passo poc'anzi citato
di S. Freud potrebbe contenere un esempio di fattore aspecifico, cioè
di una pratica (la prescrizione comportamentale di affrontare luscir
di casa) che a stretto rigore non riguarda lanalisi e non rientra
quindi nel modello analitico di processo di cambiamento, il quale è
tuttaltro, direi, che relazionale, ma verosimilmente è
anche assai comune, e forse contribuisce - in incognito - a spiegare
lefficacia della psicoanalisi delle fobie.
Laltra mia perplessità attiene al potere esplicativo del
concetto di relazione, che mi sembra un po scarso se non meglio
approfondito e analizzato. In questo mi trovo in linea con Benvenuto.
Come ho detto, non solo credo nellimportanza della relazione,
specie nelle terapie di maggior durata, ma penso anche che dentro la
relazione accadano molte cose che possono essere più precisamente
definite, ed eventualmente favorite o evitate, e comunque, in positivo
o in negativo, utilizzate consapevolmente ai fini del cambiamento, trasformando
per così dire laspecifico, e relazionale, in specifico
e tecnico. Un esempio è quello di certe relazioni terapeutiche,
anche molto burrascose, in cui il curante si dibatte tra le spinte induttive
dellidentificazione proiettiva (detto in termini analitici, ovvero,
del mantenimento del ciclo interpersonale, se usiamo termini cognitivisti).
Ciò che sembra essere fattore di cambiamento è una ben
specifica costellazione di eventi relazionali: 1. il paziente induce
sentimenti e comportamenti, manipolando e premendo sul terapeuta - 2.
il terapeuta resiste alla pressione induttiva e alle manipolazioni,
ma non abbandona il paziente - 3. il paziente vede e introietta le abilità
di gestione e contenimento di emozioni e propensioni allazione
che vede allopera nel terapeuta. Ecco che, pur con tutta la forte
componente emotiva di tali transazioni, la relazione diventa la sede
di un processo di apprendimento che muta interiormente il paziente.
Quindi, credo che la relazione sia certamente unaltra grande area
da esplorare in una prospettiva integrativa, ma che ci si debba preparare
a una sorta di scomposizione e poi drastica riduzione della cosiddetta
area relazionale, a misura che i meccanismi psicologici che la sostengono
vengono riconosciuti e diventano oggetto di intervento tecnico.
4.1. La mia visione delle psicoterapie in genere mi sembra simile a
quella di Liotti: penso cioè che in ogni terapia si possano riconoscere
delle parti, delle procedure (non elementari ma relativamente complesse
e anche teoricamente fondate) che quando sono messe in atto dal curante
tendono a evocare nel paziente, in termini non deterministici ma probabilistici,
dei processi mentali, delle emozioni e dei comportamenti che a loro
volta, se la mossa terapeutica è stata ben pensata in funzione
del processo patogenetico da influenzare, si ripercuotono mutativamente
sul paziente stesso. Mi rendo conto che una tale visione può
apparire alquanto rudemente semplificante, soprattutto perché
linsieme sincronico e diacronico degli atti terapeutici implica
delle variabili interazioni tra gli stessi e quindi dei continui mutamenti
del messaggio che viene dato al paziente (Schacht parla a questo proposito
di effetto contestuale), di cui il terapeuta deve ovviamente tenere
conto per non perdersi. Inoltre, le reazioni e risposte del paziente
contribuiscono a connotare ulteriormente il significato delle singole
procedure messe in atto dal curante. Tuttavia, in linea generale mi
sembra che particolari procedure terapeutiche collegabili al risultato
possano essere identificate in molte psicoterapie: si pensi, ad esempio,
per le terapie psicoanalitiche, allinterpretazione del transfert,
ovvero allinterpretazione ed elaborazione del tema relazionale
centrale (CCRT di Luborsky) della terapia supportivo-espressiva; per
le terapie di ispirazione rogersiana alla riflessione empatica delle
emozioni; per le terapie gestaltiche alle esperienze della sedia vuota;
per le terapie cognitivo-comportamentali allesplicitazione di
certi schemi che ispirano percezione, reazioni emotive e comportamenti
del paziente, ovvero alla prescrizione di esporsi alle situazioni ansiogene;
per le terapie relazionali strategiche alle prescrizioni paradossali
del sintomo; per la logoterapia alla intenzione paradossale, e così
via. Si può obiettare che questa elencazione di procedure, formulate
in termini intrisi di teorie ogni volta diverse, è ben lontana
da una descrizione delle cose che gli psicoerapeuti realmente fanno,
anche perchè in certi casi forse, nonostante la diversa terminologia,
si tratta delle stesse cose. Tuttavia almeno in parte si può
presumere che questi termini si riferiscano a prassi tra loro diverse.
Nella misura in cui ciò è vero possiamo, credo, parlare
di queste procedure come di una prima approssimazione alla descrizione
di ciò che i terapeuti realmente fanno, e che ne caratterizza
la prassi. La cosa interessante è che queste procedure sono studiabili
empiricamente e correlabili alla risposta terapeutica, come ha dimostrato
Luborsky con le interpretazioni del transfert (Luborsky L., Bachrach
H. et al. (1979) - J. Nerv. Ment. Dis., 167: 391- 401).
E penso che analoghi studi su altre procedure proprie di altre psicoterapie
si possano trovare in letteratura. La ricerca in questo campo dovrebbe
permettere di ampliare ulteriormente la conoscenza delle diverse procedure,
sia nel senso di meglio descriverle e demarcarle le une rispetto alle
altre, sia anche nel senso di correlarle alloutcome finale
e ai più significativi passaggi intermedi del processo di cambiamento
terapeutico. In questa prospettiva probabilmente certe procedure si
rivelerebbero poco utili dal punto di vista dellefficacia, ed
altre invece più utili. Ovvero, certune si rivelerebbero utili
solo se combinate in certe architetture procedurali e in certi processi
terapeutici, magari più proficui con certi tipi di patologie
e pazienti, e non con altri.
4.2. Tornando ora allintegrazione, sulla base di questa visione
delle psicoterapie come composte da procedure in parte tra loro diverse
e in parte tra loro uguali o simili, io credo che si potrebbe riprendere
in esame unaspirazione allunità teorica, a una teoria
generale del cambiamento psicoterapeutico (e anche dei principali processi
patogenetici riferibili alle principali patologie), solo dopo che questo
lavoro di ricerca abbia raggiunto una qualche massa critica di conoscenze,
tale da permettere di riconoscervi dei lineamenti generali, una qualche
Gestalt dotata di senso. E ipotizzabile cioè che, una volta
definite meglio nelle loro caratteristiche e nelle loro funzioni terapeutiche,
certe procedure potrebbero essere combinate in maniera non contradditoria,
sinergica agli effetti delloutcome, e funzionale alla finalità
di modificare il processo patogenetico attuale, ciò che mantiene
in essere il problema del paziente. A questi aspetti di compatibilità
andrebbe allora indirizzata lelaborazione teorica, tesa a integrare
correttamente le diverse e eterogenee procedure in metodi terapeutici
nuovi e, auspicabilmente, più adatti a curare le diverse patologie.
E molto verosimile che in questo lavoro di combinazione e reinterpretazione
teorica andrebbero fatte delle scelte. Un esempio può essere
quello di decidere se, in una stessa terapia, sia teoricamente sostenibile
in un certo momento interpretare al paziente i motivi inconsci di certi
suoi vissuti e comportamenti, e in un altro invece dargli consigli o
prescrizioni di comportarsi in determinati modi, cioè combinare
sensatamente interpretazioni e cambiamenti comportamentali. In subordine,
si dovrebbe arrivare a decidere in quali casi (per es. quali patologie,
quali personalità del paziente, quali fasi della psicoterapia
ecc.) tale combinazione abbia senso. Per inciso, che tale accostamento
tra interpretazione e prescrizione di cambiamento comportamentale sia
praticamente fattibile e anche terapeuticamente utile è già
stato affermato e anche, direi, empiricamente dimostrato dalle ricerche
su certe terapie integrative come la Cognitive Analytic Therapy
(CAT) di A. Ryle. Inoltre il fondamentale contributo di P. Wachtel,
il concetto di psicodinamica ciclica, ne sostiene anche teoricamente,
e in modo stringente e autorevole, la sensatezza teorica.
5. Quindi, credo che non sia realizzabile una unità teorica prima
di aver studiato ciò che succede nelle diverse psicoterapie,
accettando con umiltà di confrontarsi con i dati osservativi,
i quali, pur con tutta la loro ambiguità, mi sembrano tuttora
lunica possibile fonte di informazione nuova, in quanto permettono,
se ben interrogati, di falsificare certe ipotesi teoriche e di mantenerne
in vita altre. Vorrei in ultimo segnalare che a mio avviso, accanto
al riferimento generale al metodo scientifico e alla ricerca sulle psicoterapie,
vi è unaltra area con cui una ricerca integrativa dovrebbe
confrontarsi: lo studio delle attuali pratiche terapeutiche eclettiche
e integrative, che può offrire molti spunti su ciò che
si fa, su ciò che è fattibile, su ciò che ha utilità
terapeutica anche in assenza di unadeguata teorizzazione, e infine,
ovviamente, su cosa si dovrebbe cercare di spiegare teoricamente. G.G.
Alberti
Sergio Benvenuto, 12 Giugno 2001:
RISPONDERO' ANCHE A LIOTTI, SE MI DA' UN PO' DI TEMPO
Caro Migone, dici che non capisci le mie critiche all'impostazione
congressuale, io potrei anche dire che non capisco le tue critiche alle
mie critiche. Non ci sarebbe nulla di stupefacente: l'80% (a dir poco)
delle discussioni intellettuali suscitano sempre la sensazione che l'altro
ci critica perché ci ha fraintesi.
Forse il non capire del tutto perché l'altro ci critichi può
essere qui un buon segno: forse le nostre retoriche sono diverse ma
nel fondo "ontologico" concordiamo. La speranza illuminista è
che, discutendo, ognuno rinunci alle proprie personali connotazioni
dei termini - ad esempio di INTEGRAZIONE - e così si arrivi alla
denotazione comune scevra da idiosincrasie. Non solo tu e Liotti, ma
anche Carere (che mi ha scritto in privato) dite in sostanza: "ma siamo
d'accordo con te! Quel che intendiamo per integrazione è in gran
parte proprio quello che dici di fare anche tu." Ne sono contento. Può
darsi che anche tra noi si arrivi a questo lieto fine, "a tarallucci
e vini" come si dice a Napoli. Lo credo però poco probabile -
e mi chiedo poi se siano davvero auspicabili, questi tarallucci e vini.
In vari modi contesti la mia ipotesi - secondo cui forse le pratiche
psicoterapiche sono incommensurabili - facendomi balenare l'ipotesi
inversa: "se in alcuni casi i terapisti facessero proprio la stessa
cosa? Questo non dovrebbe interessarci?"
E' ovvio che dovrebbe interessarci. La mia ripresa del concetto di somiglianza
di famiglia andava proprio in questo senso: tra terapie ci sono anche,
sempre, somiglianze più o meno strette, che possono essere descritte
perspicuamente. La mia critica non andava a chi eventualmente dimostrasse
che due terapisti di scuole diverse fanno cose molto simili (identiche
mai! nulla nella vita è identico, nemmeno due gemelli omozigoti),
ma all'affermazione perentoria - che sentivo serpeggiare nel vostro
documento - secondo la quale "SICCOME queste due persone curano, ALLORA
fanno la stessa cosa, si tratta solo di trovare QUALE". Esprimo dubbi
su un assunto dato come valido PRIMA di ogni dimostrazione. Se mi dite
che cercare i punti comuni è semplicemente un'ipotesi su cui state
lavorando, non ho nulla da obiettare. Ma allora, se si tratta di un'ipotesi
su cui state COMINCIANDO a lavorare (buon lavoro!) perché vendete
la pelle dell'orso prima di averlo ucciso?
Non ho detto che NON POSSONO ESISTERE somiglianze o convergenze tra
alcune cosiddette terapie (questa affermazione sarebbe non meno dogmatica
di quella che contesto), ho detto solo che respingo il presupposto che
DUE TERAPIE, IN QUANTO TERAPIE, DEBBANO ESSERE STRUTTURALMENTE LA STESSA
COSA. Tutto qui. Se siete d'accordo con questo, incidente chiuso.
>"Come Tullio Carere sa bene, a me non è mai piaciuta la
parola "integrazione"".
Forse le ragioni per cui la parola "integrazione" non ti piace sono
le stesse per cui non piace a me...
Non sono affatto contrario ad "integrare" certe cose che fanno analisti
di altre scuole, o certe idee elaborate in altri campi. Se per integrazione
intendete questo, allora è quel che ho fatto sempre. Non a caso
mi sono sempre rifiutato di appartenere a qualsiasi scuola e istituzione...
Là dove vedo uno scivolamento è nel "subtext" di
certe cose scritte da alcuni di voi: la pretesa di UNIFICARE tutte le
pratiche considerate "legittime" sulla base di pretesi elementi comuni.
Non condivido questa pretesa.
La mia impressione, francamente, è che nei testi introduttivi
abbiate fatto ricorso ad una nozione TROPPO FORTE di "integrazione",
e così vi siete attirate le mie critiche (ma molti altri avrebbero
detto le stesse cose mie): sospetto di anti-pluralismo, tecnocraticismo,
ecc. Ora, sia tu che Liotti rispondete dando un'accezione DEBOLE di
"integrazione", sulla quale quasi tutti non possiamo non essere d'accordo.
Liotti ad esempio evoca il bricolage di François Jacob:
ma certo, chi rigetta l'idea che nella psicoterapia, come in tutti i
campi, si "bricola"?
Questo accade in tantissime discussioni: si lancia nell'arena una parola-concetto
dandogli un senso forte, e poi, viste le reazioni, si ripiega su un
senso più debole. Comunque ambedue gli atti hanno un prezzo.
Il senso forte crea molte opposizioni ma è quello semanticamente
più vivo (i cibernetici dicevano: più informativo), più
intenso. Il senso debole tende a creare un consenso ecumenico ma è semanticamente frigido, meno informativo, una banalità insomma
su cui pochi non saranno d'accordo. Nelle controversie intellettuali
non si può avere la moglie ubriaca e la botte piena. Presa nel
suo senso debole, INTEGRAZIONE mi va bene. Ma allora perde il senso
"messianico" che forse alcuni di voi vorrebbero dargli. Ammetti che dire "la relazione cura" è una banale verità.
Ma ne rivendichi la perspicuità dicendo che "certe scuole psicoanalitiche
ancora sostengono con vigore il contrario, ad esempio che quello che
cura è uno specifico contenuto del linguaggio". Ma QUALE scuola
psicoanalitica seria ha mai sostenuto che curi solo il "contenuto del
linguaggio"? Me ne puoi citare almeno una (che non sia una crocchia
di astrologi o di mattoidi)?
Questo mi ricorda la bella pagina di Rorty (in Consequences of Empiricism)
quando parla dei "relativisti radicali", dei "solipsisti", degli "scettici",
dei "nichilisti morali": tutti filosofi che non sono MAI ESISTITI (tranne
in qualche leggenda greca, come Diogene o Pirrone). Eppure i filosofi
continuano a polemizzare con fervore con questi fantasmi: si ha bisogno
di relativisti, solipsisti, scettici e nichilisti morali per poter contrabbandare
le proprie convinzioni assolutiste e fondazionaliste. Analogamente,
nel campo "psic" si creano continuamente fantasmi di "cattive scuole",
così l'orrore che suscitano fa risaltare per contrasto le proprie
convinzioni (non nego certo che ci siano cattivi analisti; dubito solo
che siano proprio quelli che dicono "le cose sbagliate" - tra il dire
e il fare c'è di mezzo il mare.).
Quel che è davvero discriminativo non è proclamare che
"è la relazione analista-analizzante che cura" - cosa su cui
TUTTE le scuole sono d'accordo - ma stabilire, di volta in volta, che
cosa nella relazione è davvero rilevante e che cosa no. Là cominciano
i dolori - e le differenze tra noi. E allora i famosi "contenuti del
linguaggio" cacciati dalla porta, ritornano dalla finestra. Ben lo sa
la filosofia del linguaggio del Novecento, che da un secolo riflette
sugli atti illocutori, la forza performativa, ecc. Esiste una letteratura
immensa sui rapporti tra contenuto del linguaggio e relazioni umane,
per cui non me la sento di cavarmela con formule lapidarie. In ogni
caso, credo che il contenuto del linguaggio sia efficace nella relazione
nella misura in cui questo contenuto ha una forza illocutoria. Se un
analista dice al suo paziente "lei è un cretino", voglio vedere
se il contenuto linguistico di questa frase è irrilevante!
Non ho esperienza diretta di analisi junghiana - che sembra una delle
più "contenutistiche". Ma da quello che ho potuto capire, non
mi sembra che il contenuto di concetti che chiamerei "sublimi" (quelli
della metapsicologia junghiana) sia irrilevante ai fini degli effetti
prodotti - se e quando un junghiano produce effetti. Mi si permetta
di raccontare un aneddoto.
Anni fa un mio amico entrò in una crisi acuta diciamo di depersonalizzazione:
era ossessionato dal problema "chi sono io? Che cosa penso?" Andò
da un analista junghiano molto noto. Dopo due sedute lo rividi quasi
del tutto guarito. Siccome eravamo molto amici, mi raccontò in dettaglio
le due sedute. Il punto nevralgico, "terapeutico" diciamo, fu quando
l'analista, dopo aver ascoltato le sue elucubrazioni, si volse verso
la libreria piena di libri e disse "Quello che lei racconta ci è
ben noto. Le potrei citare tantissimi libri in cui tutto questo è
spiegato e descritto." Questo ebbe il potere di rasserenarlo - certo
non chiese che cosa ci fosse scritto in tutti quei libri. Io non volevo
credere alle mie orecchie: se uno va da un medico perché ha un
cancro e il medico gli dice "il cancro ci è ben noto! ecco le
centinaia di volumi che ne trattano", questo diminuirà la sua
angoscia? Si vede che per molti è così. Ma allora, come
descrivere questo effetto? Il fatto di aver fatto appello ai contenuti
trascendenti del Sapere e della Cultura è stato davvero un fattore
irrilevante in quella "relazione"? E possiamo dire che un analista di
ascendenza freudiana sfugga a questi tricks? Senza accorgersene,
l'analista freudiano non rasserena anche lui perché fa leva sulla
sua autorità di "colui che sa"? Non c'è un richiamo "magico"
ad una trascendenza - i Libri, l'Inconscio, la Scienza - in ogni relazione
terapeutica? Ma allora, che cosa distingue questo uso (anche involontario)
dell'autorità dalla suggestione? Del resto, chiamare tutto ciò
"suggestione" non è ancora averla affatto spiegata. Perché
alcuni si suggestionano così e altri no? Perché con alcuni funzionano
proprio i contenuti di linguaggio junghiani e con altri no? E soprattutto:
dobbiamo davvero integrare la galassia sterminata di tutto ciò
che è suggestivo e quindi efficace?
Tutte queste domande - e potrei continuare a lungo - sono le stesse
domande, credo, che vi ponete anche voi. Comunque avverto una differenza
tra alcuni di voi e me, quanto alle possibili risposte: temo che un'eccessiva
insistenza (diciamo "tecnologica") sul fattore terapeutico come UNICO
scotomizzi completamente le differenze etiche, per non parlare di quelle
estetiche. Per me, la psicoterapia (come in parte la medicina stessa)
non è solo un fatto tecnico: implica scelte etiche ed estetiche.
Sono stato impressionato dalla frase di Wittgenstein a proposito di
Frazer, che suona più o meno così: "la fisica delle popolazioni
selvagge e quella nostra è nel fondo la stessa; quel che differiscono,
sono le nostre magie". Mutatis mutandis, direi: "il sapere terapeutico
delle varie scuole e tendenze è più o meno lo stesso,
quel che varia sono le loro etiche ed estetiche." Certo queste differenze
producono anche saperi diversi: tutto il sapere dell'agopuntura - valido
o invalido che sia - deriva da un presupposto etico: dalla proibizione
cinese di aprire i cadaveri. E così, il sapere psicoanalitico - valido
o invalido che sia - deriva da un'essenziale autolimitazione etica (che
non sussiste per altre terapie): il non ricorrere all'arma della prescrizione.
Come Carere ha rilevato, un terapeuta sperimentato sa più o meno
come far funzionare una sorta di "psicoprudenza" minimale, in fondo
comune a tutti. Ma le scuole restano separate perché ad un certo
punto scattano certe differenze etiche, che restano incommensurabili.
Si prenda il junghiano di cui sopra. Ora, io non avrei MAI detto una
cosa rassicurante di quel tipo. Non perché non riconosca che,
con molti, la cosa funzioni: è che non è parte di ME,
di quel che io sono. Quando parlo di etica intendo ETHOS ed ETHUS,
all'antica: il modo di vivere e il carattere. Non è il mio "modo
di vivere" né il mio "carattere" dire cose del genere.
Ho seguito per anni le terapie sistemico-relazionali. Alcuni esperti
terapeuti familiari mi dissero: "Il nostro metodo fa faville con famiglie
di un livello culturale non troppo alto. Ad esempio, non funziona con
famiglie che conoscano già, sui libri, la psicoterapia familiare."
Capii allora che preferivo la psicoanalisi per ragioni etiche, non tecniche:
mi piaceva la sua pretesa di essere valida per CHIUNQUE, dal professore
universitario fino all'ultimo analfabeta. (Non è detto che questa
pretesa sia valida: oggi c'è crisi della psicoanalisi proprio
perché ci stiamo rassegnando a semplici "psicoterapie". Allora
ha ragione Migone quando se la prende con chi valorizza i "contenuti
di linguaggio". Ahimè, questi contenuti, nella psicoanalisi alta, erano
il nucleo della sua etica: la scommessa CHE SI POSSA GUARIRE QUALCUNO
FACENDOGLI DIRE LA VERITÀ! Su questo ci scommettono sempre meno
persone - ma la pretesa non va derisa.)
Prendo un caso immaginario (ma non inverosimile): in una prestigiosa
rivista americana si dimostra, dati statistici alla mano, che la partecipazione
a gruppi e movimenti xenofobi e razzisti fa diminuire in modo sensibile
la sintomatologia nevrotica. Perché no? Ebbene, io non spingerei
mai un paziente a partecipare a gruppi xenofobi e razzisti solo perché
questa sarebbe una scorciatoia terapeutica.
Da una parte non disdegno l'eclettismo, che rivela apertura di spirito
e spregiudicatezza - d'altra parte non lo apprezzo nella misura in cui
consacra l'ANYTHING GOES. Tutto va bene: sostanze chimiche o
prescrizioni cognitive, placebo o padre Pio, omeopatia o sedute di psicoanalisi,
elettroshock o il cocktail Di Bella. Tutto fa brodo, purché il
paziente pagante se ne vada via contento. Conosco medici, ad esempio,
che ridono dell'omeopatia eppure mandano certi loro pazienti dall'omeopata.
Non condanno questo furor terapeutico à tout prix - ma non è
il mio. E' quel che intendo qui per ETICA: restare fedeli a quello che
si è, cioè, in fondo, alla propria differenza. Perché l'etica,
in fin dei conti, si può riassumere anche nel riconoscimento della
differenza dell'altro, e di se stessi come differenti da quell'altro
che si credeva di essere. Non è poi questo quel che siamo chiamati
a fare nella pratica mal-detta clinica?
Non si tratta in effetti di condannare gli atti del junghiano, del watzlawickiano
o di chiunque altro sulla base di precetti morali assoluti: basta riconoscere
"io non farò mai così". E non ci saranno formalizzazioni
cognitiviste che integreranno il dato di fatto (al limite biologico)
del nostro essere così piuttosto che colì, l'aver io avuto
una storia piuttosto che un'altra. Perciò credo che le differenze
tra scuole terapeutiche non verranno mai - almeno me lo auguro - assorbite.
Così non è cosa mia - anche se la rispetto - una psicoterapia dove
ci si chiede ad ogni piè sospinto "qual è il BISOGNO vero del
paziente che devo soddisfare?" Prima di tutto perché ci sono alcuni
bisogni di molti pazienti che sarebbe immondo soddisfare - bisogni di
omicidio, suicidio, pedofilia, consumo di droghe pesanti, furto, ecc.
E poi perché di solito un paziente è qualcuno che, in fondo, non sa
di che cosa ha bisogno: il lavoro analitico consiste proprio nel ricostruire
(o costruire?) questo bisogno. Più che nel rispondere ai bisogni, nel
capire quali potrebbero essere. Per questa ragione la terminologia "bisognosa"
non sarà mai la mia.
Certo differiscono i nostri backgrounds culturali, le nostre diete
intellettuali, non apprezziamo esattamente gli stessi autori, ecc. -
così la parola-concetto INTEGRAZIONE a me non piace e ad altri
invece sì.
Eppure le differenze di stile, retorica, background non sono SOLO intralci
di cui liberarsi (non dico che è quello che sostieni - avverto però
una propensione di alcuni in questo senso) perché introducono
nella discussione elementi ETEROGENEI. Il cammino della cultura avviene
lasciando entrare l'eterogeneo nel gioco (integrandolo? temo che sia
un concetto troppo forte). Tu dici che io sono "fuori del coro" "nel
senso che sollevi questioni di fondo che mi sembravano già chiarite
tra noi". Questo significa che - inconsapevolmente - svolgo una funzione
utile: faccio apparire il lato oscuro in ciò che sembrava chiarito.
E' la funzione, in ogni campo, degli outsiders, altrimenti detti rompicoglioni:
vedendo le cose da un altro punto di vista - proprio perché stanno
"fuori" - costringono chi è "dentro" a vedere cose che non vedevano.
Promuovere un concetto - come "integrazione delle psicoterapie" - è
come aprire un orizzonte, ad esempio, aprire la vista su una vallata.
"Vedete come è bella questa vallata!" Ma proprio perché
un concetto è come un orizzonte, non "vediamo" tutto quello che
vi è incluso. Allora arriva l'outsider che fa notare: "ma guardate
che in questa vallata-orizzonte ci sono dissesti idrologici, malati
di AIDS, morìa del bestiame, ecc." In fondo, nella vallata-INTEGRAZIONE
ho visto qualcosa che nessuno di voi, poi, osa esplicitamente sostenere
- è perché vi ho fraintesi, o perché (essendo fuori
del coro) ho visto implicazioni che vi sfuggivano? Comunque sia, mi
auguro che "il coro" voglia entrare in negoziazione con gli outsiders,
e aggiustare la semantica del concetto: specificare il concetto di "integrazione"
immettendogli certi significati ma togliendone altri, selezionando le
inclusioni, ecc. Sergio Benvenuto
- P.S. n. 1: Migone scrive:
- >Se "la proliferazione delle scuole e dei linguaggi in psicoterapia
>è ANCHE un segno di vitalità e di energia" come tu
dici,
>significa che può essere anche un segno di qualcos'altro
(es. dell'opposto,
>cioè "di non vitalità e di non energia" - da notare
che hai scritto la
>parola "ANCHE" in maiuscolo). Quindi possiamo essere tutti d'accordo
su
>questo: perché non studiare i casi in cui la proliferazione
delle scuole e
>dei linguaggi NON è un segno di vitalità e di energia?
La proliferazione delle scuole è ANCHE un fatto negativo se
si condivide l'impostazione di Kuhn: il non poter giungere ad una "scienza
normale". Il perpetuarsi dello stato "straordinario" non permette di
parlare di scienza come ormai la intendiamo. Se pensiamo che l'essere
scientifici sia un valore - ma non tutti lo pensano (ad esempio, che
ne pensa Napolitani?) - allora la proliferazione è negativa.
(Per alcuni filosofi e storici della scienza, va però detto,
anche la scienza di fatto non è MAI normale - è la posizione
che condivide, se lo capisco, il nostro presidente del Senato).
P.S. n. 2 sul concetto di TERAPIA: Si prenda una vecchia storiella. X suggerisce ad un suo amico di andare
in analisi perché soffre di enuresi. Dopo dieci anni X incontra
l'amico e gli chiede come vada l'analisi, e quello: "A gonfie vele".
Ed X: "ma ti fai sempre la pipì sotto?". L'amico risponde: "Certo.
Ma ora ne sono fiero!"
Ora, possiamo dire che il paziente che soffre ancora del sintomo (magari
perché le cause ignote sono organiche), ma di cui non fa più
un dramma, è guarito? Cosa considerare allora "terapeutico"?
Vediamo gli effetti possibili di una psicoterapia di un enuretico:
(1) il soggetto non si fa più sotto ed è molto soddisfatto
di questo; tesse le lodi del suo psicoterapeuta
(2) il soggetto si fa ancora sotto ma è soddisfatto lo stesso;
tesse le lodi del suo psicoterapeuta (caso di cui sopra)
(3) il soggetto non si fa più sotto ma è deluso lo stesso
dalla psicoterapia, per cui va dicendo in giro peste e corna del suo
psicoterapeuta (casi frequenti, ahimè, come ben sapete)
(4) il soggetto non si fa più sotto ma soffre di un altro sintomo
di cui non aveva mai sofferto prima
(5) il soggetto si fa ancora sotto e non è affatto soddisfatto
della terapia, ma trova nella sua vita altre priorità per cui,
alla fine, dice di essere felice (fonda una famiglia serena, diventa
adepto di un gruppo buddhista, si impegna strenuamente nel Sindacato
degli Enuretici che diventa una lobby politica, ecc.)
(6) il soggetto si fa ancora sotto, è insoddisfatto, infelice,
e dice peste e corna del suo psicoterapeuta.
Altre possibilità possono essere ipotizzate. Ora, delle sei
qui elencate, solo la sesta è un fallimento terapeutico completo
- persino per gli analisti anti-positivisti o post-moderni che rifiutano
con sdegno ogni criterio "medicalistico" di terapia, guarigione, ecc.
Anche il romanticismo anti-scientifico ha un limite! Ma per tutti gli
altri cinque casi, c'è da chiedersi: si tratta in tutti questi
di effetti terapeutici? O il solo effetto terapeutico è l'(1)?
Ma un analista "romantico" potrebbe sempre dire che si tratta anche
in (1) di un fallimento: perché, ad esempio, il paziente che
non si fa più sotto in compenso ha rinunciato ad una carriera
artistica, o non pratica più nessuno sport, o vota per Berlusconi,
o è divenuto membro dei Testimoni di Jehova tutte cose che evidentemente
il nostro analista considera molto negative. Come si vede, non solo
i criteri per cui si giudica qualcosa terapeutico sono variabili da
scuola a scuola - e quindi in questo senso incommensurabili - ma è problematico valutare qualcosa come terapeutico anche all'interno della
stessa scuola.
Tullio Carere, 13 Giugno 2001:
- Benvenuto ha scritto:
- <<Esprimo dubbi su un assunto dato come valido PRIMA di ogni dimostrazione.
Se mi dite che cercare i punti comuni è semplicemente un'ipotesi su
cui state lavorando, non ho nulla da obiettare. Ma allora, se si tratta
di un'ipotesi su cui state COMINCIANDO a lavorare (buon lavoro!) perché
vendete la pelle dell'orso prima di averlo ucciso?>>
Il tentativo di chiarimento in privato non è bastato per convincere
Benvenuto che non è stato ucciso nessun orso. Ribadisco allora
che non solo non esiste un modello di integrazione che possa essere
considerato superiore a qualsiasi altro, ma non si può nemmeno
dare per scontato che l'integrazione (qualsiasi tipo di integrazione)
sia possibile. Nella SEPI (che, ricordo, significa Society for the
Exploration of Psychotherapy Integration) si *esplora* la possibilità
dell'integrazione psicoterapeutica, e tanto poco questa possibilità
è data per scontata, che regolarmente nei convegni internazionali
si invitano delle persone notoriamente diffidenti o ostili all'integrazione,
come è appunto Benvenuto. Cosa che mi pare dimostri abbastanza
chiaramente che il nostro unico assunto è l'assenza di ogni assunto.
Ma perché uno studioso deve prendersi la briga di partecipare
a un convegno sull'integrazione in psicoterapia per dichiarare di essere
(in maiuscole) CONTRO L'INTEGRAZIONE IN PSICOTERAPIA? Che cosa penseremmo
se qualcuno intervenisse a un convegno di psicoanalisi per dire "sono
contro la psicoanalisi"? Che cosa ci vuol dire, nel modo indiretto di
una negazione freudiana? Perché dobbiamo pur pensare che qualcosa
ci voglia dire: che abbia dei fatti, dei concetti, delle argomentazioni
da comunicare, il desiderio di far pervenire un messaggio a un destinatario,
la convinzione che questo messaggio possa essere ascoltato e capito.
Se no, perché sprecare il fiato? Infatti Benvenuto non si limita
a dirci che è contro, ma in due messaggi per complessivi 42 kilobytes
ci spiega come e perché. Tutto questo è molto interessante
e lo considero un prezioso contributo a questo dibattito.
A. Vediamo innanzitutto questo aspetto paradossale. Se uno parla con
l'onesta intenzione di comunicare qualcosa, presume evidentemente -
assunto implicito, ma necessario - che la comunicazione, per quanto
parziale e accidentata, sia possibile. Il che a sua volta richiede che
tra i parlanti ci sia (o sia possibile creare) una base minima comune
di esperienze, concetti per pensare queste esperienze, parole per esprimere
questi concetti. Poiché d'altra parte è evidente che una
comunanza concettuale-linguistica, anche limitatamente al piccolo gruppo
dei partecipanti a questa discussione, non esiste o è molto precaria,
l'intenzione comunicativa dovrebbe collegarsi all'impegno di costruirla.
In altre parole, chiederei a ciascuno: vuoi provare a dialogare, o vuoi
solo asserire le tue convinzioni? Siccome Benvenuto non si è
limitato a dire "non credo nell'integrazione", ma ha detto molte cose
per argomentare la sua posizione, presumo che voglia dialogare, e non
esplorare il suo ombelico. Ma è possibile dialogare senza avere,
o impegnarsi a scoprire o costruire, una base minima comune di esperienze-concetti-linguaggio
(che non equivale, com'è ovvio, alla cancellazione delle differenze)?
A me sembra di no. D'altra parte l'impegno a costruire questa base minima
(o la scommessa che sia possibile), se condiviso tra due o più
psicoterapeuti di persuasioni diverse, corrisponde precisamente all'integrazione
(in senso forte) in cui Benvenuto dichiara di non credere. Ecco allora
che la pretesa di dialogare affermando di essere contro l'integrazione
(dei concetti e dei linguaggi) equivale a quella classica di dire il
vero nel momento in cui si afferma che non esiste la verità:
entrambe le affermazioni svolgono l'utile funzione di dimostrare l'insostenibilità
della premessa.
B. La "contrarietà" all'integrazione di Benvenuto deriva del
resto direttamente dalla sua definizione di etica: "restare fedeli a
quello che si è, cioè, in fondo, alla propria differenza.
Perché l'etica, in fin dei conti, si può riassumere anche
nel riconoscimento della differenza dell'altro, e di se stessi come
differenti da quell'altro che si credeva di essere". Chissà perché
l'etica deve stare tutta dalla parte della differenza. Tutt'al più
questa è un'etica postmoderna. Perché mai essere differenti
sarà "meglio" che essere simili o uguali? Certo, un'ideologia
che ci vuole tutti uguali, appiattendo o cancellando le differenze,
è profondamente non-etica, come del resto ogni ideologia: come,
appunto, l'ideologia postmoderna della differenza, che sa solo esaltare
la differenza, oscurando o cancellando ciò che unisce. Tra l'ideologia
dell'identità e quella della differenza, non so quale sia più
alienante e meno etica. Le metterei sullo stesso piano. Reggere la tensione
dialettica tra identità e differenza, questo è ben più
difficile che rifugiarsi in un'ideologia. Come può fare scelte
etiche chi non sa o non vuole reggere questa tensione?
Sarà chiaro, allora, che la ricerca dell'integrazione (in senso
forte) non è una ricerca di unità *contro* la differenza,
ma piuttosto di quel terreno comune che può ospitare tutte le
differenze, e produrne altre ancora, perché su questo terreno
il conflitto non è distruttivo, non porta all'incompatibilità
e all'incomunicabilità, ma all'arricchimento reciproco. Ma esiste
davvero questo terreno, o piuttosto è un'utopia da abbandonare
per accontentarsi realisticamente di un'integrazione debole, cioè
assimilativa (il bricolage col quale ciascuno assimila sulla base della
propria teoria pezzi di teorie estranee, riformulati nei termini della
propria)? Io non do per scontato che esista (non vendo la pelle dell'orso),
anche se sono disposto a scommettere sulla sua esistenza. E', del resto,
la scommessa da cui nasce questo convegno. Mi sono trovato ampiamente in sintonia con gli interventi di Migone,
Liotti e Alberti. Prima di entrare nello specifico delle loro proposte,
tuttavia, mi pare opportuno un chiarimento sui temi di fondo sollevati
da Benvenuto. Spero che anche Petrella, Freni, Napolitani e Rossi Monti
vorranno dire la loro su questi temi. Tullio Carere
N.B.: Rispondo con franchezza alla franchezza dell'amico Sergio. Per
quanto mi riguarda, questo scambio rude non mette in discussione il
mio rapporto di amicizia e collaborazione con lui.
Paolo Migone, 17 Giugno 2001:
Caro Benvenuto, ti ringrazio per la lunga mail in cui pazientemente ti sei preso la
briga di rispondermi. La mia prima reazione è stata quella di
concordare con quasi tutto quello che dici, però ha tratti ho
avuto anche la sensazione che vi possano effettivamente essere delle
differenze nette su qualcosa di fondo (ma è possibile che siano
fraintendimenti, modi nostri di esprimerci un po' provocatori o a effetto).
Se vi sono delle differenze, allora il tuo contributo è veramente
importante, e spero che continuerai a esprimerle. Avevo iniziato a provare
a fare alcuni commenti alla tua mail, quando ho visto la mail di Tullio,
che scende gioiosamente in campo, come è il suo stile, e ti sfida
a singolar tenzone. Ho deciso quindi di aspettare e stare a guardare,
anche perché nel frattempo altri che non sono ancora intervenuti
eventualmente potrebbero voler intervenire. Alla prossima quindi. Paolo
Migone
Tullio Carere, 24 Giugno 2001:
Cari amici e colleghi, vorrei segnalarvi nell'ultimo numero dell'International Journal of
Psychoanalysis (2001, 82, 3: 431-447) l'articolo "Psychoanalysis
and cognitive behaviour therapy-rival paradigms or common ground?",
di Jane Milton. E' interessante perché, pur contenendo i soliti
luoghi comuni contro l'integrazione (in senso forte), offre una ghiotta,
per quanto involontaria, testimonianza (evidence) a favore. Vi
riporto qui sotto la lettera che ho scritto in proposito al direttore
della rivista. Tullio Carere
------------
On Milton's "Psychoanalysis and cognitive behaviour therapy-rival
paradigms or common ground?"
Dear Sir, although Jane Milton complains that professional rivalries and political
pressures produce a 'horse race' mentality in the comparison of the
two approaches, her paper seems to me well inside the race. She admits
that the claims "about psychoanalysis as a method facilitating deep
and lasting change certainly need substantiating empirically rather
than simply asserting", yet her argument is by and large based on this
simple assertion. No real dialogue between the two fields will happen,
as long as on the one side (cognitive-behavioural) the statement is
made that equal results are obtained in a more economical and rapid
way, and (symmetrically) on the other side the deeper and more lasting
character of psychoanalytical results is taken for granted.
Nevertheless Milton's paper offers an interesting, though unwitting,
contribution to the search for a common ground. In the treatment of
Mr A, Milton was "periodically nudged into doing fragments of a weak
version of CBT", which she means as a "'collapse' of the analytical
stance into something simpler and more apparently common-sense". She
goes on to say that "it will inevitably occur in our work from time
to time, and it needs hard work in the countertransference to notice
and rebuild the tension and complexity inherent in productive analytic
work". This is an interesting evidence of the inevitability for practitioners
of all persuasions to do something that is not foreseen by their own
theories, but is required by the interactive process at hand. In a similar
vein, a cognitive-behavioural therapist would say that he or she is
periodically nudged into doing fragments of a weak version of psychoanalysis,
which (in his or her view) is meant as a collapse of the cognitive-behavioural
stance into something simpler and more apparently common-sense; and
so on.
Leaving aside the parochial need of seeing one's own thing as the real
thing, and the thing of the others as just common-sensical, what remains
is that a cognitive therapist would most probably approach Mr A's case
in the same way as Milton did. Both therapists would try to provide
a "safe context within which relationships with the self and the world
are explored" (Jones & Pulos, 1993, quoted by Milton). Both would help
Mr A to recognize the irrational, negative, archaic convictions underpinning
his current experience and behaviour, both would encourage him to logically
challenge and reality-test such convictions, in and outside the session.
This could be all Mr A needs, to begin with, in case such a safe context
and rational lab has never been available to him in the past. Another
possibility is that the challenge brought to bear onto the pathological
convictions will help break some vicious circle (Milton admits that
"CBT can be very helpful in modifying such positive feedback loops in
symptom generation"). Besides, as Wachtel (1977) has shown, the behavioural
rupture of vicious circles can pave the way to previously sealed emotional
experience, and even to insights that the sole interpretive mode could
not elicit.
If, in spite of this work, the process sticks in a deadlock (as in Milton's
vignette: "Mr A would still report to me flatly or hopelessly, or sometimes
a tinge triumphantly, that he had still not done anything about the
project"), any good CB therapist would resist, as Milton did, the temptation
to make "a rather sharp and impatient interpretation about Mr A's passivity".
Any good therapist, of whatever school, would stop in such condition
the previous program and invite the patient to join him or her in the
exploration of what is happening in their relation. A good therapist,
however, would not take it for granted that the patient is repeating
in the transference some early scene, or projecting onto the therapist
some archaic object. He or she would first of all investigate, in a
Gill's (1984) style, to understand what in their real interaction (i.e.,
what real therapist's behaviour) could have elicited such negative response
in the patient. Secondly, not on the background of a non existent blank
screen, but on that of their real interaction, he or she would help
Mr A reconstruct and work through what he still needs to re-stage in
the therapeutic relation.
Of course, in writing down the case story for publication, a CB therapist
would emphasize the correction of maladaptive schemata, or the interruption
of vicious circles (the paper will probably be submitted to a CB journal),
while a psychoanalyst, whose paper will probably be submitted to a psychoanalytic
journal, would obviously emphasize the transference part of the job.
Apart from the emphasis--more in the written report, I assume, than
in real clinical work--what remains of their difference? Milton believes
that CAT [Cognitive-analytic therapy] and CBT "limit the potential power
for good of the treatments, precisely because they restrict the nature
and depth of the transference and countertransference". Yet a few lines
before she had written: "Ryle (1995) [the CAT's creator] regards the
transference as a 'hardy plant' arising whatever one does, and certainly
not requiring the therapist to be inactive." Probably every psychoanalyst
would agree that transference is such a 'hardy plant', but which are
the best conditions to activate, explore, and work it through? My personal
conviction is opposite to Milton's: a moderate activity is better in
this regard than both the abstinence she prizes and highly structured
activity of old behaviour therapists (but not of most contemporary CB
therapists, whose level of activity is not, in my opinion, very far
from most contemporary psychoanalysts').
Does Milton have any convincing evidence to support her conviction?
I wish she had quoted it, if she had any. If she has none, her conviction
is as good as mine. In the end, the alleged difference between psychoanalysis
and CB therapy (not in theory, of course, but in practice) is a matter
of emphasis and personal conviction, not of evidence. On the contrary,
the evidence she offers with the case of Mr A is good grist for the
psychotherapy integration's mill. I want to thank her for her precious
contribution, though I understand it is not what she meant. Tullio Carere-Comes
References
Gill, M. (1984). Psychoanalysis
and psychotherapy: a revision. Int. Rev. Psa., 11, 161-179
(Italian translation: http://www.publinet.it/pol/ital/10a-Gill.htm;
discussion: http://www.psychomedia.it/pm-lists/debates/gill-dib-1.htm).
Jones, E. & Pulos, S. (1993). Comparing the process
in psychodynamic and cognitive-behavioural therapies. J. Consulting
& Clin. Psychol., 61: 306-16.
Milton, J. (2001). Psychoanalysis and cognitive behaviour
therapy-rival paradigms or common ground? Int. J. Psychoanal.,
82: 431-447.
Ryle, A. (1995). Psychoanalysis, cognitive-analytic
therapy, mind and self. British J. Psychother., 11: 568-74.
Wachtel P.L. (1977). Psychoanalysis and Behavior
Therapy. New York: Basic Books (nuova edizione ampliata: Psychoana1ysis,
Behavior Therapy, and the Relational World. Washington, D.C.: American
Psychological Association, 1997).
------------
Paolo Migone, 24 luglio 2001:
Cari colleghi, seguendo l'esempio di Tullio, e nel caso interessasse, mando al gruppo
una "LETTER TO THE EDITOR" dell'International Journal of Psychoanalysis
riguardo all'articolo di Jane Milton "Psychoanalysis and cognitive-behaviour
therapy: rival paradigms or common ground?" (Int. J. Psychoanal.,
2001, 82, 3: 431-447), che ho appena spedito. Ho già mostrato
la lettera a Tullio, al quale sono debitore per un importante suggerimento
nella parte finale. Colgo l'occasione per augurarvi buone vacanze. Paolo
Migone
------------
Psychoanalysis and cognitive-behaviour therapy
-
Dear Sir, Jane Milton's (2001) article on the differences between psychoanalysis
and cognitive-behaviour therapy contains rich insights into the therapeutic
situation. Most important, by comparing psychoanalysis to a different
approach, it addresses a vital issue for our field: the identity of
psychoanalysis, especially significant today when rapid changes and,
at times, paradigm shifts make the border between one technique and
another more and more obscure. Furthermore, as is well known, psychoanalysis
as an unified body of theory and practice does not exist, if it ever
existed, and we see the flourishing of many "psychoanalyses" to the
point that at times the difference between a psychoanalytic and a non-psychoanalytic
approach is no greater than the difference between two approaches that
are considered under the common psychoanalytic umbrella. And, as Milton
correctly points out, the picture is complicated by economical and social
pressures. At any rate, in defining which type of psychoanalysis we
practice and how we theorise it, a good exercise is to see not only
what it is, but also what it is not (in a sort of "negative dialectics"),
i.e., try to compare it with a (supposedly) different approach--and
this is one of the merits of her paper.
Many of Milton's points I agree with, and I want to mention some of
them. For example, the current enthusiasm around cognitive-behaviour
therapy reminds us of the "early idealisation of psychoanalysis, and
may prove relatively short-lived" (p. 431; see also, in this
regard,
the interesting comments on empirical research, at the end of her
paper).
As a matter of fact, many cognitive-behaviour therapists, who traditionally
worked with mono-symptomatic or "neurotic" patients, now seem to show
more prudent attitudes when they are challenged by the treatment of
personality disorders: here some of them necessarily rediscover the
usefulness of concepts such as transference, countertransference,
resistance,
even of the need of long-term treatments and of a personal therapy for
the trainees (pp. 441-442). The author correctly notices that this
"psychoanalytic drift" in recent cognitive therapy reminds us of the "cognitive
drift"
we saw in behaviour therapy (p. 441). Indeed, some cognitive therapists
today seem more and more "psychoanalytic" (such as Liotti, aptly mentioned
by Milton [p. 441], and others of the "Rome school" of cognitive
therapy,
who use Bowlby's attachment theory, Fonagy's concept of reflective function
and so on [see, for instance, Migone & Liotti, 1998]). Another observation
by Milton is that there seems to be, however, a difference in philosophical
underpinnings: in cognitive therapy the patient is often seen as a victim
of parental or societal influences, while in psychoanalysis the
patient,
more pessimistically, is seen as intrinsically conflicted and unreasonable
(p. 439). But--we may argue--here we do not need to resort to cognitive
therapy in order to emphasise what is nothing but the dichotomy between
conflict and deficit theories, which is already well represented in
the psychoanalytic literature (think only of Kohut's Self Psychology,
interpersonal psychoanalysis, and so forth). Another important point
is that "cognitive" work can be a defence from affect, and this "defensive"
aspect of cognitive therapy could be one of the reasons for its success
in patients and therapists alike, because it is more "reassuring".
Again,
this is already part of our discussion on the theory of technique. In
this regard, Milton rightly says that the "collapse" of the two approaches
(in which, so to speak, the analyst becomes "cognitive") is neither
good nor bad in itself, because there might be good "clinical
reasons"
for it with particular patients (p. 439). With some patients, and/or
during particular phases of treatment, the analyst needs to be, so to
speak, "less psychoanalytic", i.e., more cognitive, reassuring, and
supportive. Despite our good "analytic intentions", as Freud himself
was well aware of, we represent for the patient also a model for
identification,
we play the role of teacher, re-educator, and the like (Friedman, 1978).
In other words, Milton seems to say that the independent variable should
be the patient's need at any specific moment and depends on his or her
defensive structure, an approach I fully agree with (but which constitutes
nothing but one of the technical implications of Ego Psychology, which
has been known for at least half a century).
According to this perspective, then, cognitive-behaviour therapy and
psychoanalysis could be seen on a continuum (similar to the continuum
between supportive and expressive techniques), where cognitive-behaviour
therapy--like supportive psychotherapy--is reassuring, structured, reinforcing
defences according to the patient's need in a specific moment, while
psychoanalysis is more destructuring, open to the discovery of unconscious
meanings, and so on. But we may ask: is this the correct way of seeing
the difference between cognitive-behaviour therapy and psychoanalysis?
If we see things in this way, aren't we loosing something specific of
psychoanalysis, and if yes, what? In her attempt at differentiating
psychoanalysis from cognitive-behaviour therapy, Milton believes that
something "psychoanalytic" is always missing in cognitive-behaviour
therapy, even in its more modern and "cognitive analytic" version (such
as Ryle's [1990] "cognitive analytic therapy" [CAT]). I would like to
comment briefly on this point because, although I basically agree with
Milton, I would see things in a somewhat different way.
The solution Milton finds in order to see a specificity in the psychoanalytic
approach is to rely on the classical view, i.e., resorting to the concepts
of "neutrality and abstinence" (p. 435). For example, "by not encouraging
and reassuring" the patient (p. 436), the transference will come to
the surface, allowing an analysis of a "deeper level" of
personality.
But is it really necessary to resort to the classical stance, based
on the concept of a blank screen, if we want to define the identity
of psychoanalysis? After all, this traditional view of technique has
been put into question by several authors. Most notably and
authoritatively,
Gill (1984) has argued that the influence of the analyst onto the patient
occurs anyway, and probably more so, if we believe in neutrality: our
manipulation of the transference will go even more unnoticed, and for
this reason the transference will run the risk of remaining unanalysed,
to the point that a "classical" psychoanalysis might resemble a supportive
or manipulative psychotherapy, despite the analyst's good intentions
(Migone, 1995, 2000). There is no way to see a pure and "uncontaminated"
transference (Gill, 1984, p. 164), it being at all times also a response
to the analyst's behaviour. Milton seems well aware of that, in fact
she aptly quotes Ryle's (1995) metaphor of the transference as an
"hardy plant" that always grows, regardless of our attempt to control it. In
every environment, this plant will grow in its own interesting and peculiar
way, showing us its many potentials. For example, following Gill's ideas,
a transference that appears in a cognitive-behaviour therapy may be
no less interesting or important than the "classical" transference
(i.e.,
the transference that appears in a "classical"
psychoanalysis): both
can be analytically worked through and shed light on the patient's inner
world, and the analyst has no right to say that only one of the two
is the "true" transference. But we may well ask: how can we best let
this plant grow, in order to know it better and to modify it? I am well
aware that the issue here is quite complex, possibly involving philosophical
aspects. Milton tells us that she adheres to a "traditional
positivistic"
rather than "intersubjective constructivist" paradigm (p. 434), in the
correct assumption that our aim is to investigate the "real" inner world
of the patient, however difficult it may be and however imprecise we
may be. It is not possible here to discuss this problem in detail. I
will simply recall that, according to Gill, a better technique would
be to de-emphasise concepts such as neutrality, abstinence, blank screen,
transference as a distortion of the past, etc., and to see every behaviour
of the patient as one of many possible and plausible responses to us,
where we do not underline more or less distorted or appropriate behaviours
but simply ask ourselves--and the patient--why a given therapeutic situation
evoked that particular transference reaction rather than one of the
many other possible reactions that it could have evoked. Proceeding
in this way, according to Gill, we have better chances to avoid falling
into a sort of blinding neutrality and we possibly see more of the patient's
inner world--the same inner world that a traditional analyst aims at
discovering. At any rate, I am convinced that the problem of theory
of technique (and of curative factors) is not only a philosophical problem
but is directly linked to memory functioning, to the relationship between
interpretation and corrective experiences within the analytic
situation,
and so forth (concerning this, see the detailed review by J. Timothy
Davis [2001] on memory functioning, which appears in the same issue
of the Journal, just after Milton's paper; see also Fonagy, 1999.
Incidentally, concerning the relationship between psychoanalysis and
behaviour therapy, and between action and insight within the therapeutic
setting, an important author Milton failed to mention is Wachtel, 1977).
To return now to the difference between cognitive-behaviour therapy
and psychoanalysis, shall we conclude again that, if we adopt a "relational"
o "relativistic" view (such as Gill's), there is no sharp difference
between the two approaches? I do believe, like Milton, that there is
a difference, but this is the way I would see it: a specificity of the
psychoanalytic attitude is the openness to new material, the facilitating
of a context of discovery, in brief, what we try to capture with the
technique of "free associations". The analyst, in contrast to cognitive
therapists, is more prone to open up new possibilities of feeling and
experiencing, and this might be an important therapeutic factor in
itself.
I am well aware that the technique of free associations may mean different
things, but we could say that it specifically implies a "defenceless"
psychic functioning, an ideal equilibrium among the various psychic
structures previously in conflict with each other (in fact, it is often
said that when the patient is truly able to free associate, the analysis
can be considered successfully terminated, because this ability already
signifies a structural change). From what I can see, the technique of
many cognitive therapists I know, even of the more "psychodynamic"
ones,
often does not include this emphasis on the patient's free associations
(and on the "evenly hovering attention" on the part of the
therapist)
that allows a particular atmosphere in the session, a context of discovery
that seems to me typically psychoanalytic. Cognitive therapists often
have the limitation of being more directive, focused, and
goal-oriented.
However, it is very likely that our cognitive therapy colleagues will
catch up very soon in this respect and learn to allow their patients
to have more moments of free associations, discovery, and surprise.
But at the same time I think that psychoanalysts should learn to be
somewhat more directive and focal, if the patient needs it. It would
be a mistake to conceive psychoanalysis only as a non-focused
technique,
with no goals, with free associations on the part of the patient and
free-floating attention on the part of the analyst. If we were to see
things that way, psychoanalysis and cognitive therapy would be at the
opposite extremes of the supportive-expressive spectrum. The analyst,
instead, should be able to remain dialectically between these two poles,
following the patient's needs, as we said before. Thöma & Kächele
(1985, Ch. 9.4, p. 347), for example, state that they "conceptualise
psychoanalytic therapy as an ongoing, temporally unlimited focal
therapy with a changing focus" [italics in the original text], which
means that the analyst always has a focus, the important thing being
that he can change it according to the process (notice that Thöma
& Kächele chose to title their important Lehrbuch "Psychoanalytic
Therapy", thus bypassing the problems relating to the terms "psychoanalysis"
and "psychoanalytic psychotherapy" [the English translation, Psychoanalytic
Practice, is somehow misleading]).
Psychoanalysis and cognitive-behaviour therapy have influenced each
other to a great extent, and I believe that this sort of cross-fertilisation
among different approaches, which will be more and more inevitable,
is a welcome opportunity and will enrich the field. Most important,
it will force us to further define the identity of every approach--or
to accept de facto an "integration" or an overlapping--with benefit
for all.
Sincerely yours, Paolo Migone
REFERENCES
- DAVIS J.T. (2001). Revising psychoanalytic interpretation of the
past:
an examination of declarative and non-declarative memory processes.
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------------
Tullio Carere, 17 Settembre 2001:
Cari amici e colleghi, credo che riprendere il filo del prossimo convegno
sull'integrazione in psicoterapia possa rappresentare un piccolo contributo
al cambiamento culturale che il periodo storico iniziato con l'attacco
all'America richiede drammaticamente. Integrazione, infatti, significa
in primo luogo pluralismo, e in secondo luogo ricerca di un terreno
comune, o costruzione di ponti, tra indirizzi e orientamenti legittimamente
diversi. Entrambe le cose - pluralismo e ricerca o costruzione di elementi
comuni - sono esattamente agli antipodi di ogni forma di integralismo
culturale, da cui molte scuole psicoanalitiche e psicoterapeutiche purtroppo
non sono esenti. Questo credo sia il tema nucleare del conflitto planetario
cui nessuno si può più sottrarre: integrazione versus
integralismo.
Sul tema ho scritto questa estate il lavoro che vi mando in
attachment
intitolato "Towards a new paradigm: Dialogic-dialectical vs scholastic
therapy", su cui baserò il mio intervento al convegno. Ho
potuto discuterlo alla fine di agosto con Paul e Ellen Wachtel, che
erano in Svizzera in vacanza. Tornato a New York, Paul mi ha scritto
per dirmi che aveva letto il manoscritto ("I liked it VERY much")
e per annunciarmi alcuni commenti e suggerimenti ("all minor") che mi
avrebbe mandato la settimana seguente, essendo per il momento sommerso
di impegni che lo attendevano al rientro. Ma la settimana seguente è
stata la settimana scorsa. Paul e Ellen abitano nella 12.a strada, a
pochi isolati dal luogo dove sorgevano le torri gemelle. Sono stati
tra i primi a mettersi a disposizione per il debriefing dei traumatizzati.
Aspettavo i suggerimenti di Paul per modificare il manoscritto prima
di mandarvelo, ma penso che ora dovrò aspettare a lungo. Vi mando
quindi il manoscritto così com'è (la bibliografia è
incompleta). Tullio Carere.
Giorgio Alberti, 3 Ottobre 2001:
Caro Tullio, grazie anche a un "fermo per influenza", ho potuto leggere
il Tuo lavoro "Towards a new paradigm". L'ho letto tutto d'un
fiato, e l'ho trovato bello e scorrevole, e in molte sue affermazioni
condivisibile. Mi è piaciuto, e corrisponde anche alla mia diretta
esperienza clinica, il quadro di riferimento generale bidimensionale
- i due assi cartesiani polari, materno-paterno e conoscenza-ignoto
- in base a cui è possibile classificare gli atti terapeutici.
Tuttavia non mi ha convinto il Tuo appello a disattendere coraggiosamente
il libro, il manuale, e non in sé e per sé - visto che
io stesso ritengo utile uscire dai limiti di scuola, se ciò serve
al paziente - ma in quanto il manuale stesso sarebbe sostituito da un
atteggiamento dialettico, una polarità del quale consiste, se
intendo bene, nella spontaneità, intuizione e irriflessione proprie
del polo O. Inoltre, gli atti terapeutici così ispirati risponderebbero
senz'altro meglio ai bisogni del paziente e sarebbero quindi migliori
di quelli ispirati dalla formazione del terapeuta e, il che mi lascia
molto dubbioso, anche da qua1siasi rappresentazione ampia e "laica"
del problema del paziente e del processo di cambiamento che possa servire
da criterio di scelta di interventi eterodossi. Mi sorge infatti una
domanda a proposito della "freedom to be in the service of the process"
(p. 16): come fa il terapeuta a leggere i bisogni del paziente e le
esigenze che il "process" gli pone, se non adottando una certa
ottica interpretativa, o senza conoscere le procedure di terapie diverse
dalla sua originaria? Oppure, ritieni, cosa per me difficile a credersi,
che vi possa essere una qualche forma di diretta percezione, non influenzata
da aspettative, di scuola o d'altro tipo, di ciò che accade nel
paziente e in terapia, a cui attinge il terapeuta che agisce intuitivamente?
In realtà, fino a un certo punto io condivido il Tuo ragionamento.
In particolare fin dove affermi la libertà del terapeuta da ogni
vincolo di teoria o scuola. Ma poi resto interdetto: avventurarsi fuori
dalla teoria e dalla prassi nota richiede in ogni caso una mappa, un'ipotesi
che permetta di distinguere gli interventi in terapeuticamente utili
e terapeuticamente inutili o dannosi, e i loro accostamenti ovviamente
anche. E a me sembra che quello dell'intuizione non sia un metodo né
sicuro né comunicabile. Ho paura che l'alternativa a un qualche
tipo di prevedibilità degli atti terapeutici - prevedibilità
ovviamente statistica, e non sempre certo pienamente sfruttabile - sia
l'eclettismo irriflesso, il puro assemblaggio, che certamente esiste,
e in cui tutti sono certamente caduti, ma per evitare il quale ci si
è posti il problema dell'integrazione, cioè di una mappa
più ampia, di un qualche ordine che permetta di scegliere, di
volta in volta, cosa fare, cosa non fare, e anche di decidere che non
si sa cosa fare per far bene. Ma non che bisogna fare quello che viene
in mente spontaneamente. Potrei seguirTi se mi dicessi che la creatività
del polo O implica un disegno non immediatamente perscrutabile nell'attimo
dell'azione spontanea, ma ricostruibile poi a posteriori, per cui, seppur
in via automatica e inconsapevole, il terapeuta segue dei criteri. Ma
non so se Tu intendessi questo. Insomma, quella che mi appare come la
rinuncia ad ogni criterio di scelta dell'intervento mi sconcerta. Azzardo
a mia volta un'interpretazione: il Tuo saggio è certamente una
brillante realizzazione scientifica e culturale ma, mi domando, non
è forse ancora troppo vicino alla posizione di chi vuoi liberarsi
per sperimentare libero da dogmi e non si è ancora posto il problema
di come coordinare i prodotti della sua libertà? Ti prego di
prendere queste osservazioni come primissime reazioni ancora "a caldo".
Se avrai la gentilezza di rispondermi forse potrò capire meglio.
Giorgio
Tullio Carere, 6 Ottobre 2001:
- Caro Giorgio, ti ringrazio molto delle osservazioni al mio articolo,
che mi danno occasione di chiarirne alcuni punti. Tu scrivi:
- >non mi ha convinto il Tuo appello a disattendere coraggiosamente
il
>libro, il manuale, e non in sé e per sé - visto che io
stesso ritengo utile
>uscire dai limiti di scuola, se ciò serve al paziente - ma in
quanto il
>manuale stesso sarebbe sostituito da un atteggiamento dialettico, una
>polarità del quale consiste, se intendo bene, nella spontaneità,
>intuizione e irriflessione proprie del polo O.
Non ho niente contro i manuali, per cominciare. Ogni terapeuta
dovrebbe avere diversi manuali nella sua libreria, e soprattutto nella
sua mente - e naturalmente sapere quando consultare e applicare un manuale,
e quando l'altro. Il mio obiettivo polemico non è il manuale,
ma la terapia manualizzata, cioè quella in cui il manuale è
applicato in modo rigido, scolastico. Su questo penso che tu sia d'accordo.
Il punto è capire in che modo si esce dalla scolastica. Un primo
modo è quello della cosiddetta integrazione teorica. Prendo due
manuali (per es uno psicodinamico e l'altro comportamentale), estraggo
alcune cose dall'uno e altre dall'altro, e le combino in una nuova teoria
sovraordinata, che appunto "integra" parti dell'uno e dell'altro. In
misura maggiore o minore è quello che facciamo tutti, in tutto
l'arco della nostra carriera, in quanto continuiamo ad "assimilare"
pezzi di teorie estranee nel corpo della nostra teoria di base (che
per "accomodare" al suo interno questi corpi estranei deve sempre poco
o tanto modificarsi).
Questa integrazione teorica (assimilativo-accomodativa) porta a costruire
teorie più ampie e più rispondenti alle nostre preferenze
e capacità rispetto a quella di partenza. Tuttavia se il modello
in tal modo "integrato" viene poi applicato in modo scolastico - cioè
prescrittivo di ciò che si può e ciò che non si
può fare - siamo da capo. Ogni teoria, comunque costruita, anche
integrando due o più teorie subordinate, diventa inevitabilmente
scolastica, nel momento in cui si fa normativa. L'integrazione teorica
non è pertanto di per sé un rimedio alla scolastica. Non
sarà sommando teoria a teoria che un terapeuta può pensare
di affrancarsi dalla soggezione alla teoria. Nella terapia autentica
(cioè, non "teoreticamente abusiva", come dice Basseches) o euristica
(cioè non stereotipata, come diceva Peterfreund) la teoria è
al servizio della terapia, non viceversa.
Libertà dalla teoria significa uso critico della teoria. Cioè
uso della teoria fintanto che e nella misura in cui mi aiuta a capire
quello che succede e a produrre cambiamenti, e suo abbandono o messa
da parte nel momento in cui non mi è più di aiuto. Questo
significa che io non sono guidato dalla teoria, ma dalla facoltà
critica che mi permette di capire se una data teoria in un dato momento
mi serve o non mi serve. La stessa facoltà mi permette di capire
se una data intuizione o azione spontanea (non prevista dalla teoria)
mi aiuta a comprendere o modificare una data situazione meglio di quanto
non faccia la teoria di cui dispongo. Un terapeuta mentalmente libero
(cioè non scolastico) intanto è libero in quanto non si
fa condizionare dai modelli di cui dispone, ma li usa con giudizio,
sempre pronto a seguire intuizioni o eseguire gesti spontanei quando
gli sembra che la situazione lo richieda. Questa libertà evidentemente
non può essere disgiunta dalla responsabilità di verificare
continuamente l'effetto di qualsiasi intuizione o gesto spontaneo, come
del resto di qualsiasi interpretazione o azione prevista dalla teoria
vigente. L'oscillazione tra i vertici K e O, che definiscono l'asse
della scoperta (uncovering), descrive graficamente il movimento
tra questi due momenti fondamentali dell'azione terapeutica: quello
in cui organizzo il materiale, interpreto o intervengo secondo i canoni
della teoria semplice o integrata di cui dispongo, e quello in cui mi
lascio guidare dall'intuizione o dall'impulso spontaneo, avventurandomi
fuori del recinto del già noto. E' la dialettica tra rigore tecnico
e spontaneità studiata dagli analisti relazionali, specialmente
da Hoffman.
Spero di averti dato almeno un primo chiarimento su come intendo il
rapporto tra teoria e spontaneità. Visto che evidentemente non
è chiaro nell'articolo, lo riprenderò per qualche modifica.
A maggior ragione ti ringrazio delle tue osservazioni. Tullio
Giorgio Alberti, 7 Ottobre 2001:
Caro Tullio, grazie della Tua risposta che mi sembra chiarire bene,
soprattutto quando sottolinei la necessità di verificare quanto
spontaneamente agito in terapia. Giorgio
Diego Napolitani, 8 Ottobre 2001:
Caro Tullio, tutto il tuo discorso è pervaso dal modello relazionale che conveniamo
di chiamare "cura". Il "curare", che si tratti di un malato o di un
bambino da allevare, implica comunque la necessità di adoperare
strumenti che consentano al curante di raggiungere il proprio scopo,
supposto che questo sia il medesimo di quello che dispone il "bisognoso"
di mettersi nelle sue mani.
Sono stato sospinto, da un complesso di esperienze di cui sono riuscito
fin qui a razionalizzare solo alcuni vertici, a mettere radicalmente
in crisi questa postura medico e/o pedagogica, senza ovviamente sottovalutare
il fatto che certi fenomeni legittimamente considerati come "effetti"
della relazione analitica possano essere inscritti nelle categorie della
medicina o della pedagogia. Appartiene del resto al linguaggio comune
il dire che un certo incontro mi ha cambiato la vita, nel senso che
mi ha curato da un mal di vivere o che mi ha aperto a nuovi orizzonti.
Eppure credo che nessuno connoterebbe questo tipo di incontro come "terapeutico"
o come "insegnante" se non in termini vagamente metaforici.
La pratica analitica si pone nei miei intendimenti al di là dei
vincoli fortemente suggestivi indotti sia dal potere tecnologico e scientista
sia dal potere educativo, nel senso genitoriale, poteri che, entrambi,
sono vivacemente evocati e "integrati" in quel che mi pare di leggere
nel tuo scritto. La sfida del nostro tempo consiste nell'indicare con
maggiore precisione (senza la pretesa di de-finire) l'area del gioco,
come allusa da Winnicott, nel suo sostanziale carattere di reciprocità.
Per ora non mi dilungo, sperando che i lavori che ti accludo possano
darti più elementi di giudizio sul mio percorso. Diego
Tullio Carere 13 Ottobre 2001:
Caro Diego, leggerò con molto interesse i lavori che mi hai
mandato, ma voglio commentare a botta calda le tue preziose osservazioni.
Hai ragione di dire che il mio discorso è pervaso dal modello
della cura, ma non ce l'hai se dici che ne è "tutto" pervaso.
Credo occorra stare in guardia da quelli che considero due errori opposti:
identificare l'analisi con la cura, separare l'analisi dalla cura. Li
esamino brevemente entrambi.
1.
Si può negare che molti hanno bisogno di cure mediche e/o pedagogiche?
No, non si può. Se si vuole salvare la purezza dell'analisi dalla
contaminazione con tali cure si deve pertanto distinguere bene, come
già Freud esortava a fare: da un lato l'oro della psicoanalisi,
dall'altro il rame della psicoterapia, ricettacolo di ogni pratica medico-psicopedagogica
e suggestiva in genere. Bisogna naturalmente dividere i pazienti in
due gruppi: i più scassati, e i poveracci che non possono permettersi
una vera analisi, saranno avviati alla psicoterapia, mentre a quelli
che stanno meglio, psicologicamente ed economicamente, si consiglierà
una psicoanalisi. I primi otterranno al più una riduzione dei
sintomi o una rieducazione, mentre dalla psicoanalisi emergeranno donne
e uomini rinnovati nel profondo, consapevoli, giocosi e creativi.
Vanno davvero così le cose? Non proprio. Perché la cosa
non sia lasciata all'arbitrio delle opinioni, consideriamo i dati della
ricerca. In particolare della ricerca più imponente che sia mai
stata fatta in campo psicoanalitico, quella di Topeka [Wallerstein, R.S.
(1986). Forty-two Lives in Treatment. New York: Guilford Press].
Confrontando due gruppi di pazienti, rispettivamente in psicoanalisi
e in psicoterapia, e seguendoli per ben trent'anni, la ricerca ha stabilito
che: (a) non c'erano sostanziali differenze tra i pazienti dei due gruppi
all'inizio del trattamento; (b) non ci sono state sostanziali differenze
nel trattamento, essendo somministrata in entrambi i gruppi una miscela
di pratiche espressive e supportive che rendeva di fatto indistinguibile
la "psicoanalisi" dalla "psicoterapia"; (c) non ci sono state sostanziali
differenze nei risultati, salvo un leggero vantaggio, quanto a profondità
e stabilità dei cambiamenti, per i pazienti in psicoterapia.
Che cosa significa questo? Come mai le psicoanalisi che dovevano essere
"pure" risultarono zeppe di interventi supportivi (cioè "pedagogici"),
al punto da essere di fatto indistinguibili dalle psicoterapie? La risposta
credo sia questa: la distinzione tra l'oro e il rame è un'esigenza
degli analisti, non dei pazienti. I quali nella pratica reale se ne
infischiano dell'oro, e impongono agli analisti (se non vogliono perderli)
di usare tanti e tali "parametri" da produrre alla fine quelle combinazioni
espressivo-supportive (o uncovering-remaking) che la ricerca
ha trovato caratterizzare tutti i trattamenti reali, indipendentemente
da come si preferisca chiamarli, se analisi o terapia. In conclusione,
l'analisi è separabile dalla cura solo nella teoria (in ciò
che gli analisti dicono di fare), non nella pratica (in ciò che
realmente fanno). Su questo, vedi Migone, http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/ruoloter/rt69-95.htm,
e la prima sezione del mio lavoro "The logic of the psychotherapeutic
relationship").
2.
Il fatto che l'analisi non sia separabile dalla cura non significa che
le due cose siano identificabili. In realtà la pratica complessiva
(è indifferente se preferiamo chiamarla "analisi" o "terapia")
è qualcosa di più sia dell'analisi, sia della cura. Questo
quid che supera entrambe non è da cercare tanto nell'elemento
della reciprocità, perché ogni analisi o terapia è
poco o tanto, lo si voglia o meno, anche analisi reciproca e cura reciproca;
quanto piuttosto in quello spazio o vertice della relazione in cui non
si analizza né si cura (in senso genitoriale o medico), ma ci
si lascia prendere o guidare dalla potenzialità generativa e
rigenerativa del processo che a me è cara non meno che a te (io
chiamo questo spazio "vertice O" del campo relazionale, e so che anche
tu ti riferisci all' O di Bion per indicare questa dimensione).
Se poi ci chiediamo come possiamo chiamare questo processo complessivo,
che include la dimensione creativa, generativa e ludica del mistico
e dell'artista, sono d'accordo con te che "cura" non va bene, se la
parola è intesa nel suo senso ristretto di accudimento genitoriale
o trattamento medico, ma "analisi" va anche peggio (si dovrebbe parlare
di "psicosintesi", piuttosto che di "psicoanalisi"). Dovendo comunque
scegliere una parola tra quelle che il linguaggio ci offre, preferisco
ancora Cura (o Terapia), ma con la maiuscola, quella Cura che è
più che cura genitoriale e medica (pur necessarie anch'esse)
perché include quel senso più profondo e radicale che
è il "salto nel vuoto", quell'affidamento alla matrice prima
di ogni cura che forse anche Freud aveva in mente, quando ricordava
il celebre e regolarmente frainteso motto del chirurgo "Je le
pansai,
Dieu le guérit". Ogni Terapeuta cura il suo paziente (il
le panse) in scienza e coscienza, ma sa che la Guarigione può
venire solo dall'attivazione di quella sorgente inconscia che le persone
semplici e i teologi chiamano "Dieu", ma che, come i mistici
sanno bene (è l'unica cosa che sanno), è senza nome, senza
forma, senza luogo, senza identità. Tutt'al più si può
dire che è "O", Zero.
Caro Diego, io sono in sintonia con te e Sergio Benvenuto, i mistici
della compagnia, su questi temi, ma con Paolo Migone, Gianni Liotti
e Giorgio Alberti sull'esigenza di rigore scientifico. Spero che Salvatore
Freni (scienziato mistico come me) mi dia una mano a gettare un ponte
tra le due sponde, e che Fausto Petrella (che mi ha annunciato un imminente
rientro) e Mario Rossi Monti offrano la loro linfa al dibattito. Tullio
Tullio Carere, 2 Dicembre 2001:
Cari amici e colleghi, il dibattito su questa minilista si è
fermato da qualche tempo, ma è proseguito per altri canali con
alcuni di voi. Ho cercato di ricordare spesso che la questione cruciale
che dovremo affrontare in questo primo convegno sarà la possibilità
- o non possibilità - di comunicazione tra terapeuti aderenti
a paradigmi diversi. Su quale base si ritiene che questa comunicazione
sia possibile, o con quali argomenti si afferma che non è possibile?
Sembrerebbe ovvio che il tema sia questo, ma mi rendo conto che non
è così. Ad esempio una risposta che mi è stata
data è stata: "io parlerò del tema che ho annunciato,
vedrete voi se è pertinente al tema del convegno". Ho cercato
di spiegare che non esiste un "voi" così immaginato, ci siamo
solo "noi", terapeuti e analisti delle più diverse estrazioni,
che si incontrano e provano a dialogare, cercando per questo dialogo
un terreno comune (di esperienze, concetti, linguaggio) che non cancelli
ma ospiti le differenze.
Credo che un minimo di terreno comune e di dialogo costruttivo alla
fine si troverà solo se ciascuno di noi, oltre ad affermare come
è giusto e logico la specificità del proprio discorso,
si sforzerà anche di individuare e coltivare ciò che unisce,
oltre a ciò che differenzia. Vorrei invitarvi a una ripresa del
dibattito precongressuale in questa sede su questo punto. Possiamo cominciare
sin d'ora a esplorare e coltivare questo terreno comune, cercando di
non arrivare al convegno solo per constatarne la mancanza? Tullio Carere
Giovanni Liotti, 7 Dicembre 2001:
Cari amici e colleghi, in risposta alla sollecitazione di Tullio Carere
ribadisco la mia idea iniziale: un "terreno comune" sarà offerto
al vasto campo della psicoterapia dalla ricerca scientifica riguardante
il processo psicoterapeutico, gli esiti delle psicoterapie (efficienza
oltre che efficacia), le neuroscienze che si occupano di emozioni e
coscienza, la psicologia che studia attaccamento, regolazione delle
emozioni, processi metacognitivi, memoria ecc. In realtà, è
sbagliato porre l'affermazione precedente al futuro: tutto ciò
sta già dimostrabilmente fornendo un "terreno comune". Tale terreno
sarà/è costituito da idee, ipotesi, teorie cliniche e
procedure terapeutiche che MOMENTANEAMENTE reggono meglio al vaglio
della ricerca rispetto ad altre. Lo stesso vaglio sarà stimolo
per la messa a punto di idee, ipotesi, teorie e procedure MIGLIORI,
e così via. Già oggi mi sembra che curiamo MEGLIO diverse
categorie di pazienti (agorafobia, disturbi ossessivi, disturbi del
comportamento alimentare, disturbi borderline) rispetto ad un non lontano
passato.
Naturalmente sono possibili tanto proposte di altri "terreni comuni"
(attendo di sentirne parlare da qualcuno di voi al Congresso di Marzo),
quanto la negazione della possibilità-desiderabilità di
essi. E naturalmente sono consapevole dell'assoluta ingenuità
della mia proposta, rispetto ad alcune sofisticate epistemologie
post-moderniste.
Al congresso, mi propongo di spezzare qualche lancia a favore dell'ingenuità
del pensiero "moderno" rispetto alla complessità di quello
"post-moderno".
Giovanni Liotti
Paolo Migone, 7 Dicembre 2001:
Pensando che possa essere di interesse per questa minilista del convegno
SEPI-Italia, faccio circolare una mail che ho mandato giorni fa nella
lista "Psicoterapia" di Psychomedia (PM-PT), sul pensiero di Fred Pine,
che con la sua idea delle "quattro psicologie" mi sembra che in qualche
modo riguardi anche la questione della cosiddetta "integrazione". Alla
fine aggiungo anche una risposta di Tullio (che mi sembra molto pertinente
perché sottolinea che in realtà Pine non è interessato
solo a un livello clinico, ma anche ad un livello teorico - infatti
non avrebbe senso parlare solo di clinica, come se, almeno secondo me,
non ci si rendesse conto che la clinica senza la teoria non esiste).
Aggiungo anche l'intervento di un altro collega (Pietro Spagnulo) e
una mia risposta a lui e a un'altra collega (Licia Filingeri, che fu
quella che aprì il dibattito). Alla fine aggiungo una bibliografia
rilevante, che copio dal mio computer. Paolo Migone
------------
Date: Mon, 3 Dec 2001
From: Paolo Migone <migone@unipr.it>
Subject: Re: [PM-PT] Come usiamo le (quattro) psicologie?
Voglio anch'io fare un commento sulla proposta di Fred Pine. A me
sembra che
possa essere intesa in due modi diversi. Il primo riguarda la sua scelta
delle "quattro psicologie" (quali sono, come si integrano l'una con
l'altra,
perché ha scelto quelle quattro e non altre, perché 4
non 5 o 6 o 15 ecc.).
Il secondo prescinde da questi contenuti e riguarda un discorso più
ampio,
di metodo, cioè la questione più generale che vi sono
modi diversi di vedere
le cose, varie teorie, diverse scuole di psicoterapia, in ultima analisi
come si può porre il problema della integrazione in senso lato
(qui Pine
avrebbe potuto scegliere 2 psicologie o 15, il problema non cambierebbe).
A
me sembra che il primo modo sia più banale, meno interessante
(le teorie
cambiano sempre, a seconda dei periodi storici e delle aree geografiche,
per
cui tanto vale non perderci tempo), mentre questo secondo modo con cui
Pine
ci fa riflettere sia più interessante (le riflessioni che faccio
sono basate
anche sulla recente lettura dell'ultimo articolo di Pine, uscito sull'Int.
Journal of Psychoanalysis, 5/2001, intitolato "Ascoltare e parlare
psicoanaliticamente - ma con in mente che cosa?", tratto dalla sua "Heinz
Hartmann
Honorary Lecture" tenuta al New York Psychoanalytic Institute
il 28 novembre 2000).
Pine dice che tutte queste psicologie, queste teorie, sono state inventate
da qualcuno perché in un qualche modo gli servivano, sembrava
che lo
aiutassero a capire meglio il paziente. Quindi possono avere una certa
utilità, tutte, nella misura in cui sono servite a chi le ha
inventate, a
seconda del paziente che aveva di fronte, del suo sviluppo o maturazione,
della sua età, del suo sesso, della sua diagnosi, del problema
specifico che
presentava, ecc. A volte ci tornano in mente, ci sembra che "funzionino",
e
allora le usiamo, almeno ci proviamo, e anche a noi sembra che funzionino
queste belle metafore che vari autori ci propongono per capire e aiutare
i
nostri pazienti. Hanno quindi un valore d'uso. Pine non è affatto
interessato alla questione della integrazione teorica dei vari modelli,
perché sa che questo è un discorso ben pi complicato e
ambizioso; gli
basta, per portare avanti il suo discorso, una approssimativa integrazione
clinica, una sorta di eclettismo, se volgiamo chiamarlo così.
Ma perché Pine
insiste su questo? Dove vuole arrivare? Cosa vuole dirci? Io avevo sempre
capito poco il discorso di Pine, anche perché non lo avevo letto
approfonditamente, e avevo sempre provato una certa antipatia per le
sue
idee, antipatia che non avevo mai espresso pubblicamente perché
appunto lo
conoscevo poco. Ma ora, dopo la lettura di questo suo ultimo articolo,
la
mia antipatia si è trasformata in una certa simpatia, e voglio
spiegarvi
perché, anche per confortarmi con voi.
Pine rifugge dalle "grandi teorie" che possano spiegare tutto. C'è
un suo
esempio che può essere illustrativo, e riguarda i tentativi di
spiegazione
dell'Olocausto nazista. Come sappiamo, l'Olocausto rimane un po' un
mistero,
e tanti storici hanno provato a spiegarlo, chi in un modo, chi nell'altro,
ma tutti miravano a trovare la "vera" spiegazione di come mai sia potuta
accadere una cosa del genere (motivi sociali, economici, psicologici,
ecc.).
Una autrice (I. Clendinnen, Reading the Holocaust, Cambridge
Univ. Press,
1999) ha scritto un libro sull'Olocausto rinunciando fin dall'inizio
alla
pretesa di spiegarlo definitivamente, convinta che le "grandi teorie"
possano ingannare, avere uno scopo difensivo divergendoci da altre possibili
spiegazioni, e invece ha raccolto una serie di micro-spiegazioni basandosi
sui dati obiettivi, cioè interrogando i documenti disponibili
(diari,
discorsi, interviste, autobiografie, ecc.) e specifici gruppi di persone
coinvolte (carnefici, vittime, membri della polizia, gerarchi vicini
a
Hitler, soldati impegnati nel lavoro di bassa manovalanza nello sterminio,
SS, ecc.), per capire quali erano le precise ragioni di ciascuno. In
questo
modo, cerca di ricostruire piccoli pezzi di significato, nel tentativo
di
rintracciare diverse strade che possono aver portato al risultato finale.
Questo esempio così lontano secondo Pine può essere collegato
a quello che
ci interessa, il lavoro analitico.
In un passaggio successivo, Pine ci dice che di fatto l'analista lavora
già
su più livelli, soprattutto perché ci avviene senza che
lui se ne accorga.
Ad esempio lui segue un certo modello tecnico, ma il paziente lo percepisce
in un altro modo. In genere, il modo con cui gli analisti riescono a
far
passare un viraggio di modello, pur mantenendo l'apparenza di essere
legati
a uno solo, è nascosto nella universalmente riconosciuta importanza
di tre
fattori: il tatto, il timing, e il tono di voce. Con questi tre
trucchetti,
come un vero e proprio prestigiatore, l'analista riesce a virare di
modello
tecnico senza che nessuno se ne accorga a livello conscio, né
lui, né il
paziente, né la comunità dei colleghi. Il più rigido
freudiano ortodosso,
che lavora sempre e solo sulla interpretazione neutrale del conflitto
a
livello della costellazione impulso-difesa - sembra che dica Pine -
con un
semplice trucco, con un gioco di prestigio, di soppiatto diventa un
convinto
kohutiano.
Non solo, ma - ci dice Pine - tante volte ci è sembrato di aver
detto "la
cosa giusta" a un certo paziente, di aver fatto "proprio quello che
andava
fatto" e di essere molto soddisfatti di noi. Ma anni dopo, ripensando
a
quella situazione clinica o rileggendo le nostre note su quel caso,
alla
luce di nuovi modelli teorici che nel frattempo abbiamo appreso ci
accorgiamo che quella "cosa giusta" era avvenuta solo grazie a qualcosa
di
completamente diverso da quello che avevamo creduto, cioè "malgrado
noi",
per così dire, cioè le cose potevano essere molto meglio
spiegate con una
teoria che a quei tempi noi non conoscevamo. La realtà, insomma,
è per sua
natura sempre molto più complessa di quanto noi crediamo di capirla.
Qui
Pine anche cita vari esempi per dimostrare come certi analisti senza
saperlo
implicitamente includevano nella loro teoria già cose che molti
anni dopo
avrebbero più compiutamente teorizzato altri autori che fonderanno
scuole di
pensiero opposte (cita ad esempio la questione del transfert in Greenson
e
poi in Gill).
Inoltre, tante cose accadono che noi non conosciamo nel regno del non
verbale e dell'hic et nunc, cioè esistono molteplici codici
cognitivi,
canali di comunicazione, e noi ne siamo coscienti solo di uno alla volta,
e
magari le cose pi importanti accadono in livelli che noi al memento
non
consideriamo affatto. Ed ecco quindi che qui Pine collega questo discorso
alle quattro psicologie, cioè alla importanza per l'analista
di tenerle in
considerazione tutte, senza sposarne una sola. Più precisamente,
Pine si
serve di questo discorso per fornire un ampliamento teorico del concetto
di
"attenzione liberamente fluttuante" dell'analista nell'ascolto del paziente,
nel senso che se è pur vero che la importanza della "evenly
suspended
attention" o "evenly hoovering attention" (complementare
alla regola aurea,
quella delle "associazioni libere" del paziente) è ben sottolineata
da
tutti, non viene in genere teorizzata in questo modo come fa Pine. La
attenzione liberamente fluttuante dell'analista cioè dovrebbe
riguardare
anche le teorie che si hanno in mente. E quale è la concettualizzazione
più
generale che a questo riguardo si può fare per spiegare come
mai vi sono
diverse teorie, diversi modi di ascoltare il paziente? E' molto facile
qui
rispondere: la variabile fondamentale è costituita dalle caratteristiche
del
paziente, quelle che citavo prima (sviluppo o maturazione, età,
sesso,
diagnosi, problema specifico che presenta, ecc.): sono quelle che nel
linguaggio della ricerca in psicoterapia vengono definite "patient
variables", le variabili del paziente, che rendono conto della maggior
parte
della varianza (a parità di "therapist variables", naturalmente,
anch'esse
molto importanti).
E' questo quello che ho capito di Fred Pine. Quello che mi piace è
la sua
modestia verso la complessità della realtà, per sua natura
inconoscibile, ma
avvicinabile solo attraverso i vari (tanti) occhiali delle nostre teorie
a
disposizione, e adottare solo una "grand theory" può appiattire
troppo i
dati e può non farci vedere qualcosa. Naturalmente rimane aperta
la
questione di come possono essere integrate teorie tra loro contraddittorie.
Per ora mi fermo qui, anche per non essere troppo lungo e quindi illeggibile
in una discussion list. Paolo Migone
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Date: Mon, 3 Dec 2001
From: Pietro Spagnulo <pietrospagnulo@ECOMIND.IT>
Subject: Re: [PM-PT] Come usiamo le (quattro) psicologie?
Sono proprio contento di aver letto l'intervento di Paolo Migone!
Finalmente una lettura aperta e stimolante di un contributo teorico
specifico, come può essere quello di Pine.
Finalmente ho sentito una vibrazione speculativa, un lasciarsi andare
a
dubbi (ed aperture), un riconoscere che vi sono più livelli di
lettura di
una teoria: di cui almeno uno interno ad esso (la sua coerenza, la sua
comprensibilità, i suoi collegamenti con la comunità che
la accoglie), ma
anche uno esterno, che si rivolge alla intera comunità scientifica,
e non ad
un sottogruppo (sia detto senza offesa!) culturale.
Migone (ciao Paolo, ci siamo conosciuti al congresso di Psichiatria
di
Torino, allo stand di Ecomind, ti ricordi?) mi offre l'occasione
di accedere
ad un livello più generale del dibattito, che chiamerei epistemologico.
Ma, ed è qui il punto, inizio subito col dire che questo livello
NON
appartiene in modo esclusivo alla psicoanalisi.
E qui mi discosto subito dal contributo di Paolo Migone, ma anche da
quello
degli altri colleghi fin qui intervenuti.
La mia formazione originariamente psicoanalitica (analisi personale
con un
membro della SPI, supervisione con altro membro della SPI, ecc. ecc.)
ha
subìto negli ultimi anni una progressiva trasformazione. Ho "dovuto"
riconoscere, che se si prova a ragionare in modo aperto, non solo non
si può
lavorare con un solo modello in testa, ma, soprattutto, non si può
più
"appartenere" ad una sola sottocomunità, sia pure così
articolata e
complessa come quella psicoanalitica.
La mia posizione attuale (mi definisco genericamente psicoterapeuta)
unita
alle mie origini (psicoanalitiche) mi rendono piuttosto sensibile a
percepire un automatismo così radicato tra gli psicoanalisti
da apparire
troppo scontato. Se si discute di psicologie e di modelli della mente,
la psicoanalisi non è
il punto di partenza!
Troppe cose sono accadute in questi anni: lo studio della comunicazione
non
verbale, gli studi sull'intelligenza artificiale e sulla memoria, la
psicolonguistica, gli studi delle scienze cognitive e quelli sulla
metacognizione, teorie sulla complessità, gli avanzamenti dell'ipnosi,
gli
indubbi successi di interventi psicoterapeutici brevi ed efficaci orientati
al famigerato sintomo, solo per citarne alcune, per accontentarsi di
voler a
tutti i costi incastrare una riflessione di ampio respiro in un modello
che,
pur nelle sue infinite varianti, rimane legato ad alcuni presupposti
ormai centenari.
Cito qui, solo forse per provocare, ma spero di essere chiamato in
ballo per
approfondire il discorso (della serie: se non vi interessa taccio!),
i
seguenti residui archeologici:
1. Concezione difensiva della psicopatologia;
2. Inconscio come categoria mentale confusa che implica sia una modalità
di
pensiero (processo primario), ma anche un luogo (quasi cerebrale), il
luogo delle verità nascoste;
3. La paradossale (per una psicologia del profondo) supremazia della
consapevolezza nel processo di cambiamento;
4. La supremazia della parola.
- A questi preconcetti diffusi nella comunità psicoanalitica
contrappongo:
- 1. Un'idea della psicopatologia intesa come una serie di "soluzioni"
(inadeguate, ma non difensive);
2. Un inconscio come processo per definizione inaccessibile, e non come
categoria mentale sede di verità;
3. Il ruolo fondamentale dei processi creativi inconsci nei percorsi
di cambiamento;
4. L'importanza del corpo, dei canali percettivi e della comunicazione
non verbale.
Riguardo poi all'intervento specifico di Paolo Migone, condivido la
necessità di rinunciare alle "grand theories", ma propongo
il concetto di
"teoria personale del terapeuta" che è il tentativo individuale
che ognuno
di noi compie per muoversi in un terreno così poco sicuro come
quello della psicoterapia.
In altri termini, ritengo che ogni terapeuta costruisca una sua "grand
theory" privata, un suo modello della mente (assolutamente originale
e
distinto dai suoi modelli di riferimento), una sorta di mappa personale,
che
modifica ed aggiorna quasi quotidianamente e che è il vero terreno
di
confronto di ciascuno di noi con i pazienti e con i dibattiti scientifici.
Se possiamo rinunciare alle Teorie generali assolute, non possiamo non
tenere conto dei modelli personali con i quali lavoriamo e che, per
quanto
individuali, possono manifestare tratti comuni che decidono della reciproca
accettazione, comprensione, assimilazione del lavoro degli altri. Saluti
a tutti, Pietro Spagnulo
------------
Date: Mon, 3 Dec 2001
From: Paolo Migone <migone@unipr.it>
Subject: Re: [PM-PT] Come usiamo le (quattro) psicologie?
At 10.45 03/12/2001 +0100, Pietro Spagnulo wrote:
>Ma, ed è qui il punto, inizio subito col dire che questo
livello NON
>appartiene in modo esclusivo alla psicoanalisi.
>E qui mi discosto subito dal contributo di Paolo Migone, ma anche da
quello
>degli altri colleghi fin qui intervenuti.
Il tuo contributo mi trova sostanzialmente d'accordo. Volevo
per dire che
il discorso che facevo io era rivolto, e ovviamente a maggior ragione,
alla
psicoterapia in toto, con le sue mille teorie. Ti faccio un esempio:
modelli
clinici comportamentistici, basati sulla teoria dell'apprendimento,
possono
benissimo stare nell'armadio mentale del terapeuta mentre cerca di capire
il
paziente. Penso che anche Pine, seppure faccia un discorso interno alla
psicoanalisi (cioè le sue quattro psicologie sono quattro teorie
psicoanalitiche) sarebbe d'accordo.
At 16.56 03/12/2001 -0800, Licia Filingeri wrote:
>l'articolo di Pine... spazza via ogni dubbio
>(per chi ne avesse avuti), quale quello espresso piuttosto pesantemente
e,
>mi pare, e con fraintendimento del pensiero di Pine, da Gedo.
>Gedo (http://www.argonauti.it/dialogo/gedo.html)
scrive, parlando degli
>"sforzi ecumenici di integrazione": "Più recentemente anche
Pine (1990)
>diventato un ecumenista: egli propugna l'uso simultaneo di quattro
punti di
>vista teorici ma dimentica di specificare le regole attraverso le quali
>dovrebbe avvenire il passaggio dall'uso di un punto di vista
>all'altro: secondo me ci non corrisponde a una vera integrazione,
>piuttosto un'accozzaglia di elementi (per non dire un pasticcio)".
Forse Gedo (che non fu il solo nel coro degli autori che criticarono
Pine)
non ha frainteso Pine, nel senso che Pine fa un discorso clinico, non
tocca
la più complessa (e sicuramente molto interessante) questione
dell'integrazione teorica, di un modello generale della psicoterapia.
Come
sappiamo, Gedo stato uno degli autori più importanti in questo
senso,
quando nel 1972 con Goldberg, e ancor meglio nel 1979 con Al di là
dell'interpretazione (Roma: Astrolabio, 1986), propose il suo modello
gerarchico basato su cinque livelli di funzionamento psichico correlati
a cinque tipi diversi di interventi tecnici. Paolo Migone
------------
Date: Wed, 5 Dec 2001
From: Tullio Carere <tucarere@tin.it>
Subject: Re: [PM-PT] Come usiamo le (quattro) psicologie?
At 9:21 +0100 3-12-01, Paolo Migone wrote:
>Pine non è affatto interessato alla questione della integrazione
teorica dei vari modelli,
>perché sa che questo un discorso ben più complicato e
ambizioso; gli
>basta, per portare avanti il suo discorso, una approssimativa integrazione
>clinica, una sorta di eclettismo, se vogliamo chiamarlo così.
Caro Paolo, non mi sembra giusto dire che Pine non sia interessato
alla questione della
integrazione teorica dei vari modelli. Considera che cosa scrive (Pine,
2001, p. 908): "In prior writings (1990, 1998) I have given some
arguments
for viewing our various psychoanalytic models of mind as part theories
that
can find a place in a larger, more complete theory of mind. This can
be
achieved without falling into an internally contradictory eclectic muddle
if one focuses on the clinical level theories and observations that
are,
after all, the base of the various conceptual models and if,
simultaneously, one separates one's thinking from the metapsychological
structures built on top of those clinical formulations...This latter
(integration) is undertaken at the level of the developing child and
of the
clinical process".
In sostanza, secondo Pine i vari modelli psicoanalitici possono essere
visti come parti di una teoria generale della mente. A questa teoria
generale, che non un semplice affastellamento internamente
contraddittorio di teorie e tecniche, si può arrivare concentrandosi
sul
livello clinico delle teorie, e rinunciando alle sovrastrutture
metapsicologiche. A una vera integrazione si arriva seguendo il filo
dello
sviluppo psicologico del bambino e del processo clinico. In altre parole,
l'integrazione terapeutica è un'organizzazione delle varie teorie
e
tecniche in funzione delle fasi dello sviluppo: ad esempio la psicologia
del sé offre dei modelli di lettura e delle tecniche di intervento
corrispondenti a una fase molto precoce dello sviluppo.
Ordinerò i suoi scritti precedenti, in particolare il testo del '98,
per
saperne di più. Nell'articolo che stiamo commentando, peraltro,
non c'è
traccia di questa teoria generale. Sembra piuttosto che Pine si muova
in
modo genericamente eclettico. Se stiamo a questo scritto, la tua
osservazione citata sopra è giusta. Tullio Carere
------------
Bibliografia
Gedo J.E. & Goldberg A. (1973). Models of the Mind.
Chicago: University of Chicago Press (trad. it.: Modelli della mente.
Roma: Astrolabio, 1975).
Gedo J.E. (1979). A psychoanalyst's report at
mid-career.
Amer. J. Psychiatry, 136: 646-649.
Gedo J.E. (1979). Beyond Interpretation. New
York: International Universities Press (trad. it.: Al di là
dell'interpretazione. Roma: Astrolabio, 1986); revised ed.:
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Gedo J.E. (1986). La mia posizione nei confronti della
tecnica psicoanalitica. Psicoterapia e scienze umane, XX, 3:
269-272.
Gedo J.E. (1987). L'arte della psicoanalisi come una
tecnologia dell'istruzione. Psicoterapia e scienze umane, XXI,
2: 25-39.
Grand C. & Hill D., issue editors (1994). The clinical
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(Pine: pp. 152-234 [D. Hill, C. Hanly, D.M. Kaplan, A. Modell, F. Pine];
Gedo: 235-312 [T.C. Rodgers, A.D. Druck, G. Moraitis, E. Shane & M.
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Migone P. (1985). Monografia: John E. Gedo. Psicoterapia
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e processo clinico. Torino: Bollati Boringhieri, 1995).
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and their place in clinical work. J. Am. Psychoanal. Ass., 36,
3: 571-596 (trad. it.: Le quattro psicologie della psicoanalisi e la
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45: 95-114. Anche in: Psicoanalisi, 1999, vol. 3, n. 1).
Pine F. (1989). Motivation, personality organization,
and the four psichologies of psychoanalysis. J. Am. Psychoanal. Ass.,
37: 31-64.
Pine F. (1990). Drive, Ego, Object, and Self. New York:
Basic Books (trad. it. in preparazione presso Bollati Boringhieri?).
Pine F. (2001). Listening and speaking psychoanalytically
- with what in mind? Int. J. Psychoanal., 82, 5: 901-916.
Silver D., issue editor (1981). Commentaries on John
Gedo's "Beyond Interpretation" (contributi di Appelbaum,
Dewald, Gill, Meissner, Rangell, Segal & Britton, Gunther, Gedo). Psychoanalytic
Inquiry, 2. New York: International Universities Press.
Wilson A. & Gedo J.E., editors (1993). Hierarchical
Concepts in Psychoanalysis. New York: Guilford.
------------
Tullio Carere, 8 Dicembre 2001:
Caro Gianni, Fred Pine conclude con queste parole un articolo pubblicato
sull'ultimo numero dell'IJPA (citato anche da Paolo): "Nella situazione
clinica dipendiamo fortemente dal talento individuale e dalla combinazione
paziente-analista, e l'intero processo è essenzialmente un'impresa
creativa". Pine aggiunge che "la creatività del tipo migliore
nasce dalla conoscenza", ma la conoscenza cui si riferisce è
quella dei modelli psicoanalitici, e non ha nulla a che vedere con la
ricerca scientifica, in nessuno dei campi da te elencati.
Se il "terreno comune" è quello che tu indichi, evidentemente
Pine (e con lui la quasi totalità degli psicoanalisti) ne è
fuori. Curioso il ribaltamento cui stiamo assistendo. In un tempo non
molto lontano, in cui l'egemonia della psicoanalisi era fuori discussione,
bastava alzare un sopracciglio e dire "questa non la chiamerei analisi",
per bollare il destinatario di tale riprovazione come "psicoterapeuta",
cioè come un operatore di serie B, categoria non ben distinta
da quella contigua di "psicoterapeuta selvaggio" (serie C). Oggi, con
tanti psicoterapeuti in circolazione fieri di dirsi tali, che rifiutano
la qualifica di "psicoanalista" (pur avendo ricevuto una formazione
analitica) perché la considerano troppo angusta o démodé,
quella frase ha perso tutto o quasi il suo potere intimidatorio. Se
si vuole mettere qualcuno al suo posto, oggi è meglio dire "questa
non la chiamerei scienza". Funziona certamente di più, per il
momento. Ma non è detto che la riscossa postmoderna non ribalti
un'altra volta l'equilibrio di forze. Nella storia dell'Occidente mi
sembra che le fasi "classiche" e quelle "romantiche" si succedano in
continuazione. Non credo che una delle due riuscirà mai a prendere
definitivamente il sopravvento. Per quanto mi riguarda, io spero solo
che i fautori dei due campi ne prendano atto, smettano di cercare di
intimidirsi a vicenda, e passino al livello superiore, dal quale le
coppie classico/romantico o moderno/postmoderno appaiono non più
come dicotomie, ma come opposizioni dialettiche in cui ciascun termine
non esiste se non appoggiandosi al suo opposto.
Da questo punto di vista l'espressione "terreno comune" non significa
il "recinto della verità", che delimita quelli che stanno dentro
da quelli che stanno fuori - basta cambiare il criterio di recinzione
per buttar fuori quelli che erano dentro e installare dentro quelli
che erano fuori. Terreno comune significa proprio ciò che accomuna
quelli che stanno dentro e quelli che stanno fuori, quale che sia il
criterio preferito di recinzione. Per esempio Pine osserva che ogni
terapeuta, quale che sia la sua teoria, fa molte cose che la sua teoria
non prevede, senza saperlo o senza dirlo, e aggiunge che questo (un
"fattore comune" a tutti i terapeuti) non è affatto un male,
una cosa da correggere in nome dell'aderenza adamantina alla teoria
o al manuale. Al contrario, non dobbiamo plasmare il paziente per uniformarlo
ai dettami della nostra teoria (solo i terapeuti principianti lo fanno),
ma piuttosto plasmare la nostra teoria per renderla più rispondente
ai bisogni del paziente. Ecco, questa basilare dialettica tra attività
governata dalla teoria e attività governata dal processo una
prima caratteristica generale del "terreno comune". Né i moderni
né i postmoderni possono rivendicarne la proprietà, trattandosi
per l'appunto di un movimento dialettico tra opposti.
Un terapeuta che lavora in modo "manualizzato" per curare un certo
disturbo, perché la ricerca ha dimostrato che quel tipo di approccio
funziona meglio di altri per quel disturbo, non sta su un "terreno comune"
ai terapeuti: sta se mai su un terreno comune ai terapeuti principianti,
a quelli che commettono "abuso teoretico", perché curano il disturbo
invece della persona. Un terapeuta esperto e rispettoso della persona
del paziente e dello sviluppo del processo non segue mai un manuale:
piuttosto tiene conto dei dati della ricerca per arricchire il suo bagaglio
di strumenti teorici e tecnici da utilizzare in modo flessibile, un
modo che lascia sempre molto spazio all'intuizione e alla spontaneità.
Non ho il minimo dubbio, Gianni, che questo sia il tuo modo di lavorare.
Penso che nei fatti il tuo modo di lavorare sia molto simile a quello
di Pine (sarebbe probabilmente difficile distinguere la trascrizione
di una tua seduta da quella di una di Pine). Non per questo vorrei negare
le differenze, che pure esistono e sono importanti. Voglio dire solo
che se cerchiamo un terreno comune, come non possiamo non fare se realmente
ci interessa il dialogo, possiamo trovarlo solo se osserviamo quello
che effettivamente facciamo, e non quello che le nostre teorie dicono
che dovremmo fare: le nostre pratiche ci avvicinano mentre le nostre
teorie ci allontano. Sia la vicinanza che la lontananza sono preziose,
se non si cerca l'una a scapito dell'altra, ma ancora una volta si privilegia
una prospettiva dialogico-dialettica. Tullio
Giovanni Liotti, 12 dicembre 2001:
Caro Tullio, in fretta per la mia cronica mancanza di tempo, e ringraziandoti
a mia volta: 1. Il "terreno comune" che va delineandosi è forse
un terreno di scontro, forse un terreno di dialogo, fra due posizioni,
che per comodità abbiamo chiamato "moderna" (o "scientifica")
e "post-moderna" (o "ermeneutica"), più che fra Scuole classiche
come quelle psicoanalitiche, quella cognitivo-comportamentale, quella
familiare-sistemica, quella umanistico-esistenziale, l'analisi
transazionale, etc. Già questa "riduzione a due" delle molteplici posizioni
la cui complessità le rende non solo non "integrabili", ma persino
ovviamente non confrontabili, mi sembra un notevole risultato.
2. Personalmente penso che prima di arrivare al dialogo sia utile lo
"scontro": se civile, la polemica, rispetto al buonismo, permette di
chiarire meglio le proprie posizioni.
3. Non si tratta di includere od escludere qualcuno (Pine o chiunque
altro), ma, ripeto, di prendere o no atto di un processo già
in corso. Pu darsi che sia destinato al fallimento, ma comunque in corso.
Un solo esempio: di teoria dell'attaccamento parlano e fanno uso un
numero crescente di psicoterapeuti, psiconalisti, cognitivisti e ultimamente
anche familiari (dall'ultima Selvini a Byng-Hall, Sloman, Loriedo,
Onnis, Viaro, etc.). Se la teoria una, ci avrà o no un effetto unificante
nel lavoro di psicoterapeuti di formazione e tradizione tanto diversa?.
Altro esempio: la control-mastery theory ed i suoi seminari annuali
a San Francisco che accolgono, di nuovo, psicoanalisti, cognitivisti
(persino comportamentisiti come il mio amico svizzero Franz Caspar)
e terapeuti familiari. Altro esempio: gli psicoterapeuti di ogni provenienza
che tentano di usare il lavoro di Damasio, o quello di Edelman.
4. Pine, o chiunque altro, non dentro n fuori questo processo (che a
me sembra di spontanea efficace integrazione): può aderirvi,
portare avanti un altro tipo di processo di integrazione (a mio avviso
destinato al fallimento), o dichiarare che l'integrazione gli sembra
impossibile, poco interessante, etc. In altre parole: non penso che
dobbiamo ragionare in termini di inclusione-esclusione come sempre stato
fatto in psicoterapia ("tu non sei pi uno psicoanalista!" si sentiva
dire sempre Bowlby, che pervicacemente continuò a dichiararsi tale per
vent'anni nella più assoluta solitudine ed ostracismo da parte
della Brish Psychoanalytic Association). Penso che dobbiamo prendere
atto del potere integrativo del processo scientifico classico, magari
per aborrirlo, e ragionare se il pensiero post-moderno abbia o no uguale
potere integrativo (o viceversa, se sia per definizione disintegrativo
= "agisci sempre in modo da moltiplicare le tue teorie, e tieni presente
che ogni teoria va bene purché sia sufficientemente debole",
come a volte mi sembra sia il suo motto). Se lo ha, allora forse l'integrazione
fra psicoterapie si svolgerà all'interno di un dibattito fra
pensiero moderno e post-moderno. Se invece il pensiero post-moderno
per definizione disintegrativo, allora la dialettica fra scientificità
ed ermeneutica non riguarderà il processo dell'integrazione fra
psicoterapie.
6. Il problema del bravo medico si pone come quello del bravo psicoterapeuta:
la medicina è per questo più un'arte che una scienza?
Forse l'integrità personale importante per fare un bravo medico,
un bravo psicoterapeuta, e persino un bravo fisico o biologo, ma ci
non diminuisce l'importanza di sottoporre le proprie idee mediche, psicoterapeutiche,
biologiche etc. al vaglio della prova. In psicoterapia, oltre a coltivare
l'integrità personale (che non un compito scientifico), possiamo
(e io credo dobbiamo) sottoporre al vaglio scientifico la tesi che l'integrità
personale migliori l'efficacia della psicoterapia.
7. La tua idea, che avviciniamo la realtà (il paziente) con teorie
e dobbiamo aprirci alla risposta modificatrice della realtà sulle
nostre teorie, a mio avviso un ottimo modo (Popperiano, persino) di
definire il metodo scientifico "moderno". Se si tratta di un'idea dialettica
(certo che si tratta di ciò, naturalmente) allora a me sembra
che si tratti di dialettica scientifica ("moderna") e non post-moderna.
Gianni Liotti
Sergio Benvenuto, 12 Dicembre 2001:
Premetto che non ho ancora letto l'articolo di Pine sulle "quattro
psicologie", cosa che farò quanto prima. Trovo comunque brillante
l'iniziativa di Migone di proporlo alla nostra attenzione, perché
mi pare una posizione francamente DIS-INTEGRAZIONISTA. (Da quello che
ci dice Carere, anche Pine ha cercato l'integrazione, ma poi ha gettato
gioiosamente la spugna.) Ammetto che Migone ha fatto molto meglio della
mia prolissa lettera di alcuni mesi fa, in cui cercavo di mettere in
risalto l'ambiguità del concetto di "integrazione": mettendo
in gioco Pine, ha agito con una sottile eleganza che surclassa la mia
rozza irruzione.
Comunque la posizione di Pine - se l'ho bene intesa - mi pare esprimere
adeguatamente una tendenza ormai prevalente nel mondo intero: quella
che chiamerei la "personalizzazione radicale" della psicoterapia e della
psicoanalisi. [Non voglio entrare nella noiosa diatriba sui rapporti
e distinzioni tra psicoanalisi e psicoterapia: userò il termine
shrink per tagliare la testa al toro.] Amici di più paesi mi
dicono che ormai almeno la metà degli shrinks non appartiene
a nessuna scuola definita. I percorsi di formazione sono sempre più
personali, i "piani di studio" (curricula) sono sempre più
individuali. Accade sempre più spesso che un analista abbia fatto
più di un'analisi con analisti di scuole diverse, e si rifaccia
a teorie di scuole diverse. Questa personalizzazione del percorso formativo
si riflette in modo complementare nella crescente "personalizzazione"
del paziente stesso: al limite, si distingue il paziente "bioniano"
da quello "kohutiano", il paziente '"ego-psychologico" dal
"lacaniano"
(o aspetti nioniani, kohutiani, lacaniani ecc. ecc. in uno stesso soggetto).
Non deploro nè esalto questa tendenza ormai dilagante: è un dato storico.
Di fatto, integrazione e disintegrazione sono due facce di uno stesso
processo. Da una parte psicoanalisi e psicoterapia si disintegrano,
direi in modo crescente, in tecniche e teorie diverse - dall'altra ogni
terapeuta o analista, seguendo percorsi spesso del tutto personali,
integra a modo proprio queste linee frantumate, cercando la propria
"melodia" personale. [Ma forse è quello che cerchiamo di fare tutti
noi nella nostra vita come insieme, necessariamente frammentata in vari
ruoli e "identità".]
Questo stato delle cose registra il fallimento della psicoanalisi -
perché questa mi interessa più delle altre psicoterapie
- come pretesa scienza? Verrebbe da rispondere di si, dato che la "scienza
normale" (come la chiama Kuhn) vede sempre, ad un certo punto, la prevalenza
di UN SOLO paradigma. Ma le cose sono anche più complesse.
Anche nella scienza-regina - la fisica - le tendenze all'integrazione
e alla disintegrazione si combinano in modi diversi. Si pensi alla competizione,
nella fisica della luce, tra teoria corpuscolare e teoria ondulatoria.
Per un paio di secoli sia la teoria che vedeva la luce come corpuscoli
che la teoria che la vedeva come onde ebbero importanti successi esplicativi.
Ad esempio, i fenomeni di interferenza della luce venivano spiegati
dalla teoria ondulatoria, mentre l'effetto fotoelettrico veniva spiegato
solo dalla teoria dei fotoni. All'inizio del Novecento, in pratica,
i fisici erano come Pine: in certi casi preferivano le spiegazioni corpuscolari,
in altri casi quelle ondulatorie. Erano "opportunisti", come raccomanda
Feyerabend (che forse è il filosofo ispiratore di Pine). Ma è
anche vero che questo opportunismo eclettico crea in alcuni spiriti
- i più rigorosi ed esigenti - un senso di malessere. Quando
allora, tra il 1923 e il 1926, de Broglie e Schroedinger trovarono una
sintesi attraverso la meccanica quantistica - secondo la quale la luce
èALLO STESSO TEMPO onde e corpuscoli (quindi, la natura della
luce va oltre la dicotomia onda/corpuscolo) - la cosa fu salutata come
la fine di una schizi. Nelle controversie scientifiche, quando due o
più paradigmi si confrontano, le risposte sono diversificate.
I più si schierano con un paradigma solo: o si è corpuscolari
contro gli ondulatori, o si è lacaniani contro i bioniani, e viceversa,
ecc. Altri invece si danno all'eclettismo opportunista: corpuscolari
il lunedì, ondulatori il martedì; kleiniani il mercoledì,
sullivaniani il giovedì, junghiani il venerdì, ecc. Uno
solo, il genio, trova la sintesi - e cambia la storia. Ma le sintesi
- che dissolvono la contraddizione tra teorie - sono rare nella storia
del sapere. E' però il sogno che sprona tutti i grandi ambiziosi:
più che "integrare", "trovare la sintesi" che vanifichi il dilemma
(la sintesi è qualcosa di molto più forte, più creativo,
dell'integrazione). O meglio: i semplici ambiziosi sognano di trovare
LA prova che faccia prevalere il proprio paradigma contro quelli rivali,
gli AMBIZIOSISSIMI o STRA-AMBIZIOSI sognano di superare il dilemma dei
paradigmi grazie ad una sintesi superiore. Forse nella SEPI alcuni ambiscono
ad essere i de Broglie della psicoterapia. Auguro loro buona fortuna!
La storia del sapere è sempre la storia oscillatoria di integrazioni
e disintegrazioni, di contrapposizioni e di sintesi, dii pluralizzazioni
e riunificazioni. That's history, man!
La rinuncia - che Migone caldeggia - alle "grand theories" mi
pare andare nel senso disintegrazionista. Per evitare malintesi: "grand"
in inglese non equivale a "great". "Grand" è qualcosa
come grandioso, imponente, pomposo. "To do the grand" significa
darsi un sacco di arie. Ma una "grand theory" non è necessariamente
una "great theory" (ad esempio, ho sempre pensato che il kleinismo
si desse un sacco di arie, ma che non fosse poi così great come
si pensa in Italia). Oggi molti dicono "rinunciamo alle grand theories!"
perché si rendono conto che queste theories non erano
poi così "great" come pretendevano di essere. Nell'uso
stesso della parola "grand" c'è una critica.
Confrontato al pluralismo babelico delle teorie, ogni shrink opta quindi
per una strategia individuale, commisurata alle sue ambizioni. Non mi
interessa criticare le singole strategie - possiamo solo dire che alcune
ci piacciono, altre meno. Ad esempio, non criticherei i colleghi che
restano per tutta la vita fedeli ad una "grand theory" e la portano
fino in fondo. Se sono bravi, c'è da imparare anche da loro.
Un pluralista come me non attacca mai gli "unicisti": se li attaccasse
non sarebbe davvero un pluralista. Può essere proficuo anche
il dogmatismo, che è parte della vita, della storia e del pensiero.
Sarebbe una mistificazione far credere che i bravi shrinks sono solo
gli eclettici, i pluralisti, gli aperti, i dis-integrati o
meta-integrati,
quelli che usano quattro o dieci, o venti o sessanta psicologie... Talvolta
un "culo di pietra teorico" può risolvere un caso rognoso che
dieci pluralisti non risolvono. Perciò non mi esaltano molto
le chiacchiere "aperturiste" che oggi tanti fanno per essere politicamente
corretti.
Dopo tutto, quel che conta èil talento, che oggi si preferisce
chiamare più pomposamente creatività. Non c'è formula
filosofica che ne garantisca la produzione. Ma trovo interessante il
tentativo di alcuni di scoprire il segreto del talento psicoterapico,
che cosa c'è sotto il potere - che alcuni hanno più di
altri - di promuovere negli altri un buon cambiamento. Sergio Benvenuto
Tullio Carere, 13 Dicembre 2001:
- Giustamente Sergio Benvenuto nota che
- >integrazione e disintegrazione sono due facce di uno stesso
>processo. Da una parte psicoanalisi e psicoterapia si disintegrano,
direi
>in modo crescente, in tecniche e teorie diverse - dall'altra ogni terapeuta
>o analista, seguendo percorsi spesso del tutto personali, integra a
modo
>proprio queste linee frantumate, cercando la propria "melodia" personale.
-
- La sua idea di "personalizzazione radicale" della psicoterapia
e della psicoanalisi sembra peraltro implicare che questo processo (di
integrazione/disintegrazione) avvenga solo o prevalentemente a livello
"personale". A me sembra sia più giusto dire che avviene tanto
a livello personale quanto a livello collettivo. Stiamo ai dati:
- >ormai almeno la metà degli shrinks non appartiene a nessuna
scuola definita. I percorsi
>di formazione sono sempre più personali, i "piani di studio" (curricula)
>sono sempre più individuali. Accade sempre più spesso
che un analista abbia
>fatto più di un'analisi con analisti di scuole diverse, e si
rifaccia a
>teorie di scuole diverse. ... è un dato storico.
Giusto, questo è un dato. Un altro dato, messo in luce
più volte dalla ricerca, è che terapeuti esperti di scuole
diverse tendono ad assomigliarsi tra di loro più che a terapeuti
inesperti della loro stessa scuola. Il che significa che il processo
disintegrativo/integrativo non porta solo a risolvere l'equazione personale
del terapeuta, ma anche a fare emergere una serie di tratti comuni,
o regolarità, o caratteristiche tipiche del processo, comunque
e ovunque si svolga. Quindi parallelelamente a una integrazione/disintegrazione
personale, ne avviene una a livello generale o collettivo.
>Anche nella scienza-regina - la fisica - le tendenze all'integrazione
e
>alla disintegrazione si combinano in modi diversi. Si pensi alla
>competizione, nella fisica della luce, tra teoria corpuscolare e teoria
>ondulatoria....tra il 1923 e il 1926, de Broglie e Schroedinger trovarono
una sintesi attraverso
>la meccanica quantistica - secondo la quale la luce è ALLO STESSO
TEMPO onde e corpuscoli
Proprio la scienza regina dimostra che il processo disintegrativo-integrativo
avviene anche a livello collettivo. Un parallelo interessante nel nostro
campo può essere questo: la psicoanalisi e il comportamentismo
erano visti come due approcci basilarmente incompatibili finché
nel 1977 Wachtel (il nostro de Broglie) trovò una sintesi in
cui la terapia è ALLO STESSO TEMPO psicoanalisi e comportamentismo.
L'osservazione cruciale fu che in molti casi la patologia è chiaramente
mantenuta da circoli viziosi, cioè schemi interpersonali che
inducono un soggetto a comportarsi in modi che provocano negli altri
risposte atte a confermare le credenze patologiche. Questi circoli possono
essere interrotti sia per via psicoanalitica (un insight sul significato
di una data credenza può cambiare il comportamento corrispondente),
sia per via comportamentale (una modificazione comportamentale può
influire favorevolmente sull'ambiente, cosa che può facilitare
un insight sul significato del comportamento patologico).
Ancora più notevole è il fatto che lo stesso fenomeno
è stato osservato più volte da ricercatori indipendenti,
come ha notato Giorgio Alberti (2000): l'idea di una "interazione circolare
mediata da un'influenza interpersonale che si autoperpetua attraverso
l'induzione negli altri di un feed-back confermante" è alla base
sia della teoria cognitivo-comportamentale del ciclo interpersonale (Safran e
Segal, 1990), sia della teoria dell'esternalizzazione della
relazione oggettuale interna formulata da psicoanalisti dell'area kleiniana
(Sandler, 1978, Ogden, 1994). Sicché nel nostro campo possiamo
vantare addirittura diversi de Broglie.
- Nella visione feyerabendiana di Benvenuto la conclusione è
che
- >Dopo tutto, quel che conta è il talento, che oggi si preferisce
chiamare
>più pomposamente creativita'. Non c'è formula filosofica che ne
>garantisca la produzione. Ma trovo interessante il tentativo di alcuni
di
>scoprire il segreto del talento psicoterapico, che cosa c'è sotto
il
>potere - che alcuni hanno più di altri - di promuovere negli
altri un buon cambiamento.
-
- Osservava Pine che il vero talento (o la vera creatività)
si nutre di conoscenza. Fermo restando il fatto (che, almeno per me,
resta fermo) che nel talento o creatività c'è sempre un
nucleo precategoriale o precognitivo - "l'esperienza estetica è
sostanzialmente un'esperienza protomentale del tutto peculiare", scrive
Ruggieri (1997), con riferimento al protomentale (O) di Bion - rimane
da chiarire qual è la conoscenza specificamente legata al talento
psicoterapeutico, posto che ce ne sia una. Nel pluralismo radicale di
Benvenuto non sembra esserci posto per una conoscenza "specifica", dal
momento che, a quanto pare, "everything goes". Il radicalismo
feyerabendiano è quello che porta Gianni Liotti a osservare lucidamente:
- >Se invece il pensiero post-moderno è per definizione
disintegrativo,
allora la dialettica
> fra scientificità ed ermeneutica non riguarderà il processo
dell'integrazione fra psicoterapie.
In realtà la posizione di Benvenuto è integrativa,
ma, sembrerebbe, solo a livello personale. Questo è comunque
un bel passo avanti. Il riconoscimento che integrazione e disintegrazione
sono due facce di un unico processo è una base eccellente su
cui cominciare a ritrovarci. La domanda successiva è: se questi
sono i due momenti di un unico processo dialettico, perché mai
questo processo deve aver luogo solo a livello personale, mentre a livello
collettivo la dialettica è perduta per la prevalenza del polo
disintegrativo? Se invece questa dialettica è recuperata anche
a livello collettivo, occorrerà chiarirne il movimento. Intendo
sia quello tra i due poli del conoscibile (K) e dell'inconoscibile (O),
sia quello interno al polo della conoscenza, cioè la dialettica
della conoscenza scientifica.
Per quanto riguarda il primo movimento, Salvatore Freni ha annunciato
per il Convegno di marzo una relazione intitolata "La tensione dialettica
tra paradigma mistico-meditativo e medico scientifico in psicoterapia".
Spero che vorrà intervenire nel dibattito in corso, anticipandoci
qualcosa su come vede questa dialettica. Tullio Carere
Paolo Migone, 14 Dicembre 2001:
At 09.44 12/12/2001, Giovanni Liotti wrote:
>1. Il "terreno comune" che va delineandosi è forse un terreno
di scontro, forse
>un terreno di dialogo, fra due posizioni, che per comodità abbiamo
chiamato
>"moderna" (o "scientifica") e "post-moderna" (o "ermeneutica"), più
che fra
>Scuole classiche come quelle psicoanalitiche, quella cognitivo-comportamentale,
>quella familiare-sistemica, quella umanistico-esistenziale, l'analisi
transazionale, etc.
Sono d'accordo con Gianni Liotti secondo il quale la vera divisione
oggi (il "Great Divide") non è affatto tra diverse scuole
psicoterapeutiche (anche alla luce del fatto che si mescolano tra loro,
sono tutte in fase di cambiamento o di crisi ecc., oltre alle considerazioni
fatte da Sergio Benvenuto quando diceva che molti terapeuti ormai non
si schierano più con una scuola precisa), ma tra diversi paradigmi
culturali, quelli che Liotti chiama posizione "moderna" (o "scientifica")
e "post-moderna" (o "ermeneutica"). A questo proposito, non a caso un
autore di diverso orientamento (il comune amico "psicoanalista" Morris
Eagle) dice la stessa cosa del "cognitivista" Liotti. Cito un brano
di un suo scritto recente (non pubblicato) tratto da una relazione letta
l'anno scorso al Rapaport-Klein Study Group (una versione scritta
con Wakefield e Wolitzky è da poco apparsa sul Journal of
the American Psychoanalytic Association):
<<In attempting to revise and update my "Recent developments
in psychoanalysis" (1984) book, it became clear to me that the basic
divisions and schisms in psychoanalysis no longer have primarily to
do with different 'schools,' but with what Irwin Hoffman refers to as
different paradigms. Irwin identifies them as positivism versus constructivism.
He writes that the fundamental change in psychoanalysis is not the shift
from the drive to the relational model, but "from a positivist model
for understanding the psychoanalytic situation to a constructivist model".
I think this is a misleading description because, as Paul Meehl has
noted, most psychologists and analysts know little or nothing about
the history of positivism nor the range of its complex meanings, but
instead use it as a buzz word to refer to the supposed scientistic and
objectivist bad guys. However, I think I know what Irwin means and I
agree with him that the primary divisions in psychoanalysis have to
do with different world views. I think that the basic division can be
best described in terms of what John Searle calls the "Enlightenment
vision" versus post-modernist and other critiques of and attacks on
that vision. In this regard, some recent psychoanalytic developments
are but one expression of broad culture-wide challenges to and attacks
on the "Enlightenment vision" and the default positions with which it
is associated. One such world view is reflected in the recent work of
Mitchell, Renik, Schafer, Spence...>>
At 10.17 12/12/2001 +0100, Sergio Benvenuto wrote:
>Premetto che non ho ancora letto l'articolo di Pine sulle "quattro
>psicologie", cosa che farò quanto prima. Trovo comunque brillante
>l'iniziativa di Migone di proporlo alla nostra attenzione, perché
mi pare
>una posizione francamente DIS-INTEGRAZIONISTA. (Da quello che ci dice
>Carere, anche Pine ha cercato l'integrazione, ma poi ha gettato gioiosamente
la spugna.)...
Non vorrei essere frainteso, però. Io ho esposto le
mie riflessioni a caldo dopo aver letto quell'articolo di Pine, anche
perché volevo riassumere l'articolo ai colleghi della lista,
e ho detto che ho provato simpatia per la sua modestia verso le grandi
teorie (nel senso che sono un po' pseudo-teorie, almeno certe teorie
psicoanalitiche, che guarda caso subiscono le mode, cambiano ogni qualche
anno, di alcune dopo un po' non se ne sa più niente), e propone
un atteggiamento di ricerca che utilizza, a livello clinico, tutte le
osservazioni che possiamo fare, tenendo ben conto che vediamo quello
che le nostre teorie ci permettono di vedere per cui più se ne
ha meglio è, e così via. Ho anche detto però che
rimane completamente aperto (almeno in questo recente articolo di Pine)
il problema di come si integrano tra loro tutte le belle e tante diverse
teorie che noi ci vantiamo di tenere aperte. E' un problemino non da
poco, ad esempio, usare contemporaneamente due teorie che sono l'una
l'opposto dell'altra.
Bisognerebbe avere la voglia di leggere gli scritti di Pine precedenti.
Quest'ultimo è carino, ma francamente non dice niente di nuovo
per noi, e a volte mi sembra un po' troppo semplice o addirittura sbagliato
in alcuni passaggi (ad esempio: cosa significa dire che un determinato
tono di voce dell'analista fa cambiare di segno una certa sua teoria
che credeva di adottare? Se lui crede veramente questo, al di là
del valore allusivo di questa affermazione, mi sembra che non sappia
bene cosa sia una teoria. Anche quando dice che certe cose funzionano
con teorie che saranno scoperte o conosciute in seguito, dice una cosa
scontata, perché è sempre stato così - e sempre
sarà così - nella storia della scienza).
Io ho sempre pensato alla Teoria come a una parola con la T maiuscola,
e in questo può esserci una differenza con Sergio Benvenuto,
mi sembra di capire. La mia idea teoria però è sempre
stata quella di una teoria modesta, umile, che ha la T maiuscola appunto
perché sa di sapere poco (anche alla Popper), e qui sta la sua
forza. Ho sempre avuto l'impressione che quelli che si disilludono delle
grandi teorie (o i post-moderni come li si vuol chiamare) sono quelli
che reagiscono alla idea che "loro" prima avevano della teoria (la intendevano
come "grand theory", concetto che non appartiene alla scienza,
la quale analizza le cose piccole, procede sempre per piccoli passi).
Tornando a Benvenuto, a dire il vero lui però riconosce un valore
non solo alla disintegrazione (a volte sacrosanta, di fronte a certe
ridicole integrazioni che si sforzano di includere tutte le variabili,
quando invece c'è sempre una variabile che scappa), ma anche
alla integrazione, che va vista in modo dialettico con la tendenza opposta,
la disintegrazione. Questo discorso mi suona sensato, anche se mi sembra
che andrebbe elaborato maggiormente. Infine, non mi sembra che serva
a molto ricorrere al "talento" del terapeuta, perché si rischia
di girare in tondo, di spostare il problema senza affrontarlo. Può
anche essere che un terapeuta ha più talento anche perché
ha una teoria che spiega meglio le cose. E comunque il problema è
sempre il solito: costruire una teoria del talento. Si ripresenta quindi
lo spartiacque che forse ci divide: tra coloro che ritengono che si
debba cercare di spiegare le cose (anche per riprodurle), e coloro che
ci rinunciano, o che considerano la psicoterapia un'arte, o un fenomeno
irripetibile, idiografico, ecc. Paolo Migone
Tullio Carere, 15 Dicembre 2001:
- At 11:22 +0100 14-12-01, Paolo Migone wrote:
- >non a caso un autore di diversoorientamento (il comune amico "psicoanalista"
Morris Eagle)
>dice la stessa cosa del "cognitivista" Liotti. Cito un brano di un
suo scritto:
- > the basic divisions and schisms in psychoanalysis no longer have
primarily to do with different
>'schools,' but with what Irwin Hoffman refers to as different paradigms.
>Irwin identifies them as positivism versus constructivism...
>I think that the basic division can be best described in terms of what
John Searle calls the
>"Enlightenment vision" versus post-modernist and other critiques of
and attacks on that vision.
Eagle preferisce descrivere il "Great Divide" in termini
di "Enlightenment vision versus post-modernist", invece che "positivism
versus constructivism", perché la parola "positivismo" ha
oggi una connotazione peggiorativa, mentre la "visione illuministica"
suona meglio ed è più funzionale al suo intento di dimostrare
che i moderni sono buoni e i postmoderni cattivi, come naturalmente
dall'altra parte della barricata si dimostra il contrario. Per gli uni
solo la scienza è garanzia di verità, per gli altri conta
solo la creatività o il talento.
La vera difficoltà, a mio parere, sta nel vedere e nell'ammettere
che la terapia è scienza *e* arte, e non scienza *o* arte; che
il ruolo dello scienziato e quello dell'artista-mistico sono entrambi
essenziali alla terapia; e che l'articolazione dialettica dei due poli
o vertici deve sostituire il tentativo di far prevalere l'uno sopprimendo
l'altro. La semplificazione per cui la terapia è identificata
con uno solo dei due vertici può sembrare conveniente, ma in
realtà è effettuata al prezzo di trasformare una contraddizione
in un fossato incolmabile, un "Great Divide", appunto.
Considerando che uno dei nostri compiti principali, se non il principale
in assoluto, è quello di aiutare i nostri pazienti a identificare,
tollerare ed elaborare le loro contraddizioni, invece di sopprimerle
con vari meccanismi di negazione, scissione o rimozione, non è
verosimile che tanto meglio riusciremo in questo compito, quanto più
sapremo fare altrettanto con le contraddizioni intrinseche al nostro
lavoro, a cominciare da quella basilare tra scienza e arte? Tullio Carere
Tullio Carere, 19 Dicembre 2001 (per Diego Napolitani)
- Un contributo di Diego Napolitani.
- Premessa: Diego mi aveva proposto due titoli per il convegno: "Da
quale vertice si confrontano modelli e processi?" e "La mancanza di
una comune meta-teoria come ragione di incomunicabilità fra psicoterapeuti".
Gli avevo chiesto un chiarimento, perché se, come mi sembrava,
intendeva dire che gli psicoterapeuti non possono comunicare tra loro
per mancanza di una metateoria, il suo intervento non poteva essere
che paradossale, dal momento che voleva comunicare qualcosa a dei colleghi
che aderiscono a modelli diversi dal suo. Se nessuno può uscire
dal proprio "angolo di osservazione", che speranza c'è che persone
confinate ciascuna nel proprio angolo possano intendersi e dialogare?
- Diego mi aveva risposto:
- <<Caro Tullio, non vedo proprio dove mai sia il paradosso. "Vertice"
sta per "struttura comunicazionale" o semplicemente "linguaggio". Chiedo
se i colleghi ritengono di avere, o potere fare riferimento, a un linguaggio
comune pur se questo racconta contenuti diversi. Nel secondo titolo
la forma interrogativa del primo titolo è sostituita da una forma ipotetica:
Ipotizzo che se non ci accordiamo su una meta-teoria (un linguaggio
comune) continueremo a parlare i nostri dialetti che restano per lo
più incomprensibili gli uni agli altri. Non ho mai detto né scritto
che "nessuno può mai uscire dal proprio angolo di osservazione" ma ribadisco
che solo prendendo un elicottero o un satellite possiamo vedere tutti
la medesima mappa e le nicchie nelle quali ciascuno di noi si nasconde
reclamando di essere visto.>>
-
- La mia risposta:
- <<Caro Diego, mi spiace molto di avere malinteso il tuo pensiero.
Mi consolo pensando che spesso la strada dell'intesa è lastricata di
malintesi. Per evitare di continuare a malintenderti, provo a farti
una domanda diretta, anzi un paio, utilizzando il tuo linguaggio: tu
ritieni di "avere, o potere fare riferimento, a un linguaggio comune
pur se questo racconta contenuti diversi"? (visto che lo chiedi ai colleghi,
mi sento autorizzato a chiederlo a te). E credi che sia possibile accordarci
su "una meta-teoria (un linguaggio comune)"? Credi che nel nostro campo
di psicantropi (come ci chiamava Gino Pagliarani) esista qualcosa come
"un elicottero o un satellite", o sia possibile costruirlo?>>
-
- Il chiarimento di Diego:
- <<Caro Tullio, non è pensabile una costruzione teorica,
metodologica o tecnologica che non abbia come suo fondamento un pensiero
tendenzialmente assunto come "verità". Ad esempio, il "nihil
in intellectu quod prius non fuerit in sensu" è un presupposto
non compatibile con quello per cui la parola "senso" (inteso come significato,
intenzione, orientamento) è ciò che a partire dall'intelletto
(specificamente umano) condiziona qualitativamente e quantitativamente
la fisiologia della sensorialità. Sulla base di questi presupposti
si costruiscono visioni del mondo e/o della mente con tutta la sequela
di scelte teoriche e pragmatiche.
Gli "psicantropi" (se non ricordo male fui io a suggerire a Gino quest'espressione
per indicare una caratteristica "antropologica" degli appartenenti alla
famiglia "psico-" per la quale in genere gli psicologi, a differenza
di altri intellettuali, non pensano il proprio pensiero) sono indotti
dalla loro stessa professionalità a mettere in primo piano il
concetto pragmatico di "esperienza", dando a questo termine la qualità
di autoevidenza. "A partire dalla mia esperienza - o da quella di Freud
o di altri - verifico che..., confermo che..., ipotizzo che..." senza
porre il termine esperienza nel medesimo orizzonte problematico nel
quale si pone l'oggetto dell'esperienza. Risulta, per lo più,
che l'"esperienza" sia acefala, e non comunque una costruzione la cui
impalcatura è data da pre-concetti di cui è fatto del
resto il senso comune.
Così, in un confronto con psicoterapeuti comincerei col problematizzare
il concetto stesso di terapia: è questa una metafora o questa
è assunta secondo il paradigma fisiologico? Abbiamo la possibilità
di guardare insieme questi interrogativi e di motivare le scelte che
operiamo nel privilegiare una risposta all'altra? E se aderiamo al paradigma
fisiologico, a quale concetto di salute o di malattia facciamo riferimento
per definire la sofferenza dell'anima? E l'anima è ipostatizzata
sul modello dell'individuo corporeo o sul modello della cultura, irriducibilmente
relazionale?
Delineo qui - in modo tanto succinto da poter risultare criptico - due
campi metateorici irriducibili l'uno all'altro. In ciascun campo si
può adottare un atteggiamento eclettico relativamente a segmenti
teorici o metodologici, poiché tutti i suoi elementi sono congruenti
col campo in cui si muovono. Ma a mio parere è improponibile
un eclettismo che comporti un saltellare da un campo all'altro, processo
che mira forse a coprire la mancanza dello psicologo (mancanza come
elemento costitutivo della cognizione umana) con la giustificazione
della sua efficienza operativa. Questo ordine di riflessioni potrebbe,
a mio avviso, costituire l'osservatorio a cui tutti potremmo accedere
per definire il campo nel quale operiamo. Potremmo quindi riconoscerci
nelle e per le differenze dei mondi nei quali siamo caduti o che abbiamo
consapevolmente scelto, e non affannarci a esaltare le piccole differenze
di nicchie presunte appartenere tutte ad un unico universo psi-. "Da
quale vertice si confrontano modelli e processi?" potrebbe, nella sua
forma interrogativa, riassumere il tipo di riflessioni che ti ho qui
appena accennato. Diego>>
Sergio Benvenuto, 22 Dicembre 2001:
Scrive Carere:
<< La sua [di Benvenuto] idea di "personalizzazione radicale"
della psicoterapia e della
psicoanalisi sembra peraltro implicare che questo processo (di
integrazione/disintegrazione) avvenga solo o prevalentemente a livello
"personale". A me sembra sia più giusto dire che avviene tanto
a livello
personale quanto a livello collettivo.>>
Ma certo, il processo avviene anche a livello collettivo. La mia formulazione
ha fatto pensare che volessi opporre ad una dimensione collettiva una
individuale, ma non era quella affatto la mia intenzione. L'integrazione
trasversale di elementi presi da più esperienze può essere
opera di un individuo, di un gruppo, o di un'istituzione. Quel che mi
interessava sottolineare era la compresenza di fattori disintegrativi
e integrativi (giusto per adattarmi alla terminologia SEPI).
<<Nella visione feyerabendiana di Benvenuto la conclusione
è che...>>
Più di una volta Carere mi qualifica di feyerabendiano, ma a
me non piace essere "spillato" con queste etichette. E' vero, ho conosciuto
bene Feyerabend. Ma fu proprio Paul, in una presentazione pubblica di
un mio saggio su di lui, a dire che condivideva le mie posizioni sulla
filosofia della scienza solo al 50%. Quindi Feyerabend stesso ha detto
che non sono feyerabendiano. E poi, dirsi feyerabendiani è un contro-senso.
Quella di Paul è stata una provocazione ingegnosa, un modo per spingere
i filosofi della scienza a liberarsi di pregiudizi e gabbie mentali,
una manovra filosofo-terapica, in quanto tale irripetibile. Se proprio
dovessi evocare un mio maestro in filosofia della scienza, citerei piuttosto
Kuhn, e parte di Lakatos. Ma comunque sia, a nessuno piace essere etichettato.
- Se quella di Carere è una marachella, ben più grave è la proposta
di Liotti (accettata da Migone):
- <<Il "terreno comune" che va delineandosi è
forse un terreno di scontro, forse un
terreno di dialogo, fra due posizioni, che per comodità abbiamo
chiamato "moderna"
(o "scientifica") e "post-moderna" (o "ermeneutica"), più che
fra Scuole classiche
come quelle psicoanalitiche, quella cognitivo-comportamentale, quella
familiare-sistemica, quella umanistico-esistenziale, l'analisi transazionale,
etc.
Già questa "riduzione a due" delle molteplici posizioni la cui
complessità le rende
non solo non "integrabili", ma persino ovviamente non confrontabili,
mi sembra un notevole risultato.>>
Se la SEPI imbocca la strada di prendere sul serio questo dualismo,
allora non mi resta che disperare. Non ho mai creduto nei dualismi stereotipati
- come sinistra-destra, olismo-individualismo, scienze comprendenti-scienze
esplicative, Humanities-Sciences, analitico-sintetico, ecc. ecc. - tanto
meno credo quindi che occorra scegliere tra "scienze" ed "ermeneutica"
(o tra moderno e post-moderno, come dice Liotti). Chi di voi avesse
perso il proprio tempo a sfogliare alcuni miei scritti, potrà testimoniare
della mia inclassificabilità riguardo a questa dicotomia precostituita.
Se proprio dovessi etichettarmi, preferirei dirmi post-postmoderno (ma
sto scherzando).
Quello che mi interessa veramente è capire il reale, il quale non è mai di sinistra o di destra, olistico o individualistico, moderno o
post-moderno....
Credo, in questo, di essere anche in buona compagnia, ovvero in compagnia
di persone che considero buone. Si legga Ian Hacking: è moderno o post-moderno?
A me pare semplicemente una persona intelligente che conosce bene la
storia della scienza e delle idee, e che si pone le domande giuste.
Etichettarlo equivarrebbe a fraintenderlo.
Qualcuno potrà dimostrarmi che magari il 90% degli psicoterapeuti italiani
è di fatto classificabile nella dicotomia "scientifici" versus "ermeneutici".
Sarà anche vero. Ma allora io preferisco classificarmi nella minoranza
sparuta di chi sente queste dicotomie come imprigionanti e vuole evaderne,
perché le considera sostanzialmente vacue.
Nella nostra rivista (Journal of European Psychoanalysis) apparirà
un saggio di Kaechele, che riassume la sua ormai lunga ricerca. Quando
l'ho proposto, alcuni "post-moderni" di JEP hanno arricciato il naso:
non credono nella validità di un approccio oggettivo, quantitativo,
ad una pratica analitica che considerano ineffabile e squisitamentesoggettiva.
Vedo queste reazioni "post-moderne" come semplice oscurantismo. Se uno
shrink teme i controlli oggettivi, è perduto (questo non deve però
impedirci di criticare perspicuamente tanti protocolli di indagine,
che spesso - nel nostro campo - sono approssimativi, rozzi, biased,
ingenui; prova ne sia che quasi ogni "indagine oggettiva" porta a risultati
diversi). Del resto Kaechele giunge a conclusioni a cui molti di noi
erano giunti solo sulla base della propria esperienza vissuta. Ad esempio,
quando dice che gli analisti con maggiore esperienza non sono necessariamente
i più efficaci; o quando sottolinea che la buona relazione iniziale
tra un terapista e un paziente è il miglior pronostico sui risultati
del trattamento (ma certo documentare qualcosa che si dice è più convincente
che parlare in nome della propria esperienza).
Io stesso al CNR lavoro nel campo delle scienze cognitive (il che non
vuol dire affatto che io sia un cognitivista!), e quindi non ho mai
disprezzato i metodi di indagine oggettiva oggi usati nelle scienze
sociali.
Ma allo stesso tempo occorre dire ai sedicenti "moderni" o "scientifici"
che l'indagine scientifica è solo una parte del grande processo di
evoluzione delle idee, anche nel nostro campo. Non sono solo i ricercatori
a fare indagini ed esperimenti: è l'intera comunità dei partecipanti.
Questo punto è capitale.
L'esempio che porto spesso è quello del comunismo, o socialismo reale
che dir si voglia. Per i settant'anni in cui il comunismo è durato,
centinaia di milioni di esseri umani (e milioni di loro hanno pagato
con la vita) hanno partecipato ad un vero e proprio esperimento storico.
Così abbiamo verificato che il comunismo funziona ancora peggio del
capitalismo. Esso è "imploso" perché i popoli che lo hanno sperimentato
si sono convinti che nelle sue diverse varianti - sovietica, cubana,
cinese, albanese, socialista-nazionalista, ecc. - il comunismo era una
via sbagliata. Ad esempio, ci si è resi conto che l'eliminazione del
capitalismo comporta sempre la fine della democrazia politica - una
conseguenza non prevista dalla teoria marxista come necessaria, ma che
abbiamo constatato storicamente. E' vero che alcuni teorici avevano
già mostrato, un secolo fa, come il socialismo non potesse funzionare;
ma erano buoni anche gli argomenti di chi sosteneva che invece potesse.
E' la storia che alla fine ha tranché.
Qualcosa di simile sono gli esperimenti collettivi che cita spesso lo
storico della scienza Bruno Latour: epidemie come quelle dell'AIDS e
della mucca pazza. Si tratta di esperimenti collettivi a cui tutti partecipiamo.
La storia insomma compie continuamente esperimenti, non meno importanti
e radicali di quelli in laboratorio (e lo fa spesso sacrificando le
vite di molti esseri umani).
La nebulosa psicoterapica può essere considerata anch'essa un grande
esperimento collettivo della civiltà occidentale. Per questa ragione
assistiamo continuamente a processi darwiniani di selezione delle mutazioni:
quasi ogni anno escono fuori nuove tecniche e teorie (dei mutanti psicoterapici),
la maggioranza di esse viene spazzata via o restano isolate, mentre
altre si diffondono. E' un processo che molti, ispirandosi a Dawkins,
chiamano "memetico", di cui da anni mi sto occupando (non limitato al
campo psicoterapico).
Qualcuno di voi dirà che però le pratiche psicoterapiche di
solito sono squisitamente private - raramente siamo in grado di valutare
(selezionare, negativamente o positivamente) la pratica dei colleghi.
Malgrado questo, anche la psicoterapia è un fatto collettivo, viene
insomma vagliata dalla comunità aperta dei practitioners
- non diversamente dal comunismo. In effetti, gli shrinks pubblicano,
dibattono - anche nella ML della SEPI - argomentano, seducono, dimostrano,
supervisionano, portano casi e criticano i colleghi, ecc. ecc. Spesso
ci arrivano pazienti che ci parlano delle loro precedenti esperienze
psic (e ne sentiamo delle belle!). Ciò fa circolare tecniche e teorie.
Insomma, la psicoterapia è un processo storico-sociale di cui i protocolli
specificamente scientifici - del tipo di quelli applicati da Kaechele
e da altri - sono solo una parte.
Alcuni mi rimproverano di non accettare il dialogo con loro perché
non sono disposto a dedicare tutto il mio tempo a chiacchiere e battibecchi
nelle ML o altrove. Evidentemente queste persone hanno un'immagine ingenua,
direi ristretta, della GRANDE CONVERSAZIONE storico-sociale. Questa
non è un semplice alternarsi di botte e risposte, come nel salotto
di Bruno Vespa, ma un processo complesso, indiretto, lungo, tortuoso.
Anche nel dibattito scientifico valgono le "regole" così ben descritte
dalle teorie del caos e della complessità, da Lorenz a Kauffman. Di
solito, le discussioni uno-a-uno non portano a nessuna conclusione,
ognuno dei due resta attaccato alle proprie convinzioni. Ma nella misura
in cui un dialogo viene reso pubblico, esso crea vere e proprie onde
memetiche, produce effetti dove meno ce lo si aspetta, nuove idee altrove,
ecc.
Quando Protagora e Socrate si incrontrarono, ad Atene, e disputarono
tra loro, altri erano presenti. Alla fine Protagora restò Protagora,
e Socrate restò Socrate, insomma non si smossero dalle loro posizioni.
Ma ne venne fuori Platone, ed altri ancora che pure stavano solo ad
ascoltare.
Ecco un'ipotesi: la struttura del lavoro psicoterapico in studio non è
molto diversa da quella del grande dibattito intellettuale che si
svolge da decenni in psicoterapia e psicoanalisi. Ormai pochi credono
che si possa parlare di un'interpretazione vera o falsa, giusta o sbagliata,
di un'interazione specifica terapeutica o meno, ecc. La relazione psicoterapica
o analitica è un processo reticolare - non lineare - che l'analista
o terapista controlla solo in piccola parte. Il progetto razionalista
di avere un controllo tecnologico stretto sulla relazione detta psicoterapica
mi pare essere votato, in molti casi, al fallimento. Il processo che
porta ad una mutazione soggettiva - quella che chiamo CONVERSIONE - è
ben più complesso. E' probabile che il setting analitico inneschi
processi - si spera virtuosi, ma possono essere talvolta viziosi - a
cui certo il terapista partecipa senza averne il pieno controllo (si
veda il saggio di S.R. Palombo del 1999, che va proprio in questo senso).
In termini più tecnici: l'input psicoterapico non determina a priori
i possibili output. Spesso mi capita di vedere come un'interpretazione
da quattro soldi, nella quale non credo nemmeno io, produca effetti
considerevoli nell'analizzando. Non diversamente, da come diceva Lorenz,
lo sbatter d'ali di una farfalla in Giappone può produrre un uragano
in California. Renderci conto - con grande umiltà scientifica - che
siamo solo farfalle, è moderno o post-moderno? Secondo me è solo un
modo di rendere più intelligibile una realtà di cui siamo parte.
>Diego mi aveva proposto due titoli per il convegno: "Da quale
>vertice si confrontano modelli e processi?" e "La mancanza di una comune
>meta-teoria come ragione di incomunicabilità fra psicoterapeuti".
Diego scrive:
> Ipotizzo che se non ci accordiamo su una meta-teoria (un linguaggio
comune)
>continueremo a parlare i nostri dialetti che restano per lo più
>incomprensibili gli uni agli altri.
Questa volta non sono d'accordo con Diego. Non credo che la difficoltà
a comunicare tra shrinks sia superata una volta trovato un vertice comune,
o una comune meta-teoria. Questo assunto cognitivista non mi convince.
Personalmente, leggo e seguo i contributi di shrinks delle scuole più
diverse, e credo di capirli tutti - anche se, ahimè, molto spesso mi
annoiano mortalmente. Il punto dolente non è che le teorie degli altri
ci sono incomprensibili, perché di solito le comprendiamo fin
troppo bene: è che non ce ne importa un fico secco.
Almeno per me, la vera demarcazione non si situa tra i vari linguaggi
di scuola, ma tra
(1) la massa degli epigoni e degli "applicatori" (ahimè, la grande
maggioranza) di qualsiasi teoria e
(2) la minoranza di chi invece riesce a dirci qualcosa che ci scuote.
Ora, io non appartengo a NESSUNA scuola o filone di pensiero, anche
se mi sento più o meno vicino a certi piuttosto che ad altri.
Ad esempio, tutto mi divide dal pensiero junghiano - eppure ogni tanto
qualche scritto junghiano di talento mi impressiona.
Quando ho evocato questa dimensione (enigmatica) del talento, qualcuno
ha reagito con malcelato fastidio. Io non so come vi regolate voi, ma
io apprezzo un contributo non perché sia bioniano, junghiano,
lacaniano, kohutiano, ecc., ma perché dice QUALCOSA CHE MI COLPISCE.
Chiamo talento questo riuscire a superare il frame del proprio linguaggio
- della propria teoria o metateoria - e metterci a confronto con qualcosa
che ha l'aria di essere reale.
Non è diverso con le arti e la letteratura. Un poeta può colpirci
non perché condividamo la sua concezione del mondo o la sua maniera
letteraria, ma perché ci dice qualcosa che ci squarcia (o a noi
sembra squarciare) il velo del reale. Quando Leopardi ci parla di una
ragazza che non abbiamo mai conosciuto, Silvia, ci commuove perché
ci diciamo "questa ragazza è vera!". Così Silvia diventa, quasi,
parte della nostra famiglia.
Certo, le ragioni per cui un contributo clinico ci commuovono non sono
le stesse per cui ci commuove una poesia o un quadro. Nel nostro campo,
occorre anche IDENTIFICARE DELLE CAUSE. Credo che Carere ha selezionato
proprio noi per questo convegno perché pensa che siamo delle
persone che non si accontentano di operare in modo più o meno
redditizio: siamo persone che si chiedono anche i perché del
loro operare. In altre parole pensiamo, credo, che l'operare migliore
implichi il riconoscimento delle CAUSE della sofferenza che siamo portati
a trattare.
Ora, le famose "grand theories" da cui noi - chi più chi
meno - prendiamo le distanze sono tutte dei tentativi di spiegare la
causa della sofferenza spirituale che ci interpella. Il punto è che
a differenza di altre scienze, dove esistono poche teorie accettate
e condivise - in fisica, ad esempio, la meccanica quantistica - nel
nostro campo ognuno segue la sua teoria. Nessuna teoria è riuscita
insomma a soppiantare le altre. Come vi ho già confidato, non
trovo che questo sia necessariamente un male. Certo anch'io, come tutti
voi, cerco la causa della sofferenza, e anch'io mi costruisco, almeno
provvisoriamente, delle teorie. Ma è possibile consumare la nostra
separazione dalle "grand theories" riununciando alla teoria tout
court? Alcuni fanno questo passo (ad esempio, il mio amico Lai), noi
(credo) no. Perché una teoria è sempre in fondo una teoria delle
cause (si potrebbe dimostrare che anche gli approcci ermeneutici, in
fin dei conti, sono delle teorie causali, anche se non si esibiscono
come tali).
Ma siccome non abbiamo evidenze per far prevalere una teoria su tutte
le altre, che cosa tuttavia ci fa gradire certi scritti piuttosto che
altri? E' perché sentiamo, in modo quasi istintivo, che questi
TOCCANO UN REALE. Abbiamo l'impressione insomma che un vero fattore
causale è stato identificato.
Che cosa è la causa? E la causa delle sofferenze mentali in particolare?
Non starò qui a rivangare il dibattito epistemologico secolare
sulla causalità. Voglio attenermi al livello più semplice,
infantile direi, della causalità: qualcosa che esercita una forza
su un'altra. Anche la fisica classica chiamava le cause "forze". Ogni
teoria tenta di designare la FORZA che smuove i soggetti, e che li spinge
da noi. Ora, proprio perché non abbraccio nessuna grand theory
definitiva, sono capace di apprezzare quando un autore, un'ipotesi,
o una ricostruzione clinica, evoca la possibilità di una causa,
di una forza. Quando questo autore ha talento. La forza di uno scritto
- il fatto che ci impressioni e ci faccia riflettere - consiste nel
suo renderci sensibile l'operare di una forza. Oggi, per esempio, possiamo
considerare buona parte delle teorie di Freud pure mitologie, narrazioni
precostituite, eppure leggere Freud ci dà ancora qualcosa perché
ci dà la sensazione che egli comunque tocchi un punto nevralgico
dell'umanità: la forza causale delle pulsioni e di certe rappresentazioni.
Invece negli scritti degli epigoni, degli applicatori che cercano solo
di articolare in modo corretto la teoria che hanno imparato, non vediamo
mai il reale della sofferenza: vediamo solo la teoria, il linguaggio.
Come in un brutto quadro impressionista: non vediamo veramente il paesaggio
rappresentato, vediamo solo l'impressionismo! Mentre quel che ci turba
è il contatto che una forma pittorica - qualunque essa sia - ci dà
con qualcosa aldilà della forma.
E' per questo, allora, che pur riferendoci a paradigmi teorici diversi,
tra loro incommensurabili, alla fin fine possiamo essere colpiti o commossi
da quello che un altro collega ci dice: perché abbiamo a che
fare con le stesse sofferenze umane. Possiamo dirci integrativi quanto
vogliamo: è chi viene da noi che ci riporta all'integralità
della sofferenza. Possiamo comunicare davvero con altri colleghi perché
il mio paziente potrebbe anche essere il tuo, o viceversa. Diciamo che
il dialogo è tra noi inevitabile perché abbiamo a che fare con
lo stesso reale. Quello che alla fine decide, è l'altro dai nostri
linguaggi (il paziente, o come lo si voglia chiamare), non un qualche
meta-linguaggio che ci metterebbe tutti nello stesso fascio.
Per cui proporrei piuttosto un titolo come:
PLURALITA' DI TECNICHE E TEORIE, INTEGRALITA' DELLA SOFFERENZA. Sergio
Benvenuto
Giovanni Liotti, 28 Dicembre 2001:
Cari amici e colleghi, seleziono alcune espressioni usate da Benvenuto
nella sua ultima mail: "marachella", "proposta grave", "prendere sul
serio", "disperare", "persone che considero buone", "capire il reale",
"non ce ne importa un fico secco", "qualcosa che mi colpisce", "colpiti
o commossi", "qualcosa che ha l'aria di essere reale".
- Riporto qui di seguito parte delle frasi che le contengono. Sergio
Benvenuto ha scritto:
- > Se quella di Carere è una marachella, ben più grave è la proposta
di Liotti (accettata da Migone):...
> Se la SEPI imbocca la strada di prendere sul serio questo dualismo,
allora non mi resta che disperare.
> Quello che mi interessa veramente è capire il reale, il quale non è
mai di sinistra o di destra, olistico o individualistico, moderno
o post-moderno....
> Credo, in questo, di essere anche in buona compagnia, ovvero in compagnia
di persone che considero buone.
> ...Il punto dolente non è che le teorie degli altri ci sono incomprensibili,
perché di solito le comprendiamo fin troppo bene: è che non ce ne
importa un fico secco. ... io non appartengo a NESSUNA scuola o filone
di pensiero ... io apprezzo un contributo non perché sia bioniano,
junghiano, lacaniano, kohutiano, ecc., ma perché dice QUALCOSA CHE
MI COLPISCE. Chiamo talento questo riuscire a superare il frame del
proprio linguaggio - della propria teoria o metateoria - e metterci
a confronto con qualcosa che ha l'aria di essere reale.
- > ...pur riferendoci a paradigmi teorici diversi, tra loro incommensurabili,
alla fin fine possiamo essere colpiti o commossi da quello che un altro
collega ci dice: perché abbiamo a che fare con le stesse sofferenze
umane. Possiamo dirci integrativi quanto vogliamo: è chi viene da noi
che ci riporta all'integralita' della sofferenza. (...) Diciamo che
il dialogo è tra noi inevitabile perché abbiamo a che fare con lo
stesso reale...
L'utilità di applicare il metodo scientifico occidentale alla
psicoterapia serve fra l'altro a contenere almeno in parte, anche nel
nostro ambito di lavoro, la tendenza a dibattere usando questo tipo
di fraseologia per sostenere le proprie argomentazioni (di solito sovrabbondando,
nel costruirle, della prima persona singolare). Per contenere questo
modo di argomentare, la nostra civiltà occidentale ha inventato
un metodo che, pare, si è rivelato di qualche utilità
se è vero che nessuno di noi manderebbe il proprio figlio a curarsi
in un Ospedale ispirato alla medicina medievale qualora ne riaprissero
uno. Il metodo consiste NON nel limitare la produzione di idee creative
e che magari colpiscono e commuovono oltre a convincere a prima vista
razionalmente, ma nel vagliarne SUCCESSIVAMENTE l'utilità o l'applicabilità
AGGIUNGENDO, alla critica razionale dell'idea, i risultati di procedure
sperimentali ripetibili, di studi di efficacia, di indagini epidemiologiche
e di quant'altro possa
mettere a contatto la dimensione individuale in cui l'idea si produce
con quella collettiva e pubblica in cui l'idea viene applicata.
A proposito di dicotomie più o meno stereotipate, o persino della
strutturale enantiodromia del pensiero e della logica: superarle, trascenderle
ed annullarle è oggetto di importanti discipline mistiche. Personalmente,
conosco un poco (ed ammiro molto visti i suoi risultati in alcuni dipinti
giapponesi e negli haiku) il metodo Zen del koan che aspira al superamento
di ogni dualità. Forse grazie a tali discipiline è persino
possibile superare travalicare trascendere la dicotomia fra "reale"
e "irreale", certamente non stereotipata, che sembra guidare il pensiero
e più ancora il sentimento di Benvenuto. Esiste però,
forse, una delimitazione fra psicoterapia e mistica (o no? forse Bion
era un maestro di mistica paragonabile al maestro Zen Suzuki, o allo
chassidim Baal-Shem, o al sufi Al Ghazali, e via enumerando). Se esiste
tale demarcazione -- o se è opportuno (tanto dal punto di vista
della psicoterapia quanto della mistica) porla -- allora dicotomie come
quelle fra moderno e post-moderno, o fra prospettiva scientifica e prospettiva ermeneutica,
potrebbero essere utili per riflettere sulla psicoterapia contemporanea,
pur nella consapevolezza che il Reale Assoluto, per definizione, trascende
ogni dualità.
Per parlare un poco in prima persona: Non ci tengo poi tanto come potrebbe
sembrare, alla dicotomia fra "scienza" ed "ermeneutica" come tema per
il nostro dibattito. Se volete, non prendetela sul serio, così
Benvenuto non dispera. Nel nostro convegno (lo ripeto) mi propongo solo
di elencare le idee emerse da ambiti di ricerca scientifica intorno
alle quali GIA' si sta verificando una spontanea integrazione di alcune
PICCOLE teorie proposte da Scuole psicoterapeutiche diverse (teorie
piccole come la teoria dell'attaccamento e la control-mastery theory,
o persino più piccole, come quella che, nella cura del disturbo
ossessivo-compulsivo, è preferibile mirare in prima battuta a
ridurre le compulsioni piuttosto che a comprendere il significato delle
immagini mentali intrusive costituenti le ossessioni). Non ho bisogno,
per sostenere tale tesi, di alcuna contrapposizione con posizioni che
negano valore alla procedura scientifica nella selezione delle (piccole)
teorie della psicoterapia.
Dunque, non DISPEREREI affatto se la SEPI decidesse di non farla diventare
strumento di riflessione, la dicotomia stereotipata fra moderno e post-moderno,
o altre similari. Non mi pare una proposta GRAVE quella di Benvenuto,
di orientare su altri assi dialettici il dibattito, come l'asse dialettico
fra unità della sofferenza e molteplicità delle tecniche
psicoterapeutiche volte a ridurla (e mi piace il richiamo alle cause;
accetterei persino, come tema per orientare la nostra discussione, la
tensione dialettica fra salute mentale e malattia mentale, fra cause
della malattia e cause della salute, facendo così inorridire
i miei amici e vecchi compagni Basagliani). Considero Benvenuto una
persona buona, come Hacking, anche se credo che ponga le domande, e
le risposte, sbagliate. Giovanni Liotti
Tullio Carere, 29 Dicembre 2001:
- Il 22-12-01, Sergio Benvenuto wrote:
- >Ma certo, il processo avviene anche a livello collettivo. La mia
formulazione ha fatto pensare che volessi opporre ad una dimensione
collettiva una individuale, ma non era quella affatto la mia intenzione.
L'integrazione trasversale di elementi presi da più esperienze può
essere opera di un individuo, di un gruppo, o di un'istituzione. Quel
che mi interessava sottolineare era la conpresenza di fattori disintegrativi
e integrativi (giusto per adattarmi alla terminologia SEPI).
Il riconoscimento che il processo avviene anche a livello collettivo
sarebbe solo un "lip service", se non si chiarisse in che senso
lo si intende. Se, come sembra intendere Benvenuto, il processo si sviluppa
con modalità simili a livello individuale e collettivo, si dovrebbe
pensare che la collettività, al pari dell'individuo, seleziona
elementi presi dalle diverse teorie e tecniche per ricomporli in un
insieme riconoscibile e descrivibile. Cioè, come ho detto in
precedenza, "il processo disintegrativo/integrativo non porta solo a
risolvere l'equazione personale del terapeuta, ma anche a fare emergere
una serie di tratti comuni, o regolarità, o caratteristiche tipiche
del processo, comunque e ovunque si svolga".
Ma non sembra che Benvenuto intenda il processo collettivo in questo
senso. Prima di spiegarci come lo intende, si sofferma su una mia "marachella":
averlo "spillato" come feyerabendiano. In realtà io non ho detto
che lui è feyerabendiano, ma che lo è la sua visione nel
testo in esame. Quando scrive: "Confrontato al pluralismo babelico delle
teorie, ogni shrink opta quindi per una strategia individuale, commisurata
alle sue ambizioni", questo non equivale a dire che "anything goes",
restando l'ambizione personale del terapeuta l'unico criterio di misura?
Se la risposta è sì, Benvenuto non può risentirsi
dell'etichetta in questione. Se la risposta, come mi auguro, è
no, siamo alle soglie della cosa che conta. Occorrerà infatti
precisare a quale misura diversa dall'ambizione personale debba riferirsi
il terapeuta per sottrarsi al puro arbitrio delle opzioni.
Dice Benvenuto: "Quello che mi interessa veramente è capire il reale...
Chiamo talento questo riuscire a superare il frame del proprio linguaggio
- della propria teoria o metateoria - e metterci a confronto con qualcosa
che ha l'aria di essere reale... Un poeta può colpirci non perché
condividamo la sua concezione del mondo o la sua maniera letteraria,
ma perché ci dice qualcosa che ci squarcia (o a noi sembra squarciare)
il velo del reale... Siccome non abbiamo evidenze per far prevalere
una teoria su tutte le altre, che cosa tuttavia ci fa gradire certi
scritti piuttosto che altri? E' perché sentiamo, in modo quasi istintivo,
che questi TOCCANO UN REALE... Quel che ci turba è il contatto che
una forma pittorica - qualunque essa sia - ci dà con qualcosa aldilà
della forma".
Da questa serie di affermazioni emerge abbastanza chiaramente una
visione delle cose, anzi della cosa in sé, del reale. Il reale
che interessa Benvenuto (che non lo annoia) è quello che lo colpisce,
lo tocca, lo turba. E' il reale degli artisti, degli scrittori e dei
mistici, quello che si mostra quando almeno per un attimo si squarcia
il velo di maya. A Benvenuto interessa il noumeno molto più del
fenomeno. E' vero che nel processo di evoluzione delle idee riconosce
un ruolo anche all'indagine scientifica. E' vero che ha pubblicato sulla
sua rivista un saggio di Kaechele. Ma questi aspetti nel suo discorso
restano marginali e ininfluenti. Quel poco o tanto che l'approccio scientifico
alla psicoterapia è riuscito a ottenere è liquidato sommariamente
con affermazioni tipo "non abbiamo evidenze per far prevalere una teoria
su tutte le altre" che oltre a essere fuorvianti (abbiamo molte evidenze
che ci fanno preferire una teoria alle altre in diversi settori), sono
ingenerose verso coloro che prediligono l'approccio scientifico e hanno
l'unico effetto di rafforzare, tra questi ultimi, la convinzione che
posizioni come quelle espresse da Benvenuto sono "ovviamente non confrontabili"
con quelle del campo scientifico, come suggerisce Liotti (12/12).
"Il dialogo è tra noi inevitabile perché abbiamo a che fare con
lo stesso reale", scrive Benvenuto. Invece purtroppo - o per fortuna
- il dialogo non è inevitabile, anche se abbiamo a che fare con
lo stesso reale. Inevitabile è la competizione "darwiniana" che
spazza via molte idee (non necessariamente le peggiori) e ne fa trionfare
altre (non necessariamente le più vere). Altre volte ho notato
che Benvenuto scambia per dialogo questo processo di selezione culturale.
In questa visione darwiniana (non sto etichettando Benvenuto come darwiniano,
sto solo dicendo che qui, e non solo qui, ha una visione darwiniana)
siamo esentati dalla fatica di ascoltare davvero il nostro interlocutore,
sospendendo per quanto possibile "memoria e desiderio", e di rendere
conto delle nostre contraddizioni. Non abbiamo che da ribadire a oltranza
le nostre convinzioni, nella certezza che tanto alla fine ognuno resterà
dell'opinione che aveva all'inizio, preocupandoci solo di provocare
'onde memetiche' più vigorose di quelle dei nostri avversari.
Il dialogo non è inevitabile proprio perché è
una disciplina. Benché sia, per questo aspetto, decisamente indisciplinato,
Benvenuto contribuisce tuttavia utilmente se non al dialogo almeno al
dibattito in corso. La sua posizione esemplifica infatti uno dei due
poli che congiungono l'asse su cui si muovono tutti i terapeuti "seri"
(cioè quelli che prendono sul serio le idee di verità
e di realtà, esclusi quindi i costruzionisti radicali, non per
caso non rappresentati in questo convegno). Il "vero" terapeuta si distingue
per il suo ancoraggio al vero (o al reale), che lo salva dal puro arbitrio
delle opzioni o dal puro funzionalismo in chiave adattiva. Ma l'approccio
al vero o al reale può essere connotato prevalentemente in senso
soggettivo (come è il caso di Benvenuto) o in senso oggettivo
(come è il caso di Liotti).
Nell'approccio soggettivo la verità è prevalentemente
un "affetto" (come ha mostrato Benvenuto in un suo eccellente lavoro),
mentre in quello oggettivo è vera la teoria che è verificata,
cioè ha superato il vaglio della prova secondo i criteri del
metodo scientifico attuale. Per alcuni, come Napolitani, la relazione
psicoterapeutica è un'operazione culturale del tutto autonoma
dal paradigma medico da cui derivano tutte le idee di sperimentazione
scientifica applicata alla psicoterapia. Per altri, come Liotti, l'unico
terreno su cui possiamo incontrarci è quello delle teorie scientifiche
che si affermano superando le barriere di scuola.
Liotti e Napolitani sembrano suggerire, da opposte sponde, l'inconciliabilità
delle due prospettive. A me sembra che se non vogliamo arrenderci a
questa dicotomia, e alla spaccatura del campo che comporta, non basta
chiamarsene fuori, come fa Benvenuto (peraltro ben schierato dalla parte
del reale che "colpisce, tocca, turba"). Occorre invece trasformare
la dicotomia in una polarità dialettica, e mostrare l'interdipendenza
delle due prospettive. Forse è questo il nodo cruciale della
"integrazione psicoterapeutica". Tullio Carere
Fine della prima
parte. Vai alla Seconda Parte
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quattro parti)
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