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Dibattito precongressuale
avvenuto tra il 20 Maggio 2001 e il 14 Marzo 2002 in preparazione del

I Convegno Nazionale SEPI-Italia (Milano, 16 Marzo 2002)
Integrità e integrazione in psicoterapia

Editing a cura di Tullio Carere-Comes e Paolo Migone
 

Prima di due parti (maggio-dicembre 2001). Vai alla Seconda Parte

Vai al Dibattito post-congressuale (in quattro parti)


Tullio Carere, 20 Maggio 2001:

Cari amici, solo ora ho potuto completare l'elenco dei relatori al primo Convegno SEPI-Italia che si terrà a Milano il 16 Marzo 2002. Sono otto in totale: Sergio Benvenuto, Salvatore Freni, Giovanni Liotti, Paolo Migone, Diego Napolitani, Fausto Petrella, Mario Rossi Monti, e io stesso (si aggiungerà fra breve un nono relatore: Giorgio Alberti ). E' un gruppo che rappresenta orientamenti diversi, psicoterapeutici e psicoanalitici, SPI e non-SPI. Ci accomuna da un lato il rifiuto delle chiusure parrocchiali, dello scientismo e dell'accademia, dall'altro l'interesse per il dialogo e la ricerca di un linguaggio comune che lo renda possibile.

Un linguaggio comune, d'altra parte, rinvia a categorie di pensiero comuni, e queste a un 'common ground' su cui si suppone che, al di là delle differenti opzioni teoriche e tecniche, tutti quanti poggiamo i piedi. Ma questo è precisamente il nodo problematico che il convegno dovrà cercare di sciogliere, o almeno di illuminare. Da un lato è evidente che se ogni approccio teorico si costruisse idiosincraticamente i propri oggetti e il proprio campo di applicazione (ipotesi del costruzionismo radicale) sarebbe vano cercare qualcosa di comune tra culture basilarmente estranee l'una all'altra (se anche si trovasse, potrebbe essere solo qualcosa di contingente e inessenziale). Dall'altro lato la descrizione del processo terapeutico è sicuramente condizionata dai presupposti teorici dell'osservatore, tanto che un'osservazione 'teoreticamente neutra' è per lo più vista come una chimera improponibile. Se non possiamo arrenderci all'incomunicabilità tra approcci teorici diversi, non è nemmeno chiaro come le barriere concettuali e linguistiche erette dalle diverse scuole possano essere superate.

La difficoltà che ci troviamo di fronte, del resto, non sembra diversa in linea di principio da quella che incontriamo nella comunicazione con i pazienti. Anche qui un vero dialogo si può sviluppare solo se rinunciamo a far valere in modo unilaterale le nostre categorie interpretative (senza questa rinuncia è difficile evitare di cadere in qualche forma di 'abuso teoretico'); e tuttavia una completa neutralità - una completa sospensione di ogni presupposto teorico - è difficilmente pensabile. Di fatto un dialogo si può sviluppare solo se da entrambe le parti è abbandonata la pretesa di difendere a oltranza la propria visione delle cose, personale o di scuola che sia; vale a dire se si realizza una sospensione o neutralizzazione 'sufficientemente buona' delle categorie gnoseologiche di partenza. Tra gli opposti estremismi (o le opposte illusioni) del costruzionismo radicale e della neutralità perfetta, si intravede così uno spazio intermedio 'relativamente libero da teorie', prodotto da una neutralizzazione sufficientemente buona.

Potremmo cominciare a confrontarci su questi temi per e-mail, come ha proposto Diego Napolitani:
>Data la vastità e la profondità degli argomenti in calendario, non credi
>che sarebbe opportuno che coloro che hanno qualcosa da dire in proposito
>lo anticipino per e-mail? Questo consentirebbe una meditazione adeguata
>sulle varie proposte, una preparazione dell'eventuale commento (critico o
>di adesione), e anche una selezione di quei temi che si mostreranno
>prevalenti per numero e per spessore. Su questi temi, già quindi noti
>nelle proposte e nelle risposte, potrebbero essere ricapitolati nell'unica
>giornata di confronto per un "viva voce" scambievole come messa a punto
>conclusiva di accordi e disaccordi.

La proposta di Diego ne riecheggia una analoga fatta inizialmente da Fausto
Petrella. Spero che vorrete raccoglierla, dando inizio a un dibattito
precongressuale su questa minilista. Tullio Carere.

Riproduco qui sotto il testo introduttivo al Convegno:
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I Convegno Nazionale SEPI-Italia (Milano, 16 Marzo 2002)

INTEGRITÀ E INTEGRAZIONE IN PSICOTERAPIA

NOTA INTRODUTTIVA

"La malattia mentale - ha scritto Petrella (http://www.publinet.it/pol/ital/docustoria2.htm) - si presenta, dal punto di vista dell'integrazione psichica, sotto la forma della perdita o del difetto di tale integrazione, quindi come scissione fra parti, dissociazione, frattura o frammentazione". La terapia dovrebbe pertanto svolgere una funzione reintegratrice, ma "si verifica facilmente che alla dis-integrazione del paziente corrisponda nel campo dell'intervento un insieme teorico-clinico esso pure disgregato e travagliato da impostazioni e concezioni diverse".

L'integrazione cui la terapia dovrebbe tendere è dunque ostacolata dalle resistenze opposte dai modelli clinico-terapeutici, che "aspirano ciascuno a un certo imperialismo". Alla malattia del paziente come perdita o difetto di integrazione personale corrisponde l'inadeguatezza del terapeuta o dell'istituzione curante, oscillante tra l'imposizione unilaterale di un modello acriticamente e arbitrariamente assunto da un lato e "l'accozzaglia, la confusione sistematica" dall'altro. Il punto su cui far leva per evitare entrambe le insidie è visto da Petrella nella "integrità personale della presenza, che vaglia tutte le valutazioni e assume la responsabilità finale della posizione terapeutica".

Questa integrità è innanzitutto una posizione etica, di "ascolto tendenzialmente totale" del paziente e della situazione, non condizionato da pregiudizi teorici o tecnici. Qui si pone una prima questione: come è possibile un ascolto non condizionato dalla teoria, quando sappiamo che ogni esperienza ne è impregnata? In che modo, e fino a che punto, è possibile prendere le distanze dalle proprie premesse teoriche? Come è possibile, e che cosa significa precisamente, "lasciarsi sorprendere a ogni svolta" (Freud), sospendere ogni giudizio e motivazione (Husserl), ascoltare "senza memoria e senza desiderio" (Bion)? E ancora: come è possibile usare liberamente tutte le teorie e le tecniche che servono nella conduzione del trattamento senza esserne condizionati o asserviti, superando il parrocchialismo delle singole scuole e orientamenti, senza per questo cadere in un eclettismo disinvolto o privo di rigore?

Le ricerche sui risultati delle psicoterapie condotte finora sono compendiate dal "verdetto di Dodo": tutti hanno vinto, tutti meritano un premio. I risultati delle psicoterapie sembrano pressappoco gli stessi, quali che siano le teorie e le tecniche del terapeuta, e questi risultati si correlano solo debolmente con i fattori specifici dell'approccio impiegato, ma più nettamente con fattori relazionali "non specifici", cioè comuni a tutti gli approcci (Lambert). Il paradosso che emerge è che la psicoterapia in genere funziona, ma non tanto per i motivi per cui il terapeuta di scuola crede che funzioni, bensì in buona parte o in maggior parte per altri motivi, che hanno a che fare prevalentemente con la relazione che si sviluppa tra terapeuta e paziente. Altre ricerche mostrano che il modo di operare di un terapeuta esperto finisce per essere più simile a quello di altri terapeuti esperti di scuole diverse, che non a quello di terapeuti inesperti della sua stessa scuola. Si direbbe che l'esperienza allontani sempre di più i terapeuti dalle teorie delle rispettive scuole per riplasmarli secondo regole non scritte nei manuali, ma in qualche modo inscritte in qualsiasi relazione che si proponga di essere terapeutica. E' dunque l'idea di specifico e aspecifico che va interamente rivista? Che cosa possiamo e dobbiamo pensare di questa iscrizione preteorica o transteorica? Trattandosi di una struttura implicita nella relazione terapeutica in quanto tale, trasversale a tutti i metodi specifici, dovrebbe essere possibile descriverla servendosi di concetti operativi teoreticamente neutri - o nel linguaggio e nei concetti di una "metateoria". E' possibile pensare a una metateoria della relazione terapeutica, cioè una teoria generale del campo terapeutico, espressa in un linguaggio "experience-near" che descriva le operazioni basilari di ogni interazione terapeutica? Se questa metateoria non fosse possibile, non rischierebbe la psicoterapia di essere un semplice contenitore convenzionale per una congerie di pratiche disparate e incompatibili (come ad esempio le "medicine alternative")?

Sembra necessario che il terapeuta sia consapevole dei problemi sopra accennati. Se infatti la psicoterapia fosse, nei suoi tratti essenziali, un processo bene individuabile, la sua descrizione rigorosa e sistematica dovrebbe essere un obiettivo prioritario. Se fosse invece un contenitore convenzionale, cadrebbe la possibilità di parlare di integrazione tra pratiche concettualmente inconciliabili. Resterebbe solo la possibilità di integrare teorie che presentano tra loro una chiara affinità epistemologica (Neimeyer), o di procedere in modo "assimilativo" (Messer), cioè integrando teorie e tecniche estranee su una base teorica data, grazie alla loro riformulazione secondo i concetti e il linguaggio della teoria di partenza. Quali elementi ci possono orientare nella scelta tra queste diverse opzioni? O piuttosto questi problemi possono essere diversamente impostati?

Giovanni Liotti, 26 Maggio 2001:

Credo che sia la ricerca scientifica di base -- che segue gli stessi fondamentali principi quando si declina nei variegati mondi nelle Neuroscienze, della Psicologia sperimentale, della Psicologia dello sviluppo, del processo psicoterapeutico e degli effetti delle psicoterapie -- a indicarci il "linguaggio comune". Solo su questo tema posso dare un contributo al tema del Congresso. Parlerei di Control-Mastery Theory (CMT) (come esito di ricerca sul processo psicoterapeutico), di ricerca sull'attaccamento, di ricerca neuropsicologica come realtà attuali, già capaci di fatto di offrire un terreno comune di confronto a psicoterapeuti di diverso orientamento. Voglio dire che su questa base concreta già si trovano bene a "parlare" fra loro attraverso articoli o libri (e persino, nella mia esperienza, a formulare un concreto caso clinico) Colleghi di formazione psicoanalitica, cognitivista, e sistemico-familiare. Sono invece del tutto scettico che sia (in linea di principio!) possibile arrivare all'integrazione fra diverse psicoterapie, se solo ci si mette a dialogare, pur con le migliori intenzioni, fra psicoterapeuti di diversa formazione ma senza fare continuo riferimento ad un campo esterno alla psicoterapia (anche se contiguo ed in comunicazione con essa). Inoltre, tale riferimento può essere attuato solo assumendo l'epistemologia scientifica moderna (per me ben rappresentata dal pensiero di Popper: non, dunque, post-moderna) come fondamento comune tanto al pensiero clinico psicoterapeutico quanto al pensiero che emerge dalla ricerca esterna alla prassi concreta della psicoterapia (ricerca neuropsicologica, sull'attaccamento, sugli effetti delle psicoterapie, sul processo psicoterapeutico ecc. ecc.) Dirò di più: credo che questo modo di arrivare all'integrazione dei linguaggi psicoterapeutici non solo sia già in atto, ma sia destinato a procedere per suo conto senza bisogno alcuno che noi ci diamo da fare per guidarlo. Guidarlo non possiamo né dobbiamo: osservarlo mentre prende forma, e commentarlo, sì, potrebbe essere interessante. Gianni Liotti

Paolo Migone, 27 Maggio 2001:

Cari "colleghi SEPI" (devo chiamarci così?), mando anch'io, come Gianni Liotti, alcune riflessioni sulla questione della integrazione delle psicoterapie in preparazione del convegno SEPI-Italia. Sono riflessioni estemporanee, ovviamente.

Concordo con Liotti sulla necessità di un riferimento "esterno", comune a tutti, per poter far dialogare gli approcci tra di loro. Uno di questi riferimenti esterni può ben essere la normale "scienza" (e non post-moderna, come giustamente dice Liotti, altrimenti saremmo da capo, dato che uno dei connotati dell'idea post-moderna è proprio l'abbandono di una visione unica). Mi sembra che questo fosse anche il pensiero di Freud, quando disse che la psicoanalisi non ha altra weltenshaung se non la scienza della psicologia (e anche Grünbaum, quando sollevò la questione della importanza della "ricerca extra-clinica" - non a caso incontrando le critiche di molti psicoanalisti - toccò questo punto; anche Rubinstein riteneva che la metapsicologia psicoanalitica non può reggersi da sola senza un riferimento a dati esterni ad essa, validati da altre discipline). Che poi quello della "scienza" sia solo un punto di vista, cioè che non esaurisce tutta la questione della conoscenza (soprattutto in un campo come la psicoterapia) è un altro discorso, ma almeno è un punto di vista su cui ci si può confrontare, e si può iniziare a chiarire certe cose.

Fatta questa premessa, è difficile procedere senza rischiare di dire cose scontate, o che ci siamo dette tante volte (del tipo "sarebbe bello integrare" e cose del genere). Evidentemente se si fa fatica a procedere nella integrazione, devono esserci dei motivi forti (io ho tutta l'impressione che siano anche di tipo affettivo, nel senso che è difficilissimo criticare la cosa che amiamo, su cui abbiamo investito tanto; diventiamo più "obiettivi" solo quando la lasciamo, quando abbiamo... già cambiato idea). Mi viene in mente quante volte ho provato a discutere con colleghi, anche molto intelligenti e colti, che erano però credenti i di una particolare "setta" (era il caso di dirlo) psicoterapeutica o psicoanalitica (che anni dopo avrebbero abbandonato completamente). Erano impermeabili, e provavo un senso di brivido all'idea che forse in certe aree ero così anch'io senza rendermene conto. Inoltre non va dimenticato che una certa diversificazione di approcci può essere utile alla disciplina, nel senso che la ricerca diversificata evita un appiattimento su un unico modello che può essere anch'esso pericoloso.

Faccio ora un commento stimolato dall'articolo di Petrella, che feci a suo tempo quando lessi il suo lavoro, dove dice: "La malattia mentale si presenta, dal punto di vista dell'integrazione psichica, sotto la forma della perdita o del difetto di tale integrazione... (...) si verifica facilmente che alla dis-integrazione del paziente corrisponda nel campo dell'intervento un insieme teorico-clinico esso pure disgregato e travagliato da impostazioni e concezioni diverse"). Questo ragionamento rischia però di essere analogico, perché fa leva sulla somiglianza della parola integrazione usata in due contesti diversi. E poi non ci dice come si fa a superare tale "dis-integrazione", a meno che non si specifichi la teoria a monte di concetti quali "difetto di integrazione, scissione fra parti, dissociazione". O a meno che (cosa che io penso, e forse anche Petrella vuole dire questo) non si faccia riferimento al fatto che il cervello è fatto di parti diverse (tutte responsabili in qualche modo del comportamento) che funzionano in modi diversi, per cui sono nate diverse teorie (o scuole) a seconda di quale livello di funzionamento (e/o diagnosi) di volta in volta si prendeva in considerazione (mi riferisco ad esempio al discorso di Gedo, che in tempi non sospetti - a cavallo degli anni '70 - tentò una tale integrazione col suo modello gerarchico, fatto di 5 modi di funzionamento psichico collegati a 5 modalità tecniche; ma si pensi anche alle implicazioni della teoria del "codice multiplo" della Bucci e di tanti altri autori). Faccio un esempio: adesso Fonagy (tra i tanti) improvvisamente scopre che la interpretazione (il linguaggio verbale) non serve a niente con certi pazienti (es. certi borderline), che sono sordi a questo canale di comunicazione, e propone "nuove" modalità (l'esperienza emozionale ecc.). O si pensi alla recente "scoperta" della memoria procedurale da parte della psicoanalisi...

Io ho l'impressione che sia centrale la questione del modo con cui funziona il cervello, cioè non possiamo andare d'accordo se non concordiamo su una teoria della mente, e anche del rapporto corpo-mente, perché non si può riparare una macchina che non va se abbiamo idee diversissime di come è fatto il suo motore. Ma qui non è tutta "colpa nostra", nel senso che, a quanto mi sembra di capire, a tutt'oggi il dibattito sulla natura della mente, sul rapporto mente-corpo ecc., è molto vivo, altrimenti i neurobiologi e i filosofi della mente non continuerebbero a discutete e a confrontarsi, cosa che invece fanno, mettendoci di fronte a panorami diversi. Mi sembra quindi che solo quando si sarà appianato il dibattito e si saranno raggiunte conoscenze condivise in questo campo allora potremo (forse) procedere a un maggiore integrazione degli approcci psicoterapeutici (poi a me sembra, estremizzando il discorso, che non è possibile essere integrati, perché è la nostra testa che non è "integrata", cioè veramente abbiamo diversi modi di funzionare - quello artistico, intuitivo, scientifico, inconscio, ecc.). E poi, ripeto, la questione è che si continua a ritenere che esista "il paziente", mentre esistono diversi pazienti con diverse diagnosi e quindi diverse modalità di funzionamento mentale (e diversi terapeuti con gusti e modi di funzionare diversi), e questo dovrebbe essere considerato nel dibattito sulla integrazione in psicoterapia.

Non a caso la vera sfida oggi si gioca sulla migliore terapia per gli stessi pazienti (vedi il confronto Kernberg-Linehan, e Fonagy per i borderline che pare abbia dimostrato una efficacia del suo approccio tecnico). Personalmente, non ho mai avuto dubbi che certi autori diversissimi e con linguaggi diversi facessero proprio le stesse cose. Se mi permettete la provocazione, ho sempre pensato che la psicoterapia è sempre stata integrata, cioè è sempre stata una sola, sono stati i terapeuti che hanno pensato che non lo fosse.

Un ultimo commento, sempre stimolato da Petrella, quando parla di "integrità personale della presenza, che vaglia tutte le valutazioni e assume la responsabilità finale della posizione terapeutica". Tante volte si è cercato di ricorrere all'etica come elemento trasversale, forte, per cercare di risolvere la questione delle differenze tra approcci. Non sono sicuro che sia una strada facile da percorrere, perché il rischio è che ancora una volta si intendano cose diverse, cioè che sia una indicazione troppo di massima. Per ora mi fermo, ho fatto solo un paio di commenti di getto, e ringrazio Tullio Carere e Fausto Petrella per avermi dato lo stimolo. Paolo Migone

Sergio Benvenuto, 30 Maggio 2001:

Cari amici, sono lusingato per essere stato scelto come relatore del primo convegno SEPI, in un gruppo ristretto di happy few, che personalmente stimo. Questo mio compiacimento non può però esimermi dal marcare la mia distanza da quel che alcuni dei colleghi hanno scritto e, in fondo, dall'impostazione globale del convegno, a giudicare dal titolo e dalla presentazione. Spero solo che la mia voce - non so se l'unica dissonante - venga accettata come una possibilità di arricchimento sinfonico del coro, e non come una brutale stecca. In effetti, annuncio subito che prenderò posizione CONTRO L'INTEGRAZIONE IN PSICOTERAPIA. Spero solo che la mia (eccessiva) franchezza non incrini qualche amicizia.

In effetti, tutto l'accento del convegno è sull'integrazione tra le varie prospettive psicoterapiche. Si suggerisce che il campo psicoterapico dovrebbe guarire da un nevrosi di mancata integrazione tra parti, così come, mutatis mutandis, i pazienti devono guarire da una mancata integrazione tra le loro parti. Avverto una distanza, etica ed estetica, da queste preoccupazioni "integrazioniste". Non perché le trovi sbagliate, ma semplicemente perché non sono le mie - tutto qui.

Per me la proliferazione delle scuole e dei linguaggi in psicoterapia è ANCHE un segno di vitalità e di energia della nebulosa psicoterapica. Per alcuni di voi evidentemente no, è un fenomeno patologico, da qui la ricerca di una "integrazione" ad ogni costo. A me non interessa dimostrare che, in fin dei conti, TUTTI i terapisti, di qualsiasi scuola, fanno la stessa cosa (del resto, come esserne sicuri? cosa possiamo sapere della pratica di migliaia di psicoterapeuti in tutto il mondo, delle scuole più diverse?). Io sono più egoista: bado piuttosto a fare IO qualcosa di convincente. Non ho mire imperialiste, non mi interessa stabilire le invarianti o gli elementi universali, fondamentali - senza i quali magari si è espulsi dalla cerchia degli psicoterapeuti, e si cade nella feccia di chi pratica "suggestione e manipolazione". Ma il punto è proprio questo: dobbiamo ancora dimostrare in modo inequivocabile, a chiunque non creda nelle psicoterapie, che esse NON sono RIDUCIBILI a suggestione e manipolazione.
Nel pamphlet "On Liberty", J.S. Mill mostrò che la pluralità delle teorie - anche di quelle più bislacche - soprattutto in campo scientifico, è una ricchezza, anzi, la fonte del vero progresso. Pluralismo e differenze sono la linfa del cammino del sapere. Oggi tutti fanno genuflessioni rituali di fronte al proclama di Mill, ma poi in pratica si temono pluralità e differenze come la peste, e si cerca di ridurle al minimo - "integrare le differenze" al più presto! Eppure il darwinismo ci mostra che nella storia della vita non si integra affatto: si selezionano differenze.
C'è una certa ingenuità da psicoterapisti - cioè, da persone che soffrono spesso del senso di inferiorità di "essere poco scientifici" - nell'appellarsi al modello, per esempio, delle neuroscienze, per superare le eterogeneità tra psicoterapisti. Si dà il caso che oggi, proprio nel dibattito tra neuroscienziati, si confrontino proprio modelli alquanto incommensurabili, che non cercano affatto di integrarsi - anzi, ognuno cerca di soppiantare l'altro. Ho avuto di recente una bella conversazione con Francisco Varela (che verrà presto pubblicata sul trimestrale "Lettera Internazionale"), il quale esalta il modello fenomenologico (di Husserl) nelle neuroscienze, contrapponendolo a modelli positivistici più classici. E i modelli neo-darwiniani (come quello di Edelman) non puntano affatto ad integrare l'approccio cognitivista, ma a confutarlo. Come nel mondo biologico, è una lotta per la vita e per la morte tra programmi di ricerca scientifici. Questa pietosa volontà integrativa, di fatto, mi sembra più un segno della minorità scientifica delle psicoterapie che un modo di superare finalmente questa minorità.
Liotti ha detto che il suo referente è Popper - autore che ammiro, anche se considero oggi falsificata la sua teoria falsificazionista. Ammiro anche T.S. Kuhn. Questi ha distinto in ogni scienza due posizioni fondamentali: la scienza straordinaria e la scienza normale. Nella prima un campo scientifico è teatro della lotta tra due o più paradigmi che si contendono il primato: allora le discussioni tra scienziati scivolano inevitabilmente verso "il filosofico", perché non c'è un accordo sull'AB C. In questa fase si confrontano paradigmi tra loro incommensurabili. Poi, dopo che UNO dei paradigmi prevale, si entra nella più grigia e conformista scienza normale: tutti gli scienziati di quella branca condividono i presupposti di un unico programma di ricerca, per cui si cerca solo di far quadrare i fatti recalcitranti nell'ambito del paradigma condiviso.
Ora, quando sento parlare in termini salvifici della INTEGRAZIONE tra strategie psicoterapiche diverse, mi chiedo se non ci sia sotto il trucco: mi chiedo se essa non si riduca, di fatto, a promuovere il trionfo di UN solo approccio, svuotando gli altri. (Possibilità che non deploro. Ma la vittoria di UN SOLO approccio non implica ipso facto la sua verità. Anche il cattolicesimo, nel Medio Evo, prevalse su tutte le altre "eresie": ma chi direbbe oggi che prevalse perché era PIU' VERO delle eresie?)
Ora, per ragioni caratteriali probabilmente congenite, c'è chi preferisce vivere in epoche STRAORDINARIE e chi preferisce vivere in epoche NORMALI. Io preferisco le straordinarie. Non c'è dubbio che le psicoterapie in un secolo non hanno raggiunto uno status di normalità kuhniana (perciò Kuhn stesso non le considererebbe vere scienze): a mio avviso i paradigmi a cui si ispirano gli psicoterapeuti sia nella teoria che nella pratica sono in gran parte incommensurabili. Ma proprio questa incommensurabilità rende il dibattito - spero anche tra voi e me - interessante e proficuo!
E' nelle fasi straordinarie che i cultori della disciplina affrontano questioni filosoficamente davvero essenziali, il che mi piace. L'epoca straordinaria del dibattito tra cartesiani e newtoniani nel 600 - o quella tra Einstein e i fisici quantistici all'inizio del 900 - furono certo tra i momenti più eccitanti della storia della fisica. E' nel malinteso e nell'incommensurabilità che prosperano le vere discussioni. Se invece i presupposti sono condivisi, allora potremmo anche delegare a potenti computer la soluzione dei problemi, come sognava Leibniz.... "Non discutiamo, calculemus!"

Alcuni di voi, mi pare, cercano il "minimo comun denominatore" tra le psicoterapie (presupponendo che questo mcd è quel che veramente conta, il resto sarebbero "pregiudizi teorici") dando quindi per scontato che esse siano COMMENSURABILI, che giochino con gli stessi elementi costitutivi. Ma questo è tutto ancora da dimostrare. Io, da quel che ho potuto vedere delle varie terapie, sono piuttosto incline a vedere tra loro ciò che Wittgenstein chiamava SOMIGLIANZE DI FAMIGLIA. Questa idea - che sta avendo applicazioni straordinarie in molti campi, in particolare nelle neuroscienze - è squisitamente anti-cognitivsta: rigetta l'idea che certi concetti generali (ad esempio "psicoterapia") forniscano le condizioni per determinare in modo univoco gli enti che cadono sotto questi concetti.
In effetti, se prendiamo gli elementi di una certa categoria, molti di essi possono essere posti in relazione tra loro anche se alcuni non presentano nessuna delle proprietà che definiscono la categoria comune a tutti nel modo classico - vale a dire criteri individualmente necessari e congiuntamente sufficienti. Accade così che certe categorie possano avere GRADI DI APPARTENENZA ma non confini netti. Inoltre certe categorie possono avere elementi che sono più rappresentativi di altri: i prototipi. Quando parliamo di satelliti, il nostro prototipo è la luna - quando parliamo di psicoanalisi, i nostri prototipi sono il freudismo e il junghismo. Prendiamo due quasi-estremi, la psicoterapia junghiana e quella cognitivista: è probabile che tra le due non ci sia quasi nulla in comune, eppure sono correlate perché ognuna ha tratti comuni con altre psicoterapie che sono tra loro correlate, ecc. Ho l'impressione però che alcuni di noi ragionino ancora nel modo classico (riportato in auge dal cognitivismo) e non nel modo wittgensteiniano: pensano che davvero quando parliamo di "psicoterapia", questo sia un concetto definibile una volta per tutte attraverso elementi costitutivi comuni. Credere che dietro una parola-concetto - ad esempio "psicoterapia", "religione", ecc. - ci siano forme di vita omogenee è un'illusione aristotelica che oggi mi pare sfatata (considero il moderno cognitivismo una forma attardata di aristotelismo).

Tanti psicoterapeuti anelano a diventare "scientifici" come i medici organici - anelito legittimo. Ma la forza della medicina consiste nel fatto che essa non propone per qualsiasi malattia, in pratica, sempre la stessa cura! (Invece la psichiatria farmacologica, purtroppo, tende a somministrare sempre gli stessi farmaci - non più di una cinquantina - per quasi o tutti i disturbi.) Capisco gli argomenti di quanti - come Carere - dicono "quel che funziona è la relazione terapeuta-paziente, e nessuna metapsicologia oggi in auge descrive questa efficacia". Sono d'accordo: anch'io cerco in questa direzione. Questo perché le spiegazioni che OGNI scuola psicoterapica ha finora elaborato della propria efficacia ci lasciano oggi, tutti, chi più chi meno, insoddisfatti. Da qui il pungolo a cercare ALTRE descrizioni e spiegazioni di quel che accade in psicoterapia. (Occorre però dire che spesso la stessa medicina organica non sa perché guarisce; da qui il facile ricorso al concetto di "effetti placebo". Conosco medici illustri che mi dicono "ignoro perché certi pazienti guariscono, e altri no".)
Quel che mi lascia perplesso, però, è credere che LA RELAZIONE PSICOTERAPICA SPIEGHI OGNI COSA, dando per scontato che, per ogni soggetto e per ogni disturbo, OPERI SEMPRE UNA STESSA MEDICINA, cioè UN certo tipo di relazione. Ma anche questo è un dogma, un pregiudizio non dimostrato: perché dare per scontato che la relazione che uno junghiano ha con un suo paziente sia la stessa relazione che un cognitivista-comportamentale, per esempio, ha con il proprio? Chi ha mai dimostrato questa omogeneità? Il fatto di aver rilevato, statisticamente, che le psicoterapie sono tutte ad un tasso simile efficaci (Verdetto di Dodo) - o ad un tasso simile inefficaci - non dimostra ipso facto che sono efficaci per le stesse cause! Una depressione può sparire perché assumo una forte dose di Prozac o perché ho conosciuto la donna dei miei sogni: basta questo per concludere che il Prozac e la bella donna siano la STESSA terapia?
C'è un senso in cui dire "è la relazione che cura" è banalmente vero: come dire "in ogni farmaco efficace opera un principio chimico attivo". Ma si tratta di capire perché QUELLA specifica relazione è riuscita a risolvere QUELLO specifico problema, così come si tratta di sapere, in medicina, perché QUELLO specifico farmaco ha prodotto QUELLO specifico effetto terapeutico. In fondo, qualsiasi scuola psicoterapica o analitica è d'accordo che l'elemento terapeutico è la relazione: il problema è come la si descrive! Dire "è la relazione che cura" è essere ancora al punto di partenza. Ma lo ammetto, un buon punto di partenza è meglio che essere andati molto avanti su una via completamente sbagliata Credere a priori che le psicoterapie siano commensurabili - e quindi integrabili - significa prendere per oro colato quel che la cultura sanitaria degli ultimi 30 anni considera "problemi da psicologo". Ma siamo sicuri che cose come soffrire di coazioni ossessive, essere dediti ad una sostanza tossica, credere di essere amati da Raffaella Carrà, essere paralizzati da una fatica cronica, poter penetrare sessualmente una donna solo se calza stivali, avere paura di viaggiare, siano tutti "problemi psicologici" omologabili? Crediamo che ci sia un tratto comune tra tutti questi malesseri - il misterioso DISORDINE MENTALE, come lo chiama il DSM - perché all'Università ci hanno insegnato a classificare tutte queste sofferenze (tra loro forse eterogenee) come "psichiche", il che ha autorizzato gli psicoterapeuti di ciascuna scuola a proporre, per tutti questi disagi, SEMPRE LA STESSA MEDICINA, vale a dire un certo tipo di relazione (quella che il nostro trainer ci ha insegnato). Questo è storicamente ricorrente: si sa che quando una tecnica o una teoria ha sortito qualche successo in un campo, si tende ad esportarla in tutti i campi limitrofi. E' l'imperialismo naturale, spontaneo, di qualunque cosa abbia successo (così come oggi, in psichiatria, siccome i sali di litio hanno funzionato bene per certi disturbi, li si tende a prescrivere per TUTTI i disturbi). Ma il fatto che il Dipartimento di Psicologia chiami "problemi psicologici" tutte queste sofferenze non implica affatto che al nome-cesto corrisponda una realtà unica. Per lo meno, non dovremmo dare la cosa per scontata.
Analogamente, chiamiamo "terapeutici" effetti che in altre epoche non avrebbero avuto nulla in comune, semplicemente perché la psichiatria oggi dominante ha deciso che tra tutte queste "mutazioni" c'è un tratto comune. Ma sappiamo anche che, nel corso degli anni, il concetto stesso di "curabile" (e quindi di "disordine" o "disturbo") varia ampiamente. Ad esempio, fino a 20 anni fa si "curavano" ancora uomini e donne della loro omosessualità; oggi, chi lo dicesse si farebbe espellere dall'ordine degli psicoterapisti. All'inverso, quelli che un tempo venivano considerati dei semplici mangioni oggi vanno curati: sono diventati dei "bulimici". Gli esempi potrebbero essere moltiplicati.

Una mia amica americana di mezza età non ha mai volato perché il volo la angosciava. Di recente, ha seguito un "corso" organizzato dall'aeroporto di San Francisco per chi ha paura di volare: si spinge un gruppo di persone a prendere confidenza, poco a poco, con l'aereo ed il volo. Nel giro di pochi giorni ha superato la sua antica paura, e oggi transvola l'Atlantico. Il suo commento è stato: "se avessi intrapreso un'analisi, ci avrei messo almeno cinque anni per arrivare a questo risultato, a cui sono giunta in pochi giorni!". Come darle torto? Ora, non so quale "relazione" sia stata il fattore terapeutico in questa "cura" dell'aeroporto di San Francisco. Oppure devo relegarla tra le tecniche suggestive e manipolative? Certo non la si può considerare una psicoterapia in senso prototipico perché non fa appello essenzialmente alla parola - ma quale psicoterapia fa appello unicamente alla parola? - eppure ha somiglianze di famiglia con le psicoterapie. Insomma, la nebulosa psicoterapica sbrodola in tutte le direzioni possibili. Ad esempio, c'è qualcosa in comune tra la "terapia" praticata dagli Anonimi Alcolisti - che, anche se basata su una filosofia spiritualista, risulta relativamente efficace (più delle psicoterapie classiche!) con gli alcolizzati - e quella che pratica un lacaniano, ad esempio, con un soggetto che alza troppo il gomito? Dire che in ambedue "opera la relazione" è dire solo una ovvia verità: che tra due o più persone QUALCOSA HA FUNZIONATO. Ma siamo ancora lontani dall'aver determinato questo "qualcosa".
Credo che faremo un passo avanti nel capire CHE COSA DAVVERO ACCADE nelle psicoterapie - ognuna con la sua specificità - se abbandoneremo quel che chiamerei appunto il PREGIUDIZIO INTEGRAZIONISTA e il dogma della commensurabilità. E' come diceva Wittgenstein: "Se palleggio contro il muro in modo distratto, e se gioco una partita di scacchi, in ambedue i casi parlo di gioco. Ma è illusione pensare che, a parte una certa somiglianza di famiglia, ci sia davvero un qualche fondamentale tratto comune tra il gioco di palleggiare e il giocare a scacchi!" (Del resto, quando Edelman propone la sua teoria darwiniana dello sviluppo cerebrale, va avanti proprio su questa linea wittgensteiniana)

Mi dispiace per qualche amico, ma ho anche qualche dubbio che la stessa terapia psicoanalitica di TUTTI i nevrotici sia sempre e solo integrazione. E' vero che Freud, descrivendo le nevrosi in termini di conflitto tra istanze o parti del soggetto, in qualche modo proponeva un'integrazione tra queste istanze o parti. Ma allo stesso tempo proponeva anche il riconoscimento di qualcosa che non può essere né sarà mai integrabile - i desideri incestuosi, gli impulsi omicidi, l'invidia distruttiva, la pulsione di morte. Possiamo mai davvero INTEGRARE il nostro inconscio? Mi auguro di no. Né mi pare che questa integrazione fosse il messaggio di fondo di Freud (il quale considerava la guarigione un fatto alquanto misterioso). Non a caso nei suoi ultimi scritti parlava di "costruzioni" e "ricostruzioni" non di "integrazioni". Certo il non-integrabile va assimilato, riconvertito. Mi chiedo allora se questo furor integrazionista non si risolva al servizio di qualche rimozione (in termini freudiani).
Altri analisti poi (come Winnicott) insistono sulla creatività come valore terapeutico. E' riducibile la creatività ad una integrazione di parti? O piuttosto il creatore - ad esempio il grande artista - esprime in forma accettabile ciò che non è integrabile, che resta invece ALTRO? Quando Shakespeare ci descrive, in modo così convincente, Richard III, ci permette di integrare la sua malvagità in noi? Oppure invece ci permette di separarci da ciò che in noi è ancora Richard III, di riconoscerlo per rinunciarci? In un certo senso la creazione e la terapia sono integrazione, ma in un altro senso sono anche dis-integrazione, abbandono del passato, doloroso superamento dell'antico, passaggio ad altro. L'analisi riuscita è per me non solo riparazione e integrazione, ma anche SEPARAZIONE, Gelassenheit di qualcosa a cui siamo appartenuti.
Mi chiedo insomma se tutte queste odi integrazioniste non riflettano - nell'ambito della psicoterapia - gli ideali (che rispetto) della cosiddetta globalizzazione, che vuole ridurre tutto il mondo alla ragione - cioè alla ragione anglo-americana della democrazia capitalistica liberale. Non perché io sia ostile alla democrazia capitalistica anglo-americana: ma perché essa NON SI IDENTIFICA con l'umanità, così ricca di differenze e variazioni. Integrare, globalizzare, non è eliminare, uccidere le differenze? A me invece le differenze (non integrabili) piacciono. Anche perché sono alla fonte del progresso e della vita. Sergio Benvenuto

Giovanni Liotti, 4 Giugno 2001:

Cari amici e Colleghi, alcune note su due temi fra i tanti che ha suggerito Sergio Benvenuto potranno, spero, contribuire allo sviluppo delle nostre riflessioni.

Sergio Benvenuto ha scritto:
>... il darwinismo ci mostra che nella storia
> della vita non si integra affatto: si selezionano differenze.
> C'è una certa ingenuità da psicoterapisti - cioè, da persone che soffrono
> spesso del senso di inferiorità di "essere poco scientifici" -
> nell'appellarsi al modello, per esempio, delle neuroscienze, per superare
> le eterogeneità tra psicoterapisti. Si dà il caso che oggi, proprio nel
> dibattito tra neuroscienziati, si confrontino proprio modelli alquanto
> incommensurabili, che non cercano affatto di integrarsi - anzi, ognuno
> cerca di soppiantare l'altro. ...
> E i modelli neo-darwiniani (come quello di Edelman) non puntano affatto ad
> integrare l'approccio cognitivista, ma a confutarlo. Come nel mondo
> biologico, è una lotta per la vita e per la morte tra programmi di ricerca scientifici.
> ... Tanti psicoterapeuti anelano a diventare "scientifici" come i medici
> organici - anelito legittimo. Ma la forza della medicina consiste nel fatto
> che essa non propone per qualsiasi malattia, in pratica, sempre la stessa
> cura! (Invece la psichiatria farmacologica, purtroppo, tende a
> somministrare sempre gli stessi farmaci - non più di una cinquantina - per
> quasi o tutti i disturbi.)

Sono d'accordo con il tema darwiniano della selezione che Benvenuto solleva, ma ricordo che, nella biologia evoluzionista, "selezione" non si pone affatto in antitesi ad "integrazione". Nella vita si integra, eccome, ciò che è stato selezionato. Posso rispettosamente consigliare a Benvenuto, a questo riguardo, di riflettere sulla vecchia simpatica metafora di Jacob, che suggerisce di guardare all'evoluzione delle forme viventi come ad un bricolage? Vengono selezionati "moduli" (metabolici morfologici o comportamentali -- se si preferisce, "geni") che permettono un migliore adattamento alla nicchia ecologica. I nuovi "moduli" (per quelli che seguono Dawkins, "geni") di successo si accostano fra loro e ai vecchi moduli (ecco il bricolage) ed interagiscono in forme organismiche compiute ed evidentemente integrate.
Allo stesso modo, non credo che verranno "selezionate" le Scuole o i modelli di psicoterapia, quanto piuttosto alcuni fra i numerosi oggetti del Popperiano Mondo 3 che ciascuna Scuola, o modello, ha coniato. Credo, in altre parole, che le variegate imprese culturali, cliniche e scientifiche oggi confusamente racchiuse entro il termine "le psicoterapie" siano composte da molte idee, ipotesi, teorie, congetture (e altri oggetti del Mondo 3). E credo che numerose idee, ipotesi, teorie e congetture avanzate all'interno di diverse Scuole, o modelli generali, di psicoterapia siano più valide di altre, avanzate all'interno delle stesse Scuole o modelli. Il problema, ovviamente, è distinguere le prime, più valide, dalle seconde che lo sono meno. La speranza (lo ammetto, è solo una speranza) è che le migliori proposte di ogni Scuola, o modello, siano "commensurabili" con le migliori proposte di ogni altra, mentre le peggiori potrebbero anche essere fra loro incommensurabili. Se tale speranza si rivelasse un giorno praticabile, allora ci sarebbe una vera integrazione TEORICA, ovvero di modello generale, capace di aprire la porta ad una "psicoterapia" senza aggettivi. Ma capisco che questa, che per me è una speranza, per altri possa apparire un incubo. Tuttavia, speranza o incubo che sia, non credo che nessuno potrà mai imperialisticamente agire per renderla concreta. Casomai, si tratterà di assistere agli esiti del famoso processo di selezione (e bricolage evoluzionistico), che, se c'è, procede per conto suo e non perché pilotato da qualcuno.
Per risolvere il problema di quali singole congetture psicoterapeutiche (e non, ripeto, quali modelli psicoterapeutici generali) siano migliori, penso che il vecchio metodo scientifico -- definire chiaramente la congettura e raccogliere accuratamente e consensualmente informazioni che possano confutarla (mi sembra ancora buona la vecchia idea di Popper: mai nessuna raccolta di informazioni dimostrerà che una ipotesi è vera; potrà solo dimostrare che è falsa) -- sia ancora l'unica possibilità educata e civile. Penso inoltre che tale processo di vaglio sia già iniziato. Alcune, singole e limitate, congetture della psicoanalisi classica, mi pare, sono già state confutate, non fosse altro a partire dai loro risultati nella pratica clinica quotidiana, e così alcune congetture della terapia comportamentale, della terapia cognitiva, della prospettiva familiare-sistemica, e via dicendo. Altre idee della psicoanalisi, o della terapia comportamentale, o della terapia cognitiva, invece, per ora reggono al vaglio della ricerca, e appaiono perciò stesso (Lapalisse?) migliori delle prime che invece a tale vaglio non hanno retto. Magari a Milano potremmo tentare di fare un parziale elenco delle congetture psicoterapeutiche che hanno già affrontato con successo il vaglio dell'esperienza clinica, degli studi di efficacia, degli studi sul processo psicoterapeutico, e della ricerca i discipline vicine come le neuroscienze o la psicologia dello sviluppo. Potrebbe essere interessante, poi, elencare le congetture che di fronte ha tale vaglio hanno mostrato di essere deboli o insostenibili. Un esempio paradigmatico, secondo me, è offerto dalla ricerca sul processo psicoterapeutico del San Francisco Psychotherapy Research Group, che ha confutato l'idea che il "ritorno del rimosso", o meglio l'insight, sia necessariamente accompagnato e preceduto da angoscia. Un altro esempio di idea confutata, questa volta dalla neuropsicologia, è che il sogno si produca come effetto della censura onirica. Un terzo esempio è che si possano curare, di regola, gli ossessivi senza aiutarli a rinunciare ai loro rituali prima di analizzare il contenuto delle loro immagini mentali intrusive. Regge benissimo invece al vaglio della critica e della ricerca l'idea opposta, che per curare un ossessivo bisogna aiutarlo a rinunciare ai suoi rituali prima di analizzare il significato e l'origine delle sue immagini mentali intrusive (fra l'altro, anche il meccanismo con cui i farmaci serotoninergici danno benefici ad alcuni pazienti ossessivi corrobora l'ipotesi che sia di grande importanza confrontarsi con i comportamenti compulsivi prima che con il significato delle rappresentazioni mentali ossessive). Credete che a Milano varrà la pena di allungare l'elenco di questi esempi?
Qualcosa di analogo si osserva nelle neuroscienze. Giustamente, Benvenuto si sofferma sulla feroce "lotta per la vita" fra i modelli generali che si confrontano in tali ambiti (un esempio che mi è caro: la lotta fra il modello della coscienza di Edelman e quello di Damasio). Tutti i modelli che emergono o che emergeranno nelle neuroscienze, però, riconoscono che l'ippocampo ha a che fare con la memoria, o l'amigdala con la paura e altre risposte emozionali, perché le ipotesi alternative sulle funzioni dell'amigdala, o dell'ippocampo, sono state confutate. Forse anche nelle psicoterapie si potrà assistere a qualcosa di simile: coesistenza di modelli generali non integrabili, e di singole idee accettate da tutti i modelli. Se così fosse, l'integrazione potrebbe un giorno avvenire fra le singole idee che superano il vaglio della ricerca (bricolage, che dà vita ad un organismo integrato), e non fra i modelli che originariamente hanno proposto quelle singole idee (tutti magari nel frattempo estinti).
Infine, è del tutto evidente che, come la medicina, così anche la psicoterapia contemporanea non propone affatto la stessa cura per tutti i disturbi (da dove qualcuno potrebbe mai trarre la strana idea che, oggi, sia vero il contrario, come forse lo era ai primordi della psicoanalisi?) Ad esempio, nel mondo psicoanalitico contemporaneo, ci sono prassi terapeutiche specifiche per i disturbi borderline, che sono molto diverse dalle prassi suggerite per la cura, che so, di un disturbo ansioso-fobico semplice. Uno psicoanalista come Basch, per citare un solo esempio, descrive chiaramente in un suo libro la strategia terapeutica che adotta con un paziente afflitto da un disturbo di personalità, e mostra in dettaglio quanto sia diversa da quella che utilizza con un altro paziente, afflitto da un disturbo psicosessuale classicamente "nevrotico". In ambito cognitivo-comportamentale, la terapia dialettica di Linehan per i disturbi borderline è assai specifica, ed assai diversa dalla cura che la stessa Linehan adotterebbe per trattare un disturbo ossessivo-compulsivo (presumo che utilizzerebbe le tecniche proposte da Salkovskis, vista la loro notevole efficacia). Proprio perché, all'interno di ciascun modello generale di psicoterapia, esistono cure diverse e specifiche per specifici disturbi, è possibile valutare quale fra esse sia migliore per un dato disturbo. Così, si può valutare attualmente che il modello psicoanalitico e basato sulla teoria dell'attaccamento di Bateman e Fonagy è almeno leggermente più efficace di quello dialettico-comportamentale di Marsha Linehan. Come mi piace pensare a Marsha Linehan che, convinta dalla bontà delle prove di efficacia offerte da Bateman e Fonagy, modifica il suo metodo di terapia dei Borderline!
Anche in questo caso, riguardante la pratica terapeutica, come nel caso nelle congetture teoriche, le prassi che funzionano meglio per un determinato disturbo potrebbero finire per essere accettate da terapeuti formatisi a Scuole diverse da quelle che originariamente hanno istituito tali prassi, dando così luogo ad una progressiva "integrazione", per selezione e bricolage, delle psicoterapie. Giovanni Liotti

Paolo Migone, 4 Giugno 2001:

Caro Benvenuto, faccio alcuni commenti alla tua mail del 30-5-2001. Avevo aspettato a rispondere perché avevo già mandato una mail, e volevo prima sentire altri, ma ho pensato poi che tanto valeva rispondere subito alla tua "stecca", come tu la chiami. Se è vero che ti piacciono le differenze, perché è così che si tiene vivo il dibattito e si evidenziano meglio i problemi (e qui concordo molto con te), sono sicuro che ti farà piacere ricevere dei commenti critici, e spero poi di essere aiutato anch'io a capire cose che eventualmente non ho capito dal tuo intervento.

Tu dici:
>Per me la proliferazione delle scuole e dei linguaggi in psicoterapia è
>ANCHE un segno di vitalità e di energia della nebulosa psicoterapica. Per
>alcuni di voi evidentemente no, è un fenomeno patologico, da qui la ricerca
>di una "integrazione" ad ogni costo.

Colgo questa frase perché riassume un po' la tua argomentazione, più o meno all'inizio della tua mail. Se "la proliferazione delle scuole e dei linguaggi in psicoterapia è ANCHE un segno di vitalità e di energia" (concetto che io stesso sottolineavo nella mia mail di tre giorni prima), significa che può essere anche un segno di qualcos'altro (es. dell'opposto, cioè "di non vitalità e di non energia" - da notare che hai scritto la parola "ANCHE" in maiuscolo). Quindi possiamo essere tutti d'accordo su questo: perché non studiare i casi in cui la proliferazione delle scuole e dei linguaggi NON è un segno di vitalità e di energia? Perché qui dovresti obiettare? O forse vi è una contraddizione nella tua argomentazione?

Nella farse seguente dici che "per alcuni di noi evidentemente la proliferazione delle scuole e dei linguaggi è un fenomeno patologico, da qui la ricerca di una 'integrazione' ad ogni costo". Quali sono le argomentazioni che ti fanno usare la parola "evidentemente"? La mia impressione, anche alla luce dei tanti dibattiti svoltisi negli anni scorsi sulla lista PM-PT, è esattamente opposta: chi si interessa alla problematica delle integrazione delle psicoterapie sono proprio coloro che vogliono vedere le differenze, che le studiano a fondo, attentamente, per vedere cosa si può integrare e cosa assolutamente no. Analizzare attentamente le differenze, demarcarle meglio, equivale concettualmente alla operazione di integrare altre cose. L'un concetto implica l'altro. Mi chiedo come fai a non vedere questo. Ma può darsi però che io abbia capito male la tua argomentazione.
Come Tullio Carere sa bene, a me non è mai piaciuta la parola "integrazione". O meglio, va specificato cosa si intende. Anche all'interno della SEPI anni fa vi fu un dibattito sul nome da dare a questo gruppo internazionale di colleghi che erano interessati a questo lavoro di studio comparato dei vari concetti e delle varie tecniche della psicoterapia. Quello che importa è la sostanza, cosa si vuole fare: sono tutte persone interessate a non chiudersi nella propria parrocchia, ma molto interessati a visitare le parrocchie degli altri quartieri della città, e ancor di più a entrare nelle chiese di altre religioni, ascoltare le loro omelie, con rispetto e voglia di capire. Non sono molti i momenti oggi in cui istituzionalmente avvengono tali confronti. Ho sempre avuto l'impressione che siano pericolosi, perché vanno contro a interessi corporativi, istituzionali; è molto meglio non farsi certe domande, tenere i propri allievi nell'ignoranza così la propria scuole sopravvive meglio. E' lo spirito della SEPI che mi è piaciuto, che ho visto in alcuni che conobbi (es. Wachtel), gente che ama lo spirito di contraddizione, che è disposta molto volentieri a modificare le proprie idee, il cui credo insomma è proprio l'opposto della integrazione forzata o dell'"imperialismo" di cui parli.

Dici poi:
>A me non interessa dimostrare che, in
>fin dei conti, TUTTI i terapisti, di qualsiasi scuola, fanno la stessa cosa
>(del resto, come esserne sicuri? cosa possiamo sapere della pratica di
>migliaia di psicoterapeuti in tutto il mondo, delle scuole più diverse?).

Anche qui non sono sicuro di capire il ragionamento. Siamo sicuri o non siamo sicuri che terapisti, di qualsiasi scuola, fanno la stessa cosa? Io non sono affatto sicuro. Ma il punto è un altro: se in alcuni casi facessero proprio la stessa cosa? Questo non dovrebbe interessarci?

Poi dici, a proposito dell'idea (sostenuta da Carere e altri) che "quel che funziona è la relazione terapeuta-paziente":
>Quel che mi lascia perplesso, però, è credere che LA RELAZIONE
>PSICOTERAPICA SPIEGHI OGNI COSA, dando per scontato che, per ogni soggetto
>e per ogni disturbo, OPERI SEMPRE UNA STESSA MEDICINA, cioè UN certo tipo
>di relazione. Ma anche questo è un dogma, un pregiudizio non dimostrato:
>perché dare per scontato che la relazione che uno junghiano ha con un suo
>paziente sia la stessa relazione che un cognitivista-comportamentale, per esempio, ha con il proprio?

Anche questo lo trovo scontato, e mi sembra che il punto sia un altro: per me (e mi sembra anche altri colleghi) è scontato che non è sempre vero che "la relazione che uno junghiano ha con un suo paziente sia la stessa relazione che ha un cognitivista-comportamentale". Ma supponiamo che sia vero: ci interesserebbe? Cosa significherebbe questo dato? Quali sarebbero le implicazioni teoriche e cliniche? O forse intendi dire un'altra cosa, cioè alludi alla storica dicotomia nomotetico-idiografico, cioè dici che ogni persona, o ogni coppia paziente-terapeuta è unica, irripetibile, idiografica, non paragonabile ad un'altra? Se è così, mi sembra davvero impossibile confrontarci, perché non potremmo neppure avere un linguaggio comune, non potremo neppure comunicare tra noi, non potendo costruire categorie concettuali perché già questo sarebbe un modo "nomotetico" di procedere (per brevità rimando al saggio di Holt del 1962, che sicuramente conoscerai: http://www.publinet.it/pol/ital/documig6.htm)

Ancora:
>Chi ha mai dimostrato questa omogeneità? Il
>fatto di aver rilevato, statisticamente, che le psicoterapie sono tutte ad
>un tasso simile efficaci (Verdetto di Dodo) - o ad un tasso simile
>inefficaci - non dimostra ipso facto che sono efficaci per le stesse cause!
>Una depressione può sparire perché assumo una forte dose di Prozac o perché
>ho conosciuto la donna dei miei sogni: basta questo per concludere che il
>Prozac e la bella donna siano la STESSA terapia?

Chi ha mai detto che siano la stessa cosa? Se però si dimostra che hanno lo stesso effetto, questo apre problemi interessanti, almeno a livello pratico (ma anche teorico).

Dici poi:
>C'è un senso in cui dire "è la relazione che cura" è banalmente vero: come
>dire "in ogni farmaco efficace opera un principio chimico attivo". Ma si
>tratta di capire perché QUELLA specifica relazione è riuscita a risolvere
>QUELLO specifico problema, così come si tratta di sapere, in medicina,
>perché QUELLO specifico farmaco ha prodotto QUELLO specifico effetto
>terapeutico. In fondo, qualsiasi scuola psicoterapica o analitica è
>d'accordo che l'elemento terapeutico è la relazione: il problema è come la
>si descrive! Dire "è la relazione che cura" è essere ancora al punto di partenza.

Ed è appunto per questo che si discute e si cerca di specificare meglio cosa significa "è la relazione che cura". Poi però dici:
>Ma lo ammetto, un buon punto di partenza è meglio che essere
>andati molto avanti su una via completamente sbagliata...

Qui pare che siamo d'accordo. Dire che "è la relazione che cura" è una banalità, come giustamente dici, però è una banalità fino ad un certo punto, perché certe scuole psicoanalitiche ancora sostengono con vigore il contrario, ad esempio che quello che cura è uno specifico contenuto del linguaggio. Mi fa piacere che tu non sostieni queste posizioni.

Riguardo al termine "integrazione" in Freud, dici:
>Mi dispiace per qualche amico, ma ho anche qualche dubbio che la stessa
>terapia psicoanalitica di TUTTI i nevrotici sia sempre e solo integrazione.
>E' vero che Freud, descrivendo le nevrosi in termini di conflitto tra
>istanze o parti del soggetto, in qualche modo proponeva un'integrazione tra
>queste istanze o parti. Ma allo stesso tempo proponeva anche il
>riconoscimento di qualcosa che non può essere né sarà mai integrabile - i
>desideri incestuosi, gli impulsi omicidi, l'invidia distruttiva, la
>pulsione di morte. Possiamo mai davvero INTEGRARE il nostro inconscio? Mi
>auguro di no. Né mi pare che questa integrazione fosse il messaggio di
>fondo di Freud (il quale considerava la guarigione un fatto alquanto
>misterioso). Non a caso nei suoi ultimi scritti parlava di "costruzioni" e
>"ricostruzioni" non di "integrazioni". Certo il non-integrabile va
>assimilato, riconvertito. Mi chiedo allora se questo furor integrazionista
>non si risolva al servizio di qualche rimozione (in termini freudiani).

Ma è scontato che se si risolve un conflitto tra due istanze psichiche, dire che si integrano e dire che si scindono di più e una viene rimossa (o rinnegata - es. nel linguaggio di Schafer) può essere esattamente la stessa cosa. Se si tratta di due modi per descrivere lo stesso fenomeno, bisogna vedere le implicazioni insite in ciascuno dei due modi. Tanti sono i punti che vorrei commentare della tua mail, ma non posso dilungarmi. Volevo solo mandare una mail prima della mia partenza (sono di fretta, dopodomani vado in USA e ci resto una decina di giorni).

Mi viene in mente quell'autore (mi sembra Ceccato, anni fa) che diceva che un albero e un tavolo sono uguali perché sono entrambi di legno, oppure che sono diversi perché servono a cose diverse (uno fa i frutti, sull'altro ci si poggiano delle cose in casa), oppure uguali perché sono entrambi marroni, oppure diversi perché uno ha una gamba e l'altro quattro, e così via all'infinito giocando con tutti gli oggetti. E allora?

In sintesi, è possibilissimo che io non abbia capito la tua mail, e mi farebbe molto piacere se tu mi dicessi, senza peli sulla lingua, cosa non ho capito, anche per limiti miei. A me piacciono molto le differenze di opinione, mi aiutano a chiarirmi le idee. Devo dire che in generale ho trovato la tua mail un po' "fuori dal coro", nel senso che sollevi questioni di fondo che mi sembravano già chiarite tra noi (ricorderai ad esempio che già nel 1998 vi fu un lungo dibattito in PM-PT, pubblicato poi su Psychomedia nel maggio 1999: http://www.psychomedia.it/pm-lists/debates/psic-int.htm). Ma se tu avevi queste obiezioni da fare, hai fatto benissimo a proporle, e questa può essere un'altra opportunità di trovare un modo di chiarirle.

Riguardo agli ultimi tuoi accenni alla "globalizzazione, che vuole ridurre tutto il mondo alla ragione - cioè alla ragione anglo-americana della democrazia capitalistica liberale" devo dire che li ho trovato fuori luogo, nel senso che mi sembra che queste tematiche non centrino assolutamente niente coi problemi che interessano a noi, cioè alla questione dello studio dei diversi concetti utilizzati nei vari approcci psicoterapeutici. Provenendo da universi di pensiero diversi, ritengo che queste osservazioni rischino di rimanere al livello analogico, e quindi scorretto, soprattutto per chi, come coloro che si interessano alla questione della integrazione teorica dei concetti delle psicoterapie, hanno a che fare continuamente con diversi sistemi di pensiero, e ragionamenti di questo tipo sarebbero proprio quelli che andrebbero evitati. Paolo Migone

Giorgio Alberti, 9 Giugno 2001:

1. E’ la prima volta che prendo la parola in un confronto di questo tipo, su Internet, agendo come se parlassi ma consapevole del fatto che ogni mia affermazione resta scritta. Confido quindi nella indulgenza di tutti Voi, colleghi e amici, a cui mi avvicina un interesse per il dialogo e, in prospettiva, una qualche forma di integrazione tra le psicoterapie. Cercherò di definire e commentare quelli che mi sembrano i due punti nodali della dicussione fin qui da me letta. Successivamente esporrò la mia personale opinione sul problema integrazione.

2.1. Una prima posizione che mi sembra chiaramente espressa è quella per cui l’integrazione, un fatto teorico da distinguere dal semplice eclettismo tecnico, incontra difficoltà di almeno tre tipi: in primo luogo delle resistenze di carattere affettivo (come ben dice Migone <<...è difficilissimo criticare la cosa che amiamo...>>), poi delle obiezioni connesse all’idea che essa impoverirebbe le potenzialità creative insite nella varietà dei pensieri teorici e delle prassi curative (si veda Benvenuto), e infine una vera e propria impossibilità intrinseca, che sarebbe dovuta al fatto che le diverse terapie sono incommensurabili e quindi incomparabili tra loro. Di quest’ultima idea è ancora Benvenuto, ma essa sembra essere considerata anche da Carere come un’alternativa possibile, per cui egli ammette che <<...se (la psicoterapia) fosse un contenitore convenzionale, cadrebbe la possibilità di parlare di integrazione tra pratiche concettualmente inconciliabili.>> In realtà Benvenuto è ancora più pessimista sulla comparabilità delle psicoterapie, ritenendo che neanche le diverse patologie psicogene siano tra loro apparentabili, costituendo ognuna di esse un “unicum” privo di ogni somiglianza con ogni altro. Devo dire di essere in disaccordo con questa sua seconda idea, ma in parte d’accordo sulla prima. Infatti vi sono certamente teorie patogenetiche (come anche teorie del cambiamento terapeutico) riguardanti uno stesso disturbo, che non sono conciliabili, essendo anzi seccamente alternative le une alle altre. Tuttavia questa inconciliabilità è spesso solo parziale, e risparmia a mio vedere sia certi aspetti teorici di psicoterapie aventi una radice o una base epistemologica comuni, sia anche molte prassi terapeutiche (seppur non tutte). Tengo a sottolineare l’importanza delle possibili identità o somiglianze tra le diverse cose concrete che gli psicoterapeuti realmente fanno in quanto si tratta di un’ampia area di cui pochissimo si dice (essendo le comunicazioni tra psicoterapeuti spesso limitate a concetti teorici e restando quelle più descrittive delle concrete pratiche curative all’interno delle singole scuole), e che dovrebbe avere invece rilevanti conseguenze per il risultato terapeutico. Di ciò appaiono consapevoli diversi di noi, tra cui in primo luogo Migone, quando afferma <<...non ho mai avuto dubbi che certi autori diversissimi e con linguaggi diversi facessero proprio le stesse cose.>>, ed anche Carere.

2.2. Qualche tempo fa mi è occorso di trovare una segnalazione di certi autori su un fenomeno simile di “dissociazione” tra prassi e teoria in S. Freud. Credo valga la pena di citare quanto lui scrive in “Wege der psychoanalytischen Terapie”, in: Schriften zur Neurosenlehre und zur psychoanalytischen Technik (1913-1926), Vienna, 1931, p. 411-422 . Egli scrive (mia traduzione): “La nostra tecnica è nata nel trattamento dell’isteria, ed è tuttora calibrata su queste affezioni. Ma già le fobie ci obbligano a andare oltre al nostro abituale comportamento. Non si riuscirà a dominare una fobia se si aspetta che il malato sia indotto dall’analisi a rinunciarvi. Egli non porterà mai in analisi quel materiale che è indispensabile per una soluzione convincente della fobia. Bisogna procedere diversamente. Prendete l’esempio di un agorafobico; ve ne sono due classi, una più lieve e una più grave. I primi soffrono d’ansia ogni volta che vanno per strada, ma non hanno ancora smesso di uscire da soli; gli altri si proteggono dall’ansia rinunciando all’uscir da soli. Con questi ultimi si ha successo solo se, attraverso l’influenza dell’analisi, li si induce a tornare a comportarsi come fobici di primo grado, ad uscire da soli e a combattere così con l’ansia. Si deve quindi prima attenuare la fobia, e solo quando ciò è riuscito, attraverso la sollecitazione del medico, il malato torna a disporre di quei ricordi e di quelle intuizioni che rendono possibile la soluzione della fobia.” L’insieme di procedure che qui Freud illustra farebbe credo contento Giovanni Liotti, che ha menzionato analoghe architetture procedurali dimostratesi particolarmente efficaci per gli ossessivi: in primo luogo una prescrizione, quella di affrontare la situazione ansiogena e l’ansia stessa, e un cambiamento comportamentale del paziente, poi una conseguente modificazione dell’assetto intrapsichico con affioramento in coscienza di contenuti di rilevanza patogenetica, infine l’analisi di tali intuizioni e ricordi, a completamento del processo di cambiamento. Tuttavia il punto è un altro: se pur Freud dava prescrizioni in molti aspetti identiche a quelle di un terapeuta cognitivo-comportamentale (configurandosi, come dice Migone, come uno psicoterapeuta “da sempre integrato”) nella teoria del cambiamento terapeutico della psicoanalisi la funzione e la rilevanza delle prescrizioni di comportamento sono, come tutti sappiamo, nulle o quasi. Di contro, vi sono molti fondati motivi che inducono a ritenere che tali prescrizioni rivestano agli effetti del risultato terapeutico un ruolo di rilevanza almeno pari a quello delle interpretazioni. Mi sembra lecito supporre che Freud abbia privilegiato certi aspetti della sua tecnica terapeutica sostenendoli e motivandoli teoricamente, ma ne abbia invece messi in ombra altri, non riconoscendo loro un ruolo altrettanto determinante nel processo terapeutico. Ora, proprio il superamento di queste omissioni selettive (che certo non ha commesso solo S. Freud) e l’andare a vedere cosa si fa nelle diverse psicoterapie in termini di concretezza prassica, offre interessanti prospettive a chi voglia cercare e studiare le comunanze tra le psicoterapie.

2.3. Posizioni come queste mi appaiono potenzialmente convergenti nell’idea di seguire, nell’eventuale cammino integrativo, un percorso diverso da quello di arrivare direttamente e in primo luogo a una sintesi teorica e a una comunanza concordata dei linguaggi, e di partire piuttosto da singole “parti” delle singole psicoterapie, da singoli elementi tecnici, e di farne oggetto di studio prima di arrivare a una teoria onnicomprensiva, e proprio in funzione di questo compito Questa posizione viene espressa chiaramente Liotti alla fine del suo intervento.

3.1. L’altro grande nodo tematico che mi sembra emerga dalla discussione è quello della relazione terapeutica in quanto fattore comune universale di efficacia, e quindi area privilegiata di esplorazione nel cammino verso una futura integrazione. Questa possibile via integrativa mi sembra sostenuta principalmente da Carere, che valorizza in modo particolare la classica distinzione tra fattori specifici e fattori aspecifici di efficacia. Ora, su questa via ho alcune perplessità che derivano non certo dal voler negare la importanza della relazione terapeutica, ma da altre cause. La prima è quella di una certa confusione che secondo me è stata fatta (non certo da Tullio Carere, ma dagli americani che hanno iniziato questo discorso) tra fattori aspecifici, fattori comuni e fattori relazionali. Infatti, non necessariamente le tre categorie coincidono. Se possiamo concordare, credo, che aspecifico significhi non esplicitamente designato come elemento tecnico, allora vi possono essere fattori d’efficacia aspecifici e non comuni, come anche aspecifici e non relazionali. Proprio il passo poc'anzi citato di S. Freud potrebbe contenere un esempio di fattore aspecifico, cioè di una pratica (la prescrizione comportamentale di affrontare l’uscir di casa) che a stretto rigore non riguarda l’analisi e non rientra quindi nel modello analitico di processo di cambiamento, il quale è tutt’altro, direi, che relazionale, ma verosimilmente è anche assai comune, e forse contribuisce - in incognito - a spiegare l’efficacia della psicoanalisi delle fobie.
L’altra mia perplessità attiene al potere esplicativo del concetto di relazione, che mi sembra un po’ scarso se non meglio approfondito e analizzato. In questo mi trovo in linea con Benvenuto. Come ho detto, non solo credo nell’importanza della relazione, specie nelle terapie di maggior durata, ma penso anche che dentro la relazione accadano molte cose che possono essere più precisamente definite, ed eventualmente favorite o evitate, e comunque, in positivo o in negativo, utilizzate consapevolmente ai fini del cambiamento, trasformando per così dire l’aspecifico, e relazionale, in specifico e tecnico. Un esempio è quello di certe relazioni terapeutiche, anche molto burrascose, in cui il curante si dibatte tra le spinte induttive dell’identificazione proiettiva (detto in termini analitici, ovvero, del mantenimento del ciclo interpersonale, se usiamo termini cognitivisti). Ciò che sembra essere fattore di cambiamento è una ben specifica costellazione di eventi relazionali: 1. il paziente induce sentimenti e comportamenti, manipolando e premendo sul terapeuta - 2. il terapeuta resiste alla pressione induttiva e alle manipolazioni, ma non abbandona il paziente - 3. il paziente vede e introietta le abilità di gestione e contenimento di emozioni e propensioni all’azione che vede all’opera nel terapeuta. Ecco che, pur con tutta la forte componente emotiva di tali transazioni, la relazione diventa la sede di un processo di apprendimento che muta interiormente il paziente. Quindi, credo che la relazione sia certamente un’altra grande area da esplorare in una prospettiva integrativa, ma che ci si debba preparare a una sorta di scomposizione e poi drastica riduzione della cosiddetta area relazionale, a misura che i meccanismi psicologici che la sostengono vengono riconosciuti e diventano oggetto di intervento tecnico.

4.1. La mia visione delle psicoterapie in genere mi sembra simile a quella di Liotti: penso cioè che in ogni terapia si possano riconoscere delle parti, delle procedure (non elementari ma relativamente complesse e anche teoricamente fondate) che quando sono messe in atto dal curante tendono a evocare nel paziente, in termini non deterministici ma probabilistici, dei processi mentali, delle emozioni e dei comportamenti che a loro volta, se la mossa terapeutica è stata ben pensata in funzione del processo patogenetico da influenzare, si ripercuotono mutativamente sul paziente stesso. Mi rendo conto che una tale visione può apparire alquanto rudemente semplificante, soprattutto perché l’insieme sincronico e diacronico degli atti terapeutici implica delle variabili interazioni tra gli stessi e quindi dei continui mutamenti del messaggio che viene dato al paziente (Schacht parla a questo proposito di effetto contestuale), di cui il terapeuta deve ovviamente tenere conto per non perdersi. Inoltre, le reazioni e risposte del paziente contribuiscono a connotare ulteriormente il significato delle singole procedure messe in atto dal curante. Tuttavia, in linea generale mi sembra che particolari procedure terapeutiche collegabili al risultato possano essere identificate in molte psicoterapie: si pensi, ad esempio, per le terapie psicoanalitiche, all’interpretazione del transfert, ovvero all’interpretazione ed elaborazione del tema relazionale centrale (CCRT di Luborsky) della terapia supportivo-espressiva; per le terapie di ispirazione rogersiana alla riflessione empatica delle emozioni; per le terapie gestaltiche alle esperienze della sedia vuota; per le terapie cognitivo-comportamentali all’esplicitazione di certi schemi che ispirano percezione, reazioni emotive e comportamenti del paziente, ovvero alla prescrizione di esporsi alle situazioni ansiogene; per le terapie relazionali strategiche alle prescrizioni paradossali del sintomo; per la logoterapia alla intenzione paradossale, e così via. Si può obiettare che questa elencazione di procedure, formulate in termini intrisi di teorie ogni volta diverse, è ben lontana da una descrizione delle cose che gli psicoerapeuti “realmente fanno”, anche perchè in certi casi forse, nonostante la diversa terminologia, si tratta delle stesse cose. Tuttavia almeno in parte si può presumere che questi termini si riferiscano a prassi tra loro diverse. Nella misura in cui ciò è vero possiamo, credo, parlare di queste procedure come di una prima approssimazione alla descrizione di ciò che i terapeuti realmente fanno, e che ne caratterizza la prassi. La cosa interessante è che queste procedure sono studiabili empiricamente e correlabili alla risposta terapeutica, come ha dimostrato Luborsky con le interpretazioni del transfert (Luborsky L., Bachrach H. et al. (1979) - J. Nerv. Ment. Dis., 167: 391- 401). E penso che analoghi studi su altre procedure proprie di altre psicoterapie si possano trovare in letteratura. La ricerca in questo campo dovrebbe permettere di ampliare ulteriormente la conoscenza delle diverse procedure, sia nel senso di meglio descriverle e demarcarle le une rispetto alle altre, sia anche nel senso di correlarle all’outcome finale e ai più significativi passaggi intermedi del processo di cambiamento terapeutico. In questa prospettiva probabilmente certe procedure si rivelerebbero poco utili dal punto di vista dell’efficacia, ed altre invece più utili. Ovvero, certune si rivelerebbero utili solo se combinate in certe architetture procedurali e in certi processi terapeutici, magari più proficui con certi tipi di patologie e pazienti, e non con altri.

4.2. Tornando ora all’integrazione, sulla base di questa visione delle psicoterapie come composte da procedure in parte tra loro diverse e in parte tra loro uguali o simili, io credo che si potrebbe riprendere in esame un’aspirazione all’unità teorica, a una teoria generale del cambiamento psicoterapeutico (e anche dei principali processi patogenetici riferibili alle principali patologie), solo dopo che questo lavoro di ricerca abbia raggiunto una qualche massa critica di conoscenze, tale da permettere di riconoscervi dei lineamenti generali, una qualche Gestalt dotata di senso. E’ ipotizzabile cioè che, una volta definite meglio nelle loro caratteristiche e nelle loro funzioni terapeutiche, certe procedure potrebbero essere combinate in maniera non contradditoria, sinergica agli effetti dell’outcome, e funzionale alla finalità di modificare il processo patogenetico attuale, ciò che mantiene in essere il problema del paziente. A questi aspetti di compatibilità andrebbe allora indirizzata l’elaborazione teorica, tesa a integrare correttamente le diverse e eterogenee procedure in metodi terapeutici nuovi e, auspicabilmente, più adatti a curare le diverse patologie. E’ molto verosimile che in questo lavoro di combinazione e reinterpretazione teorica andrebbero fatte delle scelte. Un esempio può essere quello di decidere se, in una stessa terapia, sia teoricamente sostenibile in un certo momento interpretare al paziente i motivi inconsci di certi suoi vissuti e comportamenti, e in un altro invece dargli consigli o prescrizioni di comportarsi in determinati modi, cioè combinare sensatamente interpretazioni e cambiamenti comportamentali. In subordine, si dovrebbe arrivare a decidere in quali casi (per es. quali patologie, quali personalità del paziente, quali fasi della psicoterapia ecc.) tale combinazione abbia senso. Per inciso, che tale accostamento tra interpretazione e prescrizione di cambiamento comportamentale sia praticamente fattibile e anche terapeuticamente utile è già stato affermato e anche, direi, empiricamente dimostrato dalle ricerche su certe terapie integrative come la Cognitive Analytic Therapy (CAT) di A. Ryle. Inoltre il fondamentale contributo di P. Wachtel, il concetto di psicodinamica ciclica, ne sostiene anche teoricamente, e in modo stringente e autorevole, la sensatezza teorica.

5. Quindi, credo che non sia realizzabile una unità teorica prima di aver studiato ciò che succede nelle diverse psicoterapie, accettando con umiltà di confrontarsi con i dati osservativi, i quali, pur con tutta la loro ambiguità, mi sembrano tuttora l’unica possibile fonte di informazione nuova, in quanto permettono, se ben interrogati, di falsificare certe ipotesi teoriche e di mantenerne in vita altre. Vorrei in ultimo segnalare che a mio avviso, accanto al riferimento generale al metodo scientifico e alla ricerca sulle psicoterapie, vi è un’altra area con cui una ricerca integrativa dovrebbe confrontarsi: lo studio delle attuali pratiche terapeutiche eclettiche e integrative, che può offrire molti spunti su ciò che si fa, su ciò che è fattibile, su ciò che ha utilità terapeutica anche in assenza di un’adeguata teorizzazione, e infine, ovviamente, su cosa si dovrebbe cercare di spiegare teoricamente. G.G. Alberti

Sergio Benvenuto, 12 Giugno 2001:

RISPONDERO' ANCHE A LIOTTI, SE MI DA' UN PO' DI TEMPO

Caro Migone, dici che non capisci le mie critiche all'impostazione congressuale, io potrei anche dire che non capisco le tue critiche alle mie critiche. Non ci sarebbe nulla di stupefacente: l'80% (a dir poco) delle discussioni intellettuali suscitano sempre la sensazione che l'altro ci critica perché ci ha fraintesi.
Forse il non capire del tutto perché l'altro ci critichi può essere qui un buon segno: forse le nostre retoriche sono diverse ma nel fondo "ontologico" concordiamo. La speranza illuminista è che, discutendo, ognuno rinunci alle proprie personali connotazioni dei termini - ad esempio di INTEGRAZIONE - e così si arrivi alla denotazione comune scevra da idiosincrasie. Non solo tu e Liotti, ma anche Carere (che mi ha scritto in privato) dite in sostanza: "ma siamo d'accordo con te! Quel che intendiamo per integrazione è in gran parte proprio quello che dici di fare anche tu." Ne sono contento. Può darsi che anche tra noi si arrivi a questo lieto fine, "a tarallucci e vini" come si dice a Napoli. Lo credo però poco probabile - e mi chiedo poi se siano davvero auspicabili, questi tarallucci e vini.

In vari modi contesti la mia ipotesi - secondo cui forse le pratiche psicoterapiche sono incommensurabili - facendomi balenare l'ipotesi inversa: "se in alcuni casi i terapisti facessero proprio la stessa cosa? Questo non dovrebbe interessarci?"
E' ovvio che dovrebbe interessarci. La mia ripresa del concetto di somiglianza di famiglia andava proprio in questo senso: tra terapie ci sono anche, sempre, somiglianze più o meno strette, che possono essere descritte perspicuamente. La mia critica non andava a chi eventualmente dimostrasse che due terapisti di scuole diverse fanno cose molto simili (identiche mai! nulla nella vita è identico, nemmeno due gemelli omozigoti), ma all'affermazione perentoria - che sentivo serpeggiare nel vostro documento - secondo la quale "SICCOME queste due persone curano, ALLORA fanno la stessa cosa, si tratta solo di trovare QUALE". Esprimo dubbi su un assunto dato come valido PRIMA di ogni dimostrazione. Se mi dite che cercare i punti comuni è semplicemente un'ipotesi su cui state lavorando, non ho nulla da obiettare. Ma allora, se si tratta di un'ipotesi su cui state COMINCIANDO a lavorare (buon lavoro!) perché vendete la pelle dell'orso prima di averlo ucciso?
Non ho detto che NON POSSONO ESISTERE somiglianze o convergenze tra alcune cosiddette terapie (questa affermazione sarebbe non meno dogmatica di quella che contesto), ho detto solo che respingo il presupposto che DUE TERAPIE, IN QUANTO TERAPIE, DEBBANO ESSERE STRUTTURALMENTE LA STESSA COSA. Tutto qui. Se siete d'accordo con questo, incidente chiuso.

>"Come Tullio Carere sa bene, a me non è mai piaciuta la parola "integrazione"".

Forse le ragioni per cui la parola "integrazione" non ti piace sono le stesse per cui non piace a me...
Non sono affatto contrario ad "integrare" certe cose che fanno analisti di altre scuole, o certe idee elaborate in altri campi. Se per integrazione intendete questo, allora è quel che ho fatto sempre. Non a caso mi sono sempre rifiutato di appartenere a qualsiasi scuola e istituzione... Là dove vedo uno scivolamento è nel "subtext" di certe cose scritte da alcuni di voi: la pretesa di UNIFICARE tutte le pratiche considerate "legittime" sulla base di pretesi elementi comuni. Non condivido questa pretesa.

La mia impressione, francamente, è che nei testi introduttivi abbiate fatto ricorso ad una nozione TROPPO FORTE di "integrazione", e così vi siete attirate le mie critiche (ma molti altri avrebbero detto le stesse cose mie): sospetto di anti-pluralismo, tecnocraticismo, ecc. Ora, sia tu che Liotti rispondete dando un'accezione DEBOLE di "integrazione", sulla quale quasi tutti non possiamo non essere d'accordo. Liotti ad esempio evoca il bricolage di François Jacob: ma certo, chi rigetta l'idea che nella psicoterapia, come in tutti i campi, si "bricola"?
Questo accade in tantissime discussioni: si lancia nell'arena una parola-concetto dandogli un senso forte, e poi, viste le reazioni, si ripiega su un senso più debole. Comunque ambedue gli atti hanno un prezzo. Il senso forte crea molte opposizioni ma è quello semanticamente più vivo (i cibernetici dicevano: più informativo), più intenso. Il senso debole tende a creare un consenso ecumenico ma è semanticamente frigido, meno informativo, una banalità insomma su cui pochi non saranno d'accordo. Nelle controversie intellettuali non si può avere la moglie ubriaca e la botte piena. Presa nel suo senso debole, INTEGRAZIONE mi va bene. Ma allora perde il senso "messianico" che forse alcuni di voi vorrebbero dargli.

Ammetti che dire "la relazione cura" è una banale verità. Ma ne rivendichi la perspicuità dicendo che "certe scuole psicoanalitiche ancora sostengono con vigore il contrario, ad esempio che quello che cura è uno specifico contenuto del linguaggio". Ma QUALE scuola psicoanalitica seria ha mai sostenuto che curi solo il "contenuto del linguaggio"? Me ne puoi citare almeno una (che non sia una crocchia di astrologi o di mattoidi)?
Questo mi ricorda la bella pagina di Rorty (in Consequences of Empiricism) quando parla dei "relativisti radicali", dei "solipsisti", degli "scettici", dei "nichilisti morali": tutti filosofi che non sono MAI ESISTITI (tranne in qualche leggenda greca, come Diogene o Pirrone). Eppure i filosofi continuano a polemizzare con fervore con questi fantasmi: si ha bisogno di relativisti, solipsisti, scettici e nichilisti morali per poter contrabbandare le proprie convinzioni assolutiste e fondazionaliste. Analogamente, nel campo "psic" si creano continuamente fantasmi di "cattive scuole", così l'orrore che suscitano fa risaltare per contrasto le proprie convinzioni (non nego certo che ci siano cattivi analisti; dubito solo che siano proprio quelli che dicono "le cose sbagliate" - tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare.).
Quel che è davvero discriminativo non è proclamare che "è la relazione analista-analizzante che cura" - cosa su cui TUTTE le scuole sono d'accordo - ma stabilire, di volta in volta, che cosa nella relazione è davvero rilevante e che cosa no. Là cominciano i dolori - e le differenze tra noi. E allora i famosi "contenuti del linguaggio" cacciati dalla porta, ritornano dalla finestra. Ben lo sa la filosofia del linguaggio del Novecento, che da un secolo riflette sugli atti illocutori, la forza performativa, ecc. Esiste una letteratura immensa sui rapporti tra contenuto del linguaggio e relazioni umane, per cui non me la sento di cavarmela con formule lapidarie. In ogni caso, credo che il contenuto del linguaggio sia efficace nella relazione nella misura in cui questo contenuto ha una forza illocutoria. Se un analista dice al suo paziente "lei è un cretino", voglio vedere se il contenuto linguistico di questa frase è irrilevante!
Non ho esperienza diretta di analisi junghiana - che sembra una delle più "contenutistiche". Ma da quello che ho potuto capire, non mi sembra che il contenuto di concetti che chiamerei "sublimi" (quelli della metapsicologia junghiana) sia irrilevante ai fini degli effetti prodotti - se e quando un junghiano produce effetti. Mi si permetta di raccontare un aneddoto.
Anni fa un mio amico entrò in una crisi acuta diciamo di depersonalizzazione: era ossessionato dal problema "chi sono io? Che cosa penso?" Andò da un analista junghiano molto noto. Dopo due sedute lo rividi quasi del tutto guarito. Siccome eravamo molto amici, mi raccontò in dettaglio le due sedute. Il punto nevralgico, "terapeutico" diciamo, fu quando l'analista, dopo aver ascoltato le sue elucubrazioni, si volse verso la libreria piena di libri e disse "Quello che lei racconta ci è ben noto. Le potrei citare tantissimi libri in cui tutto questo è spiegato e descritto." Questo ebbe il potere di rasserenarlo - certo non chiese che cosa ci fosse scritto in tutti quei libri. Io non volevo credere alle mie orecchie: se uno va da un medico perché ha un cancro e il medico gli dice "il cancro ci è ben noto! ecco le centinaia di volumi che ne trattano", questo diminuirà la sua angoscia? Si vede che per molti è così. Ma allora, come descrivere questo effetto? Il fatto di aver fatto appello ai contenuti trascendenti del Sapere e della Cultura è stato davvero un fattore irrilevante in quella "relazione"? E possiamo dire che un analista di ascendenza freudiana sfugga a questi tricks? Senza accorgersene, l'analista freudiano non rasserena anche lui perché fa leva sulla sua autorità di "colui che sa"? Non c'è un richiamo "magico" ad una trascendenza - i Libri, l'Inconscio, la Scienza - in ogni relazione terapeutica? Ma allora, che cosa distingue questo uso (anche involontario) dell'autorità dalla suggestione? Del resto, chiamare tutto ciò "suggestione" non è ancora averla affatto spiegata. Perché alcuni si suggestionano così e altri no? Perché con alcuni funzionano proprio i contenuti di linguaggio junghiani e con altri no? E soprattutto: dobbiamo davvero integrare la galassia sterminata di tutto ciò che è suggestivo e quindi efficace?
Tutte queste domande - e potrei continuare a lungo - sono le stesse domande, credo, che vi ponete anche voi. Comunque avverto una differenza tra alcuni di voi e me, quanto alle possibili risposte: temo che un'eccessiva insistenza (diciamo "tecnologica") sul fattore terapeutico come UNICO scotomizzi completamente le differenze etiche, per non parlare di quelle estetiche. Per me, la psicoterapia (come in parte la medicina stessa) non è solo un fatto tecnico: implica scelte etiche ed estetiche.
Sono stato impressionato dalla frase di Wittgenstein a proposito di Frazer, che suona più o meno così: "la fisica delle popolazioni selvagge e quella nostra è nel fondo la stessa; quel che differiscono, sono le nostre magie". Mutatis mutandis, direi: "il sapere terapeutico delle varie scuole e tendenze è più o meno lo stesso, quel che varia sono le loro etiche ed estetiche." Certo queste differenze producono anche saperi diversi: tutto il sapere dell'agopuntura - valido o invalido che sia - deriva da un presupposto etico: dalla proibizione cinese di aprire i cadaveri. E così, il sapere psicoanalitico - valido o invalido che sia - deriva da un'essenziale autolimitazione etica (che non sussiste per altre terapie): il non ricorrere all'arma della prescrizione. Come Carere ha rilevato, un terapeuta sperimentato sa più o meno come far funzionare una sorta di "psicoprudenza" minimale, in fondo comune a tutti. Ma le scuole restano separate perché ad un certo punto scattano certe differenze etiche, che restano incommensurabili.
Si prenda il junghiano di cui sopra. Ora, io non avrei MAI detto una cosa rassicurante di quel tipo. Non perché non riconosca che, con molti, la cosa funzioni: è che non è parte di ME, di quel che io sono. Quando parlo di etica intendo ETHOS ed ETHUS, all'antica: il modo di vivere e il carattere. Non è il mio "modo di vivere" né il mio "carattere" dire cose del genere.
Ho seguito per anni le terapie sistemico-relazionali. Alcuni esperti terapeuti familiari mi dissero: "Il nostro metodo fa faville con famiglie di un livello culturale non troppo alto. Ad esempio, non funziona con famiglie che conoscano già, sui libri, la psicoterapia familiare." Capii allora che preferivo la psicoanalisi per ragioni etiche, non tecniche: mi piaceva la sua pretesa di essere valida per CHIUNQUE, dal professore universitario fino all'ultimo analfabeta. (Non è detto che questa pretesa sia valida: oggi c'è crisi della psicoanalisi proprio perché ci stiamo rassegnando a semplici "psicoterapie". Allora ha ragione Migone quando se la prende con chi valorizza i "contenuti di linguaggio". Ahimè, questi contenuti, nella psicoanalisi alta, erano il nucleo della sua etica: la scommessa CHE SI POSSA GUARIRE QUALCUNO FACENDOGLI DIRE LA VERITÀ! Su questo ci scommettono sempre meno persone - ma la pretesa non va derisa.)
Prendo un caso immaginario (ma non inverosimile): in una prestigiosa rivista americana si dimostra, dati statistici alla mano, che la partecipazione a gruppi e movimenti xenofobi e razzisti fa diminuire in modo sensibile la sintomatologia nevrotica. Perché no? Ebbene, io non spingerei mai un paziente a partecipare a gruppi xenofobi e razzisti solo perché questa sarebbe una scorciatoia terapeutica.
Da una parte non disdegno l'eclettismo, che rivela apertura di spirito e spregiudicatezza - d'altra parte non lo apprezzo nella misura in cui consacra l'ANYTHING GOES. Tutto va bene: sostanze chimiche o prescrizioni cognitive, placebo o padre Pio, omeopatia o sedute di psicoanalisi, elettroshock o il cocktail Di Bella. Tutto fa brodo, purché il paziente pagante se ne vada via contento. Conosco medici, ad esempio, che ridono dell'omeopatia eppure mandano certi loro pazienti dall'omeopata. Non condanno questo furor terapeutico à tout prix - ma non è il mio. E' quel che intendo qui per ETICA: restare fedeli a quello che si è, cioè, in fondo, alla propria differenza. Perché l'etica, in fin dei conti, si può riassumere anche nel riconoscimento della differenza dell'altro, e di se stessi come differenti da quell'altro che si credeva di essere. Non è poi questo quel che siamo chiamati a fare nella pratica mal-detta clinica?
Non si tratta in effetti di condannare gli atti del junghiano, del watzlawickiano o di chiunque altro sulla base di precetti morali assoluti: basta riconoscere "io non farò mai così". E non ci saranno formalizzazioni cognitiviste che integreranno il dato di fatto (al limite biologico) del nostro essere così piuttosto che colì, l'aver io avuto una storia piuttosto che un'altra. Perciò credo che le differenze tra scuole terapeutiche non verranno mai - almeno me lo auguro - assorbite.
Così non è cosa mia - anche se la rispetto - una psicoterapia dove ci si chiede ad ogni piè sospinto "qual è il BISOGNO vero del paziente che devo soddisfare?" Prima di tutto perché ci sono alcuni bisogni di molti pazienti che sarebbe immondo soddisfare - bisogni di omicidio, suicidio, pedofilia, consumo di droghe pesanti, furto, ecc. E poi perché di solito un paziente è qualcuno che, in fondo, non sa di che cosa ha bisogno: il lavoro analitico consiste proprio nel ricostruire (o costruire?) questo bisogno. Più che nel rispondere ai bisogni, nel capire quali potrebbero essere. Per questa ragione la terminologia "bisognosa" non sarà mai la mia.

Certo differiscono i nostri backgrounds culturali, le nostre diete intellettuali, non apprezziamo esattamente gli stessi autori, ecc. - così la parola-concetto INTEGRAZIONE a me non piace e ad altri invece sì.
Eppure le differenze di stile, retorica, background non sono SOLO intralci di cui liberarsi (non dico che è quello che sostieni - avverto però una propensione di alcuni in questo senso) perché introducono nella discussione elementi ETEROGENEI. Il cammino della cultura avviene lasciando entrare l'eterogeneo nel gioco (integrandolo? temo che sia un concetto troppo forte). Tu dici che io sono "fuori del coro" "nel senso che sollevi questioni di fondo che mi sembravano già chiarite tra noi". Questo significa che - inconsapevolmente - svolgo una funzione utile: faccio apparire il lato oscuro in ciò che sembrava chiarito. E' la funzione, in ogni campo, degli outsiders, altrimenti detti rompicoglioni: vedendo le cose da un altro punto di vista - proprio perché stanno "fuori" - costringono chi è "dentro" a vedere cose che non vedevano.
Promuovere un concetto - come "integrazione delle psicoterapie" - è come aprire un orizzonte, ad esempio, aprire la vista su una vallata. "Vedete come è bella questa vallata!" Ma proprio perché un concetto è come un orizzonte, non "vediamo" tutto quello che vi è incluso. Allora arriva l'outsider che fa notare: "ma guardate che in questa vallata-orizzonte ci sono dissesti idrologici, malati di AIDS, morìa del bestiame, ecc." In fondo, nella vallata-INTEGRAZIONE ho visto qualcosa che nessuno di voi, poi, osa esplicitamente sostenere - è perché vi ho fraintesi, o perché (essendo fuori del coro) ho visto implicazioni che vi sfuggivano? Comunque sia, mi auguro che "il coro" voglia entrare in negoziazione con gli outsiders, e aggiustare la semantica del concetto: specificare il concetto di "integrazione" immettendogli certi significati ma togliendone altri, selezionando le inclusioni, ecc. Sergio Benvenuto

P.S. n. 1: Migone scrive:
>Se "la proliferazione delle scuole e dei linguaggi in psicoterapia
>è ANCHE un segno di vitalità e di energia" come tu dici,
>significa che può essere anche un segno di qualcos'altro (es. dell'opposto,
>cioè "di non vitalità e di non energia" - da notare che hai scritto la
>parola "ANCHE" in maiuscolo). Quindi possiamo essere tutti d'accordo su
>questo: perché non studiare i casi in cui la proliferazione delle scuole e
>dei linguaggi NON è un segno di vitalità e di energia?

La proliferazione delle scuole è ANCHE un fatto negativo se si condivide l'impostazione di Kuhn: il non poter giungere ad una "scienza normale". Il perpetuarsi dello stato "straordinario" non permette di parlare di scienza come ormai la intendiamo. Se pensiamo che l'essere scientifici sia un valore - ma non tutti lo pensano (ad esempio, che ne pensa Napolitani?) - allora la proliferazione è negativa. (Per alcuni filosofi e storici della scienza, va però detto, anche la scienza di fatto non è MAI normale - è la posizione che condivide, se lo capisco, il nostro presidente del Senato).

P.S. n. 2 sul concetto di TERAPIA: Si prenda una vecchia storiella. X suggerisce ad un suo amico di andare in analisi perché soffre di enuresi. Dopo dieci anni X incontra l'amico e gli chiede come vada l'analisi, e quello: "A gonfie vele". Ed X: "ma ti fai sempre la pipì sotto?". L'amico risponde: "Certo. Ma ora ne sono fiero!"
Ora, possiamo dire che il paziente che soffre ancora del sintomo (magari perché le cause ignote sono organiche), ma di cui non fa più un dramma, è guarito? Cosa considerare allora "terapeutico"?
Vediamo gli effetti possibili di una psicoterapia di un enuretico:

(1) il soggetto non si fa più sotto ed è molto soddisfatto di questo; tesse le lodi del suo psicoterapeuta
(2) il soggetto si fa ancora sotto ma è soddisfatto lo stesso; tesse le lodi del suo psicoterapeuta (caso di cui sopra)
(3) il soggetto non si fa più sotto ma è deluso lo stesso dalla psicoterapia, per cui va dicendo in giro peste e corna del suo psicoterapeuta (casi frequenti, ahimè, come ben sapete)
(4) il soggetto non si fa più sotto ma soffre di un altro sintomo di cui non aveva mai sofferto prima
(5) il soggetto si fa ancora sotto e non è affatto soddisfatto della terapia, ma trova nella sua vita altre priorità per cui, alla fine, dice di essere felice (fonda una famiglia serena, diventa adepto di un gruppo buddhista, si impegna strenuamente nel Sindacato degli Enuretici che diventa una lobby politica, ecc.)
(6) il soggetto si fa ancora sotto, è insoddisfatto, infelice, e dice peste e corna del suo psicoterapeuta.

Altre possibilità possono essere ipotizzate. Ora, delle sei qui elencate, solo la sesta è un fallimento terapeutico completo - persino per gli analisti anti-positivisti o post-moderni che rifiutano con sdegno ogni criterio "medicalistico" di terapia, guarigione, ecc. Anche il romanticismo anti-scientifico ha un limite! Ma per tutti gli altri cinque casi, c'è da chiedersi: si tratta in tutti questi di effetti terapeutici? O il solo effetto terapeutico è l'(1)? Ma un analista "romantico" potrebbe sempre dire che si tratta anche in (1) di un fallimento: perché, ad esempio, il paziente che non si fa più sotto in compenso ha rinunciato ad una carriera artistica, o non pratica più nessuno sport, o vota per Berlusconi, o è divenuto membro dei Testimoni di Jehova tutte cose che evidentemente il nostro analista considera molto negative. Come si vede, non solo i criteri per cui si giudica qualcosa terapeutico sono variabili da scuola a scuola - e quindi in questo senso incommensurabili - ma è problematico valutare qualcosa come terapeutico anche all'interno della stessa scuola.

Tullio Carere, 13 Giugno 2001:

Benvenuto ha scritto:
<<Esprimo dubbi su un assunto dato come valido PRIMA di ogni dimostrazione. Se mi dite che cercare i punti comuni è semplicemente un'ipotesi su cui state lavorando, non ho nulla da obiettare. Ma allora, se si tratta di un'ipotesi su cui state COMINCIANDO a lavorare (buon lavoro!) perché vendete la pelle dell'orso prima di averlo ucciso?>>

Il tentativo di chiarimento in privato non è bastato per convincere Benvenuto che non è stato ucciso nessun orso. Ribadisco allora che non solo non esiste un modello di integrazione che possa essere considerato superiore a qualsiasi altro, ma non si può nemmeno dare per scontato che l'integrazione (qualsiasi tipo di integrazione) sia possibile. Nella SEPI (che, ricordo, significa Society for the Exploration of Psychotherapy Integration) si *esplora* la possibilità dell'integrazione psicoterapeutica, e tanto poco questa possibilità è data per scontata, che regolarmente nei convegni internazionali si invitano delle persone notoriamente diffidenti o ostili all'integrazione, come è appunto Benvenuto. Cosa che mi pare dimostri abbastanza chiaramente che il nostro unico assunto è l'assenza di ogni assunto.

Ma perché uno studioso deve prendersi la briga di partecipare a un convegno sull'integrazione in psicoterapia per dichiarare di essere (in maiuscole) CONTRO L'INTEGRAZIONE IN PSICOTERAPIA? Che cosa penseremmo se qualcuno intervenisse a un convegno di psicoanalisi per dire "sono contro la psicoanalisi"? Che cosa ci vuol dire, nel modo indiretto di una negazione freudiana? Perché dobbiamo pur pensare che qualcosa ci voglia dire: che abbia dei fatti, dei concetti, delle argomentazioni da comunicare, il desiderio di far pervenire un messaggio a un destinatario, la convinzione che questo messaggio possa essere ascoltato e capito. Se no, perché sprecare il fiato? Infatti Benvenuto non si limita a dirci che è contro, ma in due messaggi per complessivi 42 kilobytes ci spiega come e perché. Tutto questo è molto interessante e lo considero un prezioso contributo a questo dibattito.

A. Vediamo innanzitutto questo aspetto paradossale. Se uno parla con l'onesta intenzione di comunicare qualcosa, presume evidentemente - assunto implicito, ma necessario - che la comunicazione, per quanto parziale e accidentata, sia possibile. Il che a sua volta richiede che tra i parlanti ci sia (o sia possibile creare) una base minima comune di esperienze, concetti per pensare queste esperienze, parole per esprimere questi concetti. Poiché d'altra parte è evidente che una comunanza concettuale-linguistica, anche limitatamente al piccolo gruppo dei partecipanti a questa discussione, non esiste o è molto precaria, l'intenzione comunicativa dovrebbe collegarsi all'impegno di costruirla. In altre parole, chiederei a ciascuno: vuoi provare a dialogare, o vuoi solo asserire le tue convinzioni? Siccome Benvenuto non si è limitato a dire "non credo nell'integrazione", ma ha detto molte cose per argomentare la sua posizione, presumo che voglia dialogare, e non esplorare il suo ombelico. Ma è possibile dialogare senza avere, o impegnarsi a scoprire o costruire, una base minima comune di esperienze-concetti-linguaggio (che non equivale, com'è ovvio, alla cancellazione delle differenze)? A me sembra di no. D'altra parte l'impegno a costruire questa base minima (o la scommessa che sia possibile), se condiviso tra due o più psicoterapeuti di persuasioni diverse, corrisponde precisamente all'integrazione (in senso forte) in cui Benvenuto dichiara di non credere. Ecco allora che la pretesa di dialogare affermando di essere contro l'integrazione (dei concetti e dei linguaggi) equivale a quella classica di dire il vero nel momento in cui si afferma che non esiste la verità: entrambe le affermazioni svolgono l'utile funzione di dimostrare l'insostenibilità della premessa.

B. La "contrarietà" all'integrazione di Benvenuto deriva del resto direttamente dalla sua definizione di etica: "restare fedeli a quello che si è, cioè, in fondo, alla propria differenza. Perché l'etica, in fin dei conti, si può riassumere anche nel riconoscimento della differenza dell'altro, e di se stessi come differenti da quell'altro che si credeva di essere". Chissà perché l'etica deve stare tutta dalla parte della differenza. Tutt'al più questa è un'etica postmoderna. Perché mai essere differenti sarà "meglio" che essere simili o uguali? Certo, un'ideologia che ci vuole tutti uguali, appiattendo o cancellando le differenze, è profondamente non-etica, come del resto ogni ideologia: come, appunto, l'ideologia postmoderna della differenza, che sa solo esaltare la differenza, oscurando o cancellando ciò che unisce. Tra l'ideologia dell'identità e quella della differenza, non so quale sia più alienante e meno etica. Le metterei sullo stesso piano. Reggere la tensione dialettica tra identità e differenza, questo è ben più difficile che rifugiarsi in un'ideologia. Come può fare scelte etiche chi non sa o non vuole reggere questa tensione?

Sarà chiaro, allora, che la ricerca dell'integrazione (in senso forte) non è una ricerca di unità *contro* la differenza, ma piuttosto di quel terreno comune che può ospitare tutte le differenze, e produrne altre ancora, perché su questo terreno il conflitto non è distruttivo, non porta all'incompatibilità e all'incomunicabilità, ma all'arricchimento reciproco. Ma esiste davvero questo terreno, o piuttosto è un'utopia da abbandonare per accontentarsi realisticamente di un'integrazione debole, cioè assimilativa (il bricolage col quale ciascuno assimila sulla base della propria teoria pezzi di teorie estranee, riformulati nei termini della propria)? Io non do per scontato che esista (non vendo la pelle dell'orso), anche se sono disposto a scommettere sulla sua esistenza. E', del resto, la scommessa da cui nasce questo convegno. Mi sono trovato ampiamente in sintonia con gli interventi di Migone, Liotti e Alberti. Prima di entrare nello specifico delle loro proposte, tuttavia, mi pare opportuno un chiarimento sui temi di fondo sollevati da Benvenuto. Spero che anche Petrella, Freni, Napolitani e Rossi Monti vorranno dire la loro su questi temi. Tullio Carere

N.B.: Rispondo con franchezza alla franchezza dell'amico Sergio. Per quanto mi riguarda, questo scambio rude non mette in discussione il mio rapporto di amicizia e collaborazione con lui.

Paolo Migone, 17 Giugno 2001:

Caro Benvenuto, ti ringrazio per la lunga mail in cui pazientemente ti sei preso la briga di rispondermi. La mia prima reazione è stata quella di concordare con quasi tutto quello che dici, però ha tratti ho avuto anche la sensazione che vi possano effettivamente essere delle differenze nette su qualcosa di fondo (ma è possibile che siano fraintendimenti, modi nostri di esprimerci un po' provocatori o a effetto). Se vi sono delle differenze, allora il tuo contributo è veramente importante, e spero che continuerai a esprimerle. Avevo iniziato a provare a fare alcuni commenti alla tua mail, quando ho visto la mail di Tullio, che scende gioiosamente in campo, come è il suo stile, e ti sfida a singolar tenzone. Ho deciso quindi di aspettare e stare a guardare, anche perché nel frattempo altri che non sono ancora intervenuti eventualmente potrebbero voler intervenire. Alla prossima quindi. Paolo Migone

Tullio Carere, 24 Giugno 2001:

Cari amici e colleghi, vorrei segnalarvi nell'ultimo numero dell'International Journal of Psychoanalysis (2001, 82, 3: 431-447) l'articolo "Psychoanalysis and cognitive behaviour therapy-rival paradigms or common ground?", di Jane Milton. E' interessante perché, pur contenendo i soliti luoghi comuni contro l'integrazione (in senso forte), offre una ghiotta, per quanto involontaria, testimonianza (evidence) a favore. Vi riporto qui sotto la lettera che ho scritto in proposito al direttore della rivista. Tullio Carere

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On Milton's "Psychoanalysis and cognitive behaviour therapy-rival paradigms or common ground?"

Dear Sir, although Jane Milton complains that professional rivalries and political pressures produce a 'horse race' mentality in the comparison of the two approaches, her paper seems to me well inside the race. She admits that the claims "about psychoanalysis as a method facilitating deep and lasting change certainly need substantiating empirically rather than simply asserting", yet her argument is by and large based on this simple assertion. No real dialogue between the two fields will happen, as long as on the one side (cognitive-behavioural) the statement is made that equal results are obtained in a more economical and rapid way, and (symmetrically) on the other side the deeper and more lasting character of psychoanalytical results is taken for granted.
Nevertheless Milton's paper offers an interesting, though unwitting, contribution to the search for a common ground. In the treatment of Mr A, Milton was "periodically nudged into doing fragments of a weak version of CBT", which she means as a "'collapse' of the analytical stance into something simpler and more apparently common-sense". She goes on to say that "it will inevitably occur in our work from time to time, and it needs hard work in the countertransference to notice and rebuild the tension and complexity inherent in productive analytic work". This is an interesting evidence of the inevitability for practitioners of all persuasions to do something that is not foreseen by their own theories, but is required by the interactive process at hand. In a similar vein, a cognitive-behavioural therapist would say that he or she is periodically nudged into doing fragments of a weak version of psychoanalysis, which (in his or her view) is meant as a collapse of the cognitive-behavioural stance into something simpler and more apparently common-sense; and so on.
Leaving aside the parochial need of seeing one's own thing as the real thing, and the thing of the others as just common-sensical, what remains is that a cognitive therapist would most probably approach Mr A's case in the same way as Milton did. Both therapists would try to provide a "safe context within which relationships with the self and the world are explored" (Jones & Pulos, 1993, quoted by Milton). Both would help Mr A to recognize the irrational, negative, archaic convictions underpinning his current experience and behaviour, both would encourage him to logically challenge and reality-test such convictions, in and outside the session. This could be all Mr A needs, to begin with, in case such a safe context and rational lab has never been available to him in the past. Another possibility is that the challenge brought to bear onto the pathological convictions will help break some vicious circle (Milton admits that "CBT can be very helpful in modifying such positive feedback loops in symptom generation"). Besides, as Wachtel (1977) has shown, the behavioural rupture of vicious circles can pave the way to previously sealed emotional experience, and even to insights that the sole interpretive mode could not elicit.
If, in spite of this work, the process sticks in a deadlock (as in Milton's vignette: "Mr A would still report to me flatly or hopelessly, or sometimes a tinge triumphantly, that he had still not done anything about the project"), any good CB therapist would resist, as Milton did, the temptation to make "a rather sharp and impatient interpretation about Mr A's passivity". Any good therapist, of whatever school, would stop in such condition the previous program and invite the patient to join him or her in the exploration of what is happening in their relation. A good therapist, however, would not take it for granted that the patient is repeating in the transference some early scene, or projecting onto the therapist some archaic object. He or she would first of all investigate, in a Gill's (1984) style, to understand what in their real interaction (i.e., what real therapist's behaviour) could have elicited such negative response in the patient. Secondly, not on the background of a non existent blank screen, but on that of their real interaction, he or she would help Mr A reconstruct and work through what he still needs to re-stage in the therapeutic relation.
Of course, in writing down the case story for publication, a CB therapist would emphasize the correction of maladaptive schemata, or the interruption of vicious circles (the paper will probably be submitted to a CB journal), while a psychoanalyst, whose paper will probably be submitted to a psychoanalytic journal, would obviously emphasize the transference part of the job. Apart from the emphasis--more in the written report, I assume, than in real clinical work--what remains of their difference? Milton believes that CAT [Cognitive-analytic therapy] and CBT "limit the potential power for good of the treatments, precisely because they restrict the nature and depth of the transference and countertransference". Yet a few lines before she had written: "Ryle (1995) [the CAT's creator] regards the transference as a 'hardy plant' arising whatever one does, and certainly not requiring the therapist to be inactive." Probably every psychoanalyst would agree that transference is such a 'hardy plant', but which are the best conditions to activate, explore, and work it through? My personal conviction is opposite to Milton's: a moderate activity is better in this regard than both the abstinence she prizes and highly structured activity of old behaviour therapists (but not of most contemporary CB therapists, whose level of activity is not, in my opinion, very far from most contemporary psychoanalysts').
Does Milton have any convincing evidence to support her conviction? I wish she had quoted it, if she had any. If she has none, her conviction is as good as mine. In the end, the alleged difference between psychoanalysis and CB therapy (not in theory, of course, but in practice) is a matter of emphasis and personal conviction, not of evidence. On the contrary, the evidence she offers with the case of Mr A is good grist for the psychotherapy integration's mill. I want to thank her for her precious contribution, though I understand it is not what she meant. Tullio Carere-Comes

References

Gill, M. (1984). Psychoanalysis and psychotherapy: a revision. Int. Rev. Psa., 11, 161-179 (Italian translation: http://www.publinet.it/pol/ital/10a-Gill.htm; discussion: http://www.psychomedia.it/pm-lists/debates/gill-dib-1.htm).

Jones, E. & Pulos, S. (1993). Comparing the process in psychodynamic and cognitive-behavioural therapies. J. Consulting & Clin. Psychol., 61: 306-16.

Milton, J. (2001). Psychoanalysis and cognitive behaviour therapy-rival paradigms or common ground? Int. J. Psychoanal., 82: 431-447.

Ryle, A. (1995). Psychoanalysis, cognitive-analytic therapy, mind and self. British J. Psychother., 11: 568-74.

Wachtel P.L. (1977). Psychoanalysis and Behavior Therapy. New York: Basic Books (nuova edizione ampliata: Psychoana1ysis, Behavior Therapy, and the Relational World. Washington, D.C.: American Psychological Association, 1997).

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Paolo Migone, 24 luglio 2001:

Cari colleghi, seguendo l'esempio di Tullio, e nel caso interessasse, mando al gruppo una "LETTER TO THE EDITOR" dell'International Journal of Psychoanalysis riguardo all'articolo di Jane Milton "Psychoanalysis and cognitive-behaviour therapy: rival paradigms or common ground?" (Int. J. Psychoanal., 2001, 82, 3: 431-447), che ho appena spedito. Ho già mostrato la lettera a Tullio, al quale sono debitore per un importante suggerimento nella parte finale. Colgo l'occasione per augurarvi buone vacanze. Paolo Migone

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Psychoanalysis and cognitive-behaviour therapy

International Journal of Psychoanalysis, 2001, 85, 5: 984-988. Edizione su Internet: http://ijpa.org/letter2oct01.htm (con una risposta di Jane Milton, pp. 988-990, al sito Internet http://ijpa.org/letter4oct01.htm)

Dear Sir, Jane Milton's (2001) article on the differences between psychoanalysis and cognitive-behaviour therapy contains rich insights into the therapeutic situation. Most important, by comparing psychoanalysis to a different approach, it addresses a vital issue for our field: the identity of psychoanalysis, especially significant today when rapid changes and, at times, paradigm shifts make the border between one technique and another more and more obscure. Furthermore, as is well known, psychoanalysis as an unified body of theory and practice does not exist, if it ever existed, and we see the flourishing of many "psychoanalyses" to the point that at times the difference between a psychoanalytic and a non-psychoanalytic approach is no greater than the difference between two approaches that are considered under the common psychoanalytic umbrella. And, as Milton correctly points out, the picture is complicated by economical and social pressures. At any rate, in defining which type of psychoanalysis we practice and how we theorise it, a good exercise is to see not only what it is, but also what it is not (in a sort of "negative dialectics"), i.e., try to compare it with a (supposedly) different approach--and this is one of the merits of her paper.

Many of Milton's points I agree with, and I want to mention some of them. For example, the current enthusiasm around cognitive-behaviour therapy reminds us of the "early idealisation of psychoanalysis, and may prove relatively short-lived" (p. 431; see also, in this regard, the interesting comments on empirical research, at the end of her paper). As a matter of fact, many cognitive-behaviour therapists, who traditionally worked with mono-symptomatic or "neurotic" patients, now seem to show more prudent attitudes when they are challenged by the treatment of personality disorders: here some of them necessarily rediscover the usefulness of concepts such as transference, countertransference, resistance, even of the need of long-term treatments and of a personal therapy for the trainees (pp. 441-442). The author correctly notices that this "psychoanalytic drift" in recent cognitive therapy reminds us of the "cognitive drift" we saw in behaviour therapy (p. 441). Indeed, some cognitive therapists today seem more and more "psychoanalytic" (such as Liotti, aptly mentioned by Milton [p. 441], and others of the "Rome school" of cognitive therapy, who use Bowlby's attachment theory, Fonagy's concept of reflective function and so on [see, for instance, Migone & Liotti, 1998]). Another observation by Milton is that there seems to be, however, a difference in philosophical underpinnings: in cognitive therapy the patient is often seen as a victim of parental or societal influences, while in psychoanalysis the patient, more pessimistically, is seen as intrinsically conflicted and unreasonable (p. 439). But--we may argue--here we do not need to resort to cognitive therapy in order to emphasise what is nothing but the dichotomy between conflict and deficit theories, which is already well represented in the psychoanalytic literature (think only of Kohut's Self Psychology, interpersonal psychoanalysis, and so forth). Another important point is that "cognitive" work can be a defence from affect, and this "defensive" aspect of cognitive therapy could be one of the reasons for its success in patients and therapists alike, because it is more "reassuring". Again, this is already part of our discussion on the theory of technique. In this regard, Milton rightly says that the "collapse" of the two approaches (in which, so to speak, the analyst becomes "cognitive") is neither good nor bad in itself, because there might be good "clinical reasons" for it with particular patients (p. 439). With some patients, and/or during particular phases of treatment, the analyst needs to be, so to speak, "less psychoanalytic", i.e., more cognitive, reassuring, and supportive. Despite our good "analytic intentions", as Freud himself was well aware of, we represent for the patient also a model for identification, we play the role of teacher, re-educator, and the like (Friedman, 1978). In other words, Milton seems to say that the independent variable should be the patient's need at any specific moment and depends on his or her defensive structure, an approach I fully agree with (but which constitutes nothing but one of the technical implications of Ego Psychology, which has been known for at least half a century).

According to this perspective, then, cognitive-behaviour therapy and psychoanalysis could be seen on a continuum (similar to the continuum between supportive and expressive techniques), where cognitive-behaviour therapy--like supportive psychotherapy--is reassuring, structured, reinforcing defences according to the patient's need in a specific moment, while psychoanalysis is more destructuring, open to the discovery of unconscious meanings, and so on. But we may ask: is this the correct way of seeing the difference between cognitive-behaviour therapy and psychoanalysis? If we see things in this way, aren't we loosing something specific of psychoanalysis, and if yes, what? In her attempt at differentiating psychoanalysis from cognitive-behaviour therapy, Milton believes that something "psychoanalytic" is always missing in cognitive-behaviour therapy, even in its more modern and "cognitive analytic" version (such as Ryle's [1990] "cognitive analytic therapy" [CAT]). I would like to comment briefly on this point because, although I basically agree with Milton, I would see things in a somewhat different way.

The solution Milton finds in order to see a specificity in the psychoanalytic approach is to rely on the classical view, i.e., resorting to the concepts of "neutrality and abstinence" (p. 435). For example, "by not encouraging and reassuring" the patient (p. 436), the transference will come to the surface, allowing an analysis of a "deeper level" of personality. But is it really necessary to resort to the classical stance, based on the concept of a blank screen, if we want to define the identity of psychoanalysis? After all, this traditional view of technique has been put into question by several authors. Most notably and authoritatively, Gill (1984) has argued that the influence of the analyst onto the patient occurs anyway, and probably more so, if we believe in neutrality: our manipulation of the transference will go even more unnoticed, and for this reason the transference will run the risk of remaining unanalysed, to the point that a "classical" psychoanalysis might resemble a supportive or manipulative psychotherapy, despite the analyst's good intentions (Migone, 1995, 2000). There is no way to see a pure and "uncontaminated" transference (Gill, 1984, p. 164), it being at all times also a response to the analyst's behaviour. Milton seems well aware of that, in fact she aptly quotes Ryle's (1995) metaphor of the transference as an "hardy plant" that always grows, regardless of our attempt to control it. In every environment, this plant will grow in its own interesting and peculiar way, showing us its many potentials. For example, following Gill's ideas, a transference that appears in a cognitive-behaviour therapy may be no less interesting or important than the "classical" transference (i.e., the transference that appears in a "classical" psychoanalysis): both can be analytically worked through and shed light on the patient's inner world, and the analyst has no right to say that only one of the two is the "true" transference. But we may well ask: how can we best let this plant grow, in order to know it better and to modify it? I am well aware that the issue here is quite complex, possibly involving philosophical aspects. Milton tells us that she adheres to a "traditional positivistic" rather than "intersubjective constructivist" paradigm (p. 434), in the correct assumption that our aim is to investigate the "real" inner world of the patient, however difficult it may be and however imprecise we may be. It is not possible here to discuss this problem in detail. I will simply recall that, according to Gill, a better technique would be to de-emphasise concepts such as neutrality, abstinence, blank screen, transference as a distortion of the past, etc., and to see every behaviour of the patient as one of many possible and plausible responses to us, where we do not underline more or less distorted or appropriate behaviours but simply ask ourselves--and the patient--why a given therapeutic situation evoked that particular transference reaction rather than one of the many other possible reactions that it could have evoked. Proceeding in this way, according to Gill, we have better chances to avoid falling into a sort of blinding neutrality and we possibly see more of the patient's inner world--the same inner world that a traditional analyst aims at discovering. At any rate, I am convinced that the problem of theory of technique (and of curative factors) is not only a philosophical problem but is directly linked to memory functioning, to the relationship between interpretation and corrective experiences within the analytic situation, and so forth (concerning this, see the detailed review by J. Timothy Davis [2001] on memory functioning, which appears in the same issue of the Journal, just after Milton's paper; see also Fonagy, 1999. Incidentally, concerning the relationship between psychoanalysis and behaviour therapy, and between action and insight within the therapeutic setting, an important author Milton failed to mention is Wachtel, 1977).

To return now to the difference between cognitive-behaviour therapy and psychoanalysis, shall we conclude again that, if we adopt a "relational" o "relativistic" view (such as Gill's), there is no sharp difference between the two approaches? I do believe, like Milton, that there is a difference, but this is the way I would see it: a specificity of the psychoanalytic attitude is the openness to new material, the facilitating of a context of discovery, in brief, what we try to capture with the technique of "free associations". The analyst, in contrast to cognitive therapists, is more prone to open up new possibilities of feeling and experiencing, and this might be an important therapeutic factor in itself. I am well aware that the technique of free associations may mean different things, but we could say that it specifically implies a "defenceless" psychic functioning, an ideal equilibrium among the various psychic structures previously in conflict with each other (in fact, it is often said that when the patient is truly able to free associate, the analysis can be considered successfully terminated, because this ability already signifies a structural change). From what I can see, the technique of many cognitive therapists I know, even of the more "psychodynamic" ones, often does not include this emphasis on the patient's free associations (and on the "evenly hovering attention" on the part of the therapist) that allows a particular atmosphere in the session, a context of discovery that seems to me typically psychoanalytic. Cognitive therapists often have the limitation of being more directive, focused, and goal-oriented.

However, it is very likely that our cognitive therapy colleagues will catch up very soon in this respect and learn to allow their patients to have more moments of free associations, discovery, and surprise. But at the same time I think that psychoanalysts should learn to be somewhat more directive and focal, if the patient needs it. It would be a mistake to conceive psychoanalysis only as a non-focused technique, with no goals, with free associations on the part of the patient and free-floating attention on the part of the analyst. If we were to see things that way, psychoanalysis and cognitive therapy would be at the opposite extremes of the supportive-expressive spectrum. The analyst, instead, should be able to remain dialectically between these two poles, following the patient's needs, as we said before. Thöma & Kächele (1985, Ch. 9.4, p. 347), for example, state that they "conceptualise psychoanalytic therapy as an ongoing, temporally unlimited focal therapy with a changing focus" [italics in the original text], which means that the analyst always has a focus, the important thing being that he can change it according to the process (notice that Thöma & Kächele chose to title their important Lehrbuch "Psychoanalytic Therapy", thus bypassing the problems relating to the terms "psychoanalysis" and "psychoanalytic psychotherapy" [the English translation, Psychoanalytic Practice, is somehow misleading]).

Psychoanalysis and cognitive-behaviour therapy have influenced each other to a great extent, and I believe that this sort of cross-fertilisation among different approaches, which will be more and more inevitable, is a welcome opportunity and will enrich the field. Most important, it will force us to further define the identity of every approach--or to accept de facto an "integration" or an overlapping--with benefit for all.
Sincerely yours, Paolo Migone

REFERENCES
- DAVIS J.T. (2001). Revising psychoanalytic interpretation of the past: an examination of declarative and non-declarative memory processes. Int. J. Psychoanal., 82, 3: 447-462.
- FONAGY P. (1999). Memory and therapeutic action (Guest Editorial). Int. J. Psychoanal., 80, 2: 215-223.
- FRIEDMAN L. (1978). Trends in psychoanalytic theory of treatment. Psychoanalytic Quarterly, 4: 524-567. Also in The Anathomy of Psychotherapy. Hillsdale, NJ: Analytic Press, 1988, ch. 4.
- GILL M.M. (1984). Psychoanalysis and psychotherapy: a revision. Int. Rev. Psychoanal., 11: 161-179. Internet edition: http://www.publinet.it/pol/ital/10Gil-aI.htm (Italian translation: http://www.publinet.it/pol/ital/10a-Gill.htm; discussion: http://www.psychomedia.it/pm-lists/debates/gill-dib-1.htm).
- MIGONE P. (1995). Le differenze tra psicoanalisi e psicoterapia psicoanalitica. In Terapia psicoanalitica. Milan: Franco Angeli, ch. 4  (in Italian, see http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/ruoloter/rt59pip.htm).
- MIGONE P. (2000). A psychoanalysis on the chair and a psychotherapy on the couch. Implications of Gill's redefinition of the differences between psychoanalysis and psychotherapy. In Changing Conceptions of Psychoanalysis: The Legacy of Merton M. Gill, eds. D.K. Silverman & D.L. Wolitzky. Hillsdale, NJ: Analytic Press, pp. 219-235 (Spanish transl.: El psicoanálisis en el sillón y la psicoterapia en el diván. Implicaciones de la redefinición de Gill sobre las diferencias entre psicoanálisis y psicoterapia. Intersubjetivo. Revista de Psicoterapia Psicoanalitica y Salud, 2000, 2, 1: 23-40).
- MIGONE P. & LIOTTI G. (1998). Psychoanalysis and cognitive-evolutionary psychology: an attempt at integration. Int. J. Psychoanal., 79, 6: 1071-95. Internet edition: http://ijpa.org/archives1.htm.
- MILTON J. (2001). Psychoanalysis and cognitive-behaviour therapy: rival paradigms or common ground? Int. J. Psychoanal., 82, 3: 431-447.
- RYLE A. (1990). Cognitive Analytical Therapy. Chichester: Wiley.
- RYLE A. (1995). Psychoanalysis, cognitive analytic therapy, mind and self. Brit. J. Psychother., 11: 568-574.
- THOMÄ H. & KÄCHELE H. (1985). Lehrbuch der psychoanalytischen Therapie. 1: Grundlagen. Berlin-Heidelberg: Springer Verlag (English transl.: Psychoanaytic Practice. Vol. 1: Principles. Berlin-Heidelberg: Springer Verlag, 1987).
- WACHTEL P.L. (1977). Psychoanalysis and Behavior Therapy. New York: Basic Books (enlarged edition: Psychoana1ysis, Behavior Therapy, and the Relational World. Washington, D.C.: American Psychological Association, 1997).

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Tullio Carere, 17 Settembre 2001:

Cari amici e colleghi, credo che riprendere il filo del prossimo convegno sull'integrazione in psicoterapia possa rappresentare un piccolo contributo al cambiamento culturale che il periodo storico iniziato con l'attacco all'America richiede drammaticamente. Integrazione, infatti, significa in primo luogo pluralismo, e in secondo luogo ricerca di un terreno comune, o costruzione di ponti, tra indirizzi e orientamenti legittimamente diversi. Entrambe le cose - pluralismo e ricerca o costruzione di elementi comuni - sono esattamente agli antipodi di ogni forma di integralismo culturale, da cui molte scuole psicoanalitiche e psicoterapeutiche purtroppo non sono esenti. Questo credo sia il tema nucleare del conflitto planetario cui nessuno si può più sottrarre: integrazione versus integralismo.

Sul tema ho scritto questa estate il lavoro che vi mando in attachment intitolato "Towards a new paradigm: Dialogic-dialectical vs scholastic therapy", su cui baserò il mio intervento al convegno. Ho potuto discuterlo alla fine di agosto con Paul e Ellen Wachtel, che erano in Svizzera in vacanza. Tornato a New York, Paul mi ha scritto per dirmi che aveva letto il manoscritto ("I liked it VERY much") e per annunciarmi alcuni commenti e suggerimenti ("all minor") che mi avrebbe mandato la settimana seguente, essendo per il momento sommerso di impegni che lo attendevano al rientro. Ma la settimana seguente è stata la settimana scorsa. Paul e Ellen abitano nella 12.a strada, a pochi isolati dal luogo dove sorgevano le torri gemelle. Sono stati tra i primi a mettersi a disposizione per il debriefing dei traumatizzati. Aspettavo i suggerimenti di Paul per modificare il manoscritto prima di mandarvelo, ma penso che ora dovrò aspettare a lungo. Vi mando quindi il manoscritto così com'è (la bibliografia è incompleta). Tullio Carere.

Giorgio Alberti, 3 Ottobre 2001:

Caro Tullio, grazie anche a un "fermo per influenza", ho potuto leggere il Tuo lavoro "Towards a new paradigm". L'ho letto tutto d'un fiato, e l'ho trovato bello e scorrevole, e in molte sue affermazioni condivisibile. Mi è piaciuto, e corrisponde anche alla mia diretta esperienza clinica, il quadro di riferimento generale bidimensionale - i due assi cartesiani polari, materno-paterno e conoscenza-ignoto - in base a cui è possibile classificare gli atti terapeutici. Tuttavia non mi ha convinto il Tuo appello a disattendere coraggiosamente il libro, il manuale, e non in sé e per sé - visto che io stesso ritengo utile uscire dai limiti di scuola, se ciò serve al paziente - ma in quanto il manuale stesso sarebbe sostituito da un atteggiamento dialettico, una polarità del quale consiste, se intendo bene, nella spontaneità, intuizione e irriflessione proprie del polo O. Inoltre, gli atti terapeutici così ispirati risponderebbero senz'altro meglio ai bisogni del paziente e sarebbero quindi migliori di quelli ispirati dalla formazione del terapeuta e, il che mi lascia molto dubbioso, anche da qua1siasi rappresentazione ampia e "laica" del problema del paziente e del processo di cambiamento che possa servire da criterio di scelta di interventi eterodossi. Mi sorge infatti una domanda a proposito della "freedom to be in the service of the process" (p. 16): come fa il terapeuta a leggere i bisogni del paziente e le esigenze che il "process" gli pone, se non adottando una certa ottica interpretativa, o senza conoscere le procedure di terapie diverse dalla sua originaria? Oppure, ritieni, cosa per me difficile a credersi, che vi possa essere una qualche forma di diretta percezione, non influenzata da aspettative, di scuola o d'altro tipo, di ciò che accade nel paziente e in terapia, a cui attinge il terapeuta che agisce intuitivamente? In realtà, fino a un certo punto io condivido il Tuo ragionamento. In particolare fin dove affermi la libertà del terapeuta da ogni vincolo di teoria o scuola. Ma poi resto interdetto: avventurarsi fuori dalla teoria e dalla prassi nota richiede in ogni caso una mappa, un'ipotesi che permetta di distinguere gli interventi in terapeuticamente utili e terapeuticamente inutili o dannosi, e i loro accostamenti ovviamente anche. E a me sembra che quello dell'intuizione non sia un metodo né sicuro né comunicabile. Ho paura che l'alternativa a un qualche tipo di prevedibilità degli atti terapeutici - prevedibilità ovviamente statistica, e non sempre certo pienamente sfruttabile - sia l'eclettismo irriflesso, il puro assemblaggio, che certamente esiste, e in cui tutti sono certamente caduti, ma per evitare il quale ci si è posti il problema dell'integrazione, cioè di una mappa più ampia, di un qualche ordine che permetta di scegliere, di volta in volta, cosa fare, cosa non fare, e anche di decidere che non si sa cosa fare per far bene. Ma non che bisogna fare quello che viene in mente spontaneamente. Potrei seguirTi se mi dicessi che la creatività del polo O implica un disegno non immediatamente perscrutabile nell'attimo dell'azione spontanea, ma ricostruibile poi a posteriori, per cui, seppur in via automatica e inconsapevole, il terapeuta segue dei criteri. Ma non so se Tu intendessi questo. Insomma, quella che mi appare come la rinuncia ad ogni criterio di scelta dell'intervento mi sconcerta. Azzardo a mia volta un'interpretazione: il Tuo saggio è certamente una brillante realizzazione scientifica e culturale ma, mi domando, non è forse ancora troppo vicino alla posizione di chi vuoi liberarsi per sperimentare libero da dogmi e non si è ancora posto il problema di come coordinare i prodotti della sua libertà? Ti prego di prendere queste osservazioni come primissime reazioni ancora "a caldo". Se avrai la gentilezza di rispondermi forse potrò capire meglio. Giorgio

Tullio Carere, 6 Ottobre 2001:

Caro Giorgio, ti ringrazio molto delle osservazioni al mio articolo, che mi danno occasione di chiarirne alcuni punti. Tu scrivi:
>non mi ha convinto il Tuo appello a disattendere coraggiosamente il
>libro, il manuale, e non in sé e per sé - visto che io stesso ritengo utile
>uscire dai limiti di scuola, se ciò serve al paziente - ma in quanto il
>manuale stesso sarebbe sostituito da un atteggiamento dialettico, una
>polarità del quale consiste, se intendo bene, nella spontaneità,
>intuizione e irriflessione proprie del polo O.

Non ho niente contro i manuali, per cominciare. Ogni terapeuta dovrebbe avere diversi manuali nella sua libreria, e soprattutto nella sua mente - e naturalmente sapere quando consultare e applicare un manuale, e quando l'altro. Il mio obiettivo polemico non è il manuale, ma la terapia manualizzata, cioè quella in cui il manuale è applicato in modo rigido, scolastico. Su questo penso che tu sia d'accordo. Il punto è capire in che modo si esce dalla scolastica. Un primo modo è quello della cosiddetta integrazione teorica. Prendo due manuali (per es uno psicodinamico e l'altro comportamentale), estraggo alcune cose dall'uno e altre dall'altro, e le combino in una nuova teoria sovraordinata, che appunto "integra" parti dell'uno e dell'altro. In misura maggiore o minore è quello che facciamo tutti, in tutto l'arco della nostra carriera, in quanto continuiamo ad "assimilare" pezzi di teorie estranee nel corpo della nostra teoria di base (che per "accomodare" al suo interno questi corpi estranei deve sempre poco o tanto modificarsi).

Questa integrazione teorica (assimilativo-accomodativa) porta a costruire teorie più ampie e più rispondenti alle nostre preferenze e capacità rispetto a quella di partenza. Tuttavia se il modello in tal modo "integrato" viene poi applicato in modo scolastico - cioè prescrittivo di ciò che si può e ciò che non si può fare - siamo da capo. Ogni teoria, comunque costruita, anche integrando due o più teorie subordinate, diventa inevitabilmente scolastica, nel momento in cui si fa normativa. L'integrazione teorica non è pertanto di per sé un rimedio alla scolastica. Non sarà sommando teoria a teoria che un terapeuta può pensare di affrancarsi dalla soggezione alla teoria. Nella terapia autentica (cioè, non "teoreticamente abusiva", come dice Basseches) o euristica (cioè non stereotipata, come diceva Peterfreund) la teoria è al servizio della terapia, non viceversa.

Libertà dalla teoria significa uso critico della teoria. Cioè uso della teoria fintanto che e nella misura in cui mi aiuta a capire quello che succede e a produrre cambiamenti, e suo abbandono o messa da parte nel momento in cui non mi è più di aiuto. Questo significa che io non sono guidato dalla teoria, ma dalla facoltà critica che mi permette di capire se una data teoria in un dato momento mi serve o non mi serve. La stessa facoltà mi permette di capire se una data intuizione o azione spontanea (non prevista dalla teoria) mi aiuta a comprendere o modificare una data situazione meglio di quanto non faccia la teoria di cui dispongo. Un terapeuta mentalmente libero (cioè non scolastico) intanto è libero in quanto non si fa condizionare dai modelli di cui dispone, ma li usa con giudizio, sempre pronto a seguire intuizioni o eseguire gesti spontanei quando gli sembra che la situazione lo richieda. Questa libertà evidentemente non può essere disgiunta dalla responsabilità di verificare continuamente l'effetto di qualsiasi intuizione o gesto spontaneo, come del resto di qualsiasi interpretazione o azione prevista dalla teoria vigente. L'oscillazione tra i vertici K e O, che definiscono l'asse della scoperta (uncovering), descrive graficamente il movimento tra questi due momenti fondamentali dell'azione terapeutica: quello in cui organizzo il materiale, interpreto o intervengo secondo i canoni della teoria semplice o integrata di cui dispongo, e quello in cui mi lascio guidare dall'intuizione o dall'impulso spontaneo, avventurandomi fuori del recinto del già noto. E' la dialettica tra rigore tecnico e spontaneità studiata dagli analisti relazionali, specialmente da Hoffman.

Spero di averti dato almeno un primo chiarimento su come intendo il rapporto tra teoria e spontaneità. Visto che evidentemente non è chiaro nell'articolo, lo riprenderò per qualche modifica. A maggior ragione ti ringrazio delle tue osservazioni. Tullio

Giorgio Alberti, 7 Ottobre 2001:

Caro Tullio, grazie della Tua risposta che mi sembra chiarire bene, soprattutto quando sottolinei la necessità di verificare quanto spontaneamente agito in terapia. Giorgio

Diego Napolitani, 8 Ottobre 2001:

Caro Tullio, tutto il tuo discorso è pervaso dal modello relazionale che conveniamo di chiamare "cura". Il "curare", che si tratti di un malato o di un bambino da allevare, implica comunque la necessità di adoperare strumenti che consentano al curante di raggiungere il proprio scopo, supposto che questo sia il medesimo di quello che dispone il "bisognoso" di mettersi nelle sue mani.
Sono stato sospinto, da un complesso di esperienze di cui sono riuscito fin qui a razionalizzare solo alcuni vertici, a mettere radicalmente in crisi questa postura medico e/o pedagogica, senza ovviamente sottovalutare il fatto che certi fenomeni legittimamente considerati come "effetti" della relazione analitica possano essere inscritti nelle categorie della medicina o della pedagogia. Appartiene del resto al linguaggio comune il dire che un certo incontro mi ha cambiato la vita, nel senso che mi ha curato da un mal di vivere o che mi ha aperto a nuovi orizzonti. Eppure credo che nessuno connoterebbe questo tipo di incontro come "terapeutico" o come "insegnante" se non in termini vagamente metaforici.
La pratica analitica si pone nei miei intendimenti al di là dei vincoli fortemente suggestivi indotti sia dal potere tecnologico e scientista sia dal potere educativo, nel senso genitoriale, poteri che, entrambi, sono vivacemente evocati e "integrati" in quel che mi pare di leggere nel tuo scritto. La sfida del nostro tempo consiste nell'indicare con maggiore precisione (senza la pretesa di de-finire) l'area del gioco, come allusa da Winnicott, nel suo sostanziale carattere di reciprocità.
Per ora non mi dilungo, sperando che i lavori che ti accludo possano darti più elementi di giudizio sul mio percorso. Diego

Tullio Carere 13 Ottobre 2001:

Caro Diego, leggerò con molto interesse i lavori che mi hai mandato, ma voglio commentare a botta calda le tue preziose osservazioni. Hai ragione di dire che il mio discorso è pervaso dal modello della cura, ma non ce l'hai se dici che ne è "tutto" pervaso. Credo occorra stare in guardia da quelli che considero due errori opposti: identificare l'analisi con la cura, separare l'analisi dalla cura. Li esamino brevemente entrambi.

1.
Si può negare che molti hanno bisogno di cure mediche e/o pedagogiche? No, non si può. Se si vuole salvare la purezza dell'analisi dalla contaminazione con tali cure si deve pertanto distinguere bene, come già Freud esortava a fare: da un lato l'oro della psicoanalisi, dall'altro il rame della psicoterapia, ricettacolo di ogni pratica medico-psicopedagogica e suggestiva in genere. Bisogna naturalmente dividere i pazienti in due gruppi: i più scassati, e i poveracci che non possono permettersi una vera analisi, saranno avviati alla psicoterapia, mentre a quelli che stanno meglio, psicologicamente ed economicamente, si consiglierà una psicoanalisi. I primi otterranno al più una riduzione dei sintomi o una rieducazione, mentre dalla psicoanalisi emergeranno donne e uomini rinnovati nel profondo, consapevoli, giocosi e creativi.
Vanno davvero così le cose? Non proprio. Perché la cosa non sia lasciata all'arbitrio delle opinioni, consideriamo i dati della ricerca. In particolare della ricerca più imponente che sia mai stata fatta in campo psicoanalitico, quella di Topeka [Wallerstein, R.S. (1986). Forty-two Lives in Treatment. New York: Guilford Press]. Confrontando due gruppi di pazienti, rispettivamente in psicoanalisi e in psicoterapia, e seguendoli per ben trent'anni, la ricerca ha stabilito che: (a) non c'erano sostanziali differenze tra i pazienti dei due gruppi all'inizio del trattamento; (b) non ci sono state sostanziali differenze nel trattamento, essendo somministrata in entrambi i gruppi una miscela di pratiche espressive e supportive che rendeva di fatto indistinguibile la "psicoanalisi" dalla "psicoterapia"; (c) non ci sono state sostanziali differenze nei risultati, salvo un leggero vantaggio, quanto a profondità e stabilità dei cambiamenti, per i pazienti in psicoterapia.
Che cosa significa questo? Come mai le psicoanalisi che dovevano essere "pure" risultarono zeppe di interventi supportivi (cioè "pedagogici"), al punto da essere di fatto indistinguibili dalle psicoterapie? La risposta credo sia questa: la distinzione tra l'oro e il rame è un'esigenza degli analisti, non dei pazienti. I quali nella pratica reale se ne infischiano dell'oro, e impongono agli analisti (se non vogliono perderli) di usare tanti e tali "parametri" da produrre alla fine quelle combinazioni espressivo-supportive (o uncovering-remaking) che la ricerca ha trovato caratterizzare tutti i trattamenti reali, indipendentemente da come si preferisca chiamarli, se analisi o terapia. In conclusione, l'analisi è separabile dalla cura solo nella teoria (in ciò che gli analisti dicono di fare), non nella pratica (in ciò che realmente fanno). Su questo, vedi Migone, http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/ruoloter/rt69-95.htm, e la prima sezione del mio lavoro "The logic of the psychotherapeutic relationship").

2.
Il fatto che l'analisi non sia separabile dalla cura non significa che le due cose siano identificabili. In realtà la pratica complessiva (è indifferente se preferiamo chiamarla "analisi" o "terapia") è qualcosa di più sia dell'analisi, sia della cura. Questo quid che supera entrambe non è da cercare tanto nell'elemento della reciprocità, perché ogni analisi o terapia è poco o tanto, lo si voglia o meno, anche analisi reciproca e cura reciproca; quanto piuttosto in quello spazio o vertice della relazione in cui non si analizza né si cura (in senso genitoriale o medico), ma ci si lascia prendere o guidare dalla potenzialità generativa e rigenerativa del processo che a me è cara non meno che a te (io chiamo questo spazio "vertice O" del campo relazionale, e so che anche tu ti riferisci all' O di Bion per indicare questa dimensione).
Se poi ci chiediamo come possiamo chiamare questo processo complessivo, che include la dimensione creativa, generativa e ludica del mistico e dell'artista, sono d'accordo con te che "cura" non va bene, se la parola è intesa nel suo senso ristretto di accudimento genitoriale o trattamento medico, ma "analisi" va anche peggio (si dovrebbe parlare di "psicosintesi", piuttosto che di "psicoanalisi"). Dovendo comunque scegliere una parola tra quelle che il linguaggio ci offre, preferisco ancora Cura (o Terapia), ma con la maiuscola, quella Cura che è più che cura genitoriale e medica (pur necessarie anch'esse) perché include quel senso più profondo e radicale che è il "salto nel vuoto", quell'affidamento alla matrice prima di ogni cura che forse anche Freud aveva in mente, quando ricordava il celebre e regolarmente frainteso motto del chirurgo "Je le pansai, Dieu le guérit". Ogni Terapeuta cura il suo paziente (il le panse) in scienza e coscienza, ma sa che la Guarigione può venire solo dall'attivazione di quella sorgente inconscia che le persone semplici e i teologi chiamano "Dieu", ma che, come i mistici sanno bene (è l'unica cosa che sanno), è senza nome, senza forma, senza luogo, senza identità. Tutt'al più si può dire che è "O", Zero.

Caro Diego, io sono in sintonia con te e Sergio Benvenuto, i mistici della compagnia, su questi temi, ma con Paolo Migone, Gianni Liotti e Giorgio Alberti sull'esigenza di rigore scientifico. Spero che Salvatore Freni (scienziato mistico come me) mi dia una mano a gettare un ponte tra le due sponde, e che Fausto Petrella (che mi ha annunciato un imminente rientro) e Mario Rossi Monti offrano la loro linfa al dibattito. Tullio

Tullio Carere, 2 Dicembre 2001:

Cari amici e colleghi, il dibattito su questa minilista si è fermato da qualche tempo, ma è proseguito per altri canali con alcuni di voi. Ho cercato di ricordare spesso che la questione cruciale che dovremo affrontare in questo primo convegno sarà la possibilità - o non possibilità - di comunicazione tra terapeuti aderenti a paradigmi diversi. Su quale base si ritiene che questa comunicazione sia possibile, o con quali argomenti si afferma che non è possibile? Sembrerebbe ovvio che il tema sia questo, ma mi rendo conto che non è così. Ad esempio una risposta che mi è stata data è stata: "io parlerò del tema che ho annunciato, vedrete voi se è pertinente al tema del convegno". Ho cercato di spiegare che non esiste un "voi" così immaginato, ci siamo solo "noi", terapeuti e analisti delle più diverse estrazioni, che si incontrano e provano a dialogare, cercando per questo dialogo un terreno comune (di esperienze, concetti, linguaggio) che non cancelli ma ospiti le differenze.

Credo che un minimo di terreno comune e di dialogo costruttivo alla fine si troverà solo se ciascuno di noi, oltre ad affermare come è giusto e logico la specificità del proprio discorso, si sforzerà anche di individuare e coltivare ciò che unisce, oltre a ciò che differenzia. Vorrei invitarvi a una ripresa del dibattito precongressuale in questa sede su questo punto. Possiamo cominciare sin d'ora a esplorare e coltivare questo terreno comune, cercando di non arrivare al convegno solo per constatarne la mancanza? Tullio Carere

Giovanni Liotti, 7 Dicembre 2001:

Cari amici e colleghi, in risposta alla sollecitazione di Tullio Carere ribadisco la mia idea iniziale: un "terreno comune" sarà offerto al vasto campo della psicoterapia dalla ricerca scientifica riguardante il processo psicoterapeutico, gli esiti delle psicoterapie (efficienza oltre che efficacia), le neuroscienze che si occupano di emozioni e coscienza, la psicologia che studia attaccamento, regolazione delle emozioni, processi metacognitivi, memoria ecc. In realtà, è sbagliato porre l'affermazione precedente al futuro: tutto ciò sta già dimostrabilmente fornendo un "terreno comune". Tale terreno sarà/è costituito da idee, ipotesi, teorie cliniche e procedure terapeutiche che MOMENTANEAMENTE reggono meglio al vaglio della ricerca rispetto ad altre. Lo stesso vaglio sarà stimolo per la messa a punto di idee, ipotesi, teorie e procedure MIGLIORI, e così via. Già oggi mi sembra che curiamo MEGLIO diverse categorie di pazienti (agorafobia, disturbi ossessivi, disturbi del comportamento alimentare, disturbi borderline) rispetto ad un non lontano passato.
Naturalmente sono possibili tanto proposte di altri "terreni comuni" (attendo di sentirne parlare da qualcuno di voi al Congresso di Marzo), quanto la negazione della possibilità-desiderabilità di essi. E naturalmente sono consapevole dell'assoluta ingenuità della mia proposta, rispetto ad alcune sofisticate epistemologie post-moderniste. Al congresso, mi propongo di spezzare qualche lancia a favore dell'ingenuità del pensiero "moderno" rispetto alla complessità di quello "post-moderno". Giovanni Liotti

Paolo Migone, 7 Dicembre 2001:

Pensando che possa essere di interesse per questa minilista del convegno SEPI-Italia, faccio circolare una mail che ho mandato giorni fa nella lista "Psicoterapia" di Psychomedia (PM-PT), sul pensiero di Fred Pine, che con la sua idea delle "quattro psicologie" mi sembra che in qualche modo riguardi anche la questione della cosiddetta "integrazione". Alla fine aggiungo anche una risposta di Tullio (che mi sembra molto pertinente perché sottolinea che in realtà Pine non è interessato solo a un livello clinico, ma anche ad un livello teorico - infatti non avrebbe senso parlare solo di clinica, come se, almeno secondo me, non ci si rendesse conto che la clinica senza la teoria non esiste). Aggiungo anche l'intervento di un altro collega (Pietro Spagnulo) e una mia risposta a lui e a un'altra collega (Licia Filingeri, che fu quella che aprì il dibattito). Alla fine aggiungo una bibliografia rilevante, che copio dal mio computer. Paolo Migone

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Date: Mon, 3 Dec 2001
From: Paolo Migone <migone@unipr.it>
Subject: Re: [PM-PT] Come usiamo le (quattro) psicologie?

Voglio anch'io fare un commento sulla proposta di Fred Pine. A me sembra che
possa essere intesa in due modi diversi. Il primo riguarda la sua scelta
delle "quattro psicologie" (quali sono, come si integrano l'una con l'altra,
perché ha scelto quelle quattro e non altre, perché 4 non 5 o 6 o 15 ecc.).
Il secondo prescinde da questi contenuti e riguarda un discorso più ampio,
di metodo, cioè la questione più generale che vi sono modi diversi di vedere
le cose, varie teorie, diverse scuole di psicoterapia, in ultima analisi
come si può porre il problema della integrazione in senso lato (qui Pine
avrebbe potuto scegliere 2 psicologie o 15, il problema non cambierebbe). A
me sembra che il primo modo sia più banale, meno interessante (le teorie
cambiano sempre, a seconda dei periodi storici e delle aree geografiche, per
cui tanto vale non perderci tempo), mentre questo secondo modo con cui Pine
ci fa riflettere sia più interessante (le riflessioni che faccio sono basate
anche sulla recente lettura dell'ultimo articolo di Pine, uscito sull'Int.
Journal of Psychoanalysis
, 5/2001, intitolato "Ascoltare e parlare
psicoanaliticamente - ma con in mente che cosa?", tratto dalla sua "Heinz Hartmann
Honorary Lecture
" tenuta al New York Psychoanalytic Institute il 28 novembre 2000).

Pine dice che tutte queste psicologie, queste teorie, sono state inventate
da qualcuno perché in un qualche modo gli servivano, sembrava che lo
aiutassero a capire meglio il paziente. Quindi possono avere una certa
utilità, tutte, nella misura in cui sono servite a chi le ha inventate, a
seconda del paziente che aveva di fronte, del suo sviluppo o maturazione,
della sua età, del suo sesso, della sua diagnosi, del problema specifico che
presentava, ecc. A volte ci tornano in mente, ci sembra che "funzionino", e
allora le usiamo, almeno ci proviamo, e anche a noi sembra che funzionino
queste belle metafore che vari autori ci propongono per capire e aiutare i
nostri pazienti. Hanno quindi un valore d'uso. Pine non è affatto
interessato alla questione della integrazione teorica dei vari modelli,
perché sa che questo è un discorso ben pi complicato e ambizioso; gli
basta, per portare avanti il suo discorso, una approssimativa integrazione
clinica, una sorta di eclettismo, se volgiamo chiamarlo così. Ma perché Pine
insiste su questo? Dove vuole arrivare? Cosa vuole dirci? Io avevo sempre
capito poco il discorso di Pine, anche perché non lo avevo letto
approfonditamente, e avevo sempre provato una certa antipatia per le sue
idee, antipatia che non avevo mai espresso pubblicamente perché appunto lo
conoscevo poco. Ma ora, dopo la lettura di questo suo ultimo articolo, la
mia antipatia si è trasformata in una certa simpatia, e voglio spiegarvi
perché, anche per confortarmi con voi.

Pine rifugge dalle "grandi teorie" che possano spiegare tutto. C'è un suo
esempio che può essere illustrativo, e riguarda i tentativi di spiegazione
dell'Olocausto nazista. Come sappiamo, l'Olocausto rimane un po' un mistero,
e tanti storici hanno provato a spiegarlo, chi in un modo, chi nell'altro,
ma tutti miravano a trovare la "vera" spiegazione di come mai sia potuta
accadere una cosa del genere (motivi sociali, economici, psicologici, ecc.).
Una autrice (I. Clendinnen, Reading the Holocaust, Cambridge Univ. Press,
1999) ha scritto un libro sull'Olocausto rinunciando fin dall'inizio alla
pretesa di spiegarlo definitivamente, convinta che le "grandi teorie"
possano ingannare, avere uno scopo difensivo divergendoci da altre possibili
spiegazioni, e invece ha raccolto una serie di micro-spiegazioni basandosi
sui dati obiettivi, cioè interrogando i documenti disponibili (diari,
discorsi, interviste, autobiografie, ecc.) e specifici gruppi di persone
coinvolte (carnefici, vittime, membri della polizia, gerarchi vicini a
Hitler, soldati impegnati nel lavoro di bassa manovalanza nello sterminio,
SS, ecc.), per capire quali erano le precise ragioni di ciascuno. In questo
modo, cerca di ricostruire piccoli pezzi di significato, nel tentativo di
rintracciare diverse strade che possono aver portato al risultato finale.
Questo esempio così lontano secondo Pine può essere collegato a quello che
ci interessa, il lavoro analitico.

In un passaggio successivo, Pine ci dice che di fatto l'analista lavora già
su più livelli, soprattutto perché ci avviene senza che lui se ne accorga.
Ad esempio lui segue un certo modello tecnico, ma il paziente lo percepisce
in un altro modo. In genere, il modo con cui gli analisti riescono a far
passare un viraggio di modello, pur mantenendo l'apparenza di essere legati
a uno solo, è nascosto nella universalmente riconosciuta importanza di tre
fattori: il tatto, il timing, e il tono di voce. Con questi tre trucchetti,
come un vero e proprio prestigiatore, l'analista riesce a virare di modello
tecnico senza che nessuno se ne accorga a livello conscio, né lui, né il
paziente, né la comunità dei colleghi. Il più rigido freudiano ortodosso,
che lavora sempre e solo sulla interpretazione neutrale del conflitto a
livello della costellazione impulso-difesa - sembra che dica Pine - con un
semplice trucco, con un gioco di prestigio, di soppiatto diventa un convinto
kohutiano.
Non solo, ma - ci dice Pine - tante volte ci è sembrato di aver detto "la
cosa giusta" a un certo paziente, di aver fatto "proprio quello che andava
fatto" e di essere molto soddisfatti di noi. Ma anni dopo, ripensando a
quella situazione clinica o rileggendo le nostre note su quel caso, alla
luce di nuovi modelli teorici che nel frattempo abbiamo appreso ci
accorgiamo che quella "cosa giusta" era avvenuta solo grazie a qualcosa di
completamente diverso da quello che avevamo creduto, cioè "malgrado noi",
per così dire, cioè le cose potevano essere molto meglio spiegate con una
teoria che a quei tempi noi non conoscevamo. La realtà, insomma, è per sua
natura sempre molto più complessa di quanto noi crediamo di capirla. Qui
Pine anche cita vari esempi per dimostrare come certi analisti senza saperlo
implicitamente includevano nella loro teoria già cose che molti anni dopo
avrebbero più compiutamente teorizzato altri autori che fonderanno scuole di
pensiero opposte (cita ad esempio la questione del transfert in Greenson e
poi in Gill).
Inoltre, tante cose accadono che noi non conosciamo nel regno del non
verbale e dell'hic et nunc, cioè esistono molteplici codici cognitivi,
canali di comunicazione, e noi ne siamo coscienti solo di uno alla volta, e
magari le cose pi importanti accadono in livelli che noi al memento non
consideriamo affatto. Ed ecco quindi che qui Pine collega questo discorso
alle quattro psicologie, cioè alla importanza per l'analista di tenerle in
considerazione tutte, senza sposarne una sola. Più precisamente, Pine si
serve di questo discorso per fornire un ampliamento teorico del concetto di
"attenzione liberamente fluttuante" dell'analista nell'ascolto del paziente,
nel senso che se è pur vero che la importanza della "evenly suspended
attention
" o "evenly hoovering attention" (complementare alla regola aurea,
quella delle "associazioni libere" del paziente) è ben sottolineata da
tutti, non viene in genere teorizzata in questo modo come fa Pine. La
attenzione liberamente fluttuante dell'analista cioè dovrebbe riguardare
anche le teorie che si hanno in mente. E quale è la concettualizzazione più
generale che a questo riguardo si può fare per spiegare come mai vi sono
diverse teorie, diversi modi di ascoltare il paziente? E' molto facile qui
rispondere: la variabile fondamentale è costituita dalle caratteristiche del
paziente, quelle che citavo prima (sviluppo o maturazione, età, sesso,
diagnosi, problema specifico che presenta, ecc.): sono quelle che nel
linguaggio della ricerca in psicoterapia vengono definite "patient
variables
", le variabili del paziente, che rendono conto della maggior parte
della varianza (a parità di "therapist variables", naturalmente, anch'esse
molto importanti).
E' questo quello che ho capito di Fred Pine. Quello che mi piace è la sua
modestia verso la complessità della realtà, per sua natura inconoscibile, ma
avvicinabile solo attraverso i vari (tanti) occhiali delle nostre teorie a
disposizione, e adottare solo una "grand theory" può appiattire troppo i
dati e può non farci vedere qualcosa. Naturalmente rimane aperta la
questione di come possono essere integrate teorie tra loro contraddittorie.
Per ora mi fermo qui, anche per non essere troppo lungo e quindi illeggibile
in una discussion list. Paolo Migone

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Date: Mon, 3 Dec 2001
From: Pietro Spagnulo <pietrospagnulo@ECOMIND.IT>
Subject: Re: [PM-PT] Come usiamo le (quattro) psicologie?

Sono proprio contento di aver letto l'intervento di Paolo Migone!
Finalmente una lettura aperta e stimolante di un contributo teorico
specifico, come può essere quello di Pine.
Finalmente ho sentito una vibrazione speculativa, un lasciarsi andare a
dubbi (ed aperture), un riconoscere che vi sono più livelli di lettura di
una teoria: di cui almeno uno interno ad esso (la sua coerenza, la sua
comprensibilità, i suoi collegamenti con la comunità che la accoglie), ma
anche uno esterno, che si rivolge alla intera comunità scientifica, e non ad
un sottogruppo (sia detto senza offesa!) culturale.
Migone (ciao Paolo, ci siamo conosciuti al congresso di Psichiatria di
Torino, allo stand di Ecomind, ti ricordi?) mi offre l'occasione di accedere
ad un livello più generale del dibattito, che chiamerei epistemologico.
Ma, ed è qui il punto, inizio subito col dire che questo livello NON
appartiene in modo esclusivo alla psicoanalisi.
E qui mi discosto subito dal contributo di Paolo Migone, ma anche da quello
degli altri colleghi fin qui intervenuti.
La mia formazione originariamente psicoanalitica (analisi personale con un
membro della SPI, supervisione con altro membro della SPI, ecc. ecc.) ha
subìto negli ultimi anni una progressiva trasformazione. Ho "dovuto"
riconoscere, che se si prova a ragionare in modo aperto, non solo non si può
lavorare con un solo modello in testa, ma, soprattutto, non si può più
"appartenere" ad una sola sottocomunità, sia pure così articolata e
complessa come quella psicoanalitica.
La mia posizione attuale (mi definisco genericamente psicoterapeuta) unita
alle mie origini (psicoanalitiche) mi rendono piuttosto sensibile a
percepire un automatismo così radicato tra gli psicoanalisti da apparire
troppo scontato. Se si discute di psicologie e di modelli della mente, la psicoanalisi non è
il punto di partenza!

Troppe cose sono accadute in questi anni: lo studio della comunicazione non
verbale, gli studi sull'intelligenza artificiale e sulla memoria, la
psicolonguistica, gli studi delle scienze cognitive e quelli sulla
metacognizione, teorie sulla complessità, gli avanzamenti dell'ipnosi, gli
indubbi successi di interventi psicoterapeutici brevi ed efficaci orientati
al famigerato sintomo, solo per citarne alcune, per accontentarsi di voler a
tutti i costi incastrare una riflessione di ampio respiro in un modello che,
pur nelle sue infinite varianti, rimane legato ad alcuni presupposti ormai centenari.

Cito qui, solo forse per provocare, ma spero di essere chiamato in ballo per
approfondire il discorso (della serie: se non vi interessa taccio!), i
seguenti residui archeologici:

1. Concezione difensiva della psicopatologia;
2. Inconscio come categoria mentale confusa che implica sia una modalità di
pensiero (processo primario), ma anche un luogo (quasi cerebrale), il luogo delle verità nascoste;
3. La paradossale (per una psicologia del profondo) supremazia della
consapevolezza nel processo di cambiamento;
4. La supremazia della parola.

A questi preconcetti diffusi nella comunità psicoanalitica contrappongo:
1. Un'idea della psicopatologia intesa come una serie di "soluzioni" (inadeguate, ma non difensive);
2. Un inconscio come processo per definizione inaccessibile, e non come categoria mentale sede di verità;
3. Il ruolo fondamentale dei processi creativi inconsci nei percorsi di cambiamento;
4. L'importanza del corpo, dei canali percettivi e della comunicazione non verbale.

Riguardo poi all'intervento specifico di Paolo Migone, condivido la
necessità di rinunciare alle "grand theories", ma propongo il concetto di
"teoria personale del terapeuta" che è il tentativo individuale che ognuno
di noi compie per muoversi in un terreno così poco sicuro come quello della psicoterapia.
In altri termini, ritengo che ogni terapeuta costruisca una sua "grand
theory
" privata, un suo modello della mente (assolutamente originale e
distinto dai suoi modelli di riferimento), una sorta di mappa personale, che
modifica ed aggiorna quasi quotidianamente e che è il vero terreno di
confronto di ciascuno di noi con i pazienti e con i dibattiti scientifici.
Se possiamo rinunciare alle Teorie generali assolute, non possiamo non
tenere conto dei modelli personali con i quali lavoriamo e che, per quanto
individuali, possono manifestare tratti comuni che decidono della reciproca
accettazione, comprensione, assimilazione del lavoro degli altri. Saluti a tutti, Pietro Spagnulo

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Date: Mon, 3 Dec 2001
From: Paolo Migone <migone@unipr.it>
Subject: Re: [PM-PT] Come usiamo le (quattro) psicologie?

At 10.45 03/12/2001 +0100, Pietro Spagnulo wrote:
>Ma, ed è qui il punto, inizio subito col dire che questo livello NON
>appartiene in modo esclusivo alla psicoanalisi.
>E qui mi discosto subito dal contributo di Paolo Migone, ma anche da quello
>degli altri colleghi fin qui intervenuti.

Il tuo contributo mi trova sostanzialmente d'accordo. Volevo per dire che
il discorso che facevo io era rivolto, e ovviamente a maggior ragione, alla
psicoterapia in toto, con le sue mille teorie. Ti faccio un esempio: modelli
clinici comportamentistici, basati sulla teoria dell'apprendimento, possono
benissimo stare nell'armadio mentale del terapeuta mentre cerca di capire il
paziente. Penso che anche Pine, seppure faccia un discorso interno alla
psicoanalisi (cioè le sue quattro psicologie sono quattro teorie
psicoanalitiche) sarebbe d'accordo.

At 16.56 03/12/2001 -0800, Licia Filingeri wrote:
>l'articolo di Pine... spazza via ogni dubbio
>(per chi ne avesse avuti), quale quello espresso piuttosto pesantemente e,
>mi pare, e con fraintendimento del pensiero di Pine, da Gedo.
>Gedo (http://www.argonauti.it/dialogo/gedo.html) scrive, parlando degli
>"sforzi ecumenici di integrazione": "Più recentemente anche Pine (1990)
>diventato un ecumenista: egli propugna l'uso simultaneo di quattro punti di
>vista teorici ma dimentica di specificare le regole attraverso le quali
>dovrebbe avvenire il passaggio dall'uso di un punto di vista
>all'altro: secondo me ci non corrisponde a una vera integrazione,
>piuttosto un'accozzaglia di elementi (per non dire un pasticcio)".

Forse Gedo (che non fu il solo nel coro degli autori che criticarono Pine)
non ha frainteso Pine, nel senso che Pine fa un discorso clinico, non tocca
la più complessa (e sicuramente molto interessante) questione
dell'integrazione teorica, di un modello generale della psicoterapia. Come
sappiamo, Gedo stato uno degli autori più importanti in questo senso,
quando nel 1972 con Goldberg, e ancor meglio nel 1979 con Al di là
dell'interpretazione
(Roma: Astrolabio, 1986), propose il suo modello
gerarchico basato su cinque livelli di funzionamento psichico correlati
a cinque tipi diversi di interventi tecnici. Paolo Migone

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Date: Wed, 5 Dec 2001
From: Tullio Carere <tucarere@tin.it>
Subject: Re: [PM-PT] Come usiamo le (quattro) psicologie?

At 9:21 +0100 3-12-01, Paolo Migone wrote:
>Pine non è affatto interessato alla questione della integrazione teorica dei vari modelli,
>perché sa che questo un discorso ben più complicato e ambizioso; gli
>basta, per portare avanti il suo discorso, una approssimativa integrazione
>clinica, una sorta di eclettismo, se vogliamo chiamarlo così.

Caro Paolo, non mi sembra giusto dire che Pine non sia interessato alla questione della
integrazione teorica dei vari modelli. Considera che cosa scrive (Pine,
2001, p. 908): "In prior writings (1990, 1998) I have given some arguments
for viewing our various psychoanalytic models of mind as part theories that
can find a place in a larger, more complete theory of mind. This can be
achieved without falling into an internally contradictory eclectic muddle
if one focuses on the clinical level theories and observations that are,
after all, the base of the various conceptual models and if,
simultaneously, one separates one's thinking from the metapsychological
structures built on top of those clinical formulations...This latter
(integration) is undertaken at the level of the developing child and of the
clinical process
".

In sostanza, secondo Pine i vari modelli psicoanalitici possono essere
visti come parti di una teoria generale della mente. A questa teoria
generale, che non un semplice affastellamento internamente
contraddittorio di teorie e tecniche, si può arrivare concentrandosi sul
livello clinico delle teorie, e rinunciando alle sovrastrutture
metapsicologiche. A una vera integrazione si arriva seguendo il filo dello
sviluppo psicologico del bambino e del processo clinico. In altre parole,
l'integrazione terapeutica è un'organizzazione delle varie teorie e
tecniche in funzione delle fasi dello sviluppo: ad esempio la psicologia
del sé offre dei modelli di lettura e delle tecniche di intervento
corrispondenti a una fase molto precoce dello sviluppo.

Ordinerò i suoi scritti precedenti, in particolare il testo del '98, per
saperne di più. Nell'articolo che stiamo commentando, peraltro, non c'è
traccia di questa teoria generale. Sembra piuttosto che Pine si muova in
modo genericamente eclettico. Se stiamo a questo scritto, la tua
osservazione citata sopra è giusta. Tullio Carere

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Bibliografia

Gedo J.E. & Goldberg A. (1973). Models of the Mind. Chicago: University of Chicago Press (trad. it.: Modelli della mente. Roma: Astrolabio, 1975).

Gedo J.E. (1979). A psychoanalyst's report at mid-career. Amer. J. Psychiatry, 136: 646-649.

Gedo J.E. (1979). Beyond Interpretation. New York: International Universities Press (trad. it.: Al di là dell'interpretazione. Roma: Astrolabio, 1986); revised ed.: Hillsdale, NJ: Analytic Press, 1993.

Gedo J.E. (1986). La mia posizione nei confronti della tecnica psicoanalitica. Psicoterapia e scienze umane, XX, 3: 269-272.

Gedo J.E. (1987). L'arte della psicoanalisi come una tecnologia dell'istruzione. Psicoterapia e scienze umane, XXI, 2: 25-39.

Grand C. & Hill D., issue editors (1994). The clinical uses of multiple models: possibilities and dangers in the approaches of Fred Pine and John Gedo. Psychoanal. Inquiry, 1994, 14, 2 (Pine: pp. 152-234 [D. Hill, C. Hanly, D.M. Kaplan, A. Modell, F. Pine]; Gedo: 235-312 [T.C. Rodgers, A.D. Druck, G. Moraitis, E. Shane & M. Shane, J.E. Gedo]).

Migone P. (1985). Monografia: John E. Gedo. Psicoterapia e scienze umane, XIX, 4: 89-102.

Pine F. (1985). Developmental Theory and Clinical Process. New Haven, CT: Yale Univ. Press (trad. it.: Teoria evolutiva e processo clinico. Torino: Bollati Boringhieri, 1995).

Pine F. (1988). The four psychologies of psychoanalysis and their place in clinical work. J. Am. Psychoanal. Ass., 36, 3: 571-596 (trad. it.: Le quattro psicologie della psicoanalisi e la loro importanza nel lavoro clinico. Gli argonauti, 1990, XII, 45: 95-114. Anche in: Psicoanalisi, 1999, vol. 3, n. 1).

Pine F. (1989). Motivation, personality organization, and the four psichologies of psychoanalysis. J. Am. Psychoanal. Ass., 37: 31-64.

Pine F. (1990). Drive, Ego, Object, and Self. New York: Basic Books (trad. it. in preparazione presso Bollati Boringhieri?).

Pine F. (2001). Listening and speaking psychoanalytically - with what in mind? Int. J. Psychoanal., 82, 5: 901-916.

Silver D., issue editor (1981). Commentaries on John Gedo's "Beyond Interpretation" (contributi di Appelbaum, Dewald, Gill, Meissner, Rangell, Segal & Britton, Gunther, Gedo). Psychoanalytic Inquiry, 2. New York: International Universities Press.

Wilson A. & Gedo J.E., editors (1993). Hierarchical Concepts in Psychoanalysis. New York: Guilford.

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Tullio Carere, 8 Dicembre 2001:

Caro Gianni, Fred Pine conclude con queste parole un articolo pubblicato sull'ultimo numero dell'IJPA (citato anche da Paolo): "Nella situazione clinica dipendiamo fortemente dal talento individuale e dalla combinazione paziente-analista, e l'intero processo è essenzialmente un'impresa creativa". Pine aggiunge che "la creatività del tipo migliore nasce dalla conoscenza", ma la conoscenza cui si riferisce è quella dei modelli psicoanalitici, e non ha nulla a che vedere con la ricerca scientifica, in nessuno dei campi da te elencati.

Se il "terreno comune" è quello che tu indichi, evidentemente Pine (e con lui la quasi totalità degli psicoanalisti) ne è fuori. Curioso il ribaltamento cui stiamo assistendo. In un tempo non molto lontano, in cui l'egemonia della psicoanalisi era fuori discussione, bastava alzare un sopracciglio e dire "questa non la chiamerei analisi", per bollare il destinatario di tale riprovazione come "psicoterapeuta", cioè come un operatore di serie B, categoria non ben distinta da quella contigua di "psicoterapeuta selvaggio" (serie C). Oggi, con tanti psicoterapeuti in circolazione fieri di dirsi tali, che rifiutano la qualifica di "psicoanalista" (pur avendo ricevuto una formazione analitica) perché la considerano troppo angusta o démodé, quella frase ha perso tutto o quasi il suo potere intimidatorio. Se si vuole mettere qualcuno al suo posto, oggi è meglio dire "questa non la chiamerei scienza". Funziona certamente di più, per il momento. Ma non è detto che la riscossa postmoderna non ribalti un'altra volta l'equilibrio di forze. Nella storia dell'Occidente mi sembra che le fasi "classiche" e quelle "romantiche" si succedano in continuazione. Non credo che una delle due riuscirà mai a prendere definitivamente il sopravvento. Per quanto mi riguarda, io spero solo che i fautori dei due campi ne prendano atto, smettano di cercare di intimidirsi a vicenda, e passino al livello superiore, dal quale le coppie classico/romantico o moderno/postmoderno appaiono non più come dicotomie, ma come opposizioni dialettiche in cui ciascun termine non esiste se non appoggiandosi al suo opposto.

Da questo punto di vista l'espressione "terreno comune" non significa il "recinto della verità", che delimita quelli che stanno dentro da quelli che stanno fuori - basta cambiare il criterio di recinzione per buttar fuori quelli che erano dentro e installare dentro quelli che erano fuori. Terreno comune significa proprio ciò che accomuna quelli che stanno dentro e quelli che stanno fuori, quale che sia il criterio preferito di recinzione. Per esempio Pine osserva che ogni terapeuta, quale che sia la sua teoria, fa molte cose che la sua teoria non prevede, senza saperlo o senza dirlo, e aggiunge che questo (un "fattore comune" a tutti i terapeuti) non è affatto un male, una cosa da correggere in nome dell'aderenza adamantina alla teoria o al manuale. Al contrario, non dobbiamo plasmare il paziente per uniformarlo ai dettami della nostra teoria (solo i terapeuti principianti lo fanno), ma piuttosto plasmare la nostra teoria per renderla più rispondente ai bisogni del paziente. Ecco, questa basilare dialettica tra attività governata dalla teoria e attività governata dal processo una prima caratteristica generale del "terreno comune". Né i moderni né i postmoderni possono rivendicarne la proprietà, trattandosi per l'appunto di un movimento dialettico tra opposti.

Un terapeuta che lavora in modo "manualizzato" per curare un certo disturbo, perché la ricerca ha dimostrato che quel tipo di approccio funziona meglio di altri per quel disturbo, non sta su un "terreno comune" ai terapeuti: sta se mai su un terreno comune ai terapeuti principianti, a quelli che commettono "abuso teoretico", perché curano il disturbo invece della persona. Un terapeuta esperto e rispettoso della persona del paziente e dello sviluppo del processo non segue mai un manuale: piuttosto tiene conto dei dati della ricerca per arricchire il suo bagaglio di strumenti teorici e tecnici da utilizzare in modo flessibile, un modo che lascia sempre molto spazio all'intuizione e alla spontaneità.

Non ho il minimo dubbio, Gianni, che questo sia il tuo modo di lavorare. Penso che nei fatti il tuo modo di lavorare sia molto simile a quello di Pine (sarebbe probabilmente difficile distinguere la trascrizione di una tua seduta da quella di una di Pine). Non per questo vorrei negare le differenze, che pure esistono e sono importanti. Voglio dire solo che se cerchiamo un terreno comune, come non possiamo non fare se realmente ci interessa il dialogo, possiamo trovarlo solo se osserviamo quello che effettivamente facciamo, e non quello che le nostre teorie dicono che dovremmo fare: le nostre pratiche ci avvicinano mentre le nostre teorie ci allontano. Sia la vicinanza che la lontananza sono preziose, se non si cerca l'una a scapito dell'altra, ma ancora una volta si privilegia una prospettiva dialogico-dialettica. Tullio

Giovanni Liotti, 12 dicembre 2001:

Caro Tullio, in fretta per la mia cronica mancanza di tempo, e ringraziandoti a mia volta: 1. Il "terreno comune" che va delineandosi è forse un terreno di scontro, forse un terreno di dialogo, fra due posizioni, che per comodità abbiamo chiamato "moderna" (o "scientifica") e "post-moderna" (o "ermeneutica"), più che fra Scuole classiche come quelle psicoanalitiche, quella cognitivo-comportamentale, quella familiare-sistemica, quella umanistico-esistenziale, l'analisi transazionale, etc. Già questa "riduzione a due" delle molteplici posizioni la cui complessità le rende non solo non "integrabili", ma persino ovviamente non confrontabili, mi sembra un notevole risultato.
2. Personalmente penso che prima di arrivare al dialogo sia utile lo "scontro": se civile, la polemica, rispetto al buonismo, permette di chiarire meglio le proprie posizioni.
3. Non si tratta di includere od escludere qualcuno (Pine o chiunque altro), ma, ripeto, di prendere o no atto di un processo già in corso. Pu darsi che sia destinato al fallimento, ma comunque in corso. Un solo esempio: di teoria dell'attaccamento parlano e fanno uso un numero crescente di psicoterapeuti, psiconalisti, cognitivisti e ultimamente anche familiari (dall'ultima Selvini a Byng-Hall, Sloman, Loriedo, Onnis, Viaro, etc.). Se la teoria una, ci avrà o no un effetto unificante nel lavoro di psicoterapeuti di formazione e tradizione tanto diversa?. Altro esempio: la control-mastery theory ed i suoi seminari annuali a San Francisco che accolgono, di nuovo, psicoanalisti, cognitivisti (persino comportamentisiti come il mio amico svizzero Franz Caspar) e terapeuti familiari. Altro esempio: gli psicoterapeuti di ogni provenienza che tentano di usare il lavoro di Damasio, o quello di Edelman.
4. Pine, o chiunque altro, non dentro n fuori questo processo (che a me sembra di spontanea efficace integrazione): può aderirvi, portare avanti un altro tipo di processo di integrazione (a mio avviso destinato al fallimento), o dichiarare che l'integrazione gli sembra impossibile, poco interessante, etc. In altre parole: non penso che dobbiamo ragionare in termini di inclusione-esclusione come sempre stato fatto in psicoterapia ("tu non sei pi uno psicoanalista!" si sentiva dire sempre Bowlby, che pervicacemente continuò a dichiararsi tale per vent'anni nella più assoluta solitudine ed ostracismo da parte della Brish Psychoanalytic Association). Penso che dobbiamo prendere atto del potere integrativo del processo scientifico classico, magari per aborrirlo, e ragionare se il pensiero post-moderno abbia o no uguale potere integrativo (o viceversa, se sia per definizione disintegrativo = "agisci sempre in modo da moltiplicare le tue teorie, e tieni presente che ogni teoria va bene purché sia sufficientemente debole", come a volte mi sembra sia il suo motto). Se lo ha, allora forse l'integrazione fra psicoterapie si svolgerà all'interno di un dibattito fra pensiero moderno e post-moderno. Se invece il pensiero post-moderno per definizione disintegrativo, allora la dialettica fra scientificità ed ermeneutica non riguarderà il processo dell'integrazione fra psicoterapie.
6. Il problema del bravo medico si pone come quello del bravo psicoterapeuta: la medicina è per questo più un'arte che una scienza? Forse l'integrità personale importante per fare un bravo medico, un bravo psicoterapeuta, e persino un bravo fisico o biologo, ma ci non diminuisce l'importanza di sottoporre le proprie idee mediche, psicoterapeutiche, biologiche etc. al vaglio della prova. In psicoterapia, oltre a coltivare l'integrità personale (che non un compito scientifico), possiamo (e io credo dobbiamo) sottoporre al vaglio scientifico la tesi che l'integrità personale migliori l'efficacia della psicoterapia.
7. La tua idea, che avviciniamo la realtà (il paziente) con teorie e dobbiamo aprirci alla risposta modificatrice della realtà sulle nostre teorie, a mio avviso un ottimo modo (Popperiano, persino) di definire il metodo scientifico "moderno". Se si tratta di un'idea dialettica (certo che si tratta di ciò, naturalmente) allora a me sembra che si tratti di dialettica scientifica ("moderna") e non post-moderna. Gianni Liotti

Sergio Benvenuto, 12 Dicembre 2001:

Premetto che non ho ancora letto l'articolo di Pine sulle "quattro psicologie", cosa che farò quanto prima. Trovo comunque brillante l'iniziativa di Migone di proporlo alla nostra attenzione, perché mi pare una posizione francamente DIS-INTEGRAZIONISTA. (Da quello che ci dice Carere, anche Pine ha cercato l'integrazione, ma poi ha gettato gioiosamente la spugna.) Ammetto che Migone ha fatto molto meglio della mia prolissa lettera di alcuni mesi fa, in cui cercavo di mettere in risalto l'ambiguità del concetto di "integrazione": mettendo in gioco Pine, ha agito con una sottile eleganza che surclassa la mia rozza irruzione.
Comunque la posizione di Pine - se l'ho bene intesa - mi pare esprimere adeguatamente una tendenza ormai prevalente nel mondo intero: quella che chiamerei la "personalizzazione radicale" della psicoterapia e della psicoanalisi. [Non voglio entrare nella noiosa diatriba sui rapporti e distinzioni tra psicoanalisi e psicoterapia: userò il termine shrink per tagliare la testa al toro.] Amici di più paesi mi dicono che ormai almeno la metà degli shrinks non appartiene a nessuna scuola definita. I percorsi di formazione sono sempre più personali, i "piani di studio" (curricula) sono sempre più individuali. Accade sempre più spesso che un analista abbia fatto più di un'analisi con analisti di scuole diverse, e si rifaccia a teorie di scuole diverse. Questa personalizzazione del percorso formativo si riflette in modo complementare nella crescente "personalizzazione" del paziente stesso: al limite, si distingue il paziente "bioniano" da quello "kohutiano", il paziente '"ego-psychologico" dal "lacaniano" (o aspetti nioniani, kohutiani, lacaniani ecc. ecc. in uno stesso soggetto). Non deploro nè esalto questa tendenza ormai dilagante: è un dato storico. Di fatto, integrazione e disintegrazione sono due facce di uno stesso processo. Da una parte psicoanalisi e psicoterapia si disintegrano, direi in modo crescente, in tecniche e teorie diverse - dall'altra ogni terapeuta o analista, seguendo percorsi spesso del tutto personali, integra a modo proprio queste linee frantumate, cercando la propria "melodia" personale. [Ma forse è quello che cerchiamo di fare tutti noi nella nostra vita come insieme, necessariamente frammentata in vari ruoli e "identità".]
Questo stato delle cose registra il fallimento della psicoanalisi - perché questa mi interessa più delle altre psicoterapie - come pretesa scienza? Verrebbe da rispondere di si, dato che la "scienza normale" (come la chiama Kuhn) vede sempre, ad un certo punto, la prevalenza di UN SOLO paradigma. Ma le cose sono anche più complesse.
Anche nella scienza-regina - la fisica - le tendenze all'integrazione e alla disintegrazione si combinano in modi diversi. Si pensi alla competizione, nella fisica della luce, tra teoria corpuscolare e teoria ondulatoria. Per un paio di secoli sia la teoria che vedeva la luce come corpuscoli che la teoria che la vedeva come onde ebbero importanti successi esplicativi. Ad esempio, i fenomeni di interferenza della luce venivano spiegati dalla teoria ondulatoria, mentre l'effetto fotoelettrico veniva spiegato solo dalla teoria dei fotoni. All'inizio del Novecento, in pratica, i fisici erano come Pine: in certi casi preferivano le spiegazioni corpuscolari, in altri casi quelle ondulatorie. Erano "opportunisti", come raccomanda Feyerabend (che forse è il filosofo ispiratore di Pine). Ma è anche vero che questo opportunismo eclettico crea in alcuni spiriti - i più rigorosi ed esigenti - un senso di malessere. Quando allora, tra il 1923 e il 1926, de Broglie e Schroedinger trovarono una sintesi attraverso la meccanica quantistica - secondo la quale la luce èALLO STESSO TEMPO onde e corpuscoli (quindi, la natura della luce va oltre la dicotomia onda/corpuscolo) - la cosa fu salutata come la fine di una schizi. Nelle controversie scientifiche, quando due o più paradigmi si confrontano, le risposte sono diversificate. I più si schierano con un paradigma solo: o si è corpuscolari contro gli ondulatori, o si è lacaniani contro i bioniani, e viceversa, ecc. Altri invece si danno all'eclettismo opportunista: corpuscolari il lunedì, ondulatori il martedì; kleiniani il mercoledì, sullivaniani il giovedì, junghiani il venerdì, ecc. Uno solo, il genio, trova la sintesi - e cambia la storia. Ma le sintesi - che dissolvono la contraddizione tra teorie - sono rare nella storia del sapere. E' però il sogno che sprona tutti i grandi ambiziosi: più che "integrare", "trovare la sintesi" che vanifichi il dilemma (la sintesi è qualcosa di molto più forte, più creativo, dell'integrazione). O meglio: i semplici ambiziosi sognano di trovare LA prova che faccia prevalere il proprio paradigma contro quelli rivali, gli AMBIZIOSISSIMI o STRA-AMBIZIOSI sognano di superare il dilemma dei paradigmi grazie ad una sintesi superiore. Forse nella SEPI alcuni ambiscono ad essere i de Broglie della psicoterapia. Auguro loro buona fortuna!
La storia del sapere è sempre la storia oscillatoria di integrazioni e disintegrazioni, di contrapposizioni e di sintesi, dii pluralizzazioni e riunificazioni. That's history, man!
La rinuncia - che Migone caldeggia - alle "grand theories" mi pare andare nel senso disintegrazionista. Per evitare malintesi: "grand" in inglese non equivale a "great". "Grand" è qualcosa come grandioso, imponente, pomposo. "To do the grand" significa darsi un sacco di arie. Ma una "grand theory" non è necessariamente una "great theory" (ad esempio, ho sempre pensato che il kleinismo si desse un sacco di arie, ma che non fosse poi così great come si pensa in Italia). Oggi molti dicono "rinunciamo alle grand theories!" perché si rendono conto che queste theories non erano poi così "great" come pretendevano di essere. Nell'uso stesso della parola "grand" c'è una critica.
Confrontato al pluralismo babelico delle teorie, ogni shrink opta quindi per una strategia individuale, commisurata alle sue ambizioni. Non mi interessa criticare le singole strategie - possiamo solo dire che alcune ci piacciono, altre meno. Ad esempio, non criticherei i colleghi che restano per tutta la vita fedeli ad una "grand theory" e la portano fino in fondo. Se sono bravi, c'è da imparare anche da loro. Un pluralista come me non attacca mai gli "unicisti": se li attaccasse non sarebbe davvero un pluralista. Può essere proficuo anche il dogmatismo, che è parte della vita, della storia e del pensiero.
Sarebbe una mistificazione far credere che i bravi shrinks sono solo gli eclettici, i pluralisti, gli aperti, i dis-integrati o meta-integrati, quelli che usano quattro o dieci, o venti o sessanta psicologie... Talvolta un "culo di pietra teorico" può risolvere un caso rognoso che dieci pluralisti non risolvono. Perciò non mi esaltano molto le chiacchiere "aperturiste" che oggi tanti fanno per essere politicamente corretti.
Dopo tutto, quel che conta èil talento, che oggi si preferisce chiamare più pomposamente creatività. Non c'è formula filosofica che ne garantisca la produzione. Ma trovo interessante il tentativo di alcuni di scoprire il segreto del talento psicoterapico, che cosa c'è sotto il potere - che alcuni hanno più di altri - di promuovere negli altri un buon cambiamento. Sergio Benvenuto

Tullio Carere, 13 Dicembre 2001:

Giustamente Sergio Benvenuto nota che
>integrazione e disintegrazione sono due facce di uno stesso
>processo. Da una parte psicoanalisi e psicoterapia si disintegrano, direi
>in modo crescente, in tecniche e teorie diverse - dall'altra ogni terapeuta
>o analista, seguendo percorsi spesso del tutto personali, integra a modo
>proprio queste linee frantumate, cercando la propria "melodia" personale.
 
La sua idea di "personalizzazione radicale" della psicoterapia e della psicoanalisi sembra peraltro implicare che questo processo (di integrazione/disintegrazione) avvenga solo o prevalentemente a livello "personale". A me sembra sia più giusto dire che avviene tanto a livello personale quanto a livello collettivo. Stiamo ai dati:
>ormai almeno la metà degli shrinks non appartiene a nessuna scuola definita. I percorsi
>di formazione sono sempre più personali, i "piani di studio" (curricula)
>sono sempre più individuali. Accade sempre più spesso che un analista abbia
>fatto più di un'analisi con analisti di scuole diverse, e si rifaccia a
>teorie di scuole diverse. ... è un dato storico.

Giusto, questo è un dato. Un altro dato, messo in luce più volte dalla ricerca, è che terapeuti esperti di scuole diverse tendono ad assomigliarsi tra di loro più che a terapeuti inesperti della loro stessa scuola. Il che significa che il processo disintegrativo/integrativo non porta solo a risolvere l'equazione personale del terapeuta, ma anche a fare emergere una serie di tratti comuni, o regolarità, o caratteristiche tipiche del processo, comunque e ovunque si svolga. Quindi parallelelamente a una integrazione/disintegrazione personale, ne avviene una a livello generale o collettivo.

>Anche nella scienza-regina - la fisica - le tendenze all'integrazione e
>alla disintegrazione si combinano in modi diversi. Si pensi alla
>competizione, nella fisica della luce, tra teoria corpuscolare e teoria
>ondulatoria....tra il 1923 e il 1926, de Broglie e Schroedinger trovarono una sintesi attraverso
>la meccanica quantistica - secondo la quale la luce è ALLO STESSO TEMPO onde e corpuscoli

Proprio la scienza regina dimostra che il processo disintegrativo-integrativo avviene anche a livello collettivo. Un parallelo interessante nel nostro campo può essere questo: la psicoanalisi e il comportamentismo erano visti come due approcci basilarmente incompatibili finché nel 1977 Wachtel (il nostro de Broglie) trovò una sintesi in cui la terapia è ALLO STESSO TEMPO psicoanalisi e comportamentismo. L'osservazione cruciale fu che in molti casi la patologia è chiaramente mantenuta da circoli viziosi, cioè schemi interpersonali che inducono un soggetto a comportarsi in modi che provocano negli altri risposte atte a confermare le credenze patologiche. Questi circoli possono essere interrotti sia per via psicoanalitica (un insight sul significato di una data credenza può cambiare il comportamento corrispondente), sia per via comportamentale (una modificazione comportamentale può influire favorevolmente sull'ambiente, cosa che può facilitare un insight sul significato del comportamento patologico).

Ancora più notevole è il fatto che lo stesso fenomeno è stato osservato più volte da ricercatori indipendenti, come ha notato Giorgio Alberti (2000): l'idea di una "interazione circolare mediata da un'influenza interpersonale che si autoperpetua attraverso l'induzione negli altri di un feed-back confermante" è alla base sia della teoria cognitivo-comportamentale del ciclo interpersonale (Safran e Segal, 1990), sia della teoria dell'esternalizzazione della relazione oggettuale interna formulata da psicoanalisti dell'area kleiniana (Sandler, 1978, Ogden, 1994). Sicché nel nostro campo possiamo vantare addirittura diversi de Broglie.

Nella visione feyerabendiana di Benvenuto la conclusione è che
>Dopo tutto, quel che conta è il talento, che oggi si preferisce chiamare
>più pomposamente creativita'. Non c'è formula filosofica che ne
>garantisca la produzione. Ma trovo interessante il tentativo di alcuni di
>scoprire il segreto del talento psicoterapico, che cosa c'è sotto il
>potere - che alcuni hanno più di altri - di promuovere negli altri un buon cambiamento.
 
Osservava Pine che il vero talento (o la vera creatività) si nutre di conoscenza. Fermo restando il fatto (che, almeno per me, resta fermo) che nel talento o creatività c'è sempre un nucleo precategoriale o precognitivo - "l'esperienza estetica è sostanzialmente un'esperienza protomentale del tutto peculiare", scrive Ruggieri (1997), con riferimento al protomentale (O) di Bion - rimane da chiarire qual è la conoscenza specificamente legata al talento psicoterapeutico, posto che ce ne sia una. Nel pluralismo radicale di Benvenuto non sembra esserci posto per una conoscenza "specifica", dal momento che, a quanto pare, "everything goes". Il radicalismo feyerabendiano è quello che porta Gianni Liotti a osservare lucidamente:
>Se invece il pensiero post-moderno è per definizione disintegrativo, allora la dialettica
> fra scientificità ed ermeneutica non riguarderà il processo dell'integrazione fra psicoterapie.

In realtà la posizione di Benvenuto è integrativa, ma, sembrerebbe, solo a livello personale. Questo è comunque un bel passo avanti. Il riconoscimento che integrazione e disintegrazione sono due facce di un unico processo è una base eccellente su cui cominciare a ritrovarci. La domanda successiva è: se questi sono i due momenti di un unico processo dialettico, perché mai questo processo deve aver luogo solo a livello personale, mentre a livello collettivo la dialettica è perduta per la prevalenza del polo disintegrativo? Se invece questa dialettica è recuperata anche a livello collettivo, occorrerà chiarirne il movimento. Intendo sia quello tra i due poli del conoscibile (K) e dell'inconoscibile (O), sia quello interno al polo della conoscenza, cioè la dialettica della conoscenza scientifica.

Per quanto riguarda il primo movimento, Salvatore Freni ha annunciato per il Convegno di marzo una relazione intitolata "La tensione dialettica tra paradigma mistico-meditativo e medico scientifico in psicoterapia". Spero che vorrà intervenire nel dibattito in corso, anticipandoci qualcosa su come vede questa dialettica. Tullio Carere

Paolo Migone, 14 Dicembre 2001:

At 09.44 12/12/2001, Giovanni Liotti wrote:
>1. Il "terreno comune" che va delineandosi è forse un terreno di scontro, forse
>un terreno di dialogo, fra due posizioni, che per comodità abbiamo chiamato
>"moderna" (o "scientifica") e "post-moderna" (o "ermeneutica"), più che fra
>Scuole classiche come quelle psicoanalitiche, quella cognitivo-comportamentale,
>quella familiare-sistemica, quella umanistico-esistenziale, l'analisi transazionale, etc.

Sono d'accordo con Gianni Liotti secondo il quale la vera divisione oggi (il "Great Divide") non è affatto tra diverse scuole psicoterapeutiche (anche alla luce del fatto che si mescolano tra loro, sono tutte in fase di cambiamento o di crisi ecc., oltre alle considerazioni fatte da Sergio Benvenuto quando diceva che molti terapeuti ormai non si schierano più con una scuola precisa), ma tra diversi paradigmi culturali, quelli che Liotti chiama posizione "moderna" (o "scientifica") e "post-moderna" (o "ermeneutica"). A questo proposito, non a caso un autore di diverso orientamento (il comune amico "psicoanalista" Morris Eagle) dice la stessa cosa del "cognitivista" Liotti. Cito un brano di un suo scritto recente (non pubblicato) tratto da una relazione letta l'anno scorso al Rapaport-Klein Study Group (una versione scritta con Wakefield e Wolitzky è da poco apparsa sul Journal of the American Psychoanalytic Association):
<<In attempting to revise and update my "Recent developments in psychoanalysis" (1984) book, it became clear to me that the basic divisions and schisms in psychoanalysis no longer have primarily to do with different 'schools,' but with what Irwin Hoffman refers to as different paradigms. Irwin identifies them as positivism versus constructivism. He writes that the fundamental change in psychoanalysis is not the shift from the drive to the relational model, but "from a positivist model for understanding the psychoanalytic situation to a constructivist model". I think this is a misleading description because, as Paul Meehl has noted, most psychologists and analysts know little or nothing about the history of positivism nor the range of its complex meanings, but instead use it as a buzz word to refer to the supposed scientistic and objectivist bad guys. However, I think I know what Irwin means and I agree with him that the primary divisions in psychoanalysis have to do with different world views. I think that the basic division can be best described in terms of what John Searle calls the "Enlightenment vision" versus post-modernist and other critiques of and attacks on that vision. In this regard, some recent psychoanalytic developments are but one expression of broad culture-wide challenges to and attacks on the "Enlightenment vision" and the default positions with which it is associated. One such world view is reflected in the recent work of Mitchell, Renik, Schafer, Spence...>>

At 10.17 12/12/2001 +0100, Sergio Benvenuto wrote:
>Premetto che non ho ancora letto l'articolo di Pine sulle "quattro
>psicologie", cosa che farò quanto prima. Trovo comunque brillante
>l'iniziativa di Migone di proporlo alla nostra attenzione, perché mi pare
>una posizione francamente DIS-INTEGRAZIONISTA. (Da quello che ci dice
>Carere, anche Pine ha cercato l'integrazione, ma poi ha gettato gioiosamente la spugna.)...

Non vorrei essere frainteso, però. Io ho esposto le mie riflessioni a caldo dopo aver letto quell'articolo di Pine, anche perché volevo riassumere l'articolo ai colleghi della lista, e ho detto che ho provato simpatia per la sua modestia verso le grandi teorie (nel senso che sono un po' pseudo-teorie, almeno certe teorie psicoanalitiche, che guarda caso subiscono le mode, cambiano ogni qualche anno, di alcune dopo un po' non se ne sa più niente), e propone un atteggiamento di ricerca che utilizza, a livello clinico, tutte le osservazioni che possiamo fare, tenendo ben conto che vediamo quello che le nostre teorie ci permettono di vedere per cui più se ne ha meglio è, e così via. Ho anche detto però che rimane completamente aperto (almeno in questo recente articolo di Pine) il problema di come si integrano tra loro tutte le belle e tante diverse teorie che noi ci vantiamo di tenere aperte. E' un problemino non da poco, ad esempio, usare contemporaneamente due teorie che sono l'una l'opposto dell'altra.
Bisognerebbe avere la voglia di leggere gli scritti di Pine precedenti. Quest'ultimo è carino, ma francamente non dice niente di nuovo per noi, e a volte mi sembra un po' troppo semplice o addirittura sbagliato in alcuni passaggi (ad esempio: cosa significa dire che un determinato tono di voce dell'analista fa cambiare di segno una certa sua teoria che credeva di adottare? Se lui crede veramente questo, al di là del valore allusivo di questa affermazione, mi sembra che non sappia bene cosa sia una teoria. Anche quando dice che certe cose funzionano con teorie che saranno scoperte o conosciute in seguito, dice una cosa scontata, perché è sempre stato così - e sempre sarà così - nella storia della scienza).
Io ho sempre pensato alla Teoria come a una parola con la T maiuscola, e in questo può esserci una differenza con Sergio Benvenuto, mi sembra di capire. La mia idea teoria però è sempre stata quella di una teoria modesta, umile, che ha la T maiuscola appunto perché sa di sapere poco (anche alla Popper), e qui sta la sua forza. Ho sempre avuto l'impressione che quelli che si disilludono delle grandi teorie (o i post-moderni come li si vuol chiamare) sono quelli che reagiscono alla idea che "loro" prima avevano della teoria (la intendevano come "grand theory", concetto che non appartiene alla scienza, la quale analizza le cose piccole, procede sempre per piccoli passi).
Tornando a Benvenuto, a dire il vero lui però riconosce un valore non solo alla disintegrazione (a volte sacrosanta, di fronte a certe ridicole integrazioni che si sforzano di includere tutte le variabili, quando invece c'è sempre una variabile che scappa), ma anche alla integrazione, che va vista in modo dialettico con la tendenza opposta, la disintegrazione. Questo discorso mi suona sensato, anche se mi sembra che andrebbe elaborato maggiormente. Infine, non mi sembra che serva a molto ricorrere al "talento" del terapeuta, perché si rischia di girare in tondo, di spostare il problema senza affrontarlo. Può anche essere che un terapeuta ha più talento anche perché ha una teoria che spiega meglio le cose. E comunque il problema è sempre il solito: costruire una teoria del talento. Si ripresenta quindi lo spartiacque che forse ci divide: tra coloro che ritengono che si debba cercare di spiegare le cose (anche per riprodurle), e coloro che ci rinunciano, o che considerano la psicoterapia un'arte, o un fenomeno irripetibile, idiografico, ecc. Paolo Migone

Tullio Carere, 15 Dicembre 2001:

At 11:22 +0100 14-12-01, Paolo Migone wrote:
>non a caso un autore di diversoorientamento (il comune amico "psicoanalista" Morris Eagle)
>dice la stessa cosa del "cognitivista" Liotti. Cito un brano di un suo scritto:
> the basic divisions and schisms in psychoanalysis no longer have primarily to do with different
>'schools,' but with what Irwin Hoffman refers to as different paradigms.
>Irwin identifies them as positivism versus constructivism...
>I think that the basic division can be best described in terms of what John Searle calls the
>"Enlightenment vision" versus post-modernist and other critiques of and attacks on that vision.

Eagle preferisce descrivere il "Great Divide" in termini di "Enlightenment vision versus post-modernist", invece che "positivism versus constructivism", perché la parola "positivismo" ha oggi una connotazione peggiorativa, mentre la "visione illuministica" suona meglio ed è più funzionale al suo intento di dimostrare che i moderni sono buoni e i postmoderni cattivi, come naturalmente dall'altra parte della barricata si dimostra il contrario. Per gli uni solo la scienza è garanzia di verità, per gli altri conta solo la creatività o il talento.

La vera difficoltà, a mio parere, sta nel vedere e nell'ammettere che la terapia è scienza *e* arte, e non scienza *o* arte; che il ruolo dello scienziato e quello dell'artista-mistico sono entrambi essenziali alla terapia; e che l'articolazione dialettica dei due poli o vertici deve sostituire il tentativo di far prevalere l'uno sopprimendo l'altro. La semplificazione per cui la terapia è identificata con uno solo dei due vertici può sembrare conveniente, ma in realtà è effettuata al prezzo di trasformare una contraddizione in un fossato incolmabile, un "Great Divide", appunto.

Considerando che uno dei nostri compiti principali, se non il principale in assoluto, è quello di aiutare i nostri pazienti a identificare, tollerare ed elaborare le loro contraddizioni, invece di sopprimerle con vari meccanismi di negazione, scissione o rimozione, non è verosimile che tanto meglio riusciremo in questo compito, quanto più sapremo fare altrettanto con le contraddizioni intrinseche al nostro lavoro, a cominciare da quella basilare tra scienza e arte? Tullio Carere

Tullio Carere, 19 Dicembre 2001 (per Diego Napolitani)

Un contributo di Diego Napolitani.
Premessa: Diego mi aveva proposto due titoli per il convegno: "Da quale vertice si confrontano modelli e processi?" e "La mancanza di una comune meta-teoria come ragione di incomunicabilità fra psicoterapeuti". Gli avevo chiesto un chiarimento, perché se, come mi sembrava, intendeva dire che gli psicoterapeuti non possono comunicare tra loro per mancanza di una metateoria, il suo intervento non poteva essere che paradossale, dal momento che voleva comunicare qualcosa a dei colleghi che aderiscono a modelli diversi dal suo. Se nessuno può uscire dal proprio "angolo di osservazione", che speranza c'è che persone confinate ciascuna nel proprio angolo possano intendersi e dialogare?
Diego mi aveva risposto:
<<Caro Tullio, non vedo proprio dove mai sia il paradosso. "Vertice" sta per "struttura comunicazionale" o semplicemente "linguaggio". Chiedo se i colleghi ritengono di avere, o potere fare riferimento, a un linguaggio comune pur se questo racconta contenuti diversi. Nel secondo titolo la forma interrogativa del primo titolo è sostituita da una forma ipotetica: Ipotizzo che se non ci accordiamo su una meta-teoria (un linguaggio comune) continueremo a parlare i nostri dialetti che restano per lo più incomprensibili gli uni agli altri. Non ho mai detto né scritto che "nessuno può mai uscire dal proprio angolo di osservazione" ma ribadisco che solo prendendo un elicottero o un satellite possiamo vedere tutti la medesima mappa e le nicchie nelle quali ciascuno di noi si nasconde reclamando di essere visto.>>
 
La mia risposta:
<<Caro Diego, mi spiace molto di avere malinteso il tuo pensiero. Mi consolo pensando che spesso la strada dell'intesa è lastricata di malintesi. Per evitare di continuare a malintenderti, provo a farti una domanda diretta, anzi un paio, utilizzando il tuo linguaggio: tu ritieni di "avere, o potere fare riferimento, a un linguaggio comune pur se questo racconta contenuti diversi"? (visto che lo chiedi ai colleghi, mi sento autorizzato a chiederlo a te). E credi che sia possibile accordarci su "una meta-teoria (un linguaggio comune)"? Credi che nel nostro campo di psicantropi (come ci chiamava Gino Pagliarani) esista qualcosa come "un elicottero o un satellite", o sia possibile costruirlo?>>
 
Il chiarimento di Diego:
<<Caro Tullio, non è pensabile una costruzione teorica, metodologica o tecnologica che non abbia come suo fondamento un pensiero tendenzialmente assunto come "verità". Ad esempio, il "nihil in intellectu quod prius non fuerit in sensu" è un presupposto non compatibile con quello per cui la parola "senso" (inteso come significato, intenzione, orientamento) è ciò che a partire dall'intelletto (specificamente umano) condiziona qualitativamente e quantitativamente la fisiologia della sensorialità. Sulla base di questi presupposti si costruiscono visioni del mondo e/o della mente con tutta la sequela di scelte teoriche e pragmatiche.
Gli "psicantropi" (se non ricordo male fui io a suggerire a Gino quest'espressione per indicare una caratteristica "antropologica" degli appartenenti alla famiglia "psico-" per la quale in genere gli psicologi, a differenza di altri intellettuali, non pensano il proprio pensiero) sono indotti dalla loro stessa professionalità a mettere in primo piano il concetto pragmatico di "esperienza", dando a questo termine la qualità di autoevidenza. "A partire dalla mia esperienza - o da quella di Freud o di altri - verifico che..., confermo che..., ipotizzo che..." senza porre il termine esperienza nel medesimo orizzonte problematico nel quale si pone l'oggetto dell'esperienza. Risulta, per lo più, che l'"esperienza" sia acefala, e non comunque una costruzione la cui impalcatura è data da pre-concetti di cui è fatto del resto il senso comune.
Così, in un confronto con psicoterapeuti comincerei col problematizzare il concetto stesso di terapia: è questa una metafora o questa è assunta secondo il paradigma fisiologico? Abbiamo la possibilità di guardare insieme questi interrogativi e di motivare le scelte che operiamo nel privilegiare una risposta all'altra? E se aderiamo al paradigma fisiologico, a quale concetto di salute o di malattia facciamo riferimento per definire la sofferenza dell'anima? E l'anima è ipostatizzata sul modello dell'individuo corporeo o sul modello della cultura, irriducibilmente relazionale?
Delineo qui - in modo tanto succinto da poter risultare criptico - due campi metateorici irriducibili l'uno all'altro. In ciascun campo si può adottare un atteggiamento eclettico relativamente a segmenti teorici o metodologici, poiché tutti i suoi elementi sono congruenti col campo in cui si muovono. Ma a mio parere è improponibile un eclettismo che comporti un saltellare da un campo all'altro, processo che mira forse a coprire la mancanza dello psicologo (mancanza come elemento costitutivo della cognizione umana) con la giustificazione della sua efficienza operativa. Questo ordine di riflessioni potrebbe, a mio avviso, costituire l'osservatorio a cui tutti potremmo accedere per definire il campo nel quale operiamo. Potremmo quindi riconoscerci nelle e per le differenze dei mondi nei quali siamo caduti o che abbiamo consapevolmente scelto, e non affannarci a esaltare le piccole differenze di nicchie presunte appartenere tutte ad un unico universo psi-. "Da quale vertice si confrontano modelli e processi?" potrebbe, nella sua forma interrogativa, riassumere il tipo di riflessioni che ti ho qui appena accennato. Diego>>

Sergio Benvenuto, 22 Dicembre 2001:

Scrive Carere:
<< La sua [di Benvenuto] idea di "personalizzazione radicale" della psicoterapia e della
psicoanalisi sembra peraltro implicare che questo processo (di
integrazione/disintegrazione) avvenga solo o prevalentemente a livello
"personale". A me sembra sia più giusto dire che avviene tanto a livello
personale quanto a livello collettivo.>>

Ma certo, il processo avviene anche a livello collettivo. La mia formulazione ha fatto pensare che volessi opporre ad una dimensione collettiva una individuale, ma non era quella affatto la mia intenzione. L'integrazione trasversale di elementi presi da più esperienze può essere opera di un individuo, di un gruppo, o di un'istituzione. Quel che mi interessava sottolineare era la compresenza di fattori disintegrativi e integrativi (giusto per adattarmi alla terminologia SEPI).

<<Nella visione feyerabendiana di Benvenuto la conclusione è che...>>

Più di una volta Carere mi qualifica di feyerabendiano, ma a me non piace essere "spillato" con queste etichette. E' vero, ho conosciuto bene Feyerabend. Ma fu proprio Paul, in una presentazione pubblica di un mio saggio su di lui, a dire che condivideva le mie posizioni sulla filosofia della scienza solo al 50%. Quindi Feyerabend stesso ha detto che non sono feyerabendiano. E poi, dirsi feyerabendiani è un contro-senso. Quella di Paul è stata una provocazione ingegnosa, un modo per spingere i filosofi della scienza a liberarsi di pregiudizi e gabbie mentali, una manovra filosofo-terapica, in quanto tale irripetibile. Se proprio dovessi evocare un mio maestro in filosofia della scienza, citerei piuttosto Kuhn, e parte di Lakatos. Ma comunque sia, a nessuno piace essere etichettato.

Se quella di Carere è una marachella, ben più grave è la proposta di Liotti (accettata da Migone):
<<Il "terreno comune" che va delineandosi è forse un terreno di scontro, forse un
terreno di dialogo, fra due posizioni, che per comodità abbiamo chiamato "moderna"
(o "scientifica") e "post-moderna" (o "ermeneutica"), più che fra Scuole classiche
come quelle psicoanalitiche, quella cognitivo-comportamentale, quella
familiare-sistemica, quella umanistico-esistenziale, l'analisi transazionale, etc.
Già questa "riduzione a due" delle molteplici posizioni la cui complessità le rende
non solo non "integrabili", ma persino ovviamente non confrontabili, mi sembra un notevole risultato.>>

Se la SEPI imbocca la strada di prendere sul serio questo dualismo, allora non mi resta che disperare. Non ho mai creduto nei dualismi stereotipati - come sinistra-destra, olismo-individualismo, scienze comprendenti-scienze esplicative, Humanities-Sciences, analitico-sintetico, ecc. ecc. - tanto meno credo quindi che occorra scegliere tra "scienze" ed "ermeneutica" (o tra moderno e post-moderno, come dice Liotti). Chi di voi avesse perso il proprio tempo a sfogliare alcuni miei scritti, potrà testimoniare della mia inclassificabilità riguardo a questa dicotomia precostituita. Se proprio dovessi etichettarmi, preferirei dirmi post-postmoderno (ma sto scherzando).
Quello che mi interessa veramente è capire il reale, il quale non è mai di sinistra o di destra, olistico o individualistico, moderno o post-moderno....
Credo, in questo, di essere anche in buona compagnia, ovvero in compagnia di persone che considero buone. Si legga Ian Hacking: è moderno o post-moderno? A me pare semplicemente una persona intelligente che conosce bene la storia della scienza e delle idee, e che si pone le domande giuste. Etichettarlo equivarrebbe a fraintenderlo.
Qualcuno potrà dimostrarmi che magari il 90% degli psicoterapeuti italiani è di fatto classificabile nella dicotomia "scientifici" versus "ermeneutici". Sarà anche vero. Ma allora io preferisco classificarmi nella minoranza sparuta di chi sente queste dicotomie come imprigionanti e vuole evaderne, perché le considera sostanzialmente vacue.
Nella nostra rivista (Journal of European Psychoanalysis) apparirà un saggio di Kaechele, che riassume la sua ormai lunga ricerca. Quando l'ho proposto, alcuni "post-moderni" di JEP hanno arricciato il naso: non credono nella validità di un approccio oggettivo, quantitativo, ad una pratica analitica che considerano ineffabile e squisitamentesoggettiva. Vedo queste reazioni "post-moderne" come semplice oscurantismo. Se uno shrink teme i controlli oggettivi, è perduto (questo non deve però impedirci di criticare perspicuamente tanti protocolli di indagine, che spesso - nel nostro campo - sono approssimativi, rozzi, biased, ingenui; prova ne sia che quasi ogni "indagine oggettiva" porta a risultati diversi). Del resto Kaechele giunge a conclusioni a cui molti di noi erano giunti solo sulla base della propria esperienza vissuta. Ad esempio, quando dice che gli analisti con maggiore esperienza non sono necessariamente i più efficaci; o quando sottolinea che la buona relazione iniziale tra un terapista e un paziente è il miglior pronostico sui risultati del trattamento (ma certo documentare qualcosa che si dice è più convincente che parlare in nome della propria esperienza).
Io stesso al CNR lavoro nel campo delle scienze cognitive (il che non vuol dire affatto che io sia un cognitivista!), e quindi non ho mai disprezzato i metodi di indagine oggettiva oggi usati nelle scienze sociali.

Ma allo stesso tempo occorre dire ai sedicenti "moderni" o "scientifici" che l'indagine scientifica è solo una parte del grande processo di evoluzione delle idee, anche nel nostro campo. Non sono solo i ricercatori a fare indagini ed esperimenti: è l'intera comunità dei partecipanti. Questo punto è capitale.
L'esempio che porto spesso è quello del comunismo, o socialismo reale che dir si voglia. Per i settant'anni in cui il comunismo è durato, centinaia di milioni di esseri umani (e milioni di loro hanno pagato con la vita) hanno partecipato ad un vero e proprio esperimento storico. Così abbiamo verificato che il comunismo funziona ancora peggio del capitalismo. Esso è "imploso" perché i popoli che lo hanno sperimentato si sono convinti che nelle sue diverse varianti - sovietica, cubana, cinese, albanese, socialista-nazionalista, ecc. - il comunismo era una via sbagliata. Ad esempio, ci si è resi conto che l'eliminazione del capitalismo comporta sempre la fine della democrazia politica - una conseguenza non prevista dalla teoria marxista come necessaria, ma che abbiamo constatato storicamente. E' vero che alcuni teorici avevano già mostrato, un secolo fa, come il socialismo non potesse funzionare; ma erano buoni anche gli argomenti di chi sosteneva che invece potesse. E' la storia che alla fine ha tranché.
Qualcosa di simile sono gli esperimenti collettivi che cita spesso lo storico della scienza Bruno Latour: epidemie come quelle dell'AIDS e della mucca pazza. Si tratta di esperimenti collettivi a cui tutti partecipiamo. La storia insomma compie continuamente esperimenti, non meno importanti e radicali di quelli in laboratorio (e lo fa spesso sacrificando le vite di molti esseri umani).
La nebulosa psicoterapica può essere considerata anch'essa un grande esperimento collettivo della civiltà occidentale. Per questa ragione assistiamo continuamente a processi darwiniani di selezione delle mutazioni: quasi ogni anno escono fuori nuove tecniche e teorie (dei mutanti psicoterapici), la maggioranza di esse viene spazzata via o restano isolate, mentre altre si diffondono. E' un processo che molti, ispirandosi a Dawkins, chiamano "memetico", di cui da anni mi sto occupando (non limitato al campo psicoterapico).
Qualcuno di voi dirà che però le pratiche psicoterapiche di solito sono squisitamente private - raramente siamo in grado di valutare (selezionare, negativamente o positivamente) la pratica dei colleghi. Malgrado questo, anche la psicoterapia è un fatto collettivo, viene insomma vagliata dalla comunità aperta dei practitioners - non diversamente dal comunismo. In effetti, gli shrinks pubblicano, dibattono - anche nella ML della SEPI - argomentano, seducono, dimostrano, supervisionano, portano casi e criticano i colleghi, ecc. ecc. Spesso ci arrivano pazienti che ci parlano delle loro precedenti esperienze psic (e ne sentiamo delle belle!). Ciò fa circolare tecniche e teorie. Insomma, la psicoterapia è un processo storico-sociale di cui i protocolli specificamente scientifici - del tipo di quelli applicati da Kaechele e da altri - sono solo una parte.
Alcuni mi rimproverano di non accettare il dialogo con loro perché non sono disposto a dedicare tutto il mio tempo a chiacchiere e battibecchi nelle ML o altrove. Evidentemente queste persone hanno un'immagine ingenua, direi ristretta, della GRANDE CONVERSAZIONE storico-sociale. Questa non è un semplice alternarsi di botte e risposte, come nel salotto di Bruno Vespa, ma un processo complesso, indiretto, lungo, tortuoso. Anche nel dibattito scientifico valgono le "regole" così ben descritte dalle teorie del caos e della complessità, da Lorenz a Kauffman. Di solito, le discussioni uno-a-uno non portano a nessuna conclusione, ognuno dei due resta attaccato alle proprie convinzioni. Ma nella misura in cui un dialogo viene reso pubblico, esso crea vere e proprie onde memetiche, produce effetti dove meno ce lo si aspetta, nuove idee altrove, ecc.
Quando Protagora e Socrate si incrontrarono, ad Atene, e disputarono tra loro, altri erano presenti. Alla fine Protagora restò Protagora, e Socrate restò Socrate, insomma non si smossero dalle loro posizioni. Ma ne venne fuori Platone, ed altri ancora che pure stavano solo ad ascoltare.
Ecco un'ipotesi: la struttura del lavoro psicoterapico in studio non è molto diversa da quella del grande dibattito intellettuale che si svolge da decenni in psicoterapia e psicoanalisi. Ormai pochi credono che si possa parlare di un'interpretazione vera o falsa, giusta o sbagliata, di un'interazione specifica terapeutica o meno, ecc. La relazione psicoterapica o analitica è un processo reticolare - non lineare - che l'analista o terapista controlla solo in piccola parte. Il progetto razionalista di avere un controllo tecnologico stretto sulla relazione detta psicoterapica mi pare essere votato, in molti casi, al fallimento. Il processo che porta ad una mutazione soggettiva - quella che chiamo CONVERSIONE - è ben più complesso. E' probabile che il setting analitico inneschi processi - si spera virtuosi, ma possono essere talvolta viziosi - a cui certo il terapista partecipa senza averne il pieno controllo (si veda il saggio di S.R. Palombo del 1999, che va proprio in questo senso). In termini più tecnici: l'input psicoterapico non determina a priori i possibili output. Spesso mi capita di vedere come un'interpretazione da quattro soldi, nella quale non credo nemmeno io, produca effetti considerevoli nell'analizzando. Non diversamente, da come diceva Lorenz, lo sbatter d'ali di una farfalla in Giappone può produrre un uragano in California. Renderci conto - con grande umiltà scientifica - che siamo solo farfalle, è moderno o post-moderno? Secondo me è solo un modo di rendere più intelligibile una realtà di cui siamo parte.

>Diego mi aveva proposto due titoli per il convegno: "Da quale
>vertice si confrontano modelli e processi?" e "La mancanza di una comune
>meta-teoria come ragione di incomunicabilità fra psicoterapeuti".

Diego scrive:
> Ipotizzo che se non ci accordiamo su una meta-teoria (un linguaggio comune)
>continueremo a parlare i nostri dialetti che restano per lo più
>incomprensibili gli uni agli altri.

Questa volta non sono d'accordo con Diego. Non credo che la difficoltà a comunicare tra shrinks sia superata una volta trovato un vertice comune, o una comune meta-teoria. Questo assunto cognitivista non mi convince.
Personalmente, leggo e seguo i contributi di shrinks delle scuole più diverse, e credo di capirli tutti - anche se, ahimè, molto spesso mi annoiano mortalmente. Il punto dolente non è che le teorie degli altri ci sono incomprensibili, perché di solito le comprendiamo fin troppo bene: è che non ce ne importa un fico secco.
Almeno per me, la vera demarcazione non si situa tra i vari linguaggi di scuola, ma tra
(1) la massa degli epigoni e degli "applicatori" (ahimè, la grande maggioranza) di qualsiasi teoria e
(2) la minoranza di chi invece riesce a dirci qualcosa che ci scuote.
Ora, io non appartengo a NESSUNA scuola o filone di pensiero, anche se mi sento più o meno vicino a certi piuttosto che ad altri. Ad esempio, tutto mi divide dal pensiero junghiano - eppure ogni tanto qualche scritto junghiano di talento mi impressiona.
Quando ho evocato questa dimensione (enigmatica) del talento, qualcuno ha reagito con malcelato fastidio. Io non so come vi regolate voi, ma io apprezzo un contributo non perché sia bioniano, junghiano, lacaniano, kohutiano, ecc., ma perché dice QUALCOSA CHE MI COLPISCE. Chiamo talento questo riuscire a superare il frame del proprio linguaggio - della propria teoria o metateoria - e metterci a confronto con qualcosa che ha l'aria di essere reale.
Non è diverso con le arti e la letteratura. Un poeta può colpirci non perché condividamo la sua concezione del mondo o la sua maniera letteraria, ma perché ci dice qualcosa che ci squarcia (o a noi sembra squarciare) il velo del reale. Quando Leopardi ci parla di una ragazza che non abbiamo mai conosciuto, Silvia, ci commuove perché ci diciamo "questa ragazza è vera!". Così Silvia diventa, quasi, parte della nostra famiglia.
Certo, le ragioni per cui un contributo clinico ci commuovono non sono le stesse per cui ci commuove una poesia o un quadro. Nel nostro campo, occorre anche IDENTIFICARE DELLE CAUSE. Credo che Carere ha selezionato proprio noi per questo convegno perché pensa che siamo delle persone che non si accontentano di operare in modo più o meno redditizio: siamo persone che si chiedono anche i perché del loro operare. In altre parole pensiamo, credo, che l'operare migliore implichi il riconoscimento delle CAUSE della sofferenza che siamo portati a trattare.
Ora, le famose "grand theories" da cui noi - chi più chi meno - prendiamo le distanze sono tutte dei tentativi di spiegare la causa della sofferenza spirituale che ci interpella. Il punto è che a differenza di altre scienze, dove esistono poche teorie accettate e condivise - in fisica, ad esempio, la meccanica quantistica - nel nostro campo ognuno segue la sua teoria. Nessuna teoria è riuscita insomma a soppiantare le altre. Come vi ho già confidato, non trovo che questo sia necessariamente un male. Certo anch'io, come tutti voi, cerco la causa della sofferenza, e anch'io mi costruisco, almeno provvisoriamente, delle teorie. Ma è possibile consumare la nostra separazione dalle "grand theories" riununciando alla teoria tout court? Alcuni fanno questo passo (ad esempio, il mio amico Lai), noi (credo) no. Perché una teoria è sempre in fondo una teoria delle cause (si potrebbe dimostrare che anche gli approcci ermeneutici, in fin dei conti, sono delle teorie causali, anche se non si esibiscono come tali).
Ma siccome non abbiamo evidenze per far prevalere una teoria su tutte le altre, che cosa tuttavia ci fa gradire certi scritti piuttosto che altri? E' perché sentiamo, in modo quasi istintivo, che questi TOCCANO UN REALE. Abbiamo l'impressione insomma che un vero fattore causale è stato identificato.
Che cosa è la causa? E la causa delle sofferenze mentali in particolare? Non starò qui a rivangare il dibattito epistemologico secolare sulla causalità. Voglio attenermi al livello più semplice, infantile direi, della causalità: qualcosa che esercita una forza su un'altra. Anche la fisica classica chiamava le cause "forze". Ogni teoria tenta di designare la FORZA che smuove i soggetti, e che li spinge da noi. Ora, proprio perché non abbraccio nessuna grand theory definitiva, sono capace di apprezzare quando un autore, un'ipotesi, o una ricostruzione clinica, evoca la possibilità di una causa, di una forza. Quando questo autore ha talento. La forza di uno scritto - il fatto che ci impressioni e ci faccia riflettere - consiste nel suo renderci sensibile l'operare di una forza. Oggi, per esempio, possiamo considerare buona parte delle teorie di Freud pure mitologie, narrazioni precostituite, eppure leggere Freud ci dà ancora qualcosa perché ci dà la sensazione che egli comunque tocchi un punto nevralgico dell'umanità: la forza causale delle pulsioni e di certe rappresentazioni.
Invece negli scritti degli epigoni, degli applicatori che cercano solo di articolare in modo corretto la teoria che hanno imparato, non vediamo mai il reale della sofferenza: vediamo solo la teoria, il linguaggio. Come in un brutto quadro impressionista: non vediamo veramente il paesaggio rappresentato, vediamo solo l'impressionismo! Mentre quel che ci turba è il contatto che una forma pittorica - qualunque essa sia - ci dà con qualcosa aldilà della forma.
E' per questo, allora, che pur riferendoci a paradigmi teorici diversi, tra loro incommensurabili, alla fin fine possiamo essere colpiti o commossi da quello che un altro collega ci dice: perché abbiamo a che fare con le stesse sofferenze umane. Possiamo dirci integrativi quanto vogliamo: è chi viene da noi che ci riporta all'integralità della sofferenza. Possiamo comunicare davvero con altri colleghi perché il mio paziente potrebbe anche essere il tuo, o viceversa. Diciamo che il dialogo è tra noi inevitabile perché abbiamo a che fare con lo stesso reale. Quello che alla fine decide, è l'altro dai nostri linguaggi (il paziente, o come lo si voglia chiamare), non un qualche meta-linguaggio che ci metterebbe tutti nello stesso fascio.
Per cui proporrei piuttosto un titolo come:
PLURALITA' DI TECNICHE E TEORIE, INTEGRALITA' DELLA SOFFERENZA. Sergio Benvenuto

Giovanni Liotti, 28 Dicembre 2001:

Cari amici e colleghi, seleziono alcune espressioni usate da Benvenuto nella sua ultima mail: "marachella", "proposta grave", "prendere sul serio", "disperare", "persone che considero buone", "capire il reale", "non ce ne importa un fico secco", "qualcosa che mi colpisce", "colpiti o commossi", "qualcosa che ha l'aria di essere reale".

Riporto qui di seguito parte delle frasi che le contengono. Sergio Benvenuto ha scritto:
> Se quella di Carere è una marachella, ben più grave è la proposta di Liotti (accettata da Migone):...
> Se la SEPI imbocca la strada di prendere sul serio questo dualismo, allora non mi resta che disperare.
> Quello che mi interessa veramente è capire il reale, il quale non è mai di sinistra o di destra, olistico o individualistico, moderno o post-moderno....
> Credo, in questo, di essere anche in buona compagnia, ovvero in compagnia di persone che considero buone.
> ...Il punto dolente non è che le teorie degli altri ci sono incomprensibili, perché di solito le comprendiamo fin troppo bene: è che non ce ne importa un fico secco. ... io non appartengo a NESSUNA scuola o filone di pensiero ... io apprezzo un contributo non perché sia bioniano, junghiano, lacaniano, kohutiano, ecc., ma perché dice QUALCOSA CHE MI COLPISCE. Chiamo talento questo riuscire a superare il frame del proprio linguaggio - della propria teoria o metateoria - e metterci a confronto con qualcosa che ha l'aria di essere reale.
> ...pur riferendoci a paradigmi teorici diversi, tra loro incommensurabili, alla fin fine possiamo essere colpiti o commossi da quello che un altro collega ci dice: perché abbiamo a che fare con le stesse sofferenze umane. Possiamo dirci integrativi quanto vogliamo: è chi viene da noi che ci riporta all'integralita' della sofferenza. (...) Diciamo che il dialogo è tra noi inevitabile perché abbiamo a che fare con lo stesso reale...

L'utilità di applicare il metodo scientifico occidentale alla psicoterapia serve fra l'altro a contenere almeno in parte, anche nel nostro ambito di lavoro, la tendenza a dibattere usando questo tipo di fraseologia per sostenere le proprie argomentazioni (di solito sovrabbondando, nel costruirle, della prima persona singolare). Per contenere questo modo di argomentare, la nostra civiltà occidentale ha inventato un metodo che, pare, si è rivelato di qualche utilità se è vero che nessuno di noi manderebbe il proprio figlio a curarsi in un Ospedale ispirato alla medicina medievale qualora ne riaprissero uno. Il metodo consiste NON nel limitare la produzione di idee creative e che magari colpiscono e commuovono oltre a convincere a prima vista razionalmente, ma nel vagliarne SUCCESSIVAMENTE l'utilità o l'applicabilità AGGIUNGENDO, alla critica razionale dell'idea, i risultati di procedure sperimentali ripetibili, di studi di efficacia, di indagini epidemiologiche e di quant'altro possa
mettere a contatto la dimensione individuale in cui l'idea si produce con quella collettiva e pubblica in cui l'idea viene applicata.
A proposito di dicotomie più o meno stereotipate, o persino della strutturale enantiodromia del pensiero e della logica: superarle, trascenderle ed annullarle è oggetto di importanti discipline mistiche. Personalmente, conosco un poco (ed ammiro molto visti i suoi risultati in alcuni dipinti giapponesi e negli haiku) il metodo Zen del koan che aspira al superamento di ogni dualità. Forse grazie a tali discipiline è persino possibile superare travalicare trascendere la dicotomia fra "reale" e "irreale", certamente non stereotipata, che sembra guidare il pensiero e più ancora il sentimento di Benvenuto. Esiste però, forse, una delimitazione fra psicoterapia e mistica (o no? forse Bion era un maestro di mistica paragonabile al maestro Zen Suzuki, o allo chassidim Baal-Shem, o al sufi Al Ghazali, e via enumerando). Se esiste tale demarcazione -- o se è opportuno (tanto dal punto di vista della psicoterapia quanto della mistica) porla -- allora dicotomie come quelle fra moderno e post-moderno, o fra prospettiva scientifica e prospettiva ermeneutica, potrebbero essere utili per riflettere sulla psicoterapia contemporanea, pur nella consapevolezza che il Reale Assoluto, per definizione, trascende ogni dualità.
Per parlare un poco in prima persona: Non ci tengo poi tanto come potrebbe sembrare, alla dicotomia fra "scienza" ed "ermeneutica" come tema per il nostro dibattito. Se volete, non prendetela sul serio, così Benvenuto non dispera. Nel nostro convegno (lo ripeto) mi propongo solo di elencare le idee emerse da ambiti di ricerca scientifica intorno alle quali GIA' si sta verificando una spontanea integrazione di alcune PICCOLE teorie proposte da Scuole psicoterapeutiche diverse (teorie piccole come la teoria dell'attaccamento e la control-mastery theory, o persino più piccole, come quella che, nella cura del disturbo ossessivo-compulsivo, è preferibile mirare in prima battuta a ridurre le compulsioni piuttosto che a comprendere il significato delle immagini mentali intrusive costituenti le ossessioni). Non ho bisogno, per sostenere tale tesi, di alcuna contrapposizione con posizioni che negano valore alla procedura scientifica nella selezione delle (piccole) teorie della psicoterapia.
Dunque, non DISPEREREI affatto se la SEPI decidesse di non farla diventare strumento di riflessione, la dicotomia stereotipata fra moderno e post-moderno, o altre similari. Non mi pare una proposta GRAVE quella di Benvenuto, di orientare su altri assi dialettici il dibattito, come l'asse dialettico fra unità della sofferenza e molteplicità delle tecniche psicoterapeutiche volte a ridurla (e mi piace il richiamo alle cause; accetterei persino, come tema per orientare la nostra discussione, la tensione dialettica fra salute mentale e malattia mentale, fra cause della malattia e cause della salute, facendo così inorridire i miei amici e vecchi compagni Basagliani). Considero Benvenuto una persona buona, come Hacking, anche se credo che ponga le domande, e le risposte, sbagliate. Giovanni Liotti

Tullio Carere, 29 Dicembre 2001:

Il 22-12-01, Sergio Benvenuto wrote:
>Ma certo, il processo avviene anche a livello collettivo. La mia formulazione ha fatto pensare che volessi opporre ad una dimensione collettiva una individuale, ma non era quella affatto la mia intenzione. L'integrazione trasversale di elementi presi da più esperienze può essere opera di un individuo, di un gruppo, o di un'istituzione. Quel che mi interessava sottolineare era la conpresenza di fattori disintegrativi e integrativi (giusto per adattarmi alla terminologia SEPI).

Il riconoscimento che il processo avviene anche a livello collettivo sarebbe solo un "lip service", se non si chiarisse in che senso lo si intende. Se, come sembra intendere Benvenuto, il processo si sviluppa con modalità simili a livello individuale e collettivo, si dovrebbe pensare che la collettività, al pari dell'individuo, seleziona elementi presi dalle diverse teorie e tecniche per ricomporli in un insieme riconoscibile e descrivibile. Cioè, come ho detto in precedenza, "il processo disintegrativo/integrativo non porta solo a risolvere l'equazione personale del terapeuta, ma anche a fare emergere una serie di tratti comuni, o regolarità, o caratteristiche tipiche del processo, comunque e ovunque si svolga".

Ma non sembra che Benvenuto intenda il processo collettivo in questo senso. Prima di spiegarci come lo intende, si sofferma su una mia "marachella": averlo "spillato" come feyerabendiano. In realtà io non ho detto che lui è feyerabendiano, ma che lo è la sua visione nel testo in esame. Quando scrive: "Confrontato al pluralismo babelico delle teorie, ogni shrink opta quindi per una strategia individuale, commisurata alle sue ambizioni", questo non equivale a dire che "anything goes", restando l'ambizione personale del terapeuta l'unico criterio di misura? Se la risposta è sì, Benvenuto non può risentirsi dell'etichetta in questione. Se la risposta, come mi auguro, è no, siamo alle soglie della cosa che conta. Occorrerà infatti precisare a quale misura diversa dall'ambizione personale debba riferirsi il terapeuta per sottrarsi al puro arbitrio delle opzioni.

Dice Benvenuto: "Quello che mi interessa veramente è capire il reale... Chiamo talento questo riuscire a superare il frame del proprio linguaggio - della propria teoria o metateoria - e metterci a confronto con qualcosa che ha l'aria di essere reale... Un poeta può colpirci non perché condividamo la sua concezione del mondo o la sua maniera letteraria, ma perché ci dice qualcosa che ci squarcia (o a noi sembra squarciare) il velo del reale... Siccome non abbiamo evidenze per far prevalere una teoria su tutte le altre, che cosa tuttavia ci fa gradire certi scritti piuttosto che altri? E' perché sentiamo, in modo quasi istintivo, che questi TOCCANO UN REALE... Quel che ci turba è il contatto che una forma pittorica - qualunque essa sia - ci dà con qualcosa aldilà della forma".

Da questa serie di affermazioni emerge abbastanza chiaramente una visione delle cose, anzi della cosa in sé, del reale. Il reale che interessa Benvenuto (che non lo annoia) è quello che lo colpisce, lo tocca, lo turba. E' il reale degli artisti, degli scrittori e dei mistici, quello che si mostra quando almeno per un attimo si squarcia il velo di maya. A Benvenuto interessa il noumeno molto più del fenomeno. E' vero che nel processo di evoluzione delle idee riconosce un ruolo anche all'indagine scientifica. E' vero che ha pubblicato sulla sua rivista un saggio di Kaechele. Ma questi aspetti nel suo discorso restano marginali e ininfluenti. Quel poco o tanto che l'approccio scientifico alla psicoterapia è riuscito a ottenere è liquidato sommariamente con affermazioni tipo "non abbiamo evidenze per far prevalere una teoria su tutte le altre" che oltre a essere fuorvianti (abbiamo molte evidenze che ci fanno preferire una teoria alle altre in diversi settori), sono ingenerose verso coloro che prediligono l'approccio scientifico e hanno l'unico effetto di rafforzare, tra questi ultimi, la convinzione che posizioni come quelle espresse da Benvenuto sono "ovviamente non confrontabili" con quelle del campo scientifico, come suggerisce Liotti (12/12).

"Il dialogo è tra noi inevitabile perché abbiamo a che fare con lo stesso reale", scrive Benvenuto. Invece purtroppo - o per fortuna - il dialogo non è inevitabile, anche se abbiamo a che fare con lo stesso reale. Inevitabile è la competizione "darwiniana" che spazza via molte idee (non necessariamente le peggiori) e ne fa trionfare altre (non necessariamente le più vere). Altre volte ho notato che Benvenuto scambia per dialogo questo processo di selezione culturale. In questa visione darwiniana (non sto etichettando Benvenuto come darwiniano, sto solo dicendo che qui, e non solo qui, ha una visione darwiniana) siamo esentati dalla fatica di ascoltare davvero il nostro interlocutore, sospendendo per quanto possibile "memoria e desiderio", e di rendere conto delle nostre contraddizioni. Non abbiamo che da ribadire a oltranza le nostre convinzioni, nella certezza che tanto alla fine ognuno resterà dell'opinione che aveva all'inizio, preocupandoci solo di provocare 'onde memetiche' più vigorose di quelle dei nostri avversari.

Il dialogo non è inevitabile proprio perché è una disciplina. Benché sia, per questo aspetto, decisamente indisciplinato, Benvenuto contribuisce tuttavia utilmente se non al dialogo almeno al dibattito in corso. La sua posizione esemplifica infatti uno dei due poli che congiungono l'asse su cui si muovono tutti i terapeuti "seri" (cioè quelli che prendono sul serio le idee di verità e di realtà, esclusi quindi i costruzionisti radicali, non per caso non rappresentati in questo convegno). Il "vero" terapeuta si distingue per il suo ancoraggio al vero (o al reale), che lo salva dal puro arbitrio delle opzioni o dal puro funzionalismo in chiave adattiva. Ma l'approccio al vero o al reale può essere connotato prevalentemente in senso soggettivo (come è il caso di Benvenuto) o in senso oggettivo (come è il caso di Liotti).

Nell'approccio soggettivo la verità è prevalentemente un "affetto" (come ha mostrato Benvenuto in un suo eccellente lavoro), mentre in quello oggettivo è vera la teoria che è verificata, cioè ha superato il vaglio della prova secondo i criteri del metodo scientifico attuale. Per alcuni, come Napolitani, la relazione psicoterapeutica è un'operazione culturale del tutto autonoma dal paradigma medico da cui derivano tutte le idee di sperimentazione scientifica applicata alla psicoterapia. Per altri, come Liotti, l'unico terreno su cui possiamo incontrarci è quello delle teorie scientifiche che si affermano superando le barriere di scuola.

Liotti e Napolitani sembrano suggerire, da opposte sponde, l'inconciliabilità delle due prospettive. A me sembra che se non vogliamo arrenderci a questa dicotomia, e alla spaccatura del campo che comporta, non basta chiamarsene fuori, come fa Benvenuto (peraltro ben schierato dalla parte del reale che "colpisce, tocca, turba"). Occorre invece trasformare la dicotomia in una polarità dialettica, e mostrare l'interdipendenza delle due prospettive. Forse è questo il nodo cruciale della "integrazione psicoterapeutica". Tullio Carere


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