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Salute Mentale e Comunicazione |
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I Convegno Nazionale SEPI-Italia (Milano, 16 Marzo 2002)
Torna al Dibattito precongressuale (in due parti) Giovanni Liotti, 22 Marzo 2002: Cari amici e colleghi, un messaggio di richiesta di scuse mi sembra il modo migliore per concludere il nostro dibattito. L'irruenza con cui discuto i temi che mi stanno a cuore, la sgradevole difficoltà che ho a controllare la collera, l'impazienza nell'ascoltare le tesi che (spesso a torto) mi sembrano derivare da fraintendimenti grossolani di alcune teorie (che mi illudo di conoscere meglio del mio antagonista) e non da normale dissenso, hanno certo reso il mio contributo al nostro dibattito intrusivo, invadente, irritante. Me ne dispiaccio, e ve ne chiedo scusa. Un chiarimento sul mio ultimo scatto d'ira è forse utile. Dicevo a Tullio, in risposta al suo avere accostato tesi evoluzioniste alla minaccia nazista alla democrazia ("Se Hitler avesse vinto la guerra ora noi avremmo la idee naziste come selezionate/premiate dall'evoluzione", asseriva Tullio), che era come se mi avesse insultato la mamma, accusandola di prostituirsi e per di più senza mai averla vista battere il marciapiede. Non ho potuto chiarire chi fosse la mia metaforica mamma, perché sentivo di aver già rubato troppo tempo ai vostri interventi. Lo faccio ora. Come forse qualcuno avrà intuito, la "mamma" della metafora era Popper. Popper, come sapete, fuggì dagli orrori e dai pericoli per lui personalissimi del nazismo, rifugiandosi in Nuova Zelanda. Al contrario di altri più dialettici, lui evoluzionista prese la strada dell'esilio. Sulle premesse filosofiche degli orrori totalitari nazisti, Popper meditò a lungo (vedi "La società aperta e i suoi nemici"). Della sua fiducia nella democrazia come metodo ideale di governo non è lecito dubitare. Del suo amore per la libertà nemmeno. Della sua intelligenza, e della sua conoscenza dettagliata delle opere di Darwin e dei successivi evoluzionisti, direi persino meno ancora (suppongo che, di questi testi evoluzionisti, Tullio abbia una conoscenza meno approfondita di quella di Popper, e forse persino inferiore alla mia). Ora, viste queste premesse, come si fa a pensare che Popper abbia potuto sostenere l'evoluzionismo, se avesse creduto che dall'evoluzionismo mai possa discendere una giustificazione dell'eventuale momentanea vittoria di idee come quelle naziste? Non sarebbe stato questo un clamoroso caso di prostituzione intellettuale? Ammettiamo poi che Popper fosse semplicemente assai stupido, tanto da lasciarsi sfuggire un argomento come quello di Tullio ("Tu, evoluzionista, giustificherai la vittoria del nazismo come un caso di sopravvivenza del più forte!"). Nello stesso periodo, l'inglese Bowlby combatteva attivamente il nazismo. Anche Bowlby (in un'altra metafora, aspettatevi che lo chiami "il mio papà"), un imbecille a fare di Darwin il proprio eroe intellettuale tanto da scriverne la biografia? La prossima volta che ci incontriamo, Tullio, potremo se vuoi discutere sul fatto che forse possa essere invece la "sintesi" hegeliana, o quanto meno gli "storicismi" che ne sono derivati (vedi, sempre della mia "mamma", "La miseria dello storicismo") a giustificare l'eventuale (immaginaria, e questo per un evoluzionista conta) vittoria dei nazismi. Qualcuno potrebbe farlo cercando un'impossibile sintesi fra ideologie contrapposte, o invocando le dialettiche storiche, mentre un evoluzionista non potrebbe che dire: "Aspettiamo qualche secolo per vedere se questa 'mutazione' verrà selezionata o scartata" (un evoluzionista non potrebbe infatti mai confondere mutazione/variazione e selezione, come invece ha fatto Tullio nel suo esempio del nazismo). In fondo, Hegel uno stato totalitario di fatto lo ammirava e difendeva, o ricordo male? E, a proposito di Gadamer, il suo maestro Heidegger, durante la guerra, da che parte stava? Mi sta rimontando la collera. Smetto. Gianni Liotti Paolo Migone, 22 Marzo 2002:
Caro Gianni, personalmente, non ti ho mai vissuto come troppo irruente o collerico, ma come uno che ama discutere e difendere le sue idee, capace anche di ascoltare gli altri. Mi sento abbastanza sicuro di pensare che anche Tullio abbia apprezzato la qualità della tua partecipazione al dibattito, che hai reso più stimolante (Tullio comunque certamente ti dirà come ti ha vissuto), dato che al pubblico, e a noi, la contrapposizione netta di idee diverse rende più vivo l'interesse e aiuta meglio a chiarire i problemi. Tu poi come persona sei da tutti conosciuto come molto gentile e corretto, e leggo la tua cosiddetta irruenza al congresso come una forma di "gentilezza e rispetto" verso di noi e verso il pubblico, nel senso che non ti sei trattenuto dal dare delle cose agli altri. Questa è almeno la mia opinione. Venendo però alla questione (non nuova, nel senso che a più riprese viene sollevata) del fatto che se Hitler avesse vinto avrebbe vinto anche darwinianamente, io non sono sicuro di capire bene. Avrei voluto chiedertelo al congresso ma ho preferito non farlo per non portare via troppo tempo agli altri. Su questo problema ho sempre avuto dei dubbi, ma sicuramente dipenderà dalla mia ignoranza del darwinismo o della storia. Mi dico ad esempio: ma la storia non è stata piena di tanti Hitler? (si pensi all'impero romano, o ad altri grandi imperi o dinastie in altri continenti, pieni di barbarie e schiavitù, che sono durati molti secoli ecc.). Il darwinismo non prevede la legge del più forte che sottomette gli altri? Un impero forte e tirannico non dovrebbe sopravvivere e mantenersi sulla terra se le sue regole ("di sopravvivenza" rispetto ad altri popoli o minoranze) sono ben salde? Se hai voglia e tempo di rispondere, te ne sarei grato (in una tua eventuale risposta, non temere assolutamente di essere irruente). Paolo Tullio Carere, 22 Marzo 2002:
Caro Gianni, mi unisco a Paolo per rassicurarti che non sei stato assolutamente intrusivo, né invadente. Irritante, per quello che mi riguarda, solo una volta, ma è stata piccola cosa. Irruento sì, ma l'irruenza a me personalmente piace. In ogni caso il tuo contributo al congresso è stato preziosissimo, e per averlo avrei accettato anche dosi ben superiori della tua proverbiale collera. Sull'accostamento tra Hitler e l'evoluzionismo. Valerio Castronovo recensendo sul Sole-24 Ore di domenica scorsa un saggio di Tzvetan Todorov, scrive: "In pratica, sia Lenin che Hitler avrebbero mutuato dal darwinismo l'idea che la legge generale della vita e della storia è la lotta senza quartiere per consacrare il diritto del più forte nei rapporti fra gli individui e le classi". Come vedi, e come ti conferma Paolo, questa è l'interpretazione corrente del darwinismo, almeno tra coloro, come me, che non hanno studiato a fondo le opere di Darwin. Io mi chiedo solo: che cosa resta del darwinismo, se togliamo l'idea della sopravvivenza del più adatto come motore dell'evoluzione? A me il darwinismo non è mai sembrato granché: spiega la micro-, non la macro-evoluzione. Non spiega per esempio come mai i mammiferi siano potuti derivare (per quanto ne so: l'ho letto nel classico testo di Grassé, e non ho mai trovato smentite) da quattro ceppi diversi di progenitori rettiliani, in luoghi ed epoche diverse. Tullio Giovanni Liotti, 23 Marzo 2002: Caro Paolo, caro Tullio, grazie per la comprensione che mostrate di fronte alle mie intemperanze. E grazie in particolare a Paolo per l'affetto e l'amicizia che mi dimostra, e che ricambio. Rispondo dunque volentieri al quesito di Paolo, ripreso anche da Tullio nella sua risposta (e spero di non annoiare gli altri della lista).
La "sopravvivenza del più ADATTO" (che già è uno slogan riassuntivo assai povero del darwinismo, così come il "calderone" era un assai povero slogan riassuntivo della teoria Freudiana dell'inconscio) è spesso confusa con "la sopravvivenza del più FORTE". Per un evoluzionista, i due concetti, "adattamento" da un lato e "forza/prepotenza" dall'altro, sono assai (assai!) diversi. Consideriamo anzitutto la competizione fra specie diverse, ed un esempio relativamente semplice: a partire dalla fine del Mesozoico, sopravvivono i piccoli e deboli mammiferi, che si adattano meglio all'ambiente mutato (forse per la caduta di un gigantesco meteorite) mentre si estinguono gli assai più grossi e forti dinosauri. Consideriamo poi il caso assai diverso della competizione fra membri della stessa specie. In particolare, nelle specie sociali l'eventuale tendenza alla prevaricazione violenta sui conspecifici (la strategia dei "falchi") appare meno adattiva rispetto a disposizioni più miti nelle relazioni sociali (la strategia delle "colombe"). I modelli evoluzionistici che portano a questa conclusione procedono più o meno così: i "falchi", dopo aver prevalso sulle "colombe" che eliminano in grandissimo numero, continuerebbero poi a falcheggiare fra loro eliminandosi reciprocamente, e sarebbero allora dimostrabilmente destinati a riprodurre poco e male i propri geni. Alle poche "colombe" sopravvissute, che avrebbero libero il campo grazie al reciproco sterminio dei "falchi", le cose, sia pure in tempi assai lunghi, andrebbero meglio. Puoi trovare ne "Il gene egoista" di Dawkins (mi sembra lo abbia tradotto in Italia Zanichelli) una sintesi degli studi su questo tema condotti da evoluzionisti ideologicamente ed anche politicamente "di destra" (fra i quali si annovera lo stesso Dawkins, insieme al famoso Wilson della sociobiologia). Ancora più radicalmente capace di confutare la tesi che l'evoluzione premia la "forza" è la serie di argomenti (scientifici, non ideologici) avanzati da darwinisti ideologicamente e politicamente "di sinistra" (Gould, Lewontin, Eldredge). Si distingue in genere il darwinismo "di destra" da quello "di sinistra" perché il primo considera il singolo individuo, o addirittura il singolo gene, come l'unità su cui opera la selezione naturale, mentre il secondo considera la popolazione (cioè il gruppo sociale) come l'unità su cui si esercita la selezione. Sembra, a me che sono ignorante di Storia, che le vicende umane degli ultimi tremila anni (tempo però davvero troppo breve per considerazioni evoluzionisticamente fondate) mostri come le suddette conclusioni darwiniane, le quali farebbero ipotizzare un maggior valore adattivo degli atteggiamenti democratici rispetto a quelli totalitari, siano compatibili con le osservazioni disponibili. Infatti, nel globo, le tirannidi vanno diminuendo di numero e le democrazie aumentando, o no? La democrazia parlamentare negli ultimi quattrocento anni si è affermata in molti Paesi prima retti da monarchie assolute, mentre non è vero il contrario, o no? Le tirannidi del ventesimo secolo sono state "mutazioni" di breve durata, apparentemente non "selezionate" (per la durata più lunga cui si applica il termine "selezione") dal processo politico, o no? Comunque, se Hitler avesse vinto (e per un evoluzionista, come anche per Ghandi, non è un caso che abbia perso), non avrebbe vinto darwinianamente. Solo se il nazismo si fosse affermato per secoli, e si fosse diffuso nel mondo, e avesse resistito ad ogni sistema politico ed ideologico alternativo, si sarebbe alla fine potuto affermare che aveva vinto anche darwinianamente. Un tale successo durevole ed auto-riproducentesi nel tempo e nello spazio non appare comunque molto plausibile, vero? Anche in una prospettiva maggiormente "psicologica" possiamo notare come la tendenza a sottomettere gli altri non sia particolarmente premiata dall'evoluzione. Essa ha solo una funzione limitata nei gruppi sociali, ed è altrettanto adattiva della tendenza opposta a sottomettersi, della tendenza a dare cura, della tendenza a chiedere cura, della tendenza a cooperare fra pari, della tendenza a formare coppie sessuali relativamente durevoli, e della tendenza al gioco sociale. L'insieme EQUILIBRATO di tutte queste diversificate tendenze innate sembra premiato dall'evoluzione, mentre ogni squilibrio appare come una "mutazione" possibile, ma di durata limitata nel tempo, e che se comparisse verrebbe gradualmente "selezionata negativamente" (sarebbe cioè destinata all'estinzione per progressivo fallimento riproduttivo). Pensate -- per fare un esempio estremo ed assurdo di cosa accadrebbe di fronte ad un totale squilibrio fra le diverse tendenze innate -- ad una società in cui tutti gli individui possiedano in altissimo grado il "gene della supremazia", e non abbiano pace fino a che non riescono a sottomettere gli altri (una società di tutti "ariani", per citare ancora una volta la particolare idiozia hitleriana). Se ciò si verificasse, se una tale società avesse pieno successo "darwiniano", chi mai resterebbe ad essere dominato? Dove troverebbero allora il tempo e la pace necessaria per riprodursi, i membri di questa società super-ariana?
Lenin e Hitler, possono pure avere così orecchiato (assai male) il pensiero di Darwin, distorcendone a loro modo, un modo evoluzionisticamente pessimo, un'idea metaforica e prendendola alla lettera, ma va ricordato che non erano nè biologi né epistemologi evoluzionisti (e probabilmente neppure erano persone intellettualmente oneste, affidabili nel considerare le idee altrui con integrità ed attenzione). Per i darwinisti, la "lotta" per la sopravvivenza è sempre stata una metafora, ben lontana dall'immagine di un individuo o di un popolo che, letteralmente, fa guerra ad un altro. Anche le Chiese cristiane hanno interpretato male la teoria dell'evoluzione per quasi un secolo, fino alla piena ed esplicita rivalutazione fatta pubblicamente dall'attuale Pontefice qualche anno fa (il povero Theilard de Chardin lo potrebbe testimoniare, lui prete evoluzionista e anche, pare, "mistico", quando le chiese cristiane avessero male interpretato il Darwinismo). Di affermazioni idiote -- lievemente idiote come "l'uomo discende dalla scimmia e quindi non ha un'anima" o fortissimamente idiote come "la legge generale della vita e della storia è la lotta senza quartiere per consacrare il diritto del più forte nei rapporti fra gli individui e le classi" -- non troverai nemmeno l'ombra nel pensiero di un serio BIOLOGO evoluzionista, che anzi attivamente le confuterà dal punto di vista della propria teoria e della propria scienza (ottimi a questo riguardo i saggi divulgativi di Stephen Jay Gould, "Intelligenza e pregiudizio", "Questa idea della vita", "Quando i cavalli avevano le dita", "Un riccio nella tempesta", "Il pollice del panda", "Il sorriso del fenicottero", e altri, tutti pubblicati da Feltrinelli). Per non parlare poi di come ha confutato la suddetta grandissima idiozia totalitaria il maggiore EPISTEMOLOGO evoluzionista (Popper), che fu un dichiarato assertore della democrazia e della libertà fin da quando Hitler e Lenin portavano avanti le loro funeste, antibiologiche (nel caso di Hitler anche pseudomisticheggianti) ideologie. Insomma, chi si interessa davvero di evoluzionismo, studiandone direttamente le idee e non orecchiandone chissà dove e come quello che gli fa comodo orecchiare (come possono aver fatto Hitler e Lenin) -- chi davvero si interessa di evoluzionismo studiandolo seriamente, dicevo, congettura che la democrazia sia evoluzionisticamente compatibile con quanto viene progressivamente "selezionato positivamente" del pensiero politico umano, mentre la tirannide sembra destinata ad essere "selezionata negativamente" nel corso dei millenni futuri.
Nulla naturalmente, non resta quasi nulla di significativo. Il punto è che "adatto" non significa "forte" e ancor meno "dominate tirranicamente i propri simili", come ho già ricordato. "Adatto" significa solo "maggiormente capace di tramandare i propri geni alle generazioni future", perché maggiormente capace di trovare strategie efficaci di adattamento (appunto) alla nicchia ambientale in cui vive. Il singolo insetto è meno "forte" di noi, ma la strategia di adattamento e riproduttiva degli insetti è (biologicamente) straordinaria. Come sapete, gli insetti potrebbero essere i soli animali a sopravvivere ad una catastrofe ecologica come quella che la nostra specie seriamente minaccia di procurare al pianeta. Nella nuova nicchia ambientale creata da effetti serra, catastrofi nucleari e simili amenità, non Homo Sapiens, ma diverse specie di insetti potrebbero rivelarsi "vincenti", pur non avendoci affatto sottomessi con la forza (per inciso: in un tale scenario, l'umanità apparirebbe come una "mutazione" della storia della vita, selezionata negativamente dall'evoluzione stessa a motivo di un qualche squilibrio nei prodotti del suo gigantesco cervello; il cervello dell'uomo sarebbe allora una variazione selezionata negativamente nell'arco di qualche milione di anni, tempo ragionevole nella biologia evoluzionista per esercitare gli effetti della selezione).
In effetti, altri principi sono all'opera nell'evoluzione, oltre alla "variazione" (mutazione) seguita da selezione naturale (di questi altri principi, oggetto di faticose indagini, Gould fa cenno in molta della sua divulgazione). Spesso è questa idea, di variazioni casuali seguite da selezione delle più "adatte", che viene chiamata "darwinismo". Il "darwinismo" così inteso, siamo tutti d'accordo, non è SUFFICIENTE a spiegare l'evoluzione. Sono contento, Tullio, di scoprire che tu apprezzi la teoria dell'evoluzione, tanto da chiederti quali altri principi la determinino oltre a quello, importantissimo per la micro-evoluzione anche se meno per la macro-evoluzione, che resta associato, assai gloriosamente, al nome di Charles Darwin. Anche limitandoci al limitato (non però piccolo) ruolo esercitato da "variazione e selezione" nei processi evolutivi, possiamo, nel parlare di evoluzionismo, evitare molti malintesi se distinguiamo con cura le due cose, e se teniamo presenti i TEMPI ed i MODI con cui vengono selezionate le mutazioni più adatte. Le variazioni sono casuali e continue (come le mutazioni nel genoma). Quelle che meglio si adattano all'ambiente, lo fanno in un MODO particolare: assicurando maggiori possibilità riproduttive. In TEMPI idonei (in genere molto, molto lunghi), le mutazioni più adatte soppiantano quelle meno adatte, che spariscono dalla scena senza bisogno di hitleriane guerre. In tutto ciò, bisogna tenere presente che l'ambiente di adattamento è a sua volta mutevole: vedi estinzione dei dinosauri e successo evolutivo dei mammiferi, entrambi conseguenti ad una mutazione ambientale che rese inadatti i geni che nel precedente ambiente erano i più adatti. Se vogliamo congetturare che un tale scenario biologico sia assimilabile a quello corrispondente all'evoluzione culturale o politica (il che è una congettura assai problematica anche se interessante), allora dovremo immaginare che un'idea imbecille, (in modo analogo ad una qualunque mutazione sfavorevole casualmente prodattasi nel genoma), possa pure affermarsi per qualche tempo come "variazione" casuale negli elementi di una cultura. Se però non ha "successo riproduttivo", IN TEMPI IDONEI quell'idea imbecille scomparirà. Non scomparirà perché i suoi sostenitori vengono fucilati o castrati, ma perché viene confutata da idee migliori, magari con i pacifici strumenti messi a punto dalla scienza, o perché la maggior parte degli umani, anno dopo anno, o magari secolo dopo secolo, o persino millennio dopo millennio, ne noterà le conseguenze nefaste nella propria vita quotidiana. Scomparirà però (in tempi idonei) per i danni che provoca alla qualità della vita, e non per effetto di una qualche moda maggioritaria alternativa. Le mode maggioritarie garantiscono le momentanee variazioni, non le durevoli selezioni. Conoscete certamente la storiella, "mangiate merda: miliardi di mosche non possono avere torto". Ecco, se questa, di mangiare merda, diventasse una moda, si estinguerebbe in tempi rapidissimi. Per estinguere altre idee sbagliate sostenute da altre pressioni di moda, ci sono voluti tempi più lunghi. La logica della scoperta scientifica sembra un modo discretamente efficiente, e per di più pacifico/democratico/pubblico, per accelerare il riconoscimento di idee sbagliate e la selezione di idee meglio corroborate. Gianni Tullio Carere, 24 Marzo 2002:
Caro Gianni, ti prego di credere anche al mio affetto e alla mia amicizia, che sono andati via via crescendo proprio grazie alla franchezza dei nostri scambi. Che a me sono stati molto utili, come potrai constatare leggendo la versione più aggiornata del mio modello di integrazione (allegata), che ho modificato tenendo conto delle cose che ci siamo detti. In breve, come sai io concepisco il campo della terapia come generato da quattro vertici, corrispondenti alle quattro funzioni cardinali del terapeuta. In tutte le versioni precedenti del modello io ho sempre descritto il vertice K (per Knowledge, la funzione dello scienziato) in termini prevalentemente euristici. Ora lo ridefinisco in modo più bilanciato, cioè come determinato dalla dialettica tra scienza sperimentale (scienza delle procedure efficaci) e scienza euristica (scienza dei significati attribuiti in ogni momento da entrambi i membri della coppia terapeutica a tutto ciò che accade nella relazione). Quanto al resto, mi fa piacere scoprire che abbiamo tanti interessi in comune: la terapia, la scienza, la mistica, ora anche l'evoluzionismo. A proposito del quale forse riusciremo a chiarire un malinteso di cui ritengo responsabile proprio il darwinismo: la confusione tra adattamento e evoluzione. Le trasformazioni attribuibili al principio di sopravvivenza del più adatto sono ovviamente e per definizione di tipo adattivo, e di per sé non implicano un'evoluzione vera e propria (anche se possiamo decidere di chiamare "micro-evolutivo" questo tipo di trasformazioni). Le popolazioni di batteri hanno una capacità di adattamento strepitosa e ultrarapida, ma nessuno ha mai visto un batterio evolvere in qualcosa di diverso da un batterio. Lo scenario che evochi nel tuo ultimo messaggio ("gli insetti potrebbero essere i soli animali a sopravvivere ad una catastrofe ecologica come quella che la nostra specie seriamente minaccia di procurare al pianeta") è perfettamente compatibile con la visione darwiniana (altro che Hitler), senza per questo essere propriamente evolutivo, anzi essendo tanto spaventosamente quanto ovviamente involutivo. Riprendendo il mio esempio preferito di evoluzione (i mammiferi che derivano da quattro forme madri rettiliane in luoghi e tempi diversi) io riesco a spiegarmelo solo ricorrendo all'ipotesi di una pulsione morfogenetica, cioè di una spinta insita nel vivente a realizzare potenzialità evolutive. In altre parole, le forme madri rettiliane avevano in sé la forma mammaliana allo stato potenziale, e hanno provato a realizzarla ovunque le condizioni ambientali lo abbiano permesso. E' un concetto diametralmente opposto al darwinismo: l'evoluzione non è il prodotto della selezione ambientale di mutazioni casuali (cosa che produce più che altro adattamento), ma lo è della spinta morfogenetica insita nel vivente che si realizza generando una miriade di forme delle quali ovviamente solo le più adatte riescono a sopravvivere. In questa visione l'evoluzione è realmente creatrice (per dirla con Teilhard de Chardin), lungi dall'essere il prodotto meccanico della selezione di mutazioni casuali. L'evoluzione funzionerebbe come un artista, non come un giocatore di dadi (sto citando Einstein, naturalmente). L'artista non produce le sue opere provando casualmente varie combinazioni di forme, e poi selezionando quelle che riesce a vendere (c'è anche chi lo fa, ma non è un artista: nessuna evoluzione è prodotta da individui del genere), bensì seguendo in primo luogo la propria ispirazione o spinta a creare. Sono questi gli uomini che fanno progredire l'umanità, e solo in questo modo io riesco a concepire un processo propriamente evolutivo in qualsiasi ambito. In particolare, per quanto ci riguarda più da vicino, i "fattori comuni" alle diverse terapie (che la ricerca indica come più significativi dei fattori specifici dei diversi approcci) possono essere intesi come le caratteristiche strutturali della "forma psicoterapia", che tendono a emergere nei contesti più vari in modo tanto più netto quanto più il terapeuta è libero da rigidità dottrinarie e scolastiche (quindi nei terapeuti esperti più che in quelli principianti, come è ancora la ricerca a mostrare). Ti ringrazio per la possibilità che mi dai di discutere di queste cose. Tullio Giorgio Gabriele Alberti, 27 Marzo 2002: Caro Tullio, ho letto il Tuo saggio, che più agilmente riprende la Tua teoria generale della psicoterapia. Ho da fare alcune osservazioni, anche se ancora alquanto abbozzate. In primo luogo, mi sembra che il tutto sia la Tua visione della psicoterapia, quasi il come Tu fai psicoterapia, e che molto meno sia invece un tentativo di includere in questa bidimensionale definizione le altre psicoterapie: ad esempio, non vi riconosco risposte alla domanda "come inquadrare secondo lo schema bidimensionale di Carere gli atti terapeutici di un cognitivo-comportamentale, o di un sistemico, o di un rogersiano?". Tu dai per scontato che le Tue dimensioni siano sufficienti per definire esaurientamente ogni atto terapeutico di ogni psicoterapia, ma non verifichi realmente che è così, o almeno così non appare, secondo me. In secondo luogo, non riesco a condividere la Tua divisione tra "procedural side" e "heuristic side": anche lo intervento basato sulla comprensione dei significati si traduce in procedure, e ne è un esempio illustrissimo l'interpretazione, che attraverso una comunicazione verbale allude a fatti non palesi e soprattutto non consapevoli al paziente, che sono ritenuti alla base di scelte di comportamento, di vissuti consci, di sentimenti riguardanti certe persone e lo stesso terapeuta. Allora, si tratta di una procedura, e anche ben codificata se ricordi le raccomandazioni su come dovrebbe essere fatta (es. vedi il manuale di Luborsky del 1984), che veicola un'ipotesi del terapeuta su certi significati che gli sembra di aver colto in modo squisitamente euristico. E analogamente, non mi sembra giusto da parte Tua qualificare tutti gli interventi cognitivo-comportamentali come non euristici: in primo luogo anche i terapeuti cognitivo-comportamentali si fanno idee sui significati che vive il paziente (magari non le stesse che si fa uno psicoanalista, ma Ti senti di dire che solo uno psicoanalista ha la chiave del vero significato?), in secondo luogo, se partiamo, come faccio ad esempio io, dall'assunto che l'intervento, anche prescrittivo, non funziona in sé ma in quanto modifica le strutture interne - rappresentazioni di sé, modi abituali di percepire gli altri etc. - anche un intervento che Tu definiresti "procedure", come atto di un "blind therapist", agisce sui significati, da un lato cambiandoli, dall'altro rendendoli consapevoli. Vedi quindi che le procedure sono anche veicolo di comunicazione di atti euristici del terapeuta. In generale, direi che abbiamo una concezione diversa delle procedure: per me sono procedure tutti gli atti che il terapeuta fa, o rivolgendosi al paziente o rivolgendosi verso di sé in funzione del paziente (per esempio esaminare e analizzare il proprio controtransfert), che esse siano prescritte dal manuale o non, ma che siano rilevanti agli effetti del cambiamento del paziente, e che quindi tendenzialmente si ripetano, pur con varianti individuali e occasionali. Le procedure non coincidono con le prassi, che sono anch'essi atti del terapeuta, ma irrilevanti o meno rilevanti agli effetti del cambiamento dello specifico problema : è ovvio che non tutto quello che il curante fa è decisivo, in certi casi sarà irrilevante (es. il fatto che di seduta in seduta egli saluti il paziente in modo decente) o avrà carattere di precondizione, ma anche se sarà stato fatto non per questo il paziente cambierà, e in altri casi ancora sarà addirittura controproducente agli effetti del risultato positivo. Infine, prassi e procedure vanno distinte dai processi che avviano nel paziente, e anche nel terapeuta (ma si suppone una priorità, per cui ciò che più ci preme sia il cambiamento in meglio dello stato del paziente), processi che sono di vari ti- pi: incrementi di consapevolezza, maggiore capacità di regolare le emozioni, di porsi più adeguatamente (cioè in modo meglio rispondente ai propri bisogni e obiettivi) nei rapporti interpersonali di un certo tipo, di contrastare la tendenza ad autocompiangersi cadendo in uno stato di helplessness etc. Dove situo la creatività artistica, della cui necessità sono pur certo? Nel come il terapeuta concepisce una esplorazione del problema del paziente, nel come egli si fa, intuitivamente spesso (ma non farei del misticismo, si tratta in questi casi di inferenze semi-consce, semi-automatizzate e fondate su una grande esperienza) un piano d'intervento e nel come escogita le procedure che mette in atto, sia attingendo da un suo manuale che da più manuali, che lasciandosi andare a una certa inventività combinatoria (per esempio mettendo in atto una sua nuova ipotesi operativa, abbozzata in rapporto ad altri analoghi pazienti), e tenendo conto costantemente dei feed-back del paziente, che per lo più riguardano la loro stessa relazione. Quindi, mentre io concepisco l'insieme delle procedure come un set semi-rigido di tasti di pianoforte, la flessibilità, la fluenza, la creatività la ravviso nel come il terapeuta suona su questi tasti, magari allungando di tanto in tanto la mano su un altro strumento, o introducendo tasti nuovi, sulla base di un modello del processo patogenetico che si è fatto del paziente e del suo problema. Giorgio Giovanni Liotti, 28 Marzo 2002: Caro Tullio, (ma prego anche Giorgio di scorrere questa mail: approfitto di essa per rispondere, alla fine di essa, anche a lui), grazie anzitutto per le attestazioni di amicizia, che ricambio. Ho finalmente trovato il tempo per leggere la nuove versione del tuo saggio per il Congresso SEPI di San Francisco. Lo trovo molto sensato e condivisibile: scienza ed "arte", medicina e psicologia, protocolli (manuali) ed inventiva legata alla particolare forma che il campo intersoggettivo assume in ogni incontro terapeuta-paziente, tutto questo è anche a mio avviso certamente presente in ogni forma decente di psicoterapia. Ma non concordo con la tesi che lo spazio definito dai tuoi assi cartesiani basti a definire l'impresa della integrazione fra le psicoterapie (sempre ammesso che sia desiderabile perseguire una tale impresa). Mi sembra, se mi limito a quanto ho appena letto nel tuo effettivamente scorrevole e chiaro scritto, di poter definire così il fondamento concettuale della differenza fra noi: a mio avviso tanto i "protocolli" quanto la nostra "arte" sono basati su teorie diverse che guidano la nostra azione in maniera diversa, e queste diversità vanno riconosciute e VAGLIATE prima di pensare che abbiamo "integrato" qualcosa. Torno all'esempio che ho portato a Milano, un terapeuta che creda che il legame fra bambino e chi lo accudisce sia secondario al soddisfacimento di altri bisogni agirà col suo paziente in maniera prevedibilmente diversa sa quella di un terapeuta che creda che invece esso sia basato su una disposizione primaria a chiedere aiuto e conforto. Ed un terapeuta che creda che la disposizione a chiedere aiuto fondi tutta la relazione umana, agirà con i suoi pazienti (tu forse diresti, in maniera "materna") da un terapeuta che creda che esistano diverse disposizioni primarie alla relazione (chiedere aiuto, cercare dominanza, cooperare fra pari, formare coppie sessuali, etc.). E si può continuare con gli esempi, ovviamente, assai a lungo. Un terapeuta che creda che i sogni realizzino desideri inconsci agirà col suo paziente in modo diverso da uno che creda che risolvano problemi. Un terapeuta che creda che l'inconscio si instauri attraverso la rimozione agirà col suo paziente in maniera diversa rispetto ad uno che creda allo scambio continuo fra coscienza ed inconscio. Un terapeuta che creda che il disturbo bipolare ha un'origine puramente psicologica agirà col suo paziente in maniera diversa da uno che creda che invece abbia una forte concausa genetico-ereditaria. E così via. Se le cose stanno così, non si può arrivare all'integrazione se non si distinguono le teorie non corroborate da quelle corroborate (per aver MOMENTANEAMENTE superato i tentativi di dimostrale false). Se non ci diamo PRIORITARIAMENTE cura di criticare le nostre congetture con modalità pubbliche (come la ricerca scientifica), non credo che potrà bastare, per dichiarare che abbiamo conseguito l'identificazione di un campo unitario (integrato) chiamato psicoterapia, infilare dentro il polo "artistico" gli effetti clinici delle nostre inconciliabili e magari popperianamente inconfutabili congetture -- oppure affermare (e ci sarebbe da dimostrarlo) che tutte permettono la "scoperta" (uncovering). Tu, invece sembri ritenere di sì, che basti, per l'integrazione, affermare che qualunque teoria psicoterapeutica può guidare il terapeuta ed il suo paziente alla "scoperta", senza prima avere eliminato le molte teorie sbagliate. Soprattutto, io non credo che senza confutare le nostre congetture (quelle confutabili, ovviamente) la nostra conoscenza possa "crescere" (cioè progredire, nel senso che non manderemmo oggi nostro figlio in un ospedale medievale se ne riaprissero uno). Le congetture inconfutabili (un esempio di congettura inconfutabile a cui, insieme a molti, credo, ma che non fa crescere la nostra conoscenza pubblica: "Esiste la Verità"; un esempio di congettura altrettanto inconfutabile, ed altrettanto incapace di far crescere la nostra conoscenza: "Non esiste la Verità, ma solo una miriade di idee diverse da luogo a luogo e da tempo a tempo, e da persona a persona"), le nostre congetture inconfutabili, dicevo, forse sono alla base di tutte le altre, ma non fanno crescere la nostra conoscenza. La nostra conoscenza, anche quella relativa all'integrabilità delle psicoterapie, cresce solo attraverso la confutazione pubblica e ripetibile di congetture confutabili. E solo in questo senso, che permettono la crescita della conoscenza, le congetture confutabili sono migliori di quelle inconfutabili. Una breve nota sull'evoluzionismo. Sono lieto che l'argomento ti interessi, perché credo che abbiamo tutti molto da imparare dal considerare la nostra mente come frutto dell'evoluzione oltre che della cultura, e quindi con aspetti di continuità rispetto alla mente di altre specie animali. Non concordo invece con l'idea che sia UTILE pensare ad una "spinta morfogenetica insita nel vivente che si realizza generando una miriade di forme" (cito la tua frase) seguendo un piano precostituito. Ciò non vuol dire che io rifiuti questa tua idea, la quale mi sembra un'elegante variante del creazionismo in biologia. Semplicemente, la trovo ancora più inconfutabile del darwinismo, e quindi ancora incapace di far crescere la nostra conoscenza anche se fosse vera (e non credo che potremo mai sapere se lo è, come per ogni altra nostra idea). Saprai certo che Popper, il cui pensiero qui fedelmente seguo, riteneva il darwinismo inconfutabile (come il creazionismo, come il realismo, come l'idealismo), e quindi lo inseriva fra le idee che possiamo usare come base metafisica per le nostre ulteriori congetture confutabili ("fisiche"), non in sè stesso come una idea che possa direttamente inserirsi nella crescita della conoscenza. Di fronte a congetture inconfutabili, ritengo (insieme a Popper e ad alcuni esistenzialisti come Pareyson), che possiamo solo fare quel "salto della ragione" che ha a che fare con la nostra libertà: possiamo scegliere fideisticamente. "Credo ut intelligam", insomma. Poi, dopo questa scelta e questo salto individuale nell'abisso della Verità e del Nulla (vedi a cosa mi sono servite le letture dei mistici?), possiamo dedicarci tutti insieme alle assai più utili congetture confutabili e , appunto, alla loro confutazione. Gianni Tullio Carere, 30 Marzo 2002 (1):
La mappa che propongo può servire anche, volendo, per inquadrare i diversi stili terapeutici. Per esempio il terapeuta cognitivo-comportamentale è più procedurale e quello analitico più euristico, c'è molto vertice materno in un rogersiano o un kohutiano, c'è una prevalenza di vertice O in un terapeuta transpersonale, eccetera. Ma questo non mi sembra molto importante. Più importante è invece l'ipotesi che ogni singolo atto terapeutico, quale che sia il metodo che il terapeuta dichiara di praticare, può essere inteso come una combinazione dei quattro modi cardinali, proprio come qualsiasi colore può essere inteso reso da una stampante mediante una mescolanza in varie proporzioni di quattro colori fondamentali.
Le tue osservazioni mi hanno indotto a inserire nel testo del mio intervento per San Francisco questa aggiunta: "But let us try to be a little more precise about the procedural/uncovering (or procedural/heuristic) dialectic. On one side we need to apply general rules, algorithms or protocols to the individual case. On the other side we need to understand the individual case in its unique and unrepeatable specificity. When we are on the procedural side, we try to assimilate the case at hand to our clinical theory and technique, ie we try to understand and treat any disorder or problem through our schemes of interpretation. When we are on the heuristic side, we start from what we have understood on the procedural side as a pre-comprehension, but then we bracket it out in order to let the person speak to us, or to let the situation as a whole to reveal to us its proper and unique meaning. We could also say that the procedural is analytic, or Galilean science, as the heuristic is synthetic, or phenomenological science."
Il tuo uso del termine "procedura" mi sembra troppo vasto: di fatto coincide con "atto terapeutico". Basta intendersi: a me interessa distinguere tra i diversi atti terapeutici, che tu chiami procedure, quelli previsti da una teoria o un manuale (procedure in senso stretto, se preferisci).
Per me la creatività attinge all'ispirazione, all'ascolto dell'ignoto o inaudito, non ai modelli del terapeuta (il terapeuta è tanto più creativo quanto più si emancipa dai modelli--ma in una prospettiva dialettica, è bene che non sia *troppo* creativo). Tullio Tullio Carere, 30 Marzo 2002 (2):
Hai certamente ragione di dire che lo spazio definito dai miei assi cartesiani non basta a definire l'impresa dell'integrazione, se per integrazione intendiamo "integrazione teorica". E' infatti questa l'integrazione cui fai riferimento, dicendo che <<tanto i "protocolli" quanto la nostra "arte" sono basati su teorie diverse che guidano la nostra azione in maniera diversa>>. Ma, come ho scritto più volte nel corso del nostro dibattito, io mi riferisco alle numerose meta-analisi (da Lambert a Luborsky) secondo le quali gli interventi basati sulla teoria e la tecnica del terapeuta incidono in misura secondaria sulla varianza dell'esito, mentre molto più significativi sono gli interventi inquadrabili come "fattori comuni", trasversali a tutti i metodi e indipendenti dalla teoria del terapeuta. Poiché con i miei assi cartesiani mi propongo di descrivere il campo dei fattori comuni, non-theory-dependent, da questo punto di vista la validità della teoria del terapeuta non è rilevante. O meglio, è rilevante solo come 'qualità complessiva'. Come osservano Messer e Wampold, è importante che il terapeuta disponga di una teoria compatta e coerente, capace di rendere conto di ciò che accade nella terapia, e soprattutto che ci creda e si trovi a suo agio al suo interno. In questo senso è un fattore comune. La validità sperimentale della teoria in questo quadro non è irrilevante, ma nemmeno è fondativa: appartiene semplicemente a uno dei quattro vertici del campo, quello dello scienziato, e più esattamente al versante procedurale di questo vertice. In una valutazione molto approssimativa, questo aspetto inciderebbe pressappoco per un ottavo del totale (mezzo vertice): curiosamente, questo dato è confermato dalle meta-analisi, che attribuiscono ai fattori specifici dei diversi metodi precisamente un'incidenza di questa entità.
Certamente. Nei due esempi che fai potremmo facilmente constatare che uno dei due terapeuti tende a frequentare il vertice materno della relazione più dell'altro. A tutti e quattro questi terapeuti una mappa come quella che propongo potrebbe essere utile per riconoscere il loro bias, e soprattutto per verificare la corrispondenza tra il loro bias teorico e l'effettivo bisogno del paziente che stanno trattando (eventualmente inviando il paziente ad altri terapeuti in caso di cattiva corrispondenza).
Credo che l'integrazione teorica sia allo stato delle cose un obiettivo irraggiungibile a causa dell'incommensurabilità dei paradigmi sottesi alle diverse teorie e inoltre (come affermano ancora Messer e Wapold) non sembra essere un buon investimento spendere tante risorse per la corroborazione/confutazione delle teorie, quando questo aspetto incide così marginalmente sull'esito dei trattamenti. Quanto alla "scoperta", cioè al versante uncovering o euristico del vertice della conoscenza (K), il procedimento euristico è del tutto diverso, anzi opposto, alla procedura sperimentale. E' anch'esso scienza, ma scienza di tipo fenomenologico, che procede a colpi di epoché, quindi non basandosi su ipotesi e teorie, ma al contrario proprio sulla messa tra parentesi sistematica di ipotesi e teorie. La dialettica interna al vertice K può essere descritta dicendo che le scoperte del versante euristico possono essere trasformate in ipotesi per la validazione sperimentale, e viceversa le conoscenze sperimentalmente corroborate possono servire per una pre-comprensione da cui partire per nuove scoperte, secondo il movimento del circolo ermeneutico.
Certamente c'è un tipo di conoscenza che cresce confutando congetture: quel tipo di conoscenza che permette di costruire aeroplani e psicofarmaci, per esempio. Cioè quella conoscenza che è comunemente indicata come scienza moderna, e che tutti apprezziamo nella misura in cui non ci faremmo curare in un ospedale medioevale. Ma c'è un altro tipo di conoscenza che cresce diversamente. Pensa per esempio agli immensi corpi dottrinari del buddhismo, del cristianesimo e della psicoanalisi, in cui di conoscenze sperimentalmente corroborate c'è poco o nulla, mentre di scoperte euristiche c'è un patrimonio di sconfinata ricchezza. Lo butteresti via, questo inestimabile patrimonio, perché non è basato sulla "confutazione pubblica e ripetibile di congetture confutabili"? Come uomo e come terapeuta mi sentirei tremendamente impoverito se non potessi attingere a questo patrimonio di conoscenze non sperimentali. Lasciamo stare la psicoanalisi, ma si può forse negare lo straordinario valore terapeutico del buddhismo, del cristianesimo, o di tanta parte della filosofia dell'Occidente? Ora, la psicoterapia contemporanea è (a mio parere) figlia sia di quella scienza che costruisce ospedali moderni, sia di quell'altra che da sempre costruisce metodi per curare l'anima. Alcuni pensano che il primo genitore sia più importante del secondo, altri pensano il contrario. Io penso che possiamo risparmiarci la vieta domanda se vogliamo più bene alla mamma o al papà, riconoscendo che abbiamo bisogno di entrambi. Il difficile è farli andare d'accordo: questo forse ci riuscirà se smetteremo di parteggiare per l'uno o per l'altro, e prenderemo un atteggiamento finalmente dialettico.
Che tu segua fedelmente il pensiero di Popper è cosa che profondamente rispetto, come rispetto la scelta di chi fedelmente segue il pensiero di Buddha o di Gesù. Ma, come ha ricordato Sergio Benvenuto nel corso del nostro dibattito, "il falsificazionismo popperiano è stato falsificato", nel senso che non è stato accettato dalla comunità degli scienziati come il metodo mediante il quale la scienza progredisce, ed è stato confutato anche dalla comunità ristretta degli epistemologi, persino da quelli di scuola popperiana (per es. Watkins, allievo di Popper, ha scritto che tanto Freud quanto il suo maestro erano afflitti da un superio troppo esigente). L'utilità di una congettura non dipende a mio parere (e a parere della maggior parte degli epistemologi) dalla sua confutabilità (o ne dipende solo in parte): dipende piuttosto, e molto di più, dalla sua capacità di arricchire il mondo culturale in cui l'uomo vive e da cui basilarmente dipende (mondo 3, mi pare, nel gergo di Popper). In questo senso le congetture non confutabili citate prima (del buddhismo, del cristianesimo, della filosofia, della psicoanalisi) hanno uno straordinario valore, molto superiore a quello di molte congetture confutabili. Ma, ancora una volta, non voglio opporre le une (utili) alle altre (inutili). Ritengo che siano utili entrambe, e il mio tentativo come sempre, è quello di articolare dialetticamente anche questa opposizione. Mi trovo continuamente in mezzo tra coloro (i "moderni") che valutano le une e svalutano le altre e coloro (i "post-moderni") che fanno l'esatto contrario. Ma, come vedi non rinuncio alla mia opera di paziente mediazione. Tullio Giorgio Gabriele Alberti, 3 Aprile 2002: Caro Tullio, grazie per la risposta alle mie osservazioni sul Tuo saggio. Ho però da risponderTi a mia volta. A. Certo, la Tua mappa può servire per definire ogni singolo atto terapeutico, a misura che in ogni atto possiamo riconoscere aspetti di quelle due dimensioni. Ma ciò che io avvertivo mancare nella Tua teorizzazione erano due altre cose. In primo luogo, l'esaustività della classificazione di ogni atto terapeutico, il che significa che data la sua classificazione nei termini delle Tue due dimensioni restano secondo me ancora un sacco di cose da dire su ogni atto terapeutico e soprattutto su cosa di esso correli con il risultato positivo. In metafora, è come se Tu analizzassi ogni immagine reale in base alle sue componenti cromatiche: una volta stabilito che in ogni immagine vi sono quote componenti dei colori fondamentali (ed è cosa fattibilissima e logicamente coerentissima) c'è ancora molto da fare per stabilire cosa raffigurano le diverse immagini. In secondo luogo, che Tu non fai mai un'analisi concreta di una qualche procedura (per esempio la famosa interpretazione di transfert, oppure l'esposizione in vivo alla situazione ansiogena) applicando le Tue due dimensioni, per cui mi sembra che finora non abbia veramente messo alla prova la Tua asserzione che "ogni singolo atto terapeutico, quale che sia il metodo che il terapeuta dichiara di praticare, può essere inteso come una combinazione dei quattro modi cardinali...". B. In linea generale sono d'accordo con la Tua aggiunta all'intervento, anche perché, non avermene, mi ricorda ampiamente la mia metafora del pianoforte (+ altri strumenti). Ciò su cui però non sono d'accordo è che quella che Tu chiami "heuristic side" assurga a dimensione definiente, necessaria e inevitabile, ed anche connotativamente contrapposta ( a me sembra che il tutto riecheggi il tradizionale contrasto religioso tra <spirituale> e <materiale>), oltre che di pari importanza e di-gnità ("the synthetic, or phenomenological science") rispetto al punto di vista scientifico "galileiano". Tenderei cioè a vedere in termini più prosaici il Tuo lato euristico, e cioè come discostamento dalla prassi terapeutica prescritta, il quale non è di per sé un salto in un'altra dimensione del conoscere, in un qualcosa di essenzialmente diverso dal resto, in una dimensione spirituale, ma semplicemente una deviazione da un percorso prestabilito, che è una regola di significato generale, la quale va necessariamente adattata e interpretata quando si affronta il caso particolare. Non solo, questa regola generale tollera certamente delle deroghe ulteriori, non dettate dalla peculiarità del singolo caso, ma volte a migliorare il risultato della terapia, a misura che ogni psicoterapeuta aggiunge, in un a sorta di eterno affinamento tecnico, nuovi modi, nuove combinazioni, nuove comprensioni dei processi e dei background teorici. In questa prospettiva il discostamento dalla regola del manuale può diventare anche oggetto di ricerca empirica, potendosene dimostrare ad esempio l'utilità in certi casi clinici, o con certi particolari modi di attuarsi, o per certi tipi di terapeuta etc., e per converso l'inutilità, o anche la dannosità in altre circostanze. Anche qui v'è tra noi una certa assonanza, che vorrei cercare di sviluppare: Tu affermi infatti che "in una prospettiva dialettica, è bene che ((il terapeuta)) non sia *troppo* creativo". Ti poni quindi il problema della misura della deviazione dal manuale. Io ho annotato in margine a questa Tua affermazione <ma troppo quanto ?>. E la risposta può venire solo dalla ricerca empirica, l'unico metodo che permette di stabilire quando e a che conizioni il discostamento dal manuale sia un fattore terapeutico positivo o negativo, cioè, detto nei Tuoi termini, quando, a che condizioni, in quali casi, e in che misura, la divergenza dal manuale sia utile e necessaria. Ma così Tu vedi subito che questa trattazione laica della dimensione euristica ne ridimensiona drasticamente le connotazioni mistiche, pur ritenendone quella che anche per Te (così almeno mi sembra) ne è l'essenza, e cioè l'irriverenza 'antiscolastica' verso il manuale e la libera creatività del terapeuta. Rigore logico e verifica dei fatti (cioè scienza empirica) non significano quindi mortificazione della creatività. C. Questo discorso mi permette di tornare su un mio punto di vista passato, e cioè che il fare terapia ammette e richiede una dimensione euristica, creativa, artistica, anche se non mistica, nè spirituale nè religiosa. Ma il parlare di psico- terapia va fatto secondo criteri di scienza "galileiana", come ho cercato di dimostrare nel precedente capoverso. E a maggior ragione deve seguire criteri galileiani il parlare di diverse terapie per integrarle: è il metodo che permette di minimizzare le ambiguità, di ridurre i fraintendimenti, e di discriminare tra le ipotesi attraverso l'evidenza empirica. Ciò non significa certamente che anche qui non siano utili idee nuove e creative, ma esse devono comunque essere verificate in un percorso lineare e umil- mente scandito dalla coerenza logica e dal riferimento, ove necessario, all'evidenza empirica. D. Un'ultima cosa: molte volte la forte deviazione dalla regola, dal manuale, da ciò che viene raccomandato come più proficuo, non è creativo ma a-creativo e ripetitivo, ispirato dal transfert del terapeuta o dalle pressioni induttive del paziente. Di qui, anche, le tante cautele verso l'eterodossia. Giorgio Giovanni Liotti, 04 Aprile 2002: Caro Tullio, un cenno alla tua mail ("terapeuti e mammiferi"). Ti ringrazio per gli ulteriori chiarimenti: capisco sempre meglio, grazie ad essi, la tua posizione. La apprezzo, anche. Resto però dell'opinione che l'integrazione teorica, per quanto ritenuta impraticabile dagli esperti in integrazione, sia invece già in atto nei fatti, sia pure in modo iniziale ed incipiente. E' una integrazione teorica che non ha esponenti che se la prefiggano esplicitamente, ma che avviene per conto suo, grazie alla confutazione di alcune importanti teorie psicologiche, come le due che ho citato a Milano. E avviene anche grazie alla formulazione di nuove (e grazie al Cielo confutabili) teorie relazionali, le quali possono spiegare i "fattori comuni" che tanto ti interessano, attraverso l'indagine per congetture e confutazioni dei processi relazionali umani. Penso naturalmente alla teoria dell'attaccamento, alle teorie evoluzioniste sui sistemi motivazionali interpersonali, allo studio empirico dell'alleanza terapeutica (hai visto, naturalmente, l'ultimo libro di Lingiardi sull'argomento) e alle teorie neurobiologiche della relazione su cui stanno lavorando psicoterapeuti e neurobiologi di valore (i quali producono ottimi articoli e libri) come Kandell, Schore, Siegel, Panksepp e altri. Le congetture prodotte euristicamente sono a volte confutabili, a volte no. Quelle confutabili sono preferibili se si mira alla crescita di conoscenza integrata e tendenzialmente consensuale, come nella Scienza Occidentale (con tutto il rispetto per le "magie" orientali). Quelle non confutabili possono, come scrivi, avere uno straordinario valore, anche superiore a quello delle congetture confutabili, ma se sono fra loro incompatibili restano evidentemente non solo non integrabili, ma anche non passibili di scelta o di sintesi consensualmente fondate. La teoria della reincarnazione può giovare psicologicamente a molti induisti, credo, come la credenza nella resurrezione dell'individuo (senza reincarnazione in altri individui o in altri animali) può giovare a molti credenti delle tre Fedi monoteiste. Le due teorie però non sono integrabili, non sono dialetticamente sintetizzabili in una terza, e non è possibile selezionarne una come migliore dell'altra attraverso alcun metodo consensualmente validabile. Temo che lo stesso si possa dire per molte delle teorie inconfutabili prodotte da molti psicoterapeuti. In questo senso non ci può essere crescita di conoscenza comune e consensuale a partire da teorie inconfutabili. Non ci può essere "integrazione". Un inciso: ti ringrazio per avermi citato l'autorità di tanti epistemologi in disaccordo con Popper. Non volevo però appoggiarmi all'autorità di Popper per sostenere di avere ragione io. Volevo solo usare il suo linguaggio, che è particolarmente chiaro, per sostenere che il metodo sperimentale è fondamentale ed insostituibile per l'integrazione di diverse conoscenze e per la crescita consensuale delle stesse (mi va benissimo, per identificare il metodo sperimentale, il riferimento a Galileo che fa Giorgio: si può lasciare da parte Popper e pensare a Galileo, o forse persino a Francesco Bacone -- e già che ci siamo darei anche un poco di attenzione anche al vecchio Occam: "entia non sunt moltiplicanda praeter necessitatem"). Non rinuncio a ispirarmi all'arte, alla filosofia e agli scritti dei mistici nella mia vita e nella mia professione. Però questa ispirazione non ha a che fare con le conoscenze comuni di una disciplina in crescita come mi piace pensare che sia la psicoterapia. Potrei ispirarmi all'ebraismo, o al cristianesimo, e ciò nonostante concordare sulla teoria dell'attaccamento con un buddhista che faccia ricerca "occidentale" sull'attaccamento (ce ne sono): il buddhista ed io concorderemmo sui risultati della ricerca, e poi dissentiremmo sulla reincarnazione. Integreremmo le nostre prassi terapeutiche sulla base della teoria dell'attaccamento (bada che è solo un esempio), e ci contenteremmo di questa integrazione resa possibile dal procedere per congetture (euristiche, magari, ma confutabili) e confutazioni, mentre non pretenderemmo di integrare le nostre diverse visioni religiose (basate entrambe su congetture inconfutabili), o le nostre preferenze artistiche. Nella profonda comprensione del nostro -- inintegrabile, dialetticamente insintetizzabile ma dialogicamente comunicabile -- disaccordo, ti saluto con stima ed amicizia. Gianni Tullio Carere, 5 Aprile 2002: Caro Giorgio, ti ringrazio di queste ulteriori osservazioni, che mi permettono di chiarire meglio il mio pensiero.
L'ipotesi sottesa alla costruzione di questa mappa è che il grado di corrispondenza tra bisogni espressi dal paziente nella seduta e risposte del terapeuta si correli con la qualità del risultato. I bisogni dei pazienti possono essere intesi come una combinazione di quattro bisogni fondamentali (sicurezza, responsabilità, conoscenza, fede [=fiducia nel processo**]), mentre le risposte del terapeuta possono essere intese come una combinazione di quattro modi basilari (materno, paterno, scientifico, mistico-artistico). (** La capacità di suscitare nel paziente fiducia e speranza è uno dei primi fattori comuni descritti in letteratura, già negli anni Trenta). Raters indipendenti potrebbero valutare: 1. La qualità della seduta (buona, sufficiente, insufficiente). 2. I bisogni espressi dal paziente nella seduta. 3. Le risposte date dal terapeuta. Per esempio la siglatura M3, P1, K2, O1 per i bisogni del paziente significa bisogno di sicurezza alto, di responsabilizzazione basso, di conoscenza medio, di affidamento basso. Una siglatura M2, P1, K3, O1 per le risposte del terapeuta indicherebbe una corrispondenza alta, mentre una siglatura M1, P2, K1, O3 indicherebbe una corrispondenza bassa. Una buona correlazione tra esito della seduta e corrispondenza bisogni/risposte confermerebbe l'importanza dei fattori comuni, indipendentemente dal metodo specifico del terapeuta. Non avrei difficoltà a scrivere un manualetto per la siglatura di queste variabili, se vedessi la possibilità di realizzare questa ricerca. Come puoi capire, a una ricerca del genere dovrebbero lavorare diverse persone, da solo non potrei fare niente. Mi basta mostrare che una ricerca come questa è fattibilissima. In metafora, è come se Tu
Indubbiamente. Tuttavia, se si stabilisse che una buona corrispondenza tra bisogni basilari e risposte cardinali è significativamente correlata con la "buona seduta", indipendentemente dalle procedure impiegate, questo non esaurirebbe il discorso sulla terapia, d'accordo, ma offrirebbe una buona base su cui impiantarlo, non ti pare?
Con un esempio spero di chiarire perché ritengo le procedure specifiche secondarie rispetto alle procedure impropriamente dette "non specifiche", cioè ai fattori comuni. Una interpretazione psicoanalitica produrrà effetti diversi a seconda della sua "tonalità cromatica", cioè della sua qualità di risposta ai bisogni. Per es. una interpretazione in stile kohutiano, o una "holding interpretation", accentua l'intenzione rassicurante-convalidante (v. M); in un'interpretazione confrontativa classica, che mette il paziente di fronte alla realtà spiacevole che cerca di evitare (la "adversarial attitude" di Friedman - vedi il suo articolo su Psicoterapia e scienze umane, 1/2002) prevale il modo paterno; un'interpretazione veramente neutra, cioè priva di qualità rassicuranti o responsabilizzanti, come quella che si può dare quando si è stabilita una buona alleanza di lavoro, potrà anche essere di puro vertice K; un'interpretazione in stile junghiano o transpersonale, che mira a risvegliare la consapevolezza del nucleo centrale del sé (il "cuore della cipolla") appartiene al vertice O. Una interpretazione media combina di solito queste componenti in varie proporzioni. Esattamente lo stesso potrei dire di una tecnica comportamentale come ad es. il training di assertività. Un terapeuta "completo" dispone di procedure di tutti e quattro i vertici. Per esempio sa mettersi nel vertice materno, quando occorre, con diverse modalità, tra le quali sceglie quelle più consone al proprio temperamento e alle esigenze del paziente e del momento (dall'abbraccio terapeutico, alla holding interpretation, alla produzione di una varietà di esperienze correttive dentro e fuori la relazione di terapia). E' secondario se l'effetto "base sicura", che tende a produrre un'esperienza di "attaccamento sicuro", sia prodotto con modalità più psicoanalitiche o comportamentali o altro. Quello che conta è la qualità rassicurante-convalidante dell'intervento, non la sua matrice di scuola. Nel momento in cui il terapeuta decide di intervenire in un certo modo in risposta a quello che ha percepito come il bisogno prevalente del paziente in un momento dato, applica una "procedura", cioè sta sul versante procedurale di un dato vertice: procede in un modo determinato, tratto da una gamma di procedure a lui note e per lo più collaudate, con l'intenzione deliberata di produrre un determinato effetto: quello che mediamente ci si può attendere da un determinato intervento con una persona che presenta un determinato problema o ha un bisogno determinato. Raramente si tratterà di applicare una procedura "pura": il terapeuta esperto combina sul momento diverse procedure-colori per cercare di produrre quell'effetto particolare che la situazione particolare sembra richiedere. L'uso dei manuali è giustificato solo nella ricerca, quando è importante applicare una procedura nel modo più possibile puro per studiarne gli effetti. Nella terapia effettiva solo il terapeuta principiante o insicuro applica i manuali alla lettera. Va da sé, tuttavia, che l'intenzione del terapeuta di produrre una determinata esperienza può non corrispondere affatto al modo in cui l'intervento arriva al paziente. Io voglio rassicurare il paziente, e lui si sente preso in giro; cerco di confrontarlo con un conflitto, e lui va via tutto contento, perché finalmente qualcuno lo capisce. La procedura sta sul versante oggettivo della terapia, l'esperienza su quello soggettivo. Per cogliere l'esperienza del paziente (e la mia stessa), debbo dimenticare le procedure e le teorie su cui poggiano, e lasciare che la situazione relazionale del momento, nella sua unicità e complessità, mi dica quello che ha da dirmi. Sui due versanti si fronteggiano due tipi di scienza: oggettiva e procedurale la prima, soggettiva ed esperienziale la seconda. La prima dimostra sperimentalmente, la seconda mostra fenomenologicamente. La prima è tanto più valida quanto più rigorose sono le procedure sperimentali, la seconda lo è quanto più disciplinata è l'epoché dell'osservatore. Né l'una né l'altra sono scienze pure, poggiando entrambe su premesse metafisiche (paradigmi) che non sono in discussione, e spesso non sono nemmeno consapevoli. La prima è stata coltivata principalmente in ambito cognitivo e comportamentale, la seconda in ambito psicoanalitico e umanistico. L'articolazione dialettica tra i due modi di fare scienza è per me la chiave dell'integrazione psicoterapeutica. In ogni caso non vedo come si possa arrivare a un'integrazione tra due parti che continuano a cercare di imporre ciascuna l'egemonia della propria concezione di scienza.
No, non mi pongo il problema della deviazione dal manuale, perché ritengo che i manuali, utili per la ricerca, siano in generale deleteri per la terapia. A meno di non tenere presenti diversi manuali, consultandoli e utilizzandoli quando servono: ma allora il problema della deviazione non si pone. Dicevo che il terapeuta non deve essere troppo creativo intendendo che non deve farsi guidare troppo dall'ispirazione o dalla spontaneità (vertice O), senza riprendere continuamente la posizione conoscitiva (vertice K) per analizzare il significato e l'effetto dei suoi atti ispirati o spontanei. Ma in questo caso è soprattutto il versante euristico del vertice K che è utilizzato. In altre parole, dopo aver compiuto un gesto spontaneo, mi preoccuperò di capire come il paziente lo ha vissuto e in che modo la nostra relazione ne è stata influenzata. La ricerca empirica qui non mi serve molto.
La tua è una petitio principii: dire che "parlare di psicoterapia va fatto secondo criteri di scienza galileiana" equivale a dire che quasi tutta l'immensa letteratura psicoanalitica non parla di psicoterapia, ma di aria fritta. Dall'altro lato molti psicoanalisti, anzi la maggioranza, concorderebbero con te sul fatto che la psicoanalisi non parla di psicoterapia ma, appunto, di psicoanalisi (che sta alla prima come l'oro al metallo vile). Da quella parte della barricata, infatti, ci giunge la petitio principii opposta: la "vera" psicoterapia (cioè la psicoanalisi) non ha nulla a che fare con la scienza galileiana. Qui Gianni mi ricorderebbe il gruppo di Weiss e Sampson, le ricerche psicoanalitiche sull'attaccamento, la sua stessa collaborazione con lo psicoanalista Migone. Io potrei aggiungere che lo psicoanalista Kaechele, quando l'ho incontrato recentemente, mi ha parlato con ammirazione del cognitivista Liotti. Personalmente vedo con molto favore questa convergenza, di sicuro valore integrativo. Mi rammarico solo che questo approccio, sicuramente scientifico, sia considerato dai suoi fautori l'unico degno di essere detto scientifico. Ricordo uno scritto di Holt, messo in rete qualche anno fa da Paolo, in cui questo psicoanalista sosteneva che i procedimenti delle scienze siano sempre gli stessi - quelli della fisica e delle altre scienze "dure", naturalmente. (Riprendo un commento a quell'articolo, scritto a suo tempo). Per lui tutto lo scibile poteva e doveva essere conosciuto col metodo galileiano, che procede scomponendo gli oggetti nei loro elementi costitutivi, da intendere come "variabili analitiche astratte" (come sono ad esempio per un corpo fisico il peso, l'altezza, la densita') e successiva ricomposizione "rimettendo assieme i pezzi" cosi' ottenuti (questo sarebbe lo "sforzo sintetico" dello scienziato). Holt riconosceva che in psicologia purtroppo "non possediamo delle dimensioni definite unitarie come quelle della fisica e non abbiamo delle operazioni semplici e indiscutibili per misurarle come avviene con l'uso di un metro"; ma ribadiva che "comunque il principio è sempre lo stesso". Nel testo dell'articolo (1962, revisione 1978) e' ripetuta più volte la tesi centrale che "solo un concetto veramente astratto può rappresentare adeguatamente un individuo particolare", mentre il procedimento tipologico (basato sulla ricerca di tipi ideali o idealtipi) e' liquidato come illusorio e ingannevole. Nelle note piu' recenti (aggiunte nel 1998), tuttavia, Holt e' costretto a smentirsi:"Dopo alcuni decenni, mi sento meno incline a rifiutare concetti tipologici o a considerarli solo stazioni intermedie per raggiungere gli scopi analitici di un insieme di astrazioni. Seguendo Weiss (1969), ora direi che alcuni tipi sono tentativi di delineare modalita' ricorrenti di organizzazione dei sistemi, che non sono interamente riducibili alle loro componenti. Come minimo, i problemi sembrano molto più complicati oggi di quando scrissi questo articolo, e da allora ho scoperto che i concetti tipologici sono ampiamente usati nelle altre scienze, quelle 'dure'" (Nota 11). "L'analisi, anche se coadiuvata da uno sforzo sintetico di rimettere insieme i pezzi, non è abbastanza; l'analisi non fa male, ma non riesce a dire tutto quello di cui abbiamo bisogno. I sistemi devono essere descritti al loro proprio livello, non solo su quello dei propri elementi costitutivi" (Nota 13). Quelli che Holt chiama "concetti tipologici" corrispondono alle modalità di conoscenza qualitativa o euristica che per decenni Holt ha cercato di espungere da quella che per lui era la scienza vera e unica, la scienza galileiana. Alla fine ha dovuto arrendersi, senza per questo fare il passo successivo, di riconoscere la necessità dell'articolazione dialettica tra i due domini. Chissà se riusciremo a farlo noi, questo passo. Tullio Giorgio Gabriele Alberti, 5 Aprile 2002: Caro Gianni, ho finito di leggere, circa quattro minuti fa, il Tuo libro "Le opere della coscienza". Avrei moltissime cose da dirTi, ma lo farò man mano che mi verrà, magari dopo una qualche rilettura di certe parti. Per ora posso dirTi che l'ho trovato estremamente interessante, a tratti addirittura illuminante, ad esempio do- ve tratti della contiguità tra disturbi dissociativi, disturbo borderline e disturbo ossessivo-compulsivo. A tratti è, almeno per me, di notevole complessità, e proprio per questo penso già a una rilettura dopo un periodo di sedimentazione e maturazione. Due spunti, vorrei offrirTi, dato che nel testo non ne parli. Il primo riguarda la contiguità DBP-DID: Anthony Ryle, il collega londinese della Cogntive-Analytic Therapy (CAT) che avremo qui al S. Carlo il 17-4-2002, se ne è anche lui occupato entro la sua modellizzazione del DBP come switching repentino e immodulato di stati del sé di carattere reciproco, arrivando a usare misure dell'entità del disturbo dell'identità, da cui risulta che il DID è, per certi versi, una forma esasperata di quella discontinuità della coscienza che caratterizzerebbe il DBP. I riferimenti bibliografici sono:
Il secondo riguarda invece il concetto di complementarità della relazione interpersonale secondo Kiesler e poi Safran e Segal. Essi riprendono il concetto, ancora di Watzlawick Beavin e Jackson ("Pragmatica della comunicazione umana"), di definizione della relazione, e lo sviluppano nel senso di un suo carattere induttivo interpersonale, per cui assumere una certa posizione rispetto a un'altra persona implica che inevitabilmente (se non con l'eccezione di colui che è consapevole di tutto il processo in atto) l'altro deve assumere la posizione complementare. E individuano alcune, poche, coppie di posizioni complementari: amore induce amore, odio induce odio (ricomprese nella dimensione bipolare detta di affiliazione), e dominanza induce sottomissione, sottomissione induce dominanza (ricomprese nella dimensione bipolare detta del potere o dello status). Un'altra analoga dimensione relazionale quella dell'inclusione, cioè dell'importanza che uno riveste nella vita dell'altro, è stata avanzata da un altro autore, Schutz, nel 1958. Di queste cose puoi trovare dei riferimenti bibliografici nel mio libro, in cui, a p. 133 e segg., parlo di questo inquadramento delle relazioni, fondandovi poi sopra anche una spiegazione cognitivo- comportamentale dei fenomeni dell'identificazione proiettiva e dell'induzione di ruolo. Ma la cosa che mi ha impressionato è che queste dimensioni bipolari, in cui l'una posizione impone praticamente una risposta complementare all'altra persona, assomigliano grandemente ai Tuoi sistemi motivazionali interpersonali. Questi rivestono un identico carattere induttivo (Tu scrivi a p. 49 di "...innesco iniziale del sistema motivazionale complementare a quello attivo in chi ci interpella."), e presentano anche vere e proprie, anche se solo parziali, identità tematiche: ad esempio la dimensione dell'affiliazione (amore <=> amore, odio <=> odio) sembra composta per metà dal sistema dell'attaccamento o da quello sessuale, per l'altra metà dalla prima fase del sistema agonistico. E invece la dimensione dello status (dominanza <=> sottomissione) assomiglia molto alla fase finale della vicenda agonistica, quando le posizioni gerarchiche sono finalmente definite. Da tempo mi scervellavo a cercare di capire per quale arcana ragione l'assumere una certa posizione relazionale vincoli l'altro "naif" a una posizione complementare, e vagheggiavo condizionamenti sociali, timore di essere non conforme, ed altri motivi. Certo il fatto che questo effetto induttivo possa ricondursi a uno schema comportamentale/relazionale innato è molto attraente e in fin dei conti spiega le cose in modo elegante. Ci penserò ancora. Giorgio Paolo Migone, 5 Aprile 2002:
Caro Giorgio, non hai affatto annoiato per le tue riflessioni che ho trovato preziose. Così pure come sono stato arricchito del recente dibattito "post-congressuale" a cui purtroppo non sono riuscito a partecipare per mancanza di tempo, e forse non riuscirò neppure nei prossimi giorni. Mi limito a dire brevemente che, di nuovo, mi sento più in sintonia con te e Gianni più che con Tullio a proposito della questione della mistica e della dialettica. Ho l'impressione che vi sia sotto un fraintendimento riguardo alla impostazione dei problemi, cioè che la posizione di Tullio riguardi la fondazione della psicologia come disciplina scientifica, cioè così come si è andata formando nell'ultimo paio di secoli o giù di lì. Purtroppo non riesco ora ad approfondire il discorso ora. Ho particolarmente apprezzato, tra le tante, anche le tue osservazioni alla fine della tua mail del 3 aprile, quando dici:
Questa è una cosa ben nota in psicoanalisi (a proposito, non mi hai ancora detto dove di sei diplomato in psicoanalisi!), dove appunto viene sottolineato che a volte è un atteggiamento razionale che ci può aiutare ad uscire dalla ripetizione, e dove una empatia può non farci capire affatto l'altro, ma darci solo la illusione di capirlo, e così via. E' anche vero che può accadere il contrario, cioè che è l'atteggiamento razionale ad essere "difensivo" verso la conoscenza - e qui ha buon gioco Tullio nel sostenere che le due cose devono essere in rapporto dialettico - ma il dire che scienza e mistica (o conoscenza razionale ed empatia, ecc.) devono rapportarsi in modo dialettico tra di loro è esso stesso un ragionamento razionale, non mistico... Mi scuso ancora per la approssimazione delle mie osservazioni, e soprattutto per non essere entrato nel merito delle interessantissime osservazioni di Tullio sulle tesi dell'ultimo Holt contenute nel suo classico lavoro del 1962 (Individualità e generalizzazione nella psicologia della personalità. Journal of Personality, 1962, XXX, 3: 405-422, trad. it.: Bollettino di Psicologia Applicata, 1963, 57/58: 3-24, edizione su Internet: http://www.publinet.it/pol/ital/documig6.htm), scritto quando il giovane Holt si scontrava con l'allora sua maestro Gordon Allport, fautore dell'approccio idiografico e non nomotetico. Sarebbe però molto interessante a questo riguardo andare a vedere bene come lo psicoanalista Ben Rubinstein (il più caro amico di Bob Holt, e di cui curò l'opera omnia - Psychoanalysis and the Philosophy of Science. Collected Papers of Benjamin B. Rubinstein [1952-1983] (edited and annotated by R.R. Holt) (Psychological Issues, 62/63). Madison, CT: Int. Univ. Press, 1997) riuscì a risolvere la questione delle "due scienze", quella dell'uomo e quella della natura, dato che uno dei temi più importanti del lavoro di Rubinstein è il suo sforzo di comprendere il rapporto che c'è tra il mondo delle persone e il mondo degli organismi, evitando ogni tipo di confusione, come è mostrato dalle sue riflessioni sul significato di inconscio e sul rapporto corpo-mente. A questo proposito Rubinstein cercò anche di formulare un modello del funzionamento mentale che si basasse su un "linguaggio neutrale" che fosse fedele a entrambi i mondi. E' da tanto che mi ripropongo di leggere con attenzione quel saggio di Rubinstein del 1974, ma più volte ho dovuto arrendermi per la sua complessità. Chissà che un giorno, approfittando di un lungo viaggio in treno (ne faccio tanti anche in questo periodo), non riesca a leggerlo tutto. Paolo Giovanni Liotti, 06 Aprile 2002:
Il "vincolo" relazionale ad una posizione "complementare" che più mi interessa NON è quello che lega evoluzionisticamente la richiesta di cura (attaccamento) all'offerta di cura (accudimento), né tanto meno quello che pone dominanza e subordinazione in intrinseco accoppiamento strutturale (sistema agonistico), e neppure -- ancor meno!-- il reciproco corteggiamento, la reciproca seduzione ("amor che a nullo amato amar perdona"). La reciproca induzione di stati motivazionali "complementari" che più mi interessa è quella della cooperazione fra pari, che è ottenibile quando esiste un obiettivo congiunto (l'etologia suggerisce che se non c'è obiettivo congiunto non c'è MAI, negli animali e nell'uomo, pariteticità nella relazione né nella percezione interpersonale). In terapia, questa posizione paritetica e cooperativa la perseguo fin dalla prima seduta (ci sono "tecniche" precise per farlo), spesso momentaneamente la trovo insieme all'altro, e poi la perdo necessariamente. La perdo NECESSARIAMENTE, perché l'altro sofferente interpella il mo sistema dell'accudimento, l'altro "difeso" interpella il mio sistema agonistico, l'altra bella e desiderabile interpella il mio sistema sessuale (che per fortuna con l'età diviene sempre più facile da "mettere a dormire" in terapia). Infine, riconquisto pienamente la cooperazione fra pari alla fine della terapia, almeno quando la terapia va bene. E' questa la mia versione dell'alleanza terapeutica, del transfert positivo ineccepibile, del transfert-controtransfert erotico paritetico di cui parlano (ricordo bene i nomi?) gli psicanalisti Weigert, Trower e Serale, e anche la mia versione di ciò (mi sembra) a cui allude Tullio quando pensa ai fattori comuni che spiegano il "Dodo verdict". Come credo che tutto ciò operi nel produrre risultati terapeutici, lo ho scritto negli ultimi due capitoli (nell'ultimo in particolare) del mio libro precedente, "La dimensione interpersonale della coscienza", dedicato appunto alla relazione terapeutica. Il potere curativo della TENDENZA alla cooperazione fra pari nella relazione terapeutica costituisce uno dei due motivi principali del mio disaccordo con gli "assi cartesiani" di Tullio (l'altro è la faccenda del "lavoro in O" o degli stati mentali di tipo mistico-artistico, che secondo me DEVONO essere lasciati alla variabilità individuale e non prescritti come un "must" di quel particolare lavoro che, nella nostra comune cultura, indichiamo e studiamo sotto il termine "psicoterapia"). Poiché i troppi argomenti della discussione con Tullio non hanno lasciato spazio per nominarlo -- questo secondo tipo di disaccordo legato al problema della cooperazione -- colgo l'occasione per farne qui cenno, sperando per così dire di prendere due piccioni (l'interesse tuo e la diatriba con Tullio) con una fava. Tullio parla di una polarità "materna - paterna", e vi attribuisce evidentemente primaria importanza. Io penso che primaria importanza abbia lo sforzo ATTIVO E COSCIENTE (e persino manualizzabile!) di percepire nella relazione terapeutica una cooperazione fra pari, resa tale da un obiettivo congiunto. Quindi trovo che le posizioni "materne" e "paterne" del terapeuta contrassegnano solo stati relazionali TRANSITORI (e per ciò di secondaria importanza): stati di relazione resi necessari dalla sofferenza, ma da superare costantemente.
Di fronte allo "scandalo" di chi afferma che la cooperazione fra pari è una dimensione psicoterapeutica legittima ed indagabile (anche nelle terapie individuali e non solo in quelle di gruppo, e anche nelle terapie di pazienti gravi come i borderline), un legittimo e sensato tentativo di confutazione è di negarne la possibilità. Lo hanno fatto cari amici e stimatissimi colleghi, in lunghe discussioni con me. Li cito: Franco Paparo (psicoanalista, traduttore di Kohut), Maurizio Viaro (terapeuta familiare), Bruno Bara (terapeuta cognitivista). Nel libro mio che più amo, "La dimensione interpersonale della coscienza", ho cercato di accogliere in parte, ma anche di confutare, i loro argomenti. Una mia paziente un giorno, verso la fine del nostro lavoro congiunto, coniò questa metafora: "All'inizio non lo sapevo, La vedevo come uno che doveva salvarmi e basta, ma poi mi sono accorta che invece Lei era come una guida indiana. Io volevo andare il un territorio dove intuivo che sarei stata meglio, e Lei conosceva i rischi e le caratteristiche della strada per arrivarci. Anziché vederla sempre davanti a me per guidarmi, a tratti ho scoperto che camminavamo fianco a fianco. A volte era Lei e a volte io a farle notare per prima qualcosa di interessante oppure un pericolo in quello che, procedendo affiancati, avevamo entrambi davanti agli occhi. Ora, da un po' di tempo, siamo sempre fianco a fianco. Vuol dire che forse sono arrivata dove volevo?". Gianni Giorgio Gabriele Alberti, 7 Aprile 2002: Caro Tullio, le tue risposte alle mie critiche al Tuo saggio hanno evocato delle controargomentazioni da parte mia. Sembra proprio un processo infinito, e spero di non tediarTi. Ma visto che si prospetta una qualche forma di nostra ulteriore collaborazione penso che valga la pena di esprimere a pieno le rispettive e in parte divergenti posizioni. Giorgio Una postilla, in risposta a Paolo: io non ho esperienza di psicoanalisi, se non quella che mi deriva da (anche precoci) letture e da un periodo di (molto interessante) supervisione. Ho poi ripreso il mio primitivo interesse per la psicologia scientifica accademica (mi sono laureato in medicina con Cesa-Bianchi come relatore) ed ho fatto, dopo la specialità in psichiatria, una scuola di psicoterapia cognitivo-comportamentale. Ma anche questa identità non è scevra di macchie, in quanto nei contatti professionali ho imparato ad apprezzare anche orientamenti come quello relazionale-sistemico ed altri. Quindi sono alquanto eclettico, anche se tendo a fare dell'eclettismo cognitivo-comportamentale. Attachment di G.G. Alberti (7-4-2002): Risposta a Tullio, suo mail del 5-4-2002: Caro Tullio, ho letto con attenzione la Tua lettera del 5.4., e cercherò ora di risponderTi. Tu illustri in modo chiaro la Tua visione di una psicoterapia integrata, la quale prevede due dimensioni in base alle quali ogni atto terapeutico, di qualsivoglia matrice teorica, potrebbe essere definito, una precisa notazione secondo cui attribuire le coordinate definitorie di ogni atto, una chiara ipotesi – e cioè che quanto più elevata è la corrispondenza tra gli atti terapeutici e i bisogni terapeutici del paziente tanto migliore è il risultato della terapia - e addirittura un possibile esperimento volto a dimostrarla o a smentirla. Su questa Tua proposta ho da dire due cose. In primo luogo, resto dubbioso sulla esaustività delle due dimensioni: Tu dici: "I bisogni dei pazienti possono essere intesi come una combinazione di quattro bisogni fondamentali (sicurezza, responsabilità, conoscenza, fede (=fiducia nel processo), mentre le risposte del terapeuta possono essere intese come una combinazione di quattro modi basilari (materno, paterno, scientifico, mistico-artistico)." Ebbene, io non solo non ne sono convinto, e non riesco a sottrarmi alla sensazione che questa dichiarazione sia un po’ come "afferrata dall’aria" (traduzione dallo idiom tedesco "aus der Luft gegriffen", che mi pare illustri particolarmente bene la mia sensazione). Mi sembra cioè strano che con tutto ciò che sui bisogni dell’uomo è stato scritto Tu possa fare una dichiarazione di tale categoricità. D’altra parte, mi resta un altro dubbio, e cioè che anche se è perfettamente vero e plausibile che ogni atto terapeutico può essere definito secondo le due dimensioni, ciò non sia di grande aiuto, in quanto si tratta di due dimensioni, ovvero quattro fattori (infatti potrebbe anche trattarsi di fattori non collocati su due dimensioni, in contrapposizione polare) di carattere estremamente generale. Di qui la mia metafora sui colori, obiezione a cui non mi sembra Tu abbia risposto, appellandoti piuttosto al risultato della verifica empirica, che peraltro non c’è ancora. Intendevo dire, per fare un esempio, che tantissime situazioni hanno carattere paterno, cioè limitante, frustrante, confrontante, dall’interpretazione confrontativa che Tu citi alla prescrizione di esporsi a una situazione ansiogena o ad essere più assertivo, fino alla prescrizione di uscire la sera lasciando soli i bambini per ripristinare il confine tra le generazioni. Ma non credo che il comune aspetto paterno di queste procedure terapeutiche sia l’unica determinante del risultato terapeutico. Credo invece che lo specifico contenuto dell’interpretazione, la specifica conduzione dell’esperienza di esposizione e la sua elaborazione successiva, i modo e i tempi della attuazione della prescrizione sistemica, siano altrettanto se non più decisivi nel determinare il risultato. Per controprova, se Tu mettessi in atto verso tutti questi pazienti delle procedure paterne, molto paterne, ma prive di questi altri e più specifici ingredienti, tutta la "paternità" che avrai loro dato, io credo, non basterà a risolvere il loro problema. Se tutto ciò è vero, come io penso, credo si possa dire che al più la dimensione relazionale che Tu definisci "tonalità cromatica" ovvero "qualità di risposta al bisogno" sia un elemento aggiuntivo che facilita l’azione terapeutica delle singole procedure, che permette di distinguere se, quando e come le singole procedure debbano essere messe in atto ovvero omesse, al fine di aiutare il paziente, a fargli accettare il singolo intervento, o a non pregiudicare la continuità della terapia. In un certo senso, anche la "tonalità cromatica" diventa parte dell’articolazione procedurale della terapia, affinandola e precisandola. La seconda cosa che devo dire a proposito della Tua argomentazione riguarda il suo livello epistemologico. Tu infatti, sia nella formulazione che nella proposta della sua verifica sperimentale adotti a pieno e senza alcuna commistione mistica, il linguaggio della scienza galileiana. Sebbene io non creda – per i motivi che ho detto sopra – che il risultato conforterebbe le Tue aspettative, devo però ammettere che: a) hai formulato, popperianamente parlando, un’ipotesi falsificabile, b) l’hai enunciata in termini chiari e logicamente concatenati, c) individuando le situazioni in cui l’ipotesi sarebbe corroborata e quelle in cui sarebbe falsificata, e d) hai immaginato una concreta procedura sperimentale che a tali situazioni discriminanti potrebbe concretamente dare origine. Ora, perché dico tutto ciò? Perché è esattamente così che io mi immagino la ricerca sull’integrazione, cioè secondo un modo di procedere assolutamente rientrante nel paradigma della scienza empirica, e addirittura sperimentale. Ed anche perché ancor meno capisco perché Tu continui a sostenere che parlando di psicoterapie si deve dare uguale rilievo sia ai temi e modi di pensare della scienza galileiana sia a quelli propri del misticismo, quando Tu per primo adotti criteri di pensiero e azione tipicamente ed esclusivamente galileiani nel momento in cui Ti preme, con un passo verso la condivisione intersoggettiva della verifica, convincere un altro – me in questo caso – della bontà delle Tue ragioni. E’ evidente a questo punto, una volta di più, direi, che non posso consentire con la Tua convinzione circa l’esistenza di due tipi di scienza, oggettiva e procedurale da un lato, e soggettiva ed esperienziale dall’altro. Questi due tipi di conoscenza non sono eguali, in quanto la seconda non implica la verifica intersoggettiva, cioè l’appello all’evidenza, per cui più persone, ognuna indipendentemente dall’altra, si fanno un’idea della stessa cosa e confrontano poi le loro percezioni o conclusioni. E’ quello che Gianni ha ripetutamente richiamato come pubblicità della verifica scientifica, cosa che le cosiddette scienze esperienziali non solo non praticano ma rifuggono, dandosi paghe della pura immediata auteneticità dell’esperienza soggettiva. Tra l’altro, questa Tua parificazione delle due scienze Ti obbliga a un ulteriore passo che io non riesco a fare con Te: e cioè quella che Tu definisci "articolazione dialettica tra i due modi di fare scienza". Che io ricordi, lo stesso concetto di dialettica è estremamente controverso quanto al suo status di scientificità e di accettabilità logica, per cui mi sembra azzardato avvalersene per meglio spiegare una concatenazione di concetti già di per sé problematica. Capirai quindi anche perché, più concretamente, non possa condividere la Tua affermazione "In ogni caso, non vedo come si possa arrivare a un’integrazione tra due parti che continuano a cercare di imporre ciascuna l’egemonia della propria concezione di scienza". Posso – voglio - certamente accettare la necessità di conciliare diversi paradigmi patogenetici e terapeutici, con le loro rispettive prassi, ma non posso accettare l’integrazione tra modi diversi e antitetici di produrre la conoscenza, perché la loro commistione, pur ridefinita come una, a me non ben chiara, "articolazione dialettica", impedisce di produrre conoscenza. Mi sembra che Tu cada in un eccesso di unanimismo: non dobbiamo tenere insieme ad ogni costo le correnti di un partito – cosa che sarebbe magari comprensibile in vista del superiore e comune vantaggio del potere o del controllo dell’economia, ma produrre un ampliamento della conoscenza scientifica sulle psicoterapie: ma ciò non può avvenire se gli strumenti concettuali di base con cui vorremmo produrre tale conoscenza sono duplici, contraddittori, e quindi ambigui. E’ il famoso cane che si morde la coda, e questa strada non si può pensare possa portare ad alcunché di buono, se non tenere insieme persone che la pensano in modi radicalmente divergenti sulle basi fondamentali della loro comune (ma lo è veramente?) impresa. Noto nelle Tue argomentazioni un ricorrente scetticismo sulla scienza. Dici ad esempio "In altre parole, dopo aver compiuto un gesto spontaneo, mi preoccuperò di capire come il paziente lo ha vissuto e in che modo la nostra relazione ne è stata influenzata. La ricerca empirica qui non mi serve molto". Già qui non riesco a seguirTi, perché sebbene sia certamente vero che la Tua attività terapeutica non è una ricerca scientifica, come ogni altra attività terapeutica – per esempio la chirurgia addominale – essa si appoggia su nozioni, conoscenze, più o meno in forma di leggi universali o probabilistiche, che dalla scienza, più o meno empirica, derivano: pensa ad esempio quanto può essere importante per la comprensione del Tuo rapporto col Tuo paziente la conoscenza di fenomeni relazionali come quelli riferibili all’attaccamento o alla comunicazione umana, compresi tutti i registri del paraverbale etc. Scienza non vuol dire necessariamente lunghi esperimenti di trattamenti randomizzzati con sofisticati (e magari mistificanti) apparati statistici. Scienza vuol dire per me (e credo di non portare un’opinione isolata) anche sistematica e (il più possibile) oggettiva osservazione di fenomeni, separazione tra osservazioni e i costrutti teorici, rigore definitorio dei concetti teorici e concatenazioni logiche tra le singole asserzioni, oltre che appello all’evidenza per decidere quale tra le ipotesi in competizione meglio concordi con le osservazioni. Perciò non sono d’accordo quando dici che "…"parlare di psicoterapia va fatto secondo criteri di scienza galileiana" equivale a dire che quasi tutta l’immensa letteratura psicoanalitica non parla di psicoterapia, ma di aria fritta." In tutta la psicoanalisi, o in molta di essa, vi è, e vi è stato fin da Freud, pur con discutibile successo, un costante tentativo di collegare con procedimenti razionali i fatti osservati alle costruzioni teoriche, di cui ho letto interessantissimi tentativi di sistematizzazione (penso a Sullivan, a Rapaport, o ad Arieti). Il problema di molta psicoanalisi sta a mio vedere, se mai, in carenze nell’ampiezza delle osservazioni (Fisher e Greenberg hanno evidenziato che Freud ha creato i suoi edifici teorici sulla base dell’osservazione di circa 20 casi clinici, e basta), come anche nella scarsa attendibilità dell’analista come osservatore e del paziente come rievocatore di avvenimenti della sua infanzia (v. Gruenbaum, in Conte M. & Dazzi N., La verifica empirica in psicoanalisi. Bologna: Il Mulino, 1988). Infatti, l’introduzione di metodi più rigorosi (penso a Strupp, Luborsky, qui in Italia a Freni), con magari anche la registrazione delle sedute, ha permesso un significativo passo in avanti della conoscenza scientifica del processo terapeutico della psicoterapia di orientamento psicoanalitico. Basta pensare, di nuovo, alle ricerche di Luborsky sul CCRT. Quindi l’approccio scientifico basta pienamente per parlare rigorosamente delle psicoterapie e per cercare di forgiarne una integrazione. E tutto ciò non implica minimamente che ciò che per l’uno è una certa lunghezza d’onda per l’altro non possa continuare ad essere il colore rosso. Ma per l’integrazione, che è fatta tra psicoterapeuti e non è una attività psicoterapeutica in se stessa, basta che arriviamo a una simile o identica lunghezza d’onda, non si richiede una condivisione delle esperienze soggettive più intime. Questo è (forse) un requisito per una comunanza di fede religiosa, ma è del tutto superfluo per definire cosa abbiano di comune le diverse psicoterapie, e cosa convenga di ognuna ritenere e cosa lasciar perdere in una psicoterapia unitaria del futuro. Giorgio Giovanni Liotti, 07 Aprile 2002: Cari amici, il fatto che Giorgio, Paolo ed io siamo d'accordo su tanti temi connessi all'apprezzamento del metodo scientifico (che è ovviamente altra cosa rispetto ai risultati di singole ricerche), mentre Tullio invece sostiene una diversa opinione, può costituire uno spunto di riflessione in direzioni che finora non abbiamo esplorato. Pensando alle possibili implicazioni di questa diversità fra noi quattro, in direzioni di pensiero che non mi sembra abbiamo finora discusso a fondo (abbiamo cercato più che altro di convincerci l'un l'altro), mi è venuto in mente quanto segue: Forse Tullio cerca di rintracciare e definire l'Essenza della Psicoterapia con la P maiuscola, mentre per gli altri fra noi quattro la definizione di una tale "Essenza" non appare così importante. Mi sembra che il metodo scientifico -- in Biologia come in Chimica, Fisica, Psicologia, etc. -- non abbia come proprio obiettivo la definizione di alcuna Essenza (o Sostanza), ed anzi porti (tacitamente o no) a considerare la ricerca della precisa definizione di ogni Essenza (o Sostanza) un impaccio alla crescita della conoscenza. Se è così, allora capisco perché il bisogno di DEFINIRE cosa vi sia di assolutamente essenziale di un'attività umana, come è la psicoterapia, porti a diffidare del metodo scientifico nell'analisi di quell'attività. In altre parole: forse noi tre, Giorgio Paolo ed io, non sentiamo fortemente come Tullio questo bisogno di DEFINIRE, con le parole dei nostri saggi e delle nostre lettere, in una formula unitaria ed elegante, l'essenza della psicoterapia (citando l'incipit di "Ossi di Seppia": "Non chiederci la parola che squadri d'ogni lato/ l'animo nostro informe .../ ... Non chiederci la formula che mondi possa aprirti, / sì qualche storta sillaba e secca come un ramo..."). Di conseguenza, in modo "montaliano": (1) pensiamo che l'integrazione riguardi lo studio sistematico di singole idee-congetture e/o di singole prassi-procedure, (SINGOLE = "storte sillabe e secche come un ramo"); (2) riteniamo che psicoterapeuti di diversa formazione possano arrivare a ritenere valide o reciprocamente compatibili, etc. alcune di queste idee e prassi, sulla base di ricerche pubbliche e ripetibili; (3) arriviamo a considerare il metodo scientifico come l'unico che abbia fino ad oggi permesso un tale tipo di accordo pubblico basato su "evidences", mentre altri metodi suscitano evidentemente dibattiti e diatribe infinite e che si ripetono nei secoli. Proprio per questa ragione, perché forse noi tre non stiamo cercando di definire in una formula "integrativa" l'Essenza della Psicoterapia, non ci pare che l'aspetto "artistico" dell'esercizio quotidiano della psicoterapia possa essere messo in discussione dal tipo di integrazione a cui pensiamo, né men che meno che cercare il nostro tipo di integrazione equivalga alla vittoria di una particolare Scuola di psicoterapia sulle altre. Capisco però che, se invece, nel tentativo di perseguire l'integrazione, si cerca la formula per definire quale sia l'Essenza della psicoterapia al di là delle sue molteplici apparenze, da un lato diviene meno importante selezionare le idee e le prassi migliori (tanto, tutte le idee e le prassi sono manifestazioni della medesima Essenza), e dall'altro ci si prospetta il pericolo che una definizione "rivale" annulli la propria con la forza bruta (la forza dell'economia, della moda, della politica, o di quant'altro sia immaginabile, incluso l'innocente darwinismo). Se questa è l'origine profonda della differenza fra noi e Tullio su come intendere l'integrazione delle psicoterapie, non vedo come possiamo venirne a capo. Forse dobbiamo far riferimento alla Society for Psychotherapy Research (SPR) piuttosto che alla Society for the Exploration of Psychotherapy Integration (SEPI)? Approfitto, come al solito, per un ringraziamento relativo ad un'altra mail. Grazie, Paolo, per aver corretto i nomi su cui la mia memoria oscillava. Effettivamente "Trower" si riferiva ad una Lucia (Tower): ora ricordo bene il nome, Lucia, dell'autrice di cui anni fa lessi un bel saggio. E ovviamente si trattava di Searles (qui avevo semplicemente sbagliato a pestare sulla tastiera). Weigert mi sembra di ricordarlo citato da Searles in un suo saggio sull'amore edipico nel controtransfert. La citazione mi è rimasta impressa, perché faceva esplicito riferimento alla pariteticità, ed elencava le occasioni in cui "l'analista è in grado di trattare il paziente alla pari non essendovi più bisogno di lui come Super-Io ausiliario"(cito a memoria, ma è una di quelle frasi che, colpendomi per la loro forza quando le leggo la prima volta, poi mi restano impresse e anche a distanza di anni non vengono troppo distorte dai trucchi della memoria). Gianni Tullio Carere, 7 Aprile 2002: Caro Gianni, rispondo ad alcune delle questioni sollevate nei tuoi ultimi due messaggi. Tu citi le dottrine della reincarnazione e della resurrezione come esempi di teorie euristiche incompatibili, non confutabili e non utilizzabili per una crescita della conoscenza condivisa. Sono d'accordo. Infatti per me queste non sono evidenze euristiche, ma semplici credenze. Tanto le prime quanto le seconde rientrano nel calderone generico delle "cognizioni", con la differenza che le prime possono (e debbono) diventare patrimonio comune dell'umanità, mentre le seconde vanno lasciate a coloro che hanno bisogno di credere in qualcosa (con tutto il rispetto per questo bisogno). Tanto le religioni tradizionali, quanto le dottrine psicoanalitiche e psicoterapeutiche del secolo scorso sono delle misture spesso difficilmente districabili di evidenze euristiche e credenze. Tuttavia, separare il grano dell'evidenza euristica dal loglio della credenza (che, beninteso, è loglio solo se e in quanto pretende di avere valore di conoscenza) è di cruciale importanza per la costruzione di una scienza psicoterapeutica. Un esempio di evidenza euristica che accomuna trasversalmente diverse tradizioni? Eccolo: il principio evangelico secondo cui "chi vuole salvare la propria anima deve perderla", la dottrina buddhista del vuoto (sunyata), il principio socratico del non sapere come unico vero sapere, la "fede in O" di Bion. Seppure con sfumature diverse, è descritto in queste dottrine un "fattore comune" basilare, costitutivo di quello che io chiamo il "vertice O" del campo della terapia. La creazione di un vuoto (di sapere, di attaccamenti, di identità: non sapere nulla, non avere nulla, non essere nessuno) è il passaggio chiave ("catastrofico", come ricorda Bion) per giungere al vero sapere, al vero potere, al vero sé. Non tutte le terapie richiedono la frequentazione di questo vertice, ma in molte è indispensabile, soprattutto in un'epoca in cui le religioni tradizionali sanno parlare sempre meno all'uomo dell'occidente, il quale sempre di più (come già notava Binswanger) si rivolge (legittimamente) allo psicoterapeuta per una ricerca e un lavoro su di sé che in altri tempi avrebbe fatto con i mezzi e i procedimenti della religione. Infatti, dove può andare il laico non-credente a fare questo tipo di lavoro, se non da un laico non-credente come lui? E' vero che molti terapeuti sono essi stessi devoti di vari tipo di credo, e questo va benissimo per quei pazienti che hanno il bisogno complementare di trovare uno spazio chiesastico di loro gusto (freudiano, junghiano, positivistico, ecc). Ma con i credenti non si fa scienza. Ecco un punto su cui forse riusciremo a intenderci, ma su cui per il momento dobbiamo soprattutto registrare la nostra differenza: per me la condizione necessaria e sufficiente per accedere al terreno della scienza è la messa tra parentesi radicale di ogni credenza, per te è la formulazione di ipotesi falsificabili (per me le ipotesi falsificabili sono solo un aspetto, e non quello decisivo, del lavoro scientifico).
Sottoscrivo parola per parola quest'ultima citazione, non la precedente. Le posizioni "materne" e "paterne" del terapeuta non contrassegnano solo stati relazionali transitori, dal momento che ciò che li rende necessari non è solo una sofferenza transitoria, ma non di rado anche una condizione di immaturità del carattere che può richiedere (e spesso richiede) l'immersione prolungata in un ambito relazionale fornito dei fattori parentali che consentono quelle esperienze emotive correttive (accudimento, responsabilizzazione) di cui molti pazienti hanno un bisogno essenziale. Trattarli come bisogni di secondaria importanza, mettendo in primo piano l'esigenza di "superarli costantemente", può tradursi in una pressione ad abbandonare prematuramente la dipendenza, cioè prima che il paziente abbia effettivamente raggiunto un grado sufficiente di autonomia. Col risultato di ottenere un adattamento, piuttosto che un'effettiva crescita. E' vero che gli psicoanalisti con la dipendenza ci marciano sin troppo, ma a me sembra che i terapeuti CB mostrino in genere troppa fretta di raggiungere il livello di cooperazione adulta. I due assi del mio modello servono precisamente a questo: a indicare i due livelli, lasciando alla coppia terapeutica di decidere momento per momento su quale livello (o quale combinazione dei due livelli) interagire. E' chiaro che se possibile si deve privilegiare il livello della cooperazione, trascurando anche del tutto il livello reparenting, là dove non è necessario. Ma dovrebbe essere altrettanto chiaro che quando il paziente sollecita fortemente il nostro "sistema dell'accudimento", e/o il nostro "sistema agonistico" - essendo questa forte sollecitazione da intendersi come comunicazione di bisogni fondamentali e in una data fase della terapia prioritari - è questo il livello dell'interazione da privilegiare. Io parlo di terapia "vera" o "genuina" intendendo quella terapia che cerca sempre e comunque di essere risposta ai bisogni del paziente, non alle teorie del terapeuta. Se spesso (non sempre) gli psicoanalisti infantilizzano, e spesso (non sempre) i terapeuti CB adultizzano i pazienti, un modello che mette in relazione dialettica le due dimensioni, senza privilegiarne a priori alcuna, aiuta a correggere i pur inevitabili bias personali e di scuola. A questo proposito osservo che sin dalle prime formulazioni del mio modello l'asse verticale (O-K) è quello della cooperazione adulta, mentre l'asse orizzontale è quello del caregiving. Però a lungo ho usato per designarli i termini uncovering/remaking, asse della scoperta e asse della riparazione. Solo recentemente, anche grazie a te e a voi tre, mi si è chiarito il bias euristico implicito nel termine 'uncovering'. Stavo cercando un termine adeguato per sostituirlo, e ancora una volta mi arriva un suggerimento prezioso da te: "asse della cooperazione" può essere il modo migliore per designare il piano della terapia in cui paziente e terapeuta collaborano tra pari. Mi sembra che il termine vada proprio bene, perché è sufficientemente neutro da includere tanto il versante procedurale (in cui si lavora con ipotesi falsificabili, derivate dalla ricerca o prodotte ad hoc), tanto quello euristico (propriamente 'uncovering').
Vediamo: alla dialettica asse riparativo/asse cooperativo ho appena accennato. La ritengo fondamentale per evitare infantilizzazioni e adultizzazioni improprie. Sull'asse orizzontale si svolge la dialettica materno/paterna (ben vista dalla Linehan, che non per niente ha chiamato Dialectical Behavior Therapy il suo metodo). Quello verticale è il luogo della dialettica O/K, su cui dirò qualcosa più sotto. Ma la questione più intrigante, tra quelle che elenchi, riguarda il tema della sessualità-seduzione. Dove la mettiamo, in una prospettiva dialettica? Risposta: in parte sta sull'asse orizzontale, come vicenda edipica. Tra genitori e figli si stabiliscono normalmente forti tensioni erotiche che, se propriamente affrontate ed elaborate, contribuiscono in modo decisivo alla maturazione psicosessuale del figlio/figlia. Troppo spesso invece il genitore non è preparato a reggere questa tensione, che implica creare e mantenere uno spazio transizionale in cui la tensione erotica è trasformata in gioco e messa al servizio della crescita. Non riuscendo a creare questo spazio, il genitore si irrigidisce per paura di cadere in comportamenti incestuosi e allontana il figlio/figlia, con la conseguente compromissione del processo di crescita. In questi casi è naturale che il/la paziente cerchi di riattivare nella relazione terapeutica questa situazione, per recuperare quella parte di crescita che non ha potuto aver luogo normalmente (sottoponendo a test il terapeuta: vediamo se sarai capace di tollerare quello che mio padre/mia madre non ha saputo tollerare e gestire). Io purtroppo ho regolarmente fallito il test con pazienti omosessuali, per debolezza o eccessiva rimozione della mia componente omosessuale (nel senso che non sono mai riuscito ad attivare un minimo coinvolgimento erotico con pazienti maschi). Con le donne, invece, me la cavo piuttosto bene. Molte mie pazienti mi hanno espresso prima il loro disappunto, poi il loro sollievo, per non essere riuscite a sedurmi, in un contesto giocoso in cui si sentivano libere di scatenare tutta la loro carica seduttiva senza dover proteggere un padre troppo fragile: mi hanno sempre sentito come il padre capace di coinvolgimento erotico, ma sempre padrone di sé e capace di governare il processo in direzione maturativa. (Nota che qui non siamo su un piano di cooperazione: la paziente deve potersi sentire almeno per un certo tempo come una bambina/ragazzina irresponsabile, e lasciare tutta la responsabilità al terapeuta-adulto, per recuperare in tutta la sua intensità la vicenda infantile). Questo per quanto riguarda l'asse orizzontale. Ma la vicenda erotica ha un risvolto anche sull'asse verticale, come rapporto tra due adulti (mi limito al rapporto uomo-donna, l'unico di cui posso parlare per esperienza diretta). Ricordo che ne ho parlato con Paolo una sera a Bologna, due o tre anni fa. Io sostenevo che il coinvolgimento erotico in terapia sta tutto nella ripetizione della vicenda edipica, che deve essere riattualizzata e rielaborata. Paolo invece era dell'idea che ci potesse essere anche (e legittimamente) una componente di relazione adulta uomo-donna. Adesso posso riconoscere che aveva ragione lui, in quel momento non ci ero ancora arrivato (o meglio, non sapendo che cosa farne ero costretto a negarla). Ora ammetto questa componente, perché nel frattempo sono riuscito a collocarla nel campo della terapia (in precedenza mi sembrava che ammetterla volesse dire interagire secondo una modalità estranea alla terapia). Dove la metto? Nel vertice O, naturalmente: il vertice del mistico, del terapeuta in quanto mediatore dell'esperienza unitiva. C'è tutta una letteratura, che tu ben conosci, sul rapporto tra erotismo e mistica. Il maestro indiano il cui ashram ho per qualche tempo frequentato, vent'anni orsono, prendeva molto sul serio le pratiche tantriche che in quel contesto si svolgevano in un modo molto realistico, improponibile per le nostre terapie. Ma lì, e in altre scuole di orientamento psico-corporeo che ho frequentato, ho imparato anche la tecnica dell'abbraccio terapeutico, una tecnica davvero straordinaria (consiste, letteralmente, in un abbraccio, senza atti sessuali, senza baci o toccamenti impropri: semplicemente un abbraccio, ma prolungato anche per l'intera seduta). Nell'abbraccio uomo-donna, quindi tra due persone adulte responsabili e cooperanti, fermamente decise ad addomesticare la straordinaria potenza dell'eros per metterla al servizio della crescita personale, la relazione terapeuta-paziente diventa un vero vas alchemicum, in cui avviene un lento processo di combustione, sublimazione e generazione del "filius philosophorum". Conoscevo da molto tempo questo processo, sin dall'inizio direi (la mia prima analisi è stata con Silvia Montefoschi, analista junghiana, nei primi anni Settanta), ma non ero mai riuscito, fino a un paio d'anni fa, a collegare l'esperienza mistica al coinvolgimento erotico paritetico nella terapia, particolarmente in quel formidabile medium che è l'abbraccio terapeutico. Provare per credere. L'argomento del resto ti è familiare, nei termini del "transfert-controtransfert erotico paritetico" di cui parli in 7.1.3 della tua "Dimensione interpersonale", sulla scorta di Searles, Weigert e Tower (noto en passant che come in campo analitico piano piano si va affermando il concetto di relazione paritetica, anche il contatto corporeo comincia a non essere più identificato tout court con un agito - debbo a Paolo la segnalazione di un intero numero monografico, scaricabile dalla rete, di Psychoanalytic Inquiry sul contatto corporeo in psicoanalisi). Ma, oltre alla dialettica tra i due assi (che implica il non privilegiare a priori né l'uno né l'altro, ma trovare di momento in momento la giusta combinazione o sintesi delle due dimensioni del coinvolgimento erotico), qual è la dialettica propria dell'asse verticale? Se nel vertice O il bisogno è quello dell'esperienza unitiva, che ha il suo acme nel coinvolgimento erotico tra pari, va da sé che questo bisogno va continuamente collegato a quello opposto di prendere le distanze, recuperando un atteggiamento di sobria osservazione in cui cogliere il significato del processo in tutte le sue fasi, sia con modalità euristiche (insight), sia con ipotesi da vagliare (con l'ulteriore dialettica tra queste due modalità conoscitive). Se peraltro paziente e terapeuta si dedicassero in modo troppo diligente all'impresa conoscitiva, senza dare spazio sufficiente al modo opposto del lasciarsi andare, lasciarsi guidare dal processo, lasciarsi prendere dall'ispirazione o dal desiderio (diversi modi di declinare l'affidamento a O, al non sapere), la complicità difensiva di tipo epistemofilico tra terapeuta e paziente sarebbe sin troppo evidente. Spero davvero che questa discussione così ricca per me lo sia almeno un poco anche per te e per voi. Se no, dovrò accontentarmi di arricchirmi io. Tullio Giovanni Liotti, 09 Aprile 2002: Caro Tullio, ti scrivo più che altro per ringraziarti delle ulteriori delucidazioni sul tuo pensiero: non ho infatti il tempo per una risposta tanto estesa quanto vorrei, vista la mia nuova prossima partenza per una serie di seminari che devo ancora preparare. Sei anche tu molto impegnato nella attività di insegnamento della psicoterapia? Te lo chiedo di nuovo (te lo avevo già chiesto a Milano) perché mi sembra difficile insegnare a degli allievi come lavorare col tuo modello (per raggiungere uno stato mentale privo di memoria e desiderio, gli "allievi" delle Scuole mistiche impiegano spesso molti anni, mi sembra di aver capito dalle varie letture fatte, e lo considerano anche un processo non privo di pericoli; suppongo che sia ancor più problematico un tale apprendimento per gli allievi delle Scuole di psicoterapia, che in genere non hanno un Maestro di misticismo far i loro insegnanti). Io, ahimè, non so come entrare, da sveglio, in stati "privi di memoria e desiderio", e quindi non potrei comunque insegnarlo. Neppure ho mai abbracciato un paziente o una paziente, e insegno a tutti i miei allievi ad astenersi da ogni contatto fisico con i loro pazienti che non sia la stretta di mano. Così ho deciso di insegnare, sulla base del proverbio inglese, "better safe than sorry": così, se mi danno retta, i miei allievi magari perderanno i benefici terapeutici cui tu alludi, ma si proteggeranno e proteggeranno le loro pazienti dal rischio che l'abbraccio degeneri in un coito dentro o fuori dalla stanza della terapia (evenienza a cui certamente tu sai sfuggire, ma che come sai non è rara specie fra i terapeuti maschi novizi, e che è sempre traumatica per le pazienti, almeno stando alle ricerche che conosco). Ho avuto modo di parlare, in passato, con alcuni didatti di Scuole di terapia Gestalt, e mi hanno detto che i rapporti sessuali fra le pazienti e i giovani terapeuti loro allievi erano un serissimo problema, data la loro frequenza: era difficile per molti terapeuti "Gestalt" novizi, e per le loro pazienti, non eccitarsi sessualmente durante alcune delle tecniche "Gestalt" implicanti contatti corporei. Penso che la teoria e la prassi della psicoterapia debba essere insegnabile in tempi non lunghissimi (diciamo in quattro anni post-laurea?) agli aspiranti psicoterapeuti, e che sia anche indispensabile insegnare loro a proteggersi, e proteggere i loro pazienti, dai pericoli del mestiere. Mi sembra che anche questo, della didattica, sia un tema importante per la ricerca di integrazione in psicoterapia. Come conciliare questi limiti di tempo e di prudenza con insegnamenti di procedure piuttosto esoteriche come quelle implicate dal "vertice O" del tuo modello? E come essere certi che il risultato terapeutico di tecniche implicanti abbracci e altri contatti corporei, o di momenti di "sospensione di memoria e desiderio", sia superiore a quello che si ottiene con modelli alieni da ogni interesse per l'esoterismo mistico, e tendenti a scoraggiare il contatto corporeo, come sono molti modelli psicoanalitici e molti modelli cognitivo-comportamentali? Bisognerebbe fare ricerca al riguardo, ma la ricerca richiede procedure manualizzabili, e il lavoro nel vertice "O" non lo è, a meno che nel vertice "O" tu non includa la tecnica della mindfulness impiegata da Linehan, o le tecniche di training autogeno e di bio-feed-back, o forse l'induzione di trance ipnotica (personalmente, non uso più nessuna di queste tecniche da molti anni, e non mi trovo male per questa rinuncia, né mi sembra che si trovino male i miei allievi a cui pure suggerisco di rinunciarvi). Inoltre, mi sembra che non ci siano ricerche comparate sull'efficacia (o la dannosità) di tecniche terapeutiche che prevedano abbracci o altri contatti corporei fra terapeuti e pazienti. Ci sono solo studi sulla notevole frequenza di danni gravi come conseguenza dei rapporti sessuali fra pazienti e terapeuti. Sono contento, rispetto ai nostri molti punti di dissenso, di leggere quello che scrivi sulla relazione cooperativa e paritetica, da te assimilata a quanto accade nella relazione terapeutica mentre il terapeuta lavora secondo l'asse K - O. Scoprire che entrambi apprezziamo così tanto l'importanza di momenti di cooperazione fra pari in terapia, mi fa davvero piacere. Trovo però necessario ribadire quello che ti ho già scritto nella mia mail precedente, spedita pochi minuti prima di leggere questa tua ultima: contrariamente a quanto scrivi nelle prime righe, io non sono alla ricerca di una Grande Teoria Generale della psicoterapia, ma solo di molte piccole teorie. Alle piccole teorie chiedo che si siano rivelate compatibili fra loro (anche se derivanti da diverse Scuole), sulla base dell'essere tutte state sottoposte a varie forme di vaglio sperimentale (teorie sulle forme basilari di motivazione alla relazione, teoria dell'attaccamento, control-mastery theory di Weiss & Sampson, teorie della memoria in relazione ai traumi, teorie che spieghino la genesi degli stati alterati di coscienza, teorie dei rapporti fra processi cognitivi e processi emozionali, teorie sui nuclei centrali delle diverse sindromi psicopatologiche, e così via). "Tante piccole teorie" mi permettono di rispondere a molti bisogni dei miei pazienti, ma non a quello, cui tu dai tanta importanza nella psicoterapia contemporanea, della Ricerca della Verità Assoluta. A simili bisogni "religiosi" dei miei pazienti, rispondo con rispetto, li incoraggio ad approfondirli nelle sedi che a loro sembrino oneste ed opportune, ma non rispondo io. Rispondo solo alla loro eventuale richiesta di come io, personalmente, mi ponga di fronte a problemi religiosi (e per scegliere se rispondere o no mi attengo alla letteratura su quando sai utile la self-disclosure dello psicoterapeuta), ma dico anche che per il resto devono rivolgersi ad altri (preti, rabbini, mullah, gruppi buddhisti, guru indiani, maestri zen e quanto altro di non palesemente truffaldino sia disponibile). Non so se questa differenza fra noi, tante volte ribadita, sia conciliabile con un progetto comune di ricerca di integrazione. Certamente, e il nostro scambio di corrispondenza ne è indizio forte, sembra compatibile con un dialogo di confronto. Gianni Tullio Carere, 10 Aprile 2002: Cari amici, per una curiosa concatenazione di eventi mi sono trovato a vivere due storie molto simili, una dopo l'altra, ma a parti rovesciate. In entrambe le storie mi sono trovato a dibattere animatamente, anche appassionatamente, con tre colleghi. In entrambi i casi mi sono trovato da solo da una parte con tutti e tre dall'altra, e alla fine ho dovuto arrendermi all'impossibilità di trovare un minimo spiraglio di mediazione. La seconda storia la conoscete bene: è la nostra. Dei miei primi tre interlocutori ne avete incontrati due recentemente: Sergio Benvenuto e Diego Napolitani; il terzo era Sergio Contardi, lacaniano. Tutti e tre psicoanalisti di area "JEP" (Journal of European Psychoanalysis), in cui sono entrato anch'io per circa un anno. Ci sono naturalmente, tra questi analisti, molte differenze, ma anche molte affinità. In particolare la concezione della psicoanalisi come pratica di "formazione", cioè di crescita personale e spirituale, da tenere ben distinta dalla "psicoterapia", pratica diretta alla risoluzione di problemi e alla cura di disturbi mediante procedure empiricamente supportate, secondo i dettami del modello medico. Come potete immaginare, io ero pienamente in sintonia con loro sul concetto di terapia come formazione personale (la si chiami psicoanalisi o come si preferisce), ma rifiutavo la netta demarcazione con l'aspetto più propriamente terapeutico, secondo il modello medico. Per me, naturalmente, tra i due aspetti c'è una correlazione dialettica: a volte un lavoro finalizzato all'autoconoscenza porta alla risoluzione di problemi o disturbi, altre volte è il lavoro sul disturbo ad avere un effetto maturativo (correlazione tattico/strategica). Un'eco di questo dibattito, e più in generale delle discussioni avute con questo gruppo, si trova nel mio lavoro "The logic of the therapeutic relationship" pubblicato sull'ultimo numero di JEP, che si può leggere in rete all'indirizzo http://www.psychomedia.it/jep. Ciò che per i primi tre colleghi è fumo negli occhi (la validazione di singole congetture e procedure sulla base di ricerche pubbliche e ripetibili) sembra essere l'unica cosa che conta per voi, mentre a voi sembrano fumisterie le questioni che stanno a cuore a loro. Io capivo il loro punto di vista: la validazione di singole congetture o procedure è utile solo se poi la terapia viene condotta seguendo gli stessi manuali che sono stati utilizzati per la ricerca, quindi necessariamente per terapie brevi e focalizzate. Nella terapia di formazione, centrata sulla persona e non sul problema o sul sintomo, a fuoco variabile e senza limiti di tempo, che si svolge in un contesto molto privato e irripetibile, tutti i risultati delle ricerche pubbliche e ripetibili hanno un'applicazione molto bassa o nulla. A meno, naturalmente, di non introdurre la dialettica terapia centrata sulla formazione/terapia centrata sul problema o sul sintomo: in questo caso le ricerche empiriche una certa applicazione l'avrebbero, anche se problematica (per es. il trattamento di un determinato sintomo nell'ambito di una terapia di formazione dovrebbe tener conto delle indicazioni della ricerca e considerare l'opportunità di applicare una certa procedura, ma in modo molto elastico, solo come indicazione generica: il significato di una determinata procedura varia enormemente in una terapia euristica, mentre mantiene una relativa costanza solo nelle terapie manualizzate o stereotipate [Peterfreund] - salvo che le terapie stereotipate sono teoreticamente abusive, a meno che non siano brevi e focalizzate). La dialettica procedurale/euristica obbligherebbe ad affrontare il nodo altamente problematico e ben lontano dall'essere risolto dell'utilizzazione delle ricerche empiriche nella terapia che cerca di conciliare le due dimensioni. Ma questa dialettica è stata costantemente e recisamente rifiutata da una parte e dall'altra. Per accettarla, ciascuna delle due parti avrebbe dovuto mettersi nei panni dell'altra, ma nessuna delle due lo ha fatto. Entrambe le parti si sono limitate a ignorare o denigrare l'altra. Sulla base dell'affinità che sentivo per gli uni e per gli altri, essendo ciascuno dei due gruppi in sintonia con una metà dei miei interessi, mi ero illuso di poter fare da ponte tra i due mondi. Ritenevo anzi che questo fosse un mio preciso compito, in quanto coordinatore nazionale SEPI, tanto che cinque su sei di loro li ho invitati al congresso di Milano. Alla fine molto a malincuore debbo dare ragione a Benvenuto: nessuno si è spostato di una virgola dalle sue posizioni di partenza. Tullio P.S.: Almeno su una cosa, a quanto pare, i due gruppi concordano: sul rifiuto dell'approccio psico-corporeo. Per parte mia, mi limito a trovare impropria la giustificazione del rifiuto col pericolo di trasgressioni sessuali. A me sembra vero il contrario. Abusi sessuali sulle pazienti sono piuttosto frequenti (anche se non così frequenti e così traumatici come gli abusi teoretici, secondo il mio amico Mike Basseches), e certamente non sono meno frequenti (anzi) in quelle scuole che vietano categoricamente il contatto corporeo. Tra gli psicoanalisti, in particolare, l'abuso sessuale è maledettamente frequente perché non si tratta di scivoloni giovanili, essendo gli psicoanalisti didatti a darne l'esempio (vedi Gabbard et al., Boundary violations by training analysts, JAPA 49, 2, 2001). Ai miei pochi allievi ho sempre insegnato l'approccio corporeo e non c'è mai stato il minimo incidente. Domanda retorica: è più facile che ceda alla tentazione un terapeuta cui si è sempre raccomandato di non avvicinarsi all'oggetto del desiderio, o uno cui è stato impartito un addestramento a padroneggiare l'istinto con avvicinamenti graduali? Altre domande: Non è più o meno lo stesso principio della tecnica di desensibilizzazione sistematica, se equipariamo la paura di perdere il controllo a una fobia? Inversamente, l'ammonizione a stare alla larga dall'oggetto desiderato/temuto non ha l'effetto di indebolire ulteriormente l'apparato di controllo, come qualsiasi funzione non esercitata? Non sono concetti elementari di ordine cognitivo-comportamentale? E, già che ci sono, un'ultima domanda: chi suggerisce ai terapeuti di non abbracciare le pazienti per il pericolo di abuso sessuale, by the same token non dovrebbe suggerire anche ai padri di non abbracciare le figlie, vista la frequenza degli episodi incestuosi? Tullio Carere, 11 Aprile 2002: Cari amici, agli amici americani che mi hanno chiesto di assumermi questo incarico ho detto chiaramente che lo assumevo con riserva: lo avrei mantenuto solo se fossi riuscito a raccogliere almeno un primo nucleo di persone impegnate in un progetto SEPI (chi mi ha preceduto ha mantenuto per anni l'incarico senza combinare nulla, e non voleva mollarlo). La "E" della sigla, come sapete, sta per "exploration". Un associato SEPI è un esploratore, non un ricercatore empirico (per i ricercatori empirici c'è l'SPR, ma nessuno di noi lo è, mi sembra). Purtroppo, come ha scritto Paolo da qualche parte, oggi nel nostro campo la parola ricerca è diventata sinonimo di ricerca empirica. Mentre, come ha ricordato Freni al congresso, accanto alla ricerca empirica e prima di questa c'è la ricerca euristica. L'exploration è un'attività più vicina alla ricerca euristica che a quella empirica. Un esempio di ricercatore euristico? Non cerchiamo tanto lontano: Giorgio Alberti. Giorgio ha osservato che autori diversi, appartenenti sia al campo CB che a quello PSA, hanno suggerito risposte simili alle pressioni induttive dei pazienti, e ha notato che anche le ipotesi patogenetiche sottostanti sono simili (uno schema relazionale introiettato nell'infanzia genera pressioni sulle relazioni attuali tese a confermare le aspettative arcaiche). La ricerca euristica consiste precisamente in questo: nel cogliere e descrivere le regolarità del campo, le strutture ricorrenti, i nuclei comuni di procedure appartenenti a metodiche differenti. La stessa cosa faccio io: per esempio chiamo "vertice materno" la procedura consistente nell'offrire uno spazio rassicurante e validante all'interno della relazione. Giorgio però si muove anche su linee differenti. Per esempio la sua "integrazione procedurale", che si propone di individuare una serie di procedure efficaci per aree problematiche specifiche, mi sembra molto simile al modo in cui si muove Gianni. Le "tessere integrative" di Giorgio mi sembrano corrispondere esattamente alle "piccole teorie" di Gianni. Entrambi seguono il procedimento galileiano raccomandato dal giovane Holt (vedi mio mail del 5 aprile), che consiste nello scomporre un oggetto complesso (la psicoterapia) nei suoi 'componenti attivi' (le procedure efficaci), con successiva ricomposizione, immaginando cioè che rimettendo assieme i componenti isolati si ottenga l'oggetto totale, purificato da materiali inerti o dannosi presenti nella miscela originaria. Dopo diversi decenni di fedeltà galileiana, tuttavia, il vecchio Holt ha dovuto arrendersi e riconoscere l'esistenza di "modalita' ricorrenti di organizzazione dei sistemi, che non sono interamente riducibili alle loro componenti." Spero che anche Giorgio e Gianni riconoscano, prima di essere troppo vecchi, che le forme complesse della psicoterapia non sono riducibili alla sommatoria di tessere integrative o piccole teorie. Io per parte mia riconosco sin d'ora che questo sforzo galileiano non è comunque privo di utilità (anche se non è di nostra competenza: è cosa per ricercatori empirici, come noi non siamo). La 'singola congettura' o la 'singola procedura' sono troppo dipendenti dal contesto, nella terapia reale, perché abbia molto senso studiarle indipendentemente da questo. Di qui il mio costante, e finora completamente inutile, richiamo a una dialettica tra la parte e il tutto (tra l'analisi e la sintesi, tra formazione e problem-solving, tra metodo galileiano e metodo euristico).
In quel mail ho voluto mostrarti che il mio modello euristico può essere tradotto in congettura confutabile e sottoposto a verifica sperimentale, volendo (vertice O incluso). Però sono ben lontano dall'avere i mezzi per eseguire ricerche del genere, che come sai sono molto dispendiose: secondo gli standard attuali, diversi ricercatori dovrebbero lavorarci a tempo pieno non so quanto a lungo. Mi sembra inutile progettare ricerche che non saremo mai in grado di eseguire, e che nessuno eseguirà per noi. Guardiamo in faccia la realtà: quello che noi possiamo fare è ricerca euristica, non ricerca sperimentale. Se i modelli che costruiremo saranno abbastanza buoni e convincenti, forse qualche ricercatore sperimentale deciderà di testarli empiricamente. Se pensassi che quella è la cosa veramente importante, farei il ricercatore sperimentale, non il clinico e ricercatore euristico. A ciascuno il suo. E a ciascuno la sua società. Ai ricercatori sperimentali l'SPR, agli euristici la SEPI. Senza complessi di inferiorità. Tullio Giovanni Liotti, 11 Aprile 2002: Cari amici, il perdurante disaccordo non dovrebbe essere considerato un fallimento per chi si interessa ai temi dell'integrazione. A meno che non si voglia effettuare l'integrazione attraverso il successo di un personale sforzo di sintesi onnicomprensiva (che permetta di mettere a punto una teoria generale ed unitaria in cui tutti gli psicoterapeuti necessariamente si riconoscano) il disaccordo espresso e ribadito è, mi sembra, il modo migliore per evidenziare i nodi cruciali all'interno della miriade di aspetti problematici e controversi nell'intricata matassa del nostro lavoro. Una volta identificati questi nodi, si vedrà se e in che misura è possibile scioglierli. Fra i nodi che abbiamo insieme identificato attraverso il nostro disaccordo insanabile, mi sembra che il ruolo del contatto fisico in psicoterapia (positivo o pericoloso?), e della risposta ai desideri umani di una Verità Assoluta tradizionalmente oggetto delle Religioni e del misticismo (lo psicoterapeuta fa bene a rispondervi, o solo a riconoscerli e ad invitare il paziente a ricogliere altrove la sua ricerca?) potrebbero forse essere ritenuti cruciali. Non credo che sia nostro compito trovare una risposta che ci trovi tutti d'accordo, né che senza tale accordo la riflessione sull'integrazione sia inutile e vuota.
P.S.: Interessante l'accordo fra i due gruppi fra loro "non-dialoganti" interpellati da Tullio, sul tema degli abbracci del terapeuta al paziente. Può darsi che i non-dialoganti rifiutino tutti insieme e concordemente l'equiparazione della diade terapeuta-paziente alla diade padre-figlia, e del rischio della sessualità agita in psicoterapia al rischio dell'incesto. Su un punto almeno, ed un punto non irrilevante, tu, Tullio, sei dunque riuscito a trovare un indizio di accordo maggioritario, sia pure al prezzo di trovarti bersagliato, come dici nel tuo Post Scriptum, dalle critiche concordi dei due peraltro opposti "partiti". Ti sembra davvero poco? Paolo Migone, 11 Aprile 2002: Vorrei dire un'altra cosa in favore di Tullio, sulla questione del toccare i pazienti. Io ho sempre pensato che a rigor di logica lui ha ragione, nel senso che "in teoria" il toccare è un comportamento come un altro, e sarebbe moralistico (oltre che non scientifico e non logico) trattare questo comportamento come diverso, che ne so, dal parlare. Di fatto certe interpretazioni possono fare molto più male del toccare, è persino inutile ricordarlo. E poi non bisogna scordare la questione transculturale e storica, nel senso che il toccare può significare una cosa qui da noi, ma un'altra in un altro continente e in un altro paese (o in un'altra sottocultura psicoterapeutica, ad esempio in una palestra dove si pratica istituzionalmente una terapia corporea). Noi poi tocchiamo sempre i pazienti, se non altro perché stringiamo la mano a inizio e fine seduta, quindi la psicoanalisi è anche "corporea". Ad esempio io ho notato che mentre in Europa si stringe la mano, in USA non usa (scusate il gioco di parole). Il mio analista in USA non mi stringeva mai la mano, perché là non usava. Infatti una volta, dopo una seduta molto difficile (non sto qui a raccontare), lui mi ha salutato stingendomi la mano, e personalmente non ho dubbi che quel gesto ha avuto un significato su di me, un impatto, ben più grande di un abbraccio dato da Tullio a uno dei suoi pazienti! Ricordo che uscii da quella seduta con un senso di potente benessere. Quello che voglio dire, insomma, è che ogni gesto assume significato alla luce del contesto in cui avviene, e della cultura di appartenenza e delle aspettative. Tra l'altro, quel mio analista, che era un "classico" (abbastanza silenzioso ecc.) ma nel contempo molto attento alla relazione (cioè era un bravo analista), non esitava a stare comodo in seduta, a togliersi le scarpe quando gli piaceva, e farsi il tè durante la seduta e ad offrirmelo senza problemi se lo volevo. Tutte cose che agli analisti italiani stupidi del tempo avrebbero fatto storcere il naso, mentre in USA non importava a nessuno. E anche lo stesso Eissler (quello del parametro, del 1953, vedi http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/eiss53-1.htm), come mi raccontava un amico in analisi da lui, non esitava a offrire il tè in seduta. Tutta questione di culture e basta, niente da stupirsi. Solo chi non ha capito come è stata trasmessa (e non compresa) la tecnica psicoanalitica nel corso del secolo, diventando stereotipia cioè una pratica sacrale, ossificata, si stupisce di fronte a queste cose (vedi, tra i molti esempi, quei tanti analisti milanesi che tengono il tavolo di fronte alla loro sedia e non di lato o dietro, perché lo hanno appreso per identificazione - ma senza saperlo consciamente - da Musatti che faceva così, e dato che Musatti è stato un po' il padre spirituale di molti, la tecnica si è diffusa, si doveva fare così per sentirsi veri analisti). Il discorso sarebbe lungo. Ma per tornare al toccare i pazienti, io ho sempre detto che non li tocco perché "io" non me la sento, cioè nella mia cultura faccio fatica a dissociare questo comportamento dal sesso, o da qualcosa comunque che farebbe confusione. Tendo sempre a pensare che la richiesta dei pazienti di toccarli o abbracciarli sia un test alla Weiss & Sampson in cui loro sperano inconsciamente che io non li abbracci così supero il test e loro possono poi fidarsi di me. Ma questa è solo una ipotesi come un'altra, e magari è sbagliata e ha ragione Tullio. Questo è secondario, l'importante è che ci intendiamo sulla logica sottostante, cioè sulla importanza di evitare di scivolare in logiche moralistiche, o in tecniche stereotipate in cui si è perso il legame con la teoria. Paolo Giorgio Gabriele Alberti, 11 Aprile 2002: Caro Tullio, e cari amici della "cerchia ristretta", sempre meno capisco perché disputiamo e sempre più penso che tu, Tullio, abbia una qualche settore del Tuo cuore che è impermeabile alle argomentazioni che Ti vengono portate. Il tema, in un'estrema sintesi, mi sembra quello del metodo con cui un percorso verso l'integrazione possa essere fatto. Tu insisti, e lo fai anche nel Tuo ultimo mail, su una netta distinzione tra ricerca euristica e ricerca empirica: "Un associato SEPI è un esploratore, non un ricercatore empirico (per i ricercatori empirici c'è l'SPR, ma nessuno di noi lo è, mi sembra). Purtroppo, come ha scritto Paolo da qualche parte, oggi nel nostro campo la parola ricerca è diventata sinonimo di ricerca empirica." Tu dici: "Io per parte mia riconosco sin d'ora che questo sforzo galileiano non è comunque privo di utilità (anche se non è di nostra competenza: è cosa per ricercatori empirici, come noi non siamo)". Il problema nasce quando porti me come esempio di ricercatore euristico. Si dà il caso che anche io abbia un'idea su cosa sia la mia ricerca, in generale e nel caso particolare della convergenza tra le cinque psicoterapie sui processi patogenetici induttivi e sulle relative procedure terapeutiche correttive. Ebbene, io non penso come Te, ma non perché non riconosco che fino a questo punto la mia ricerca non è empirica o sperimentale. Di questo mi rendo ben conto. Ma la concepisco, ed è ciò che non ci trova d'accordo, come una parte di un progetto più ampio che potrebbe o potrà eventualmente avere anche una estensione empirica. Ciò dico esplicitamente nella mia relazione, a p. 9, a proposito dei modelli patogenetici comuni: "Ovviamente abbiamo a che fare con un'ipotesi che andrebbe testata in specifiche ricerche comparative di esito e di processo". Quindi, direi che nelle nostre enunciazioni di principio divergiamo nettamente quanto al metodo della futura ricerca: Tu tratti con sufficienza la ricerca empirica e Te ne astieni ritenendola un compito non Tuo. Io invece considero la mia ricerca per ora solo teorica, come premessa a un'eventuale ricerca empirica (che eventualmente faranno altri), ma anche, in una sua aggiornata versione futura, come una conseguenza di ricerche empiriche che forse nel frattempo saranno intervenute. Questo mio "programma" (in senso ovviamente molto lato) si ispira al concetto cattelliano di spirale induttivo-ipotetico-deduttiva, che prevede un'interazione tra ipotizzazione teorica e ricerca empirica, un moto di va e vieni tra queste due attività, in cui le ipotesi ispirano le osservazioni (più o meno sperimentali) e le osservazioni correggono o ampliano le ipotesi, in un percorso che porta a teorie sempre più rispondenti alla realtà e sempre meglio confermate dalle osservazioni. In una parola, per me euristica e empiria sono complementari e virtuosamente sinergiche, entro un unico metodo di ricerca della conoscenza. Per Te sono invece due metodi conoscitivi del tutto diversi e caratterizzati, per di più, da un diverso valore. Ora, fin qui, al di là della nostra divergenza sul metodo (che però non è così trascurabile nella prospettiva di una società scientifica) tutto procede con chiarezza. Dove le cose mi si annebbiano è nel punto in cui Tu riconosci che neanche Tu saresti poi così alieno dal fare, o almeno contemplare, della ricerca empirica: "In quel mail ho voluto mostrarti che il mio modello euristico può essere tradotto in congettura confutabile e sottoposto a verifica sperimentale, volendo (vertice O incluso). Però sono ben lontano dall'avere i mezzi per eseguire ricerche del genere, che come sai sono molto dispendiose". Ma allora, caro Tullio, non capisco più di cosa disputiamo! Fai la Tua ricerca euristica, la formuli in modo razionale e coerente, ne derivi ipotesi e previsioni scientifiche, e progetti addirittura una loro verifica sperimentale! Ma allora perché non ammetti che il metodo scientifico, l'unico vero metodo scientifico, ripulito da incrostazioni scientiste e liberato da pregiudiziali ostilità misticheggianti, può essere il nostro comune metodo di ricerca, per ora magari solo speculativo e teorico, cioè euristico, e poi anche ampliato in senso di verifiche empiriche e osservazioni, e forse anche misurazioni ? La ricerca empirica non è fuori della portata di una società scientifica, naturalmente se non se ne astiene pregiudizialmente, e se accetta, ove sia necessario, attraverso i suoi contatti e la sua autorevolezza (che è sostenuta anche da buone proposte teoriche), di ispirare i centri che concretamente possono farla. Tu stesso ammetti che "Se i modelli che costruiremo saranno abbastanza buoni e convincenti, forse qualche ricercatore sperimentale deciderà di testarli empiricamente." Per esempio, al San Carlo stiamo facendo qualche ricerca, epidemiologica e di esito di interventi psicoterapeutici, con mezzi complessivamente modesti. Allora bisogna che Tu Ti decida: l'opposizione al metodo scientifico - che comprende anche il confronto con l'osservazione e l'evidenza empirica - è per Te radicale, o è solo conseguenza di una rinuncia connessa alla percezione (errata a mio vedere) dell'impossibilità di praticarlo ? Se la Tua risposta è la prima, allora il fossato si rivela forse più largo ancora, se è la seconda, allora esso non esiste, e possia- mo andare avanti in un discorso sulle modalità dell'integrazione che ammette tanto le speculazioni teoriche quanto, ove sia necessario, l'attuazione di ricerche empiriche che contribuiscano, ovviamente, al miglioramento delle nostre teorie. Mi permetto un tale tono perché so che i nostri comuni amici Ti difenderanno dalle mie "ingiustizie", e anche perché penso che apprezzi il parlare franco. Ma anche perché mi preme ribadire che la pregiudiziale metodologica va assolutamente chiarita se vogliamo che il congresso non resti un episodio alla lunga irrilevante e che la SEPI Italia possa iniziare un percorso di ricerca. Non è ad esempio ammissibile che una società scientifica, ancorché eminentemente esplorativa, includa nel suo metodo di esplorazione delle possibilità d'integrazione psicoterapeutica procedimenti di pensiero propri della mistica, ad esempio l'abolizione della distinzione soggetto-oggetto o del principio di non contraddizione, se non ovviamente come ausilii euristici del singolo studioso (sull'esempio di Kekulé), da sottoporre poi a vaglio e riformulazione razionale. Di questo mi accontenterei, questo Ti chiedevo di cambiare nella Tua impostazione metodologica (e non certo nella Tua "mappa", che resta una rispettabilissima ipotesi di lavoro, su cui mi sono già espresso, e su cui non voglio ritornare), e a maggior ragione quanto più mi accorgo che Tu hai ben in mente il procedere scientifico, e ammetti pienamente che è possibile procedere sul doppio versante della speculazione teorica (euristica, ma non mistica) e della verifica empirica ove essa sia necessaria. Ecco spiegata, cari amici, la mia accusa a Tullio di impermeabilità. Spero che ciò basti a dimostrare che non si è trattato di un attacco personale ma di un forte richiamo, da parte mia, a superare quella che tuttora considero una sua contraddizione su una questione, quella metodologica, di fondamentale importanza. Giorgio Paolo Migone, 12 Aprile 2002:
Se non sbaglio, qui Tullio fa riferimento a un mio scritto del 2001 dal titolo "La dicotomia tra clinica e ricerca in psicoterapia: due scienze separate?", che, se può interessare, è anche in rete al sito: http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/ruoloter/rt88-01.htm Giorgio Gabriele Alberti, 12 Aprile 2002: Caro Paolo, ho appena finito di leggere il Tuo articolo sulla dicotomia tra clinica e ricerca in psicoterapia, che, confesso, non conoscevo (e me ne rammarico). Il Tuo sollecito intervento bibliografico mi ha permesso un primo recupero conoscitivo. Mi trovo sostanzialmente, anzi pienamente, d'accordo, con la tesi di fondo del Tuo lavoro, che la contrapposizione tra le due aree di studio sia artificiosa, e che ambedue debbano essere frequentate (in quanto ognuna gode di angolature osservative e potenzialità euristiche peculiari e ugualmente indispensabili), combinandone, confrontandone e reciprocamente arricchendone i (comuni) risultati. Spero che questa Tua segnalazione, e soprattutto il paper cui fa riferimento, possa valere come un rafforzativo della mia richiesta a Tullio di abbracciare a tutto campo ed inequivocabilmente un punto di vista metodologicamente più laico, il quale consente l'esplicarsi di ambedue i tipi di ricerca, euristica e empirica, rifiutando soltanto la rigida compartimentazione che lui programmaticamente - ma non prassicamente - afferma di voler sostenere. Questo spazio metodologicamente più aperto presenta diversi vantaggi: 1) ammette libere euristiche ricerche, ma anche 2) libere empiriche ricerche, e 3) potenzia l'avanzamento del sapere attraverso la sinergia tra le ricerche dei due tipi, e 4) delimita chiaramente il ruolo, solo ancillare, delle intuizioni mistiche, eliminando di fatto la dimensione mistica come seconda componente fondante dell'integrazione e 5) definisce chiaramente la priorità della razionalità nel parlare di psicoterapie e della loro eventuale futura integrazione. Certo, chi non condivide questo spazio potrebbe volerne restare fuori, ma io credo che per stare insieme e fare della ricerca si debba condividere una metodologia, se no si sta insieme come in un vagone del metro, o nell'ordine degli psicoterapeuti, del tutto casualmente, e solo perché si ha in comune una pratica di psicoterapia. E ciò sarebbe la negazione di un comune percorso di ricerca. Giorgio Giovanni Liotti, 14 Aprile 2002: Cari amici, tra un viaggio e l'altro mi fa piacere trovare le vostre mail sulla ricerca euristica ed empirica, sulla dicotomia fra clinica e ricerca in psicoterapia, sul metodo scientifico e l'integrazione, e sul toccare i pazienti. Per darvi un breve cenno della mia perdurante presenza a questo scambio di idee, scelgo quest'ultimo tema, anche perché mi permette di esprimere un dissenso da Paolo, il che non accade spesso.
Questo è un punto importante, se sia tutta questione di culture e basta, oppure se ci sia qualcosa di "naturale" (un tempo si sarebbe detto "istintivo") e non culturale nelle relazioni umane. Se vi è qualcosa di naturale ed universale, allora è legittimo e non stereotipato chiedersi se vi siano dei limiti "naturali" che in una situazione come quella psicoterapeutica (questa sì, definita culturalmente!) debbano essere rispettati. Nella nostra cultura, esiste la psicoterapia. Nella natura umana, potrebbero esistere alcune disposizioni alla relazione fra loro diverse, che dovrebbero essere considerate nella loro specificità rispetto alla situazione culturale "psicoterapia": queste disposizioni potrebbero non essere sollecitate fuori contesto dall'offrire il tè, e potrebbero essere invece sollecitate fuori contesto da un abbraccio. Questa è la cornice concettuale generale in cui inserirei il problema del toccare i pazienti. Credo che abbracciare un paziente sia un potente stimolo "naturale" (cioè tale in tutte le culture umane) a due sistemi motivazionali diversi: attaccamento (richiesta di cura e conforto) e sessualità, mentre offrire il tè (o una caramella, o una sigaretta quando si fumava), o stringere la mano, sia uno stimolo, assai meno potente e maggiormente determinato dalla cultura, alla disposizione, pure naturale ed innata, a cooperare pariteticamente. Se la psicoterapia dovrebbe aspirare continuamente alla cooperazione paritetica nell'esplorazione di significati e di possibili alternative di comportamento e pensiero (alternative rispetto a quelle che costituiscono il fondamento del disagio del paziente), allora la sollecitazione non solo della sessualità, ma anche dell'attaccamento dovrebbe essere assai prudentemente sorvegliata dallo psicoterapeuta. Se pure un terapeuta esperto può decidere, in particolari e credo eccezionali circostanze, che una sollecitazione dell'attaccamento come quella mediata dall'abbraccio è opportuna, non credo che ciò possa equivalere a inserire l'abbraccio fra le prassi terapeutiche consuete, o fra quelle che definiscono la psicoterapia. Un terapeuta esperto, inoltre, potrebbe (non necessariamente, ahimè, dovrebbe) sapere come evitare che l'abbraccio confortante si confonda, nell'esperienza del paziente e nella propria, con una sollecitazione della sessualità: dubito però che una tale competenza possa essere presente nella maggior parte degli allievi, i quali hanno bisogno di lavorare in condizioni di sicurezza prima di avventurarsi nelle situazioni estreme della psicoterapia (come quelle che forse, eccezionalmente, potrebbero riconoscere utilità nell'abbracciare il paziente). E' vero che la psicoterapia è la sede di esperienze relazionali correttive. Ma proprio per questo mi sembra che la gamma delle esperienze correttive proponibili dallo psicoterapeuta debba essere attentamente definita da una conoscenza accurata delle componenti della disposizione umana alla relazione, e di quali fra queste componenti sono incompatibili con la situazione interpersonale della psicoterapia. Non credo, ad esempio, che sia bene proporre ai nostri pazienti più gravi una esperienza correttiva come quelle che proponevano ai loro pazienti schizofrenici l'analista transazionale Schiff, la psicoanalista Sechehaye (la famosa ispiratrice del film "Diario di una schizofrenica" di Nelo Risi), o gli allievi antipsichiatri londinesi di Laing e Cooper. Come sapete, questi psicoterapeuti hanno tentato un "reparenting" dei loro pazienti mettendoseli in casa. Pare che lo abbia fatto anche lo psicoanalista, peraltro famoso e stimabilissimo, di Marylin Monroe. Gli esiti non sono stati positivi. La schizofrenica del "Diario", mi risulta, non è stata "curata", ed è ricaduta nel delirio. Nessun analista transazionale ha replicato i tentativi della Schiff (quella di "Tutti miei figli"), che io sappia, e questo è forse un segno che i risultati non sono stati durevolmente buoni. In casa di uno degli allievi di Laing, a Londra, quindici anni fa, ho conosciuto Mark, l'ultimo dei tre pazienti schizofrenici che il nostro Collega aveva tenuto per anni in coabitazione con la propria moglie e con i propri figli. Nessuno era stato davvero meglio a lungo: gli altri due erano ricoverati, e il collega aveva molta difficoltà a liberarsi di Mark, la relazione col quale era estremamente problematica per il figlio minore adolescente, che aveva condiviso fin da bambino alcuni contenuti dei suoi deliri. So che dopo alcuni mesi dalla mia visita il Collega (ottimo psicoterapeuta ed autore di libri tradotti anche i italiano) riuscì a liberarsene affidandolo ad una comunità terapeutica (con dolore, ovviamente, di tutti in famiglia). Forse, il fatto che in psicoterapia dobbiamo dosare con cautela il conforto che offriamo, e non solo l'aggressività e la sessualità, ha radici "naturali" e non solo, come la mail di Paolo sembra suggerire, "culturali", o peggio moralistiche. Forse toccare i pazienti non è "un comportamento come un altro", come Paolo scrive. I comportamenti che possiamo rivolgere ai nostri pazienti sono ovviamente fra loro molto diversi. Invitarli a cena, far loro dei regali, invitarli a vivere nella nostra casa, picchiarli, umiliarli, sedurli: tutti questi non sono "comportamenti come altri", non sono come offrire loro il tè o una caramella (o stringere loro la mano alla fine della seduta), ad esempio. Io credo che i comportamenti che qualificano la psicoterapia siano dei seguenti tipi (la lista è evidentemente incompleta): invitare qualcuno a fermare l'attenzione su qualcosa che ha appena detto, esprimere con le parole ed il tono di voce (o con una stretta di mano particolarmente calorosa alla fine della seduta) comprensione e solidarietà per un dolore che ha espresso, dichiarare consenso o dissenso su un proposito o un'idea o un'azione, offrire una spiegazione o un'interpretazione (of course), suggerire un modo (una tecnica) per regolare un'emozione che il paziente non sa regolare... ed eccezionalmente anche qualche "self-disclosure". Tutti questi comportamenti, che nella stragrande maggioranza fanno parte del più vasto comportamento "parlare", caro Paolo, sono assai, assai diversi dal comportamento "toccare". Non sono ovviamente migliori (so che sai che persino un razionalista come me può avere una moglie e dei figli da abbracciare, e perdona la battuta), sono solo diversi, e più appropriati, anzi secondo me gli unici appropriati, al mio lavoro di medico occidentale che si occupa di psicoterapia. Penso che sulla mia lista di comportamenti, legati al parlare, che qualificano la psicoterapia, in realtà siamo tutti d'accordo, nonostante l'apparente confutazione della paziente di Paolo che ha scelto il terapeuta, forse non "psico", che le ha piazzato la mano sulla pancia. Anche io ho avuto una paziente dissociativa (personalità multipla) che è stata meglio dopo un esorcismo ed ha lasciato la psicoterapia per la seguire l'esorcista, ma ciò non vuol dire che io intenda considerare la pratica dell'esorcismo fra gli strumenti con cui lo psicoterapeuta si deve attrezzare. Penso che neppure voi vogliate farlo, pur riconoscendo quanto a volte l'esorcismo sia un'esperienza emotivamente fortissima e persino benefica per certi pazienti. Il fatto che il tema del "toccare i pazienti" sia emerso nel nostro dialogo, ancora una volta grazie a Tullio, e su "Psychoanalytic Inquiry", suggerisce, a mio avviso, l'importanza e l'urgenza, in questa fase di fermento nelle teorie e prassi psicoterapeutiche, di studiare meglio le componenti "naturali" della relazionalità umana. E' infatti necessario, data l'enfasi sui modelli relazionali che si diffonde nelle varie Scuole di psicoterapia, definire meglio l'impatto di ciò che è naturale nella relazionalità umana rispetto a quella particolarissima situazione "culturale" (decisamente "occidentale" e "moderna") che chiamiamo psicoterapia. Naturalmente, è legittimo, non criticabile a priori, e forse augurabile che qualcuno fra noi si rivolga alle culture orientali e al mondo del post-modernismo per rifiutare le caratteristiche che non gli piacciono della psicoterapia occidentale e moderna, ma allora è ovvio che si accenderà una contesa con chi invece della cultura occidentale e del pensiero "moderno" si considera figlio, e con chi intende difenderla da possibili stravolgimenti celati dietro apparenti ecumenismi. Tutto sommato, ho l'impressione che qui, in questa mia ostinata e forse erronea difesa a spada tratta della tradizione culturale occidentale (scienza galileiana, metodo sperimentale, il considerare il consenso pubblico ottenuto con prove riproducibili un valore superiore alla pur indispensabile e pur ovviamente preziosissima intuizione individuale), ci sia la radice del dissenso con Tullio, il motivo per cui esso appare insanabile. Ma forse anche qui sbaglio. Gianni Tullio Carere, 14 Aprile 2002: Carissimi, proviamo a chiarire, per cominciare, la questione dell'atteggiamento non abbastanza laico che Giorgio mi imputa. Siccome per me (e per il vocabolario) laico è l'opposto di credente, e i nuovi credenti sono dal mio (e non solo dal mio) punto di vista i devoti della religione della "scienza" (le virgolette segnalano l'impropria identificazione della scienza con l'approccio galileiano), va da sé che anche questo giudizio, dopo quello di impermeabilità, debbo rimandarlo al mittente. Non solo la mistica non può e non deve essere esclusa dal campo della scienza, ma al contrario non vedo come possa essere un vero scienziato chi non è un mistico, se è vero che solo il mistico è in grado di soggiornare in un vuoto di sapere, nella sospensione radicale di ogni teoria, e di affidarsi a questo vuoto (Faith in O). Solo la capacità di stare in questo vuoto, quindi su un terreno teoreticamente neutro, rende liberi di confrontare le teorie tra di loro e con il referente reale. Chi non ha raggiunto in grado sufficiente la libertà di restare nella non-identificazione e nel vuoto di teorie è inevitabile si aggrappi alle teorie con cui è identificato, scambiandole per verità indiscutibili o (come nel caso della "scienza") per l'unica via di accesso al vero e al reale. Affermo quindi che il terapeuta può e deve essere uno scienziato, ma può esserlo solo e nella misura in cui è un mistico: di qui la dialettica essenziale tra i vertici K (Knowledge) e O (Unknown) nel mio modello. Un difetto di vertice O comporta da un lato un bias epistemofilico nella terapia (uno squilibrio per cui l'obiettivo della conoscenza occupa troppo spazio nella relazione terapeutica a scapito di altri obiettivi), dall'altro la prevalenza di un modo di intendere la conoscenza a scapito di altri (caratteristica dello scientismo). Questo per quanto riguarda la laicità, che mi sta particolarmente a cuore (ho tenuto recentemente una conferenza sullo "Spirito laico", in cui mi sono occupato in particolare del carteggio tra Freud e Rolland. Se vi interessa ve la mando). Ma non mi illudo di migliorare l'intesa tra di noi con un riferimento alla fondazione mistica dell'atteggiamento scientifico, su cui prevedo che l'impermeabilità rimanga. Migliori prospettive forse si aprono se proviamo a indagare su quello che si intende quando si parla di scienza applicata alla psicoterapia. Cominciamo col dire che la terapia è (anche) il luogo dove si formulano ipotesi da mettere alla prova, e la relazione terapeutica può per questo essere assimilata a un laboratorio scientifico dove due scienziati locali collaborano per formulare, vagliare, corroborare o confutare ipotesi. Anche se il terapeuta fa diverse altre cose, almeno in un settore del suo lavoro sembra che sia uno scienziato. Ma lo è davvero? Molti autorevolmente sostengono (forse voi stessi dovreste per coerenza sostenere) che il lavoro dello scienziato locale non è vera scienza, perché manca il criterio oggi ritenuto canonico, dell'esperimento pubblico e ripetibile. E' troppo facile, si dice, per il terapeuta e il paziente, nel chiuso degli studi privati, convincersi vicendevolmente di quello che preferiscono credere, e anche se la sfera locale si allarga a includere uno o più supervisori non si esce da un ambito che resta sostanzialmente privato. La ricerca pertanto, si afferma, la vera ricerca scientifica può essere solo extra-clinica. Solo questa permette di stabilire l'efficacia di determinate procedure per affrontare determinati problemi. Una terapia condotta in modo rigoroso allora non sarà guidata dalla ricerca prodotta artigianalmente nel laboratorio dello scienziato locale, ma richiederà un vasto apparato di ricerca cui lavoreranno molti scienziati che grazie al loro lavoro metteranno a disposizione del terapeuta una serie di procedure efficaci, virtualmente una procedura per ogni problema o per ogni disturbo del DSM X. Sempre di più il terapeuta dovrà diventare un bravo tecnico, capace di applicare le procedure che la scienza gli mette a disposizione per risolvere la situazione che gli è affidata, in fondo non diversamente dal tecnico che viene a riparare la nostra lavastoviglie, anche se con un po' più di sentimento e di partecipazione umana (doti peraltro necessarie anche al tecnico della lavastoviglie per trattare efficacemente con la casalinga e portare a termine il suo lavoro). In questo quadro naturalmente l'esperienza clinica è preziosa, ma solo come generatrice di ipotesi da passare al vaglio della ricerca sperimentale. Qualsiasi intuizione clinica dovrà essere trasformata in congettura o procedura falsificabile da vagliare sperimentalmente. In prospettiva, la psicoterapia diventerà in tutto e per tutto un ramo della medicina. Già oggi il medico è un tecnico il cui compito è di valutare i disturbi del paziente per arrivare a una corretta diagnosi, da cui dipenderà un'appropriata prescrizione dietetica, o farmacologica, o chirurgica, o l'invio a uno specialista che a sua volta è un tecnico che fa la stessa cosa. Tra i diversi specialisti ci sarà anche lo psicoterapeuta, che non diversamente dagli altri farà la sua diagnosi e somministrerà, o farà somministrare, le procedure terapeutiche che la ricerca scientifica ha stabilito essere indicate per i disturbi presentati. A me sembra che sostanzialmente Giorgio e Gianni si muovano in questa direzione, con le loro "tessere integrative" e le loro "piccole teorie" corroborate dalla, o da sottoporre al vaglio della, ricerca scientifica. Paolo un po' meno, ma mi sembra che sostanzialmente anche per lui solo la ricerca empirica permetta di separare il grano delle procedure efficaci dal loglio delle chiacchiere più o meno ermeneutiche. Per tutti, quindi, la ricerca euristica va benissimo, ma solo nella misura in cui serve a generare ipotesi confutabili, il cui valore sarà accertato dalle procedure della ricerca empirica. Questa assimilazione della psicoterapia alla medicina è ammessa senz'altro da coloro che, come i miei tre interlocutori precedenti, se ne disinteressano tranquillamente: perché per loro la "vera terapia", cioè la terapia di "formazione", alias "psicoanalisi", è tutt'altra cosa. Lasciamo pure la psicoterapia medica ai medici e paramedici, dicono, tanto noi ci occupiamo d'altro. Di qui il "great divide" tra "psicoterapeuti" e "psicoanalisti". Voi non vi interessate a loro, loro non si interessano a voi, e tutti sono contenti. Meno coloro che, come me, ritengono che né gli uni né gli altri si occupano della cosa reale, ma entrambi si occupano di astrazioni o artefatti. La cosa che realmente esiste, cioè l'interazione che si sviluppa nella pratica reale a dispetto della volontà del terapeuta di farla scorrere secondo i dettami della sua teoria, presenta certo qualche somiglianza con gli oggetti idealizzati dai due campi ("terapia scientifica", "psicoanalisi"), ma ha caratteristiche proprie che dipendono dallo sviluppo del processo, il quale a sua volta dipende dalla qualità della relazione ed è influenzato *solo marginalmente* dalle teorie piccole o grandi, scientifiche o psicoanalitiche, che i terapeuti cercano di imporgli e sovrapporgli. Una scienza dovrebbe occuparsi in primo luogo di studiare oggetti e processi reali, non di produrre astrazioni o artefatti. Cioè dovrebbe cercare in primo luogo di rispondere alla domanda: che cosa accade quando due persone, una delle quali portatrice di sofferenza e problemi, l'altra di disponibilità ad aiutare e strumenti per farlo, si incontrano regolarmente in una stanza? Essendoci stata sufficiente ricerca a dimostrare che questo processo è influenzato solo marginalmente dal metodo che il terapeuta dichiara di praticare, è del processo reale che dovremmo occuparci, non di psicoanalisi freudiana o di terapia cognitivo-comportamentale o di uno qualsiasi delle centinaia o migliaia di trattamenti manualizzati. E come si studia il processo reale? Osservandolo, ovviamente. Un processo culturale si studia in linea di principio come un processo naturale: l'osservatore culturale osserva e cerca di descrivere la psicoterapia (famiglia di fenomeni diversi ma con caratteristiche generali comuni) come l'osservatore naturale osserva e cerca di descrivere i mammiferi (famiglia di animali dalle caratteristiche specie-specifiche diverse, ma con caratteristiche generali comuni: quelle che per l'appunto identificano la famiglia dei mammiferi). E' (dovrebbe essere) in sostanza uno studio di antropologia culturale, cioè uno studio storico e sistemico, diacronico e sincronico, di un fenomeno culturale che è nato e si è diffuso in Occidente nel secolo scorso, ma ha dei predecessori in tutte le culture di tutti i tempi. La SEPI dovrebbe essere il luogo di elezione di questo studio. Invece troppo spesso, anche all'interno della SEPI, i ricercatori-esploratori non cercano di descrivere il fenomeno reale, cioè il processo che si sviluppa storicamente attraverso varie fasi di differenziazione e integrazione, e che in questo sviluppo mostra caratteristiche generali sufficientemente definite da permettere di riconoscere una psicoterapia in un trattamento freudiano o skinneriano, come riconosciamo un mammifero in un topo o un elefante. No, troppo spesso anche nella SEPI, non diversamente da quello che avviene fuori nel mondo, in cui diversi sistemi terapeutici competono (legittimamente) per il dominio del territorio, si propone la propria versione di "integrazione", in competizione con altre versioni (essendo sempre quella proposta la più completa e la più scientifica tra quelle finora apparse). Queste "integrazioni", essendo proposte come le più avanzate, le uniche in accordo con i criteri di scientificità, eccetera, tentano naturalmente di affermare la propria egemonia, che ovviamente è rifiutata da tutti gli altri, con riproposizione anche dentro la SEPI delle stesse forme di competizione che caratterizzano la galassia delle psicoterapie: si propone la migliore integrazione (la più scientifica), piuttosto che la migliore psicoterapia, ma la sostanza è la stessa (tra l'altro, molti metodi che sono diventati scuole a sé stanti sono stati proposti inizialmente come forme di integrazione di terapie in quel momento esistenti: ad esempio le terapie junghiana e rogersiana). In questo modo la ricerca invece di essere descrittiva (metateoretica), diventa prescrittiva (teoretica), cioè uno studio fortemente condizionato dal desiderio di dimostrare la superiorità di un paradigma, invece che fondato sulla volontà di capire la realtà di un fenomeno. Ma, per rispondere alle domande di Giorgio, come dovrebbe essere condotta una ricerca veramente metateoretica, liberata dall'ipoteca "galileiana" alla "giovane Holt", cioè dall'illusione di capire che cosa sia la psicoterapia mettendo assieme tante "piccole teorie" o "tessere integrative" che esistono solo nei manuali di chi le ha inventate? Per essere più chiaro: tu Giorgio hai elencato al congresso una serie di procedure tipiche, come l'interpretazione psicoanalitica, il dialogo con la sedia vuota nella terapia gestaltica, eccetera. Ma l'interpretazione data da un freudiano diventa una cosa molto diversa quando è un kohutiano a darla, e la tecnica della sedia vuota, nelle versioni di Greenberg, Goldfried a Lazarus nelle videocassette dell'American Psychological Association, si trasforma in tre procedure diverse. Questo significa che non ha molto senso considerare le procedure o le congetture isolatamente, perché il significato di ogni elemento dell'insieme dipende strettamente dall'insieme in cui è inserito. L'approccio galileiano, analitico-atomistico del giovane Holt (scindere l'insieme nei suoi componenti elementari, da ricombinare poi per ottenere un insieme migliore, più "scientifico") è di conseguenza inadatto allo studio della psicoterapia come avviene in un contesto naturalistico. Potreste obiettare che a voi non interessa lo studio del fenomeno nel suo svolgimento naturale, essendo questo paragonabile alle terapie mediche come si svolgevano in epoca prescientifica, che nessuno rimpiange: quello che a voi interessa è appunto favorire la trasformazione della psicoterapia da pratica prescientifica (una miscela in cui intuizioni valide sono intrecciate a pratiche inutili o anche dannose) a pratica scientifica, passando al setaccio le pagliuzze d'oro delle procedure valide per separarle dalla sabbia e dalle scorie di tutto ciò che valido non è (Empirically validated psychotherapy being as but one branch of the Empirically validated medicine). Voglio io forse affermare che tutto ciò che avviene in un contesto naturale è buono per il solo fatto di essere naturale, come affermano i fan delle terapie "naturali"? Certamente no. Anche a me interessa l'evoluzione della psicoterapia (qualche anno fa nella SEPI qualcuno aveva proposto di cambiare la ragione sociale in Society for the Evolution of Psychotherapy Integration, ma poi si è preferito mantenere Exploration, proprio per la difficoltà di mettersi d'accordo su ciò che si debba considerare evolutivo). Quello che io contesto è che la "evoluzione" verso una Empirically validated (o supported) psychotherapy sia realmente un'evoluzione. Sono piuttosto incline a considerarla come un'involuzione tecnicistica di una pratica che ha anche degli aspetti tecnici, ma che si perverte e si corrompe quando gli aspetti tecnici diventano prioritari e prendono il sopravvento sulla gestione globale di una relazione tra due esseri umani. Qui, effettivamente, la ricerca scientifica è di aiuto. E' proprio la ricerca sull'esito delle psicoterapie, come risulta da diverse meta-analisi culminate nella meta-meta-analisi di Luborsky, a dimostrare che le tecniche specificamente impiegate in funzione dell'orientamento teorico del terapeuta incidono in modo solo marginale sulla varianza dell'esito, mentre ciò che incide in modo più significativo è la qualità della relazione (conferma del verdetto di Dodo). Se ne potrebbe ricavare la seguente congettura (falsificabile): quanto più un terapeuta si affranca dalla soggezione dalla dimensione teorico-tecnica dell'operazione psicoterapeutica, puntando piuttosto sulla qualità della relazione, tanto meglio la terapia funziona (congettura già corroborata dalle ricerche che indicano la tendenza dei terapeuti esperti ad affrancarsi dai miti teorico-tecnici delle rispettive scuole ai quali soggiacciono invece i più inesperti). Ma allora, nell'ipotesi (bada bene, solo un'ipotesi: non una certezza) che l'evoluzione della psicoterapia sia nella direzione sopra specificata, cioè verso l'affrancamento dalla logica teorico-tecnica e verso lo sviluppo della qualità della relazione, intesa come capacità di sintonizzarsi momento per momento con i bisogni del paziente e le esigenze del processo; nell'ipotesi, in altri termini, che la risposta del terapeuta alla situazione del momento meriti in generale maggiore considerazione della struttura del problema o del disturbo isolatamente presi, quali conseguenze avrebbe per la ricerca l'adozione di questa ipotesi? Se l'evoluzione in questione non dipende principalmente dall'applicazione di procedure empiricamente validate, ma al contrario proprio da quella sospensione dell'adesione a ogni manuale che favorisce lo sviluppo del dialogo tra paziente e terapeuta in tutto ciò che ha di imprevisto e imprevedibile, allora lo studio di questo processo non dovrebbe avvalersi in prima istanza dei metodi e degli strumenti della ricerca sperimentale (certamente la più indicata nell'altra ipotesi), ma piuttosto dei metodi e degli strumenti della ricerca euristica, come è tipicamente quella dell'antropologia culturale. Ciò significa utilizzare l'enorme massa di documenti prodotti dalle diverse scuole che illustrano sia il modo di lavorare del terapeuta, sia il modo in cui si sviluppa il processo in quelle scuole, per cogliere le strutture ricorrenti dell'interazione psicoterapeutica, cioè i modi basilari con cui il terapeuta risponde ai bisogni fondamentali che i pazienti portano nella relazione. Avendo le scuole esplorato, dopo un secolo di vita, virtualmente ogni angolo del campo della psicoterapia, lo studio comparato delle rispettive esplorazioni permette ormai di disegnare delle mappe generali del campo. Si tratta, quindi, non tanto di formulare ipotesi da vagliare con esperimenti ad hoc, quanto di descrivere le regolarità del campo: un lavoro di tipo fenomenologico piuttosto che sperimentale, sintetico piuttosto che analitico, qualitativo piuttosto che quantitativo-misurabile, diretto alla descrizione di processi piuttosto che alla definizione di procedure. Come ho osservato in precedenti interventi, è sempre possibile trarre dalle osservazioni euristiche delle congetture falsificabili da sottoporre a ricerca empirica. La divergenza tra di noi riguarda l'importanza che diamo a questa ricerca. Tu, Giorgio, scrivi:
Sta di fatto che la tua ricerca è, come la mia, euristica, e il suo valore, piccolo o grande che sia, come quello della mia, è in quello che ora ci aiuta a capire del processo della terapia, non in quello che verrà da una "eventuale" estensione empirica delle nostre ricerche. Se pensassi che il valore della mia ricerca dipende dalla misura in cui le mie scoperte saranno corroborate dalla ricerca empirica, non potrei fare altro che diventare un ricercatore empirico io stesso. Soprattutto in considerazione del fatto che una verifica empirica delle nostre ricerche euristiche è quanto mai improbabile. In un lavoro che non ricordo (spero anche qui nella memoria bibliografica di Paolo) si distinguevano i livelli di credibilità o serietà delle ricerche empiriche. Se proprio vogliamo scimmiottare la ricerca medica, allora vediamo di farlo bene, cioè di adottare gli standard previsti per quel tipo di ricerca. Si precisava, in quel lavoro, che una ricerca seria, degna di essere presa in considerazione dalla comunità scientifica internazionale, deve rispondere a criteri così severi che diversi ricercatori debbono lavorarci a lungo e a tempo pieno. Cosa che in Italia non riesce nemmeno per la ricerca di base: vedi l'articolo di Giorgio Morpurgo sul Corriere della Sera di oggi, intitolato "La ricerca scientifica sta morendo - In Italia mancano fondi e personale". Certo, si possono sempre fare le classiche ricerchine all'italiana: serviranno forse per potersi raccontare di essere dei veri ricercatori scientifici, certo non per essere presi sul serio dalla comunità internazionale. Se fossi un chimico o un fisico interessato alla ricerca, andrei di sicuro all'estero, perché attualmente in Italia si può fare poco o nulla, e in quei campi la ricerca puramente euristica non ha molto senso. Invece come psicoterapeuti siamo messi meglio. Ho personalmente constatato che le mie ricerche puramente euristiche sono prese sul serio dalla comunità psicoterapeutica internazionale, pur essendo io un autore completamente sconosciuto fino a pochi anni orsono. Come mai? Precisamente perché la psicoterapia è una disciplina limite tra le scienze umane, come la storiografia e l'antropologia, che si avvalgono essenzialmente di metodologie euristiche, e le scienze oggettive, come la biologia e la medicina, in cui invece il metodo sperimentale è quello che ha permesso un salto di qualità. Questa posizione limite favorisce certamente una dialettica tra le due modalità di ricerca, senza per questo autorizzare in alcun modo la subordinazione della ricerca euristica a quella empirica, o togliere autonomia alla prima (se mai è la ricerca empirica che dovrebbe essere subordinata a quella euristica, per le considerazioni svolte sopra). In conclusione (provvisoria, naturalmente): c'è un grosso lavoro euristico da fare nel nostro campo, per esaminare l'immenso materiale accumulato dalle varie scuole in un secolo di esplorazioni e cominciare a ricostruire la configurazione generale del campo della psicoterapia. In questo lavoro possiamo avvalerci anche di alcune ricerche empiriche, e, perché no, augurarci (senza crederci troppo) che alcuni dei nostri risultati possano stimolare in futuro delle ulteriori ricerche empiriche. Questo è il lavoro più utile e produttivo, e anzi l'unico possibile per chi non sia inserito in strutture abilitate alla ricerca empirica seria. Non credo che un'integrazione psicoterapeutica potrà mai venire dal mettere assieme "piccole teorie" o "tessere integrative" (sono le meta-analisi sull'esito che rendono poco probabile questa eventualità), ma anche se fosse vero il contrario, non saremmo noi a far procedere la ricerca empirica, come mosche cocchiere che spiegano ai ricercatori quello che devono ricercare (questo punto mi si è chiarito in una conversazione con Marvin Goldfried, in un eccellente ristorante cinese sotto casa sua, a New York, dove mi aveva invitato per un lunch - e Goldfried è un past president dell'SPR). Tullio Paolo Migone, 16 Aprile 2002:
Penso che tu ti riferisca a questo mio lavoro: "La ricerca in psicoterapia: storia, principali gruppi di lavoro, stato attuale degli studi sul risultato e sul processo". Rivista Sperimentale di Freniatria, 1996, CXX, 2: 182-238. L'edizione su Internet è nel sito web della SPR-Italia: http://www.psychomedia.it/spr-it/artdoc/migone96.htm.
Sulla base di questi criteri, Beutler e Crago avevano individuato due tipi di gruppi di lavoro: quelli che soddisfacevano tutti e quattro questi criteri sono stati definiti "a larga scala", mentre quei gruppi di lavoro che soddisfacevano solo tre criteri su quattro sono stati definiti "a scala ridotta". In questo modo, in tutto il mondo avevano individuato 40 gruppi di lavoro: 29 gruppi a larga scala (20 nordamericani e 9 europei), e 11 a scala ridotta (9 nordamericani e 2 europei). In Italia non sono riusciti a reperire alcun gruppo di lavoro sulla ricerca in psicoterapia, né a larga scala né a scala ridotta, e neppure nel Medio o Estremo Oriente, nel Centro e Sud America, e in Africa. In quel mio lavoro io elencavo tutti questi gruppi di lavoro. Paolo Giorgio Gabriele Alberti, 16 Aprile 2002: Cari amici, purtroppo la sensazione che il fossato esista e sia anche ben largo coglie anche me, dopo avere letto l'ultimo mail di Tullio, di cui condivido ben poche asserzioni, tanto sul metodo generale quanto su certi aspetti della possibile ricerca in campo integrativo. Non sono ad esempio d'accordo sul fatto che tra noi vi siano "devoti della religione della "scienza"", che può essere un vero scienziato solo chi è un mistico, che tra noi vi sia qualcuno per cui si possa dire che "…nel vuoto di teorie è inevitabile si aggrappi alle teorie con cui ? identificato…". Non sono d'accordo con la visione complessiva che Tullio dà del rapporto tra ricerca empirica ed esperienza clinica, visione in cui la ricerca empirica viene connotata come sfruttatrice della clinica, come colei che la espropria della sua componente conoscitiva e la asservisce in un ruolo di disanimata tecnica puramente esecutiva. La mia prospettiva era, nei miei scritti, del tutto diversa, e lo è anche ora: deve esservi uno scambio continuo tra ricerca e clinica, sì che le nostre teorie crescano e la nostra pratica clinica cresca, quanto a comprensione ed efficacia. Più nello specifico, non sono d'accordo con la rigida dicotomia tra procedure e relazione: le procedure sono ciò che il terapeuta fa, la relazione, come i cambiamenti intermedi e finali del paziente, è un prodotto. Essa può costituirsi fin dall'inizio della terapia, ma più spesso è il prodotto di un'attività congiunta in cui il terapeuta lavora, ponendosi in un certo modo, dicendo certe cose, astenendosi da altre, guardando dentro se stesso, a costruire una buona o sufficientemente buona relazione. Quindi la relazione è il prodotto di un lavoro fatto anche di procedure, che ovviamente non influenzano deterministicamente il paziente e la relazione, ma hanno la probabilità di farlo, e in genere ciò riesce. Come ebbe a dimostrare H. Strupp, la relazione col paziente risente della preparazione specifica del terapeuta: uno formato e esperto riesce dove un pur umano e generoso dilettante fallisce, perché ignaro delle complessità delle modalità relazionali proposte dal paziente. E questo sapere gestire la relazione passa attraverso consapevolezza del controtransfert, interpretazioni del transfert, modalità comunicazionali specificamente adattate al paziente (toccare e non toccare, e quanto toccare…), cioè tutto un insieme di procedure, o modi di comportarsi, o prassi, rivolte verso il paziente, se stessi etc. Né sono d'accordo sull'osservazione di Tullio circa la dipendenza della singola procedura dall'insieme in cui è inserita. Esiste certo il fenomeno dell'effetto contestuale, di cui ho parlato nella mia relazione, ma è possibile definire l'effetto della singola procedura, anche tenendo conto dei mutamenti che subisce nei diversi contesti. Del resto, stando a quanto Tu dici Tullio, non dovrebbe essere possibile studiare le singole procedure in quanto ogni singolo atto procedurale, ha un contesto che potrebbe modificarne l'effetto. Cioè, a causa dell'effetto contestuale non dovrebbe essere possibile scomporre nessuna psicoterapia in procedure. E invece è ben possibile, come è dimostrato dalle ricerche che ho citato nella mia relazione a proposito dell'interpretazione di transfert. Sono invece d'accordo su una delle cose che dici: "…si tratta, quindi,…di descrivere le regolarità del campo…". Mi è facile essere d'accordo, perché di questo gran parte della mia relazione al San Carlo ha trattato, essendo quello delle concordanze procedurali tra diverse terapie il primo degli scenari che descrissi. Ma purtroppo, qui si ricade nel funesto fossato: dopo l'apertura Ti riarrocchi: e definisci questo modo di procedere "…sintetico piuttosto che analitico, qualitativo piuttosto che quantitativo-misurabile…". E quindi nuovamente dissento: sono distinzioni irrilevanti, perché non solo queste "regolarità del campo" sarebbero da verificare anche con ricerche empiriche, per esempio su registrazioni di sedute, ma anche perché l'esame della letteratura, da cui trarre le indicazioni su tali regolarità, è un lavoro di ricerca che perfettamente rientra nel metodo scientifico che tanto obiezioni Ti evoca. Infine, non sono d'accordo con la Tua proposta di isolare la mia ricerca, parte euristica, dal suo eventuale seguito empirico ("Sta di fatto che la tua ricerca è, come la mia euristica, e il suo valore, piccolo o grande che sia, come quello della mia, è in quello che *ora* ci aiuta a capire del processo della terapia, non in quello che verrà da una "eventuale" estensione empirica delle nostre ricerche."). Tutta l'impostazione della mia ricerca implica eventuali osservazioni, e mai potrei darmi pago di un risultato solo euristico: potrei aver visto male, altre condizioni potrebbero relativizzare le mie conclusioni, se qualcuno mettesse in discussione le mie conclusioni potrei addurre i dati osservativi e confrontarmi usando anche quelli, il fatto di studiare il fenomeno più in dettaglio potrebbe offrire punti di vista nuovi per capirlo meglio… sono tanti i motivi. In carenza di dati osservativi nuovi la riterrei sempre più un'ipotesi teorica che una teoria. Quindi resta poco: qualche linea di convergenza di studio, una buona intesa sull'utilità di perseguire discutendo un'integrazione tra le psicoterapie, e la simpatia per Voi tre eterodossi moschettieri. Giorgio Paolo Migone, 16 Aprile 2002: Riguardo al commento di Gianni sulla questione del toccare i pazienti, sono d'accordo se la questione è quantitativa e non qualitativa, nel senso che bisogna stabilire cosa è appropriato e cosa no a seconda delle culture e dei contesti, e in parte tu, Gianni, dici questo (quando ad esempio parli di "prudenza"). Se invece ne fai una questione "naturale", allora trovo difficile trovare comuni denominatori senza sconfinare nel campo che io ho chiamato "moralistico", soprattutto se si tratta appunto del toccare i pazienti. Pensa non solo alle diverse culture e ai diversi significati che assumono i contatti corporei, ma anche a cosa può voler dire toccare in tuta da ginnastica e in una palestra il corpo di un paziente che è venuto proprio per una "terapia corporea", tecnica tra l'altro con un suo statuto e sancita qui in occidente da una legge dello stato (es. la scuola reichiana di Napoli di Rispoli è riconosciuta dal ministero). Mi verrebbe da dire che se in quella situazione il terapeuta non tocca il paziente... infrange il setting ed è scorretto col paziente il quale, poveretto, si aspettava di essere toccato o comunque di ricevere almeno qualche bel massaggio! Intendo dire che il confine tra il naturale e il culturale a volte non è facile da identificare, ma questo è un problema ben più vasto, quello dei limiti della interpretazione. Tutti ci dobbiamo fermare ad un certo punto nella comprensione dei significati dei comportamenti umani, ma il difficile è capire quando fermarci. Gli psicoanalisti classici riduttivamente vedevano dietro ad ogni cosa il sesso, e si fermavano lì. Adesso, grazie ai cognitivisti e agli psicoanalisti del Sé e dell'infant reasearch, abbiamo capito che "dietro" c'è una realtà molto più ricca, ci sono ad esempio anche cose diverse dal sesso (per citarne una, un bisogno di attaccamento che sarebbe sbagliato interpretare come un bisogno di sesso, pena un impoverire i "veri" significati del paziente). Ma il problema in un certo senso si è solo spostato in avanti, perché (ancora per questioni culturali simili a quelle di cui parlavamo a proposito dei significati del toccare i pazienti) a volte è difficile decifrare cosa vuole un paziente, nel senso che la natura e la cultura sono mischiate in un modo complesso, e siamo da capo. Come ti dicevo, se ricordi, a Bologna il 19-12-98 quando facevo da discussant alla tua relazione, a volte la lettura freudiana, grazie al concetto motivazionale di "libido" che è così generico e "overinclusive" (a parte il questione della "scarica"), paradossalmente permette maggiore libertà di movimento della lettura cognitivista che riduce tutto a un pentagramma di sistemi motivazionali molto specifici! Con questo non voglio svalutare la teoria motivazionale contemporanea, peraltro accettata anche da gran parte del movimento psicoanalitico, ma sottolineare come possa rimanere il pericolo di giustificare un comportamento riducendolo all'istinto naturale. So già che tu qui potresti portare vari dati di ricerca e fare giuste riflessioni simili a quelle fatte nella tua mail, ma su questo esempio specifico del toccare i pazienti, nella misura in cui non ci troviamo d'accordo rimane aperto il problema. Insomma, e per chiudere questo discorso (che in fondo mi interessa un po' meno degli altri temi di cui discutiamo, sollevati da Tullio), io faccio fatica a dire che un abbraccio esca necessariamente dal contesto culturale di una terapia occidentale, o che debba essere sessualizzato, preferirei lasciare questo problema aperto all'interpretazione. Riguardo a Tullio, temo proprio che ci si areni su posizioni inconciliabili (ma non ci sarebbe niente di male, l'importante è tener vive le nostre differenze e cercare di considerarle tutte in un certo qual modo... dialetticamente). Faccio poi fatica a capire come la tua posizione, Tullio, aiuti più della nostra a trovare un dialogo o un comune denominatore tra le varie posizioni, non foss'altro perché non riesci a far andare d'accordo già noi quattro! Tanti sono i problemi che sollevi, che è difficile ora rispondere a uno per uno. Mi limito a fare alcune riflessioni a prescindere da quello che dici nella tua ultima mail. A proposito del tema delle "due scienze", riflettevo giorni fa sulla teoria della Bucci, e precisamente sul fatto che i diversi "codici" cognitivi sono, come dice la Bucci stessa, in rapporto dialettico tra di loro, nel senso che il codice verbale influenza quello subsimbolico, e che quest'ultimo influenza quello verbale. Il codice non verbale/subsimbolico può avere qualche relazione con quello che tu chiami vertice "mistico", nel senso che è ineffabile, percorre vie non facilmente comprensibili o conoscibili, ha a che fare con la intuizione e con la emozione, è in "parallelo" quindi non prende posizione per cosa o l'altra, ecc., ma non è vero che il codice verbale (per certi versi più limitato, e per altri più potente) sia "superiore" all'altro, anzi. Si tratta semplicemente di due modalità di funzionamento che sono compresenti. Il "ciclo referenziale" della Bucci è caratterizzato da un feed-back che, partendo da connessioni verbali, attiva nuove connessioni non verbali, quindi i nuovi raggruppamenti di esperienze funzionalmente equivalenti che emergono nel sistema subsimbolico e vengono identificati in quello simbolico creando nuovi sistemi simbolici e contribuendo ad aprire nuove connessioni subsimboliche. Il paziente, secondo la Bucci, deve essere disposto ad "allontanarsi dalla coscienza" e a lasciare che siano i processi subsimbolici a dirigere la ricerca: il metodo dell'associazione libera permette al paziente tale allontanamento pur rimanendo presente e in comunicazione con un'altra persona. Mi chiedo, Tullio, se puoi essere d'accordo con me (o con noi) sul fatto che quello della Bucci è un esempio tra i tanti in cui è possibile trovare una soluzione al problema che tu poni, o a quello che abbiamo chiamato rapporto tra scienza e mistica. Ma, si badi bene, questo approccio parte DAL PUNTO DI VISTA SCIENTIFICO E DELLA RICERCA EMPIRICA, non richiede una variabile mistica a se stante, come mi sembra tu implichi (in altre parole, come dissi già in passato, io qui ci vedo un possibile errore tuo epistemologico, cioè nella logica della impostazione della gerarchia concettuale). Altre cose vorrei dire, ma per ora mi fermo, dato che non voglio appesantire la mail più di tanto. Se troverò il tempo, vi racconterò le mie impressioni dopo che sono andato sabato a Milano a sentire Daniel Stern, il quale, devo dire nel ben e nel male, mi ha colpito molto, anche per delle considerazioni che si possono fare ancora a proposito della questione della mistica proposta da Tullio. Paolo Tullio Carere, 17 Aprile 2002
Grazie Paolo, mi pareva che fosse un tuo lavoro ma non ne ero sicuro. I miei ricordi non erano precisi nei dettagli, ma giusti nella sostanza: in Italia non esistono (nelle condizioni attuali non possono esistere) gruppi di lavoro nemmeno "a scala ridotta" (probabilmente nemmeno "a scala ridottissima": due soli criteri su quattro). Si può fare ricerca empirica seria al di fuori di un gruppo di lavoro almeno "a scala ridotta"? Non mi pare. Invece la ricerca euristica può farla anche un ricercatore da solo (com'era Freud, per fare un piccolo esempio), purché abbia la possibilità di discutere e confrontare i suoi risultati all'interno di un'associazione dedicata, come è (o dovrebbe o potrebbe essere) la SEPI. Se no, che facciamo: la buttiamo via la psicoanalisi, o salviamo solo quello che di essa è corroborato da ricerca empirica? In questo caso, chi salverà noi, che ricercatori empirici non siamo, da un tremendo senso di inadeguatezza nei confronti di chi lo è? O ci trasferiamo in un paese un po' più civilizzato del nostro, e cerchiamo di entrare in un gruppo di lavoro almeno a scala ridotta? O ci accontentiamo di fare le mosche cocchiere, e illuminiamo la strada a chi la ricerca empirica la fa davvero? Tullio Giovanni Liotti, 18 Aprile 2002: Cari amici, dimentico spesso, quando mi impegno in dialoghi o diatribe sulla psicoterapia, che in realtà i miei interessi sono più quelli di uno psicopatologo che quelli di uno psicoterapeuta. Di certo me ne sono troppo dimenticato in questo nostro scambio, e nella mia partecipazione all'incontro di Milano. In quanto psicopatologo (l'unica ricerca che ho fatto è di psicopatologia, e riguarda la disorganizzazione dell'attaccamento come fattore di rischio per i disturbi borderline e dissociativi), mi interesso alla definizione, con criteri scientifici "galileiani", della genesi di specifici disturbi. Le distorsioni dello sviluppo delle forme innate di disposizione alla relazione, in particolare, sono al centro dei miei interessi. Tendo quindi a "vedere" specifici disturbi delle relazioni dietro specifiche sindromi psicopatologiche. Le terapia mi appare come una altrettanto specifica esperienza correttiva di questi disturbi di relazione. Per parlare di disturbi di relazione devo, ripeto, considerare la "natura" della relazione e assai meno le influenze culturali sulla relazione. La faccenda degli abbracci in terapia la vedo in questa luce, ma concordo con Paolo che non vale la pena di perdere troppo tempo ad esaminare perché gli abbracci, in questa chiave di lettura, a me sembrino da evitare per ragioni di tecnica terapeutica e non per ragioni moralistiche. In questo mio interesse dominante per le influenze che distorcono lo sviluppo delle disposizioni naturali ed innate alla relazione, sta probabilmente una ragione, che finora mi era sfuggita, della difficoltà a capirci con Tullio (ma probabilmente anche con Rossi Monti, Petrella, e tanti altri che sono, mi sembra, più psicoterapeuti che psicopatologi, mentre io mi sento più psicopatologo che psicoterapeuta). Come psicopatologo, non riesco ad esempio a percepire la patogenicità di eventuali difetti della Faith in O, e quindi non riesco a capire come la Faith in O possa essere curativa. Non riesco a capire come potrebbe mai prendere forma una developmental psychopathology centrata sui due assi di Tullio, o una developmental psychopathology che non si basi sul metodo scientifico delle congetture e confutazioni. E mi sembra che la psicoterapia dovrebbe essere fortemente correlata con questa ricerca sulla genesi dei disturbi, specifica ovviamente per ciascun disturbo. Altra conseguenza: una psicoterapia non mirante a specifiche correzioni di specifici disturbi, mi sembra sterile se non potenzialmente pericolosa, come lo sarebbe una terapia medica non fondata su una una fisiopatologia ed una conoscenza etiopatogenetica specifica. Capisco però come psicoterapeuti meno interessati di me ad una definizione accurata e dettagliata della psicopatogenesi specifica di ciascuno dei disturbi che trattiamo, possano non comprendere le mie preoccupazioni, e forse hanno davvero ottime ragioni per non comprenderlo. Forse (concepisco ma continuo a rifiutare questa idea) nei disturbi della mente la cura non ha bisogno della comprensione della specifica struttura di ogni disturbo, e della sua genesi. Forse, in psicoterapia al contrario di quanto accade in medicina, la cura sarebbe persino impacciata da una tale preoccupazione per l'etiopatogenesi. E' evidente, se rifletto in questo modo, che Tullio ha tutti i motivi per considerarsi particolarmente adatto al suo compito di coordinare la SEPI-Italia, mentre io, anche se ne avessi il tempo, non lo sarei affatto. A proposito di scarsi contributi di gruppi italiani alla SPR: forse la nostra situazione nazionale non è più così povera di contributi come quando Paolo scriveva il suo bell'articolo, e come Tullio pensa che sia tuttora. Ad esempio, il gruppo di Semerari presenta regolarmente i suoi lavori di ricerca sui deficit metacognitivi nei congressi della SPR suscitando interesse notevole; Fava, mi sembra, pubblica su buone Riviste internazionali i suoi lavori sulla terapia cognitiva della depressione; Lavinia Barone con quattro clinici esperti che lavorano a Vicenza, ed un importante esperto di metodi statistici nella ricerca in medicina (Paolo Pasquini) sta mettendo a punto un buon programma di ricerca sulla terapia dei disturbi borderline, a cui se avrò tempo parteciperò; Giorgio, fra noi, mi sembra che abbia intenzione di darsi da fare sempre di più nella ricerca, e gli auguro di avere crescente successo; Dazzi, Freni ed altri mi sembra che si impegnino egregiamente per fare ricerca sul processo della psicoterapia psicoanalitica... e chi sa quanto d'altro c'è in Italia che potrebbe raggiungere, o già ha raggiunto, i criteri di eccellenza citati nell'articolo di Paolo. Gianni Giorgio Gabriele Alberti, 18 Aprile 2002: Cari amici, ieri si è svolta con successo la giornata incentrata sulla terapia dei borderline secondo i criteri della cognitive-analytic therapy di Tony Ryle. Ci saranno state circa 350 persone che mi sembra abbiano apprezzato sia l'esposizione di Ryle che i commenti e le domande, molto ben fatti, di Barale (Uni-Pavia, Greco (DSM-San Carlo-Milano) e Sassaroli (Associazione per la Psicoterapia Cognitiva di Milano), come anche gli interventi del pomeriggio di Rossi (Uni-L'Aquila), Sorrentino (Nuovo Centro per lo Studio della Famiglia-Milano), Caverzasi (Uni-Pavia). Al di là della bellezza e lucidità della presentazione di Ryle (sia degli elementi fondamentali della CAT che del suo modello del processo patogenetico operante nei borderline fondato, come è noto, sul concetto dello switching repentino e incontrollabile tra diversi stati reciproci del Sé, es. persecutore><vittima <==> adorante><idealizzato) l'aspetto che a mio vedere è stato il più pregevole della giornata è stato il ricorrere, esplicito e implicito, dei confronti trasversali tra i diversi modi di concepire la patogenesi e la cura dei BPD: da Barale, che da un punto di vista psicoanalitico brillantemente apprezzava, ma un po' anche elegantemente criticava, l'approccio di Ryle, a Sorrentino che pur da un'ottica sistemica (con però formati d'intervento plurimi, familiare, coppia genitoriale e individuale, nel corso dello stesso trattamento) ravvisava diverse somiglianze tra il proprio approccio e quello di Ryle (es. nell'attività, nella precoce definizione consensuale della narrazione patogenetica...), a Sassaroli che in buona parte si riconosceva nel metodo CAT, pur vedendovi una pronunciata radice kellyana. L'impressione che i presenti dovrebbero aver tratto è, direi, che oggi esistono alcuni, almeno 5-6, diversi modelli del processo patogenetico della patologia borderline di personalità (di cui almeno un paio hanno già carattere integrativo, quelli di Ryle e Linehan), tutti di un'analoga complessità e aventi un analogo grado di "giustificazione" della sintomatologia e delle tipologie biografico-relazionali di questi pazienti, da cui derivano diversi metodi utili a modificarlo, alcuni anche di efficacia discretamente dimostrata. Una sorta di pluralismo di settore, forse da intendersi come area in cui potrebbe crearsi una "tessera integrativa" patogenetico-terapeutica, che cioè potrebbe vedere, nel tempo, grazie anche a della ricerca euristica ED empirica, un accordo generale su un unico modello del processo patogenetico e del processo di cambiamento, con combinazione, ovvia- mente coerente, di parti di questi attuali modelli, con l'introduzione di eventuali nuovi concetti, e, se necessario, con l'eliminazioni di altre parti di alcune o di tutte le attuali terapie in base alla loro inefficacia o inconciliabilità logica. Uno spunto per Gianni: la Sorrentino, una sistemica allieva della Selvini a mio vedere molto brava, ha portato la propria esperienza con famiglie di borderline, circa 25. Ha ricostruito le condizioni psichiche delle madri e dei padri nel periodo perinatale del paziente, ed ha trovato che in tale periodo della loro vita tutte le madri avevano fatto esperienze gravemente traumatiche e tali da renderle depresse o instabili o impulsive: perdita di un proprio genitore, infedeltà dei coniugi etc. Mi è venuto ovvio un riferimento all'attaccamento disorganizzato di cui Tu hai scritto. Non credo che la Sorrentino abbia ancora pubblicato questi dati, e forse potrebbe esserTi interessante discuterne con lei. Giorgio Tullio Carere, 19 Aprile 2002: Cari amici, il principale disaccordo riguarda certamente il modo di intendere la scienza. A me sembra che l'epistemologia più avveduta (vedi Longhin e Mancia) riconosca la coesistenza di diversi tipi di scienza, ognuna con i suoi metodi e le sue procedure. In ogni tempo, tuttavia ci sono stati dei modelli dominanti, che hanno imposto la loro egemonia e l'hanno esercitata in modo non di rado intollerante. Per quello che riguarda il nostro campo, in particolare, sono abbastanza vecchio da ricordare bene che trent'anni fa, quando muovevo i miei primi passi come psicoterapeuta, il modello egemone era quello della psicoanalisi, come "scienza dell'inconscio". Non esisteva altra verità se non quella estratta tramite interpretazione dall'inconscio. Coloro che cercavano verità diverse erano trattati da selvaggi o ciarlatani. Oggi il vento è cambiato. La parola d'ordine che va per la maggiore è: non esiste altra ricerca della verità se non quella che passa per la formulazione di ipotesi verificabili/falsificabili mediante esperimenti pubblici e ripetibili. Chissà che cosa imporrà la moda fra altri trent'anni. Personalmente sono contento che i &&pundit della verità dell'inconscio abbiano perso il primato, ma mi sembra che questa enfasi sull'oggettivazione e la misurazione di fenomeni eminentemente soggettivi, questo spostamento dall'esperienziale allo sperimentale, ci allontani da quello che io ritengo essere il tipo di ricerca più appropriato alle cose di cui ci occupiamo in psicoterapia. Sia ben chiaro: la ricerca sperimentale è importante anche per me che non la faccio, ma utilizzo i suoi risultati quando posso. Quello che contesto è l'importanza esagerata che a questo tipo di ricerca si vuol dare, non solo nei campi in cui sicuramente ce l'ha, ma anche in psicoterapia (e in psicopatologia), dove il suo ruolo mi sembra sia e debba restare molto più ridotto e complessivamente secondario, in ogni caso non decisivo. Stabilita la differenza nei rispettivi modi di intendere la ricerca, come possiamo procedere, ammesso che vogliamo ancora farlo, al di là della pura e semplice constatazione della differenza? Ho una modesta proposta: proviamo a confrontarci su un tema specifico, e cerchiamo di mostrare come, secondo ognuno di noi, il tema va affrontato. Prenderei come tema quello che ha suggerito Paolo nel suo ultimo mail: la coppia dialettica che Wilma Bucci ha denominato subsimbolico/simbolico, che ha molti punti di contatto con la coppia bioniana O/K. Entrambe sono ricollegabili alle coppie freudiane primario/secondario e inconscio/coscienza, che sono tuttavia superate in un punto decisivo: mentre per Freud il movimento terapeutico è in una sola direzione, dal primario e dall'inconscio al secondario e alla coscienza, tanto per Bion quanto per la Bucci il movimento deve essere bidirezionale, essendo due modi di elaborare l'informazione (o due modi di esperienza, o due dimensioni dell'esistenza), nessuna delle quali deve essere privilegiata a scapito dell'altra: il movimento deve essere, appunto, dialettico, un movimento di va e vieni dall'uno all'altro polo, con la ricerca continua della sintesi o integrazione appropriata - che di volta in volta può essere più vicina a un polo (quello dello scienziato) o all'altro (quello dell'artista e del mistico). Nella mia ricerca io mostrerei innanzitutto, in senso diacronico, lo sviluppo dalle concezioni freudiane, potenti e rivoluzionarie, ma ancora condizionate da un bias positivistico, a quelle di Bion, di Bucci, di Loewald (altro autore che ha proposto una polarità molto simile), che superano quel condizionamento. Quindi, in senso sincronico, studierei la struttura comune ai modelli dei tre autori citati - come tre specie di mammiferi, che nascono in luoghi e momenti diversi, ognuno con caratteristiche proprie ma accomunati dalla stessa struttura essenziale. In senso diacronico sottolineerei l'evoluzione dalle concezioni freudiane, ancora unilineari e unilaterali, come è proprio della scienza positivistica, a quelle mature, compiutamente dialettiche, di BB&L. Almeno per l'aspetto sincronico penso di poter contare sulla comprensione di Giorgio, che nella sua ricerca sui circuiti esperienza/comportamento si è mosso sostanzialmente allo stesso modo. Ma forse anche in senso diacronico Giorgio potrebbe concordare: il fenomeno che lui ha studiato ha una struttura circolare, che supera la struttura lineare caratteristica delle teorizzazioni immature sia della psicoanalisi che del cognitivismo. Giorgio ha studiato una struttura che gira viziosamente su sé stessa finché non si trova il modo di sbloccarla, per restituirla alla sua fisiologica dialetticità. In una prospettiva dialettica il discorso psicopatologico è inseparabile da quello psicoterapeutico, contrariamente a quanto sembra pensare Gianni. La patologia è comprensibile come perdita o distorsione del fisiologico movimento dialettico sui diversi assi, centrali e secondari, lungo i quali si declina l'esistenza umana; e la terapia è comprensibile come corrispondente ripristino di quel movimento. Per quello che riguarda la polarità in questione, si tratta in primo luogo di riconoscerne la centralità nello psichismo umano (nel mio modello infatti la rappresento con l'asse verticale): ma questo è difficile perché, come nota la Bucci, "siamo tutti inconsciamente prigionieri di formulazioni a dominanza verbale... non siamo abituati a pensare, a riconoscere quel pensiero che è in modo dominante non verbale, e in modo dominante non simbolico". Le somatizzazioni, per esempio, sono comprensibili come forme di "alexitimia", come ci ricorda Piero Porcelli: condizioni in cui le emozioni sono dissociate dal linguaggio. Bisognerà allora in primo luogo recuperare quelle emozioni; di qui la tecnica che Piero trova "sconcertante", ma che è invece perfettamente coerente in questa prospettiva: la "focalizzazione dell'attenzione sul sintomo somatico o sul dolore fisico". Sconcertante forse per uno psicoanalista, ma non per un terapeuta a orientamento corporeo, che sa come collegarsi con il subsimbolico (con il "protomentale", diceva Bion) in modi che solo ora gli psicoanalisti cominciano a intuire. In una sensazione puramente fisica come dolore o freddo si comincerà a cogliere, mediante la focalizzazione (vedi il "Focusing" di Gendlin) un'emozione, come paura o rabbia, che sarà quindi collegata a immagini e parole, e infine a significati, per poi tornare indietro a vedere come la sensazione di partenza si è modificata, in quel movimento che la Bucci chiama "referenziale", mentre per me è la normale dialettica sull'asse O-K. Quello che serve, secondo me, è la descrizione fine e dettagliata di questi microprocessi, in un linguaggio meta- o transteoretico. Di questo ho bisogno, sia come psicoterapeuta che come psicopatologo. Verifiche sperimentali le leggerei con interesse, ma non andrei a cercarle, perché non ne sento il bisogno, come non ne sente il bisogno la grande maggioranza degli psicoterapeuti, e credo anche degli psicopatologi, che infatti fa un grande consumo di letteratura euristica, ma un consumo molto parco o nullo di letteratura sperimentale. Sappiamo che la Bucci, oltre ad essere una ricercatrice euristica di prim'ordine, è anche una ricercatrice sperimentale ugualmente di prim'ordine. Purtroppo non ho ancora studiato la sua opera in maniera sufficientemente approfondita da cogliere il legame necessario, se c'è, tra le sue due anime. Ma se qualcuno di voi mi ha seguito fin qui, è interessato a questo discorso, ed è in grado di indicarmi dove, come e perché le cose che ho detto fin qui *abbiano bisogno* di appoggiarsi a studi empirici, ve ne sarò grato. Tullio Tullio Carere, 19 Aprile 2002: Grazie Giorgio per la relazione sul convegno con Ryle. Ma a proposito: tutte le cose che hai detto - in particolare il confronto che i diversi intervenuti hanno fatto tra il modello di Ryle e altri modelli - rientrano molto bene in un convegno in cui la modalità di riferimento è quella euristica. Se non ho letto male, non ho trovato alcun cenno a una ricerca sperimentale che abbia fatto la differenza per preferire un modello a un altro. E ancora a proposito di ricerca sperimentale: Gianni dice che l'articolo di Paolo è datato, oggi le cose in Italia sono cambiate e si fa della ricerca seria. Vorrei capire meglio. Tu intendi dire, Gianni, che i gruppi da te citati rispettano i criteri di Beutler e Crago, quindi sono gruppi a larga scala o almeno a scala ridotta? Vuoi dire cioè che al momento in cui Paolo ha scritto l'articolo non esistevano in Italia gruppi che rientrassero in quei criteri, mentre oggi esistono? Oppure vuoi dire che anche i criteri di Beutler e Crago sono datati, e oggi la serietà di un gruppo di lavoro (e quindi la validità delle ricerche che produce) si misura diversamente? In ogni caso, i criteri per valutare la serietà delle ricerche (quelli che ti permettono di affermare che oggi in Italia si fa della ricerca seria) sono stati stabiliti mediante ricerche sperimentali, o solo euristiche (tipo "questi ricercatori sono apprezzati all'estero")? Tullio. Giorgio Gabriele Alberti, 20 Aprile 2002: Caro Tullio, nel convegno con Ryle non si è parlato di ricerca empirica se non di sfuggita, ma ciò non significa che sulla CAT e sul modello patogenetico della personalità borderline secondo Ryle non siano state fatte ricerche empiriche. Il lavoro di Ryle e Golynkina che mi ha chiesto recentemente Gianni è uno di questi, e ve ne sono altri che sono menzionati nell'ultima opera di Ryle ("Introducing Cognitive Analytic Therapy", di A. Ryle e I.A. Kerr, Wiley, 2002). Mi sembra che Tu cerchi in un qualche modo di trovare conferme dell'esistenza di una ricerca euristica a se stante, scissa dalla ricerca empirica. Se è così, devo ribadire quanto ho già detto della mia concezione della ri- cerca integrativa, e cioè che essa deve avere ambedue le cose, la ricerca che Tu chiami euristica (p. es. la ricerca delle somiglianze procedurali tra le diverse terapie) e la ricerca empirica, che permette di verificare la validità delle ipotesi, di osservare meglio certi fenomeni, di dimostrare e confrontare le efficacie etc. E che nessuna delle due è dominante, nessuna ancella o schiava, anzi ognuna arricchisce l'altra. E così è nel caso nella CAT di Ryle: lui stesso ha detto al nostro congresso che la sua ricerca, dopo un training psicodinamico kleiniano, è iniziata da degli studi di efficacia delle psicoterapie dinamiche, per cui ha cercato un linguaggio, quello cognitivo, che gli appariva inoltre come un ponte potenziale tra tante diverse terapie. Di qui le sue prime formulazioni dei meccanismi patogenetici cognitivi, e poi lo sviluppo dell'ossatura fondamentale della CAT. Parallelamente iniziò a fare degli studi di efficacia, presumo per replicare ai suoi critici, e poi estese la ricerca alla dimostrazione dei meccanismi patogenetici stessi, ad esempio i cosiddetti stati del Sé e il loro repentino switching, che lui ritiene alla base della personalità borderline. E con il suo modello patogenetico della personalità borderline adeguatamente corroborato poté meglio definire linee di intervento e azione terapeutica. Come vedi, tutta la sua biografia scientifica è un pendolare tra speculazione teorica e ricerca dell'evidenza empirica, e ambedue traggono ognuna vantaggio dall'altra. Una ricerca sana, direi, deve avere ambedue le cose, e le ricerche malsane sono unilaterali: la solo euristica perché rischia di avvitarsi in percorsi tautologici, in personalismi e nominalismi che non tengono conto della realtà osservabile, la solo empirica perché rischia di perdere il riferimento alla clinica, cioè alla cura delle persone, per esaurirsi in questioni troppo astratte o addirittura in mistificazioni statisticheggianti. Giorgio Giovanni Liotti, 21 Aprile 2002: Caro Giorgio, grazie per le notizie sulla giornata con Ryle, del cui successo (350 iscritti!) mi compiaccio e non dubitavo. Non ne dubitavo, perché quando si parla di modelli patogenetici e terapeutici di specifici disturbi, modelli ben costruiti e la cui efficacia-efficienza è pubblicamente indagabile e magari persino già indagata, l'interesse degli psicoterapeuti è sempre piuttosto elevato. Tullio, a proposito di questo interesse diffuso, pensa che si tratti di una moda transeunte, visto che trent'anni fa la psicoanalisi questo interesse non lo mostrava. Io penso che si tratti invece di una tendenza più solida e durevole. L'applicabilità alla psicopatologia e alla psicoterapia del secolare metodo di ricerca baconiano-galilieiano è una scoperta recente, ma ora che è avvenuta ritengo prevedibile che duri nei secoli, come da secoli dura il successo del metodo scientifico in altri ambiti di ricerca. Ovviamente, quella di Tullio e la mia sono mere opinioni/congetture sul futuro, non dimostrabili, e quindi ciascuno di noi fa bene a tenersi la sua. Visto però che i soci della SEPI, come Tullio argomenta, sono in grande maggioranza propensi a pensare che quella della ricerca in psicopatologia e psicoterapia sia una moda transeunte, tutto sommato deleteria, imperialista, e limitante la creatività (euristica) dello psicoterapeuta, è evidente perché io mi trovi più "a casa" nella SPR che nella SEPI. Non è che mi piaccia molto sentirmi continuamente accusato di aderire a mode "imperialiste" e che limitano la creatività della mente umana. E se l'interesse per la ricerca empirica in psicoterapia e psicopatologia lo fosse, una moda imperialista, non vedo perché mai dovrei, in quanto aderente a questa moda, continuare ad infastidire con le mie prepotenze scientiste i membri di un'altra Associazione che viceversa coltivano con passione un qualcosa che chiamano ricerca euristica (e che a me continua a sembrare la formulazione di ipotesi da sottoporre successivamente al vaglio della ricerca controllata, non un tipo indipendente e dialetticamente contrapposto di ricerca).
Conosco bene la Sorrentino. Ho tenuto, negli ultimi anni, diversi Seminari sul tema "attaccamento disorganizzato e disturbi bordeline" nella Scuola della compianta Mara Palazzoli Selvini, e ho avuto più volte Anna Maria Sorrentino come interlocutrice. In un'occasione recente, a Lugano, ho commentato alcuni suoi dati clinici alla luce della teoria e della ricerca sull'attaccamento, in un interessante "duetto" durato una intera giornata. Un analogo dialogo seminariale di una giornata lo ho poi avuto a Milano con Matteo Selvini. Penso che i dati che la Sorrentino ha presentato, e che ricordi nella tua mail, siano in parte frutto di questi nostri incontri, nel senso che dell'influenza di lutti e traumi non elaborati nelle famiglie dei futuri pazienti borderline, ho parlato a lungo durante i seminari che ho tenuto nella sua Scuola. Ma di questo tema, l'influenza dell'attaccamento disorganizzato nella genesi del disturbo borderline, mi propongo di parlare in una mail di risposta ad un messaggio di Tullio, che ho letto subito dopo il tuo. Infatti, il tema mi permetterà di provare a spiegare perché non mi riconosco nella dialettica fra due tipi di ricerca euristica e (come chiamare l'altra? empiricamente controllata?) che è tanto cara a Tullio. Gianni Paolo Migone, 21 Aprile 2002:
Vorrei rispondere io a questa tua domanda, Tullio. I criteri di Beutler e Crago erano arbitrari, scelti per trovare un cut-off allo scopo di elencare i gruppi più consistenti, più grossi nel mondo. E' tutto molto approssimativo. Se badi bene, non hanno niente di scientifico, alludono solo al numero di ricercatori ecc. (a parte le ricerche pubblicate su riviste qualificate, che potrebbe essere un indicatore, ma anche questo è relativo, al limite). Insomma, Beutler e Crago volevano solo fare un elenco che - statisticamente parlando - potesse avere una correlazione sulla serietà e quantità delle ricerche empiriche fatte, niente di più, dato che, come tu stesso dici, per fare ricerche in psicoterapia ci vogliono molti soldi, strutture ecc., per cui hanno scelto quei criteri "esterni" come possibile indicatore. Gianni penso volesse dire che negli ultimi anni tanti gruppi stanno lavorando seriamente in Italia, anche se sono quasi sicuro che farebbero ancora fatica a rientrare nei rigidi criteri di Beutler e Crago. Ma non capisco che interesse possa avere per noi tutto questo. Paolo Giovanni Liotti, 21 Aprile 2002: Caro Tullio, mi aggancio alla chiusa del mio precedente messaggio, che ho appena indirizzato a Giorgio (ma che come al solito è rivolto a tutti voi tre), per provare a spiegarti perché non sono d'accordo con la tua ( e di tanti altri della SEPI) idea dei due tipi di scienza. Noterai che qui rispondo alla domanda della tua mail successiva. Per farlo, tenterò di descrivere la mia esperienza nell'unica ricerca che ho portato avanti, riguardante l'attaccamento disorganizzato come fattore di rischio nello sviluppo dei disturbi borderline (come ti dicevo, sono uno psicopatologo più che uno psicoterapeuta...). Abbiate pazienza, perché non può essere un discorso breve. Dunque, osservando i videotape del comportamento di alcuni bambini con attaccamento disorganizzato in quella paradigmatica condizione di ricerca controllata che è la Strange Situation, nel lontano 1987 ( i video erano del gruppo di Mary Main, un gruppo che si interessa di ricerca empirica, la sola che conosca: quella euristica non la conosco), osservando questi video, dicevo, ho avuto l'intuizione (non sono certo che, nell'averla, io fossi nel polo O del tuo asse) che a partire da quell'esperienza di attaccamento fatta fin dal primo anno di vita si potesse arrivare, da adulti, a sviluppare disturbi borderline e dissociativi. Successivamente, ho iniziato a vagliare questa ipotesi o congettura nelle storie cliniche dei miei pazienti in psicoterapia. Non si trattava ancora di ricerca empirica controllata, e non era più intuizione, come quella avuta osservando i videotapes di ricerca di Mary Main. Non la chiamerei di certo una ricerca euristica, non mi sembra fosse un altro tipo di scienza. Semplicemente, usavo i risultati delle ricerca empirica controllata altrui (di Mary Main, e poi di 18 altri gruppi diversi di ricercatori col timbro della serietà) nel mio lavoro clinico, e ciò facendo vagliavo da clinico una mia IPOTESI euristica (ripeto che proprio non capisco perché dovrei chiamarla col nome di RICERCA euristica: per me era una congettura, euristica come tutte le congetture e non ancora corroborata dall'unico tipo di ricerca controllata che mi è noto). Avendo avuto riscontri incoraggianti da questo processo di vaglio clinico che non è ancora ricerca empirica controllata (ci si sbaglia facilmente quando si lavora sui propri pazienti e senza gruppi di controllo), ho finalmente avviato con un gruppo di circa quindici ricercatori, coordinati da Paolo Pasquini (esperto internazionalmente ben noto di metodi di ricerca epidemiologica) una vera e propria ricerca controllata. Il gruppo certamente corrispondeva ai criteri di Beutler e Crago, pur essendo ahimè un gruppo solo italiano tanto che lo abbiamo chiamato "Italian Group for the Study of Dissociation". Riconosco però che, pur essendo "serio" e "a larga scala", era però un gruppo di ricerca più sulla psicopatologia che sulla psicoterapia. I risultati della ricerca empirica controllata sono arrivati dopo ben sei anni di sforzi (non è facile accumulare un gruppo di "casi" borderline composto da oltre 100 pazienti, ed un gruppo di "controlli" con altre patologie psichiatriche anche più numeroso, nonostante si fosse in tanti a condurre questa indagine sistematica). I suddetti risultati sono attualmente pubblicati in ACTA PSYCHIATRICA SCANDINAVICA, Vol. 102, pp.282-289, anno 2000. Il titolo del'articolo, a firma "Liotti G., Pasquini P. & The Italian group for the Study of Dissocation", è: "Predicitive factors for borderline personality disorders: Patient's early traumatic experiences and losses suffered by the attachment figure". I dati pubblicati in questo articolo del 2000 sono tali da corroborare la mia congettura (euristica come tutte le congetture) del 1987. Questa esperienza personale mi induce a ritenere che vi sia un solo tipo di scienza, checché ne dica quella che tu consideri " l'epistemologia più avveduta (vedi Longhin e Mancia)", la quale, come scrivi "riconosce la coesistenza di diversi tipi di scienza, ognuna con i suoi metodi e le sue procedure". Rispetto il tuo diritto di giudicare quale epistemologia sia avveduta e quale invece sventata, ma non ho alcun motivo per concordare col tuo conseguente apodittico verdetto a favore di Longhin e Mancia. Nella mia esperienza, in accordo con le epistemologie "sventate" e poco avvedute che vanno dal tempo di Galileo a quello di Popper (nonostante la loro "sventatezza" rispetto a quelle dei secondo te ben più saggi Longhin e Mancia, queste vecchie epistemologie hanno dalla loro il sostegno della loro durata nei secoli), ritengo che la sequenza di congettura (euristica) e tentativo di confutarla (sperimentale) sia sempre la stessa basilare ed unica modalità di procedere nella scienza. Io, come tanti altri che collaborano a portare mattoni per l'edifico della conoscenza scientifica: 1) ho fatto una congettura (l'attaccamento disorganizzato predispone ai disturbi borderline), 2) mi sono appoggiato ai risultati sperimentali di altri (non alle congetture che li avevano preceduti; i risultati sono che se un genitore ha un lutto non elaborato è probabile che il bambino sviluppi un attaccamento disorganizzato a quel genitore); 3) ho quindi chiesto ai miei pazienti borderline se il loro genitori avessero avuto lutti prima della loro nascita (sapendo che le loro numerose risposte affermative non erano sufficienti a corroborare la mia congettura, visti i numerosissimi fattori di confondimento intrinseci a questo tipo di indagine clinica); 3) infine, ho cooperato con un gruppo a larga scala ad una vero tentativo di confutare la mia congettura (attraverso l'indagine di un campione sufficientemente numeroso per questo tipo di indagine, con un adeguato gruppo di controllo, con la valutazione indipendente di un altro noto fattore di rischio quali i traumi direttamente subiti dai pazienti, con una serie di questionari per valutare i lutti delle madri ed il loro status irrisolto durante i primi anni di vita del paziente, etc. etc.). 4) Non essendo riusciti a confutare la congettura di cui al punto 1), possiamo temporaneamente mantenerla come strumento di lavoro per comprendere il mondo dei borderline (inclusa la comprensione della loro esperienza soggettiva di disorientamento, vuoto, paura dell'abbandono, shift rapido da uno stato mentale ad un altro opposto, etc.). Tutto ciò non corrisponde a due tipi di scienza, uno euristico è l'altro controllato. Il metodo scientifico è uno solo, secondo me (e qualcun altro) persino nelle scienze storiche. Si fa una congettura , e poi si cercano le prove (i documenti storici, i risultati di esperimenti, il calcolo delle percentuali, etc., etc.) che la confutino.
No. I modelli dominanti a cui pensi semplicemente non erano scientifici, nel senso che non procedevano per congetture e confutazioni, e per questo erano eventualmente intolleranti. Come può essere intollerante verso le opinioni altrui il tentativo di confutare la PROPRIA opinione, che è tipico della scienza? Non importa che gli psicoanalisti "intolleranti" di cui parli si autoproclamassero scienziati (dell'Inconscio). Dichiarare di essere una qualsiasi "cosa" non ci rende quella cosa, non ti pare? I ciarlatani, i mentitori, e quelli che semplicemente sbagliano o sono ignoranti di quanto vanno affermando di sapere o essere, esistono, e sono esistiti in ogni tempo. Vedi tu se vuoi considerare gli psicoanalisti di tanti decenni fa che si dichiaravano "scienziati", dei mentitori, dei ciarlatani della scienza, dei "selvaggi" nel mondo della scienza, o semplicemente degli ignoranti dell'essenza del metodo scientifico (senza nulla togliere al loro essere dei geni letterari, artistici o della terapia, e alla possibilità che a volte, grazie a tale genio, ottenessero risultati terapeutici straordinari). Alcune congetture (euristiche) di quei primi psicoanalisti possono essere non solo geniali, ma anche ottime approssimazioni all'inafferrabile verità, ed ottime guide per un'efficace prassi psicoterapeutica. Altre sono false ed inutili. Il punto è che tutte, mentre sono liberamente usate, devono essere sottoposte al vaglio della scienza perché noi possiamo distinguere le prime (utili, mai sapremo se ed in che misura anche "vere") dalle seconde (inutili e certamente false).
Non sono d'accordo, in particolare con le tue seguenti locuzioni: 1)"parola d'ordine" (imposta da quale Ufficiale? verso quali sottoposti, che devono essere fatti passare, solo se la conoscono per la porta di quale Caserma? secondo me, si tratta solo di difendere il valore di un metodo di conoscenza, e che ne vuole adottare un altro è liberissimi di farlo); 2) "va per la maggiore" e "moda" (no, è un metodo secolare, preesistente alla psicoterapia e che da poco si applica anche alla psicoterapia, non una moda); 3) "ricerca della verità" (lo ripeterlo l'ennesima volta: la "verità" la cerchi forse tu sempre, io forse nelle ore in cui leggo i miei mistici ed i miei poeti; non la cerca invece chi fa ricerca empirica, non lo scienziato, non io durante le molte ore, entro molti anni, passati a ricercare se provvisoriamente posso continuare a lavorare con la mia congettura su attaccamento disorganizzato e disturbi borderline, oppure se faccio meglio ad abbandonarla).
Non me la sento di accettare questa proposta, perché non mi interessa deviare dal mio modesto percorso con i miei borderline per mettermi a confrontare Bion e la Bucci, o, per l'ennesima volta O (che non mi piace come polarità opposta a K) e K, né a riflettere sui movimenti dialettici che "devono" essere bidirezionali mentre secondo Freud "dovevano" essere unidirezionali etc. etc. Questa è una direzione di riflessione e di dialogo che interessa te, forse Paolo, forse molti altri, ma non me. Ti invito ancora a perseguirla, e a farlo come coordinatore della SEPI Italia, e ti auguro di cuore successo e buoni dialoghi con quanti più Colleghi sia possibile, solo non intendo seguirti io per questa strada. Io, infatti, non vedo come si possa affermare che qualcosa "deve" essere in un qualsivoglia modo (bidirezionale, unidirezionale, o in qualsiasi altro) senza sottoporre le ipotesi rivali a vaglio sperimentale. E anche dopo il vaglio, non credo si possa militarmente dire che "deve", solo che è per il momento presumibile che spesso, o di solito, sia. Personalmente, non ho tempo né voglia per esaminare le prove esistenti a favore dell'una o dell'altra tesi delle due che proponi (unidirezionalità o bidirezionalità dialettica del movimento fa coscienza ed inconscio, fra subsimbolico e simbolico), o quelle che confutano l'una e corroborano l'altra (tantomeno, ovviamente, per mettermi a raccoglierle io con opportuni esperimenti). Però leggerò con gioia l'opera di chiunque, raccogliendo quelle prove empiricamente controllate, possa convincermi ad utilizzare l'una o l'altra visione nel mio lavoro clinico e nelle mie riflessioni teoriche. Per il momento, mi rifiuto di credere che le alternative siano solo quelle due che tu proponi, perché come sai non mi piace il numero due. Cerco sempre di aggiungere altre tesi, e di non pensare mai troppo in termini di polarità. Così, nel caso in questione della tua proposta, io uso un terzo modello (chiamiamolo di Tulving), che non distingue come fa la Bucci fra "simbolico verbale", "simbolico non verbale" e "subsimbolico", ma fra conoscenza esplicita dichiarativa, conoscenza esplicita episodica, e conoscenza implicita. I tre ultimi costrutti non sono sovrapponibili del tutto a quelli della Bucci. Essi sono i più usati nella psicologia cognitiva, perché meglio corrispondenti ai paradigmi ed ai risultati di ricerca disponibili. Molti psicoanalisti che fanno ricerca o ad essa sono interessati (penso a Meares, a Schore, a Fonagy, e prima di loro a Bowlby), usano la tripartizione della conoscenza di Tulving, non quella della Bucci, perché quella di Tulving presta assai migliore attenzione al tempo (memoria episodica) e alla memoria autobiografica, (importanti dimensioni tanto della conoscenza cosciente quanto di quella inconscia e persino di quella metaforica che si pone a ponte fra le due). E comunque, come vedi anche qui, non mi sembra sempre la mossa migliore partire da una qualsivoglia coppia di costrutti (inconscio/coscienza, primario/secondario, K/O, simbolico/subsimbolico), e men che mai ritenere che coppie polari e dialettiche di costrutti fondino la realtà. Proprio perché riconosco la potenza dell'enantiodromia, del tipo cioè di pensiero che procede per polarità, ritengo che sia bene correggere o meglio contemperare questa tendenza del pensiero umano con la riflessione da un lato sulla molteplicità (al minimo triadica: inconscio-preconscio-coscienza, o meglio ancora più numerosa: implicito- semantico- metaforico- episodico, ad esempio...), e dall'altro sull'unità-continuità (evoluzione, sviluppo). Se mi concentro sulle mie sindromi cliniche e sui modi per trattarle, anziché su "grandi temi come quello dell'inconscio e della coscienza, allora sì che scopro sorprendenti "integrazioni" delle psicoterapie. Scrivendo un mio lavoro (di congetture naturalmente euristiche, ma spero che qualcuno lo usi per l'unico tipo di ricerca scientifica che mi risulta esistere), un lavoro sui borderline che segnalo anche a Giorgio e che Paolo ben conosce perché lo ha messo lui "in rete" anni fa, scrivendolo, dicevo, ho scoperto con mia sorpresa che a partire dall'attaccamento disorganizzato nei borderline era possibile trovare un modo per conciliare (integrare?) alcuni principi terapeutici di Kernberg con alcuni principi terapeutici di Linehan, e persino comprendere quelli di terapeuti sistemici come la Sorrentino... Questo tipo di riflessione sull'integrazione -- relativo ad un bricolage di "piccole" aree di indagine (i borderline, l'attaccamento, lo slittamento da un modello rappresentativo di sé all'altro, la regolazione difettosa degli impulsi emotivi), e non a grandi teorie sulla mente umana -- è l'unico che sono capace di perseguire, ed anche l'unico che mi appare promettente per una futura psicoterapia senza aggettivi. Buona fortuna, Tullio, con la tua ricerca di grandi teorie sintetiche, come tuo modo di riflettere sull'integrazione. Apprezzo il tuo sforzo, ma mi sono accorto che per me è impossibile seguirlo. Non voglio impacciare ed intralciare il tuo dialogo con altri colleghi continuando a polemizzare con te. Ostacolerei, così, il tuo tentativo. E non ce ne è motivo: che la dialettica mi sia antipatica quanto a te è antipatico l'evoluzionismo Darwiniano (vedi che qui dò ragione a Benvenuto, che scegliamo anche sulla base di quello che, per ragioni misteriose, ci piace?), tutto questo è un incidente, o un caso (fai tu...). Che io preferisca la selezione e la scelta non è un buon motivo per ostacolare un amico che attraverso la sua simpatia per la dialettica fa un ammirevole sforzo, invece, di sintesi. Se vivremo abbastanza, forse un qualche decennio futuro ci dirà per quale di queste due strade, (la tua, la mia, o sarà per una terza, una quarta, un'altra ancora?) l'integrazione delle psicoterapie meglio procederà. Gianni Paolo Migone, 21 Aprile 2002: Cari amici, come vi avevo preannunciato, vi accenno a qualche riflessione dopo il seminario di Daniel Stern a Milano domenica scorsa, dato che può avere qualche rilevanza coi nostri discorsi. Procedo a caso, a seconda di quello che mi viene in mente. E' scontato che quello che dirò non è quello "che ha veramente detto Stern", ma quello che io ho capito di quello che lui ha detto. Stern dice che il problema della scientificità della psicoanalisi a lui non interessa, in quanto per "scienza" si possono intendere tante cose. A lui preme se una cosa può essere interessante o meno. E, a questo riguardo, la psicoanalisi tradizionale (la questione dell'inconscio dinamico, la teoria tradizionale della cura, ecc.) si può dire non sia più interessante, quasi per nessuno. E' interessante invece fare altri discorsi in psicoanalisi, ad esempio come lui e il suo gruppo (il noto "Boston Group for the Study of Change Process", che firma sempre gli articoli collettivamente) hanno fatto nell'articolo "Non-interpretive mechanisms in psychoanalytic therapy: The 'something more' than interpretation", apparso come lead-article sull'International Journal of Psychoanalysis proprio nel numero precedente a quello dove è apparso il nostro, mio e di Gianni Liotti, e che anch'esso fu discusso nella mailing list dell'IJPA (potete trovare l'articolo, la discussione e il riassunto della discussione sul sito dell'IJPA http://ijpa.org/archives1.htm). Ebbene in quell'articolo Stern e collaboratori (che sono L.W. Sander, J.P. Nahum, A.M. Harrison, K. Lyons-Ruth, A.C. Morgan, N. Bruschweile-Stern, E.Z. Tronick) avevano parlato di quelli che loro chiamano "present moment" e "now moment", momenti critici, importanti, in seduta, riguardo al cambiamento. Questi momenti vogliono essere "esterni al transfert", cioè "reali", ricchi di esperienza affettiva e di scambio intersoggettivo, di riconoscimento reciproco ecc. (però su cosa sia la "relazione reale" Stern e il suo gruppo hanno provato a lavorarci su, e più volte - mi sembra abbia detto tre volte - si sono riuniti per affrontare questo problema, ma tutte le volte alla fine rinunciandoci per dichiararsi sconfitti [sic]; ha detto che "ci riproveranno in futuro"). Sono questi momenti quelli che con tutta probabilità inducono cambiamenti strutturali, cioè nella memoria procedurale del paziente, che per Stern è la cosa che conta (ma questi momenti sono la causa o la conseguenza di questi cambiamenti? Problema vecchio come il mondo, sollevato bene da Alexander già nel 1946 [http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/alexan-1.htm], che disse che non è l'insight che causa il cambiamento, ma che l'insight avviene "dopo" che è avvenuto qualcosa, l'esperienza emozionale correttiva, dopo cioè che il cambiamento è già avvenuto). La memoria procedurale, nel bambino come nell'adulto, è quella che regola quasi tutti i comportamenti importanti, ed è strettamente collegata anche alla capacità di comprendere i comportamenti intenzionali degli altri (a questo riguardo Stern ha accennato alla scoperta, fatta proprio qui all'Istituto di Fisiologia di Parma da Gallese, Rizzolatti e altri, dei "neuroni specchio", i "mirror neurons", che si attivano non solo quando il soggetto compie un determinato movimento, ma anche quando il soggetto vede in un altro quello stesso movimento intenzionale - Gianni sa di cosa parlo perché recentemente a Roma l'ho fatto incontrare con Gallese, e sa anche che ho parlato con Fonagy di queste scoperte, che in parte conosceva già, che hanno importanti implicazioni per la sua teoria della metacognizione e per la questione dell'empatia, come Gallese cerca di dimostrare). Non dimentichiamo che lo sforzo di Stern è quello di applicare le acquisizioni della infant research in psicoanalisi (di cui lui è una delle massime autorità mondiali, quasi un nome simbolo di questo campo) alla terapia degli adulti come ben spiegò in quell'articolo sul <'something more' than interpretation> (dimenticavo, il convegno di Milano si intitolava "La interpretazione non basta", sulla falsariga di quell'altro detto, "L'amore non basta"). Soprattutto la questione dell'intersoggettività per Stern è importante, cioè il fatto che determinati comportamenti hanno una natura "duale", come se fossero una musica suonata con due strumenti, come una sinfonia di due persone. Ha fatto l'esempio del bacio: quando baciamo una donna ci romperemmo il dente incisivo se non avessimo una idea precisa di come lei si muove, di come noi ci muoviamo con lei sapendo nel contempo come si muove lei (mi viene in mente infatti un paziente che regolarmente cozzava contro i denti della donna che cercava di baciare, e un altro che nell'intimità non sapeva mai come muoversi, e che mi chiedeva in seduta, gridando e al colmo della disperazione: "Ma dottore, mi spieghi, dove metto al mano? Dove metto al mano?", senza rendersi conto della straordinaria comicità che produceva, seppure nel suo dolore di uno che non capiva cosa provavano gli altri, e quindi cosa doveva fare per funzionare adeguatamente in quella situazione sociale). Cosa esattamente siano i "present moment", e, all'interno di questa categoria, i "now moment", ci sarebbe molto da dire e da discutere, compreso il bisogno di Stern, per me antipatico, di coniare nuove parole. Fatto sta che, cosa rara (e pregevole) per un americano, si è dilungato molto a parlare di Husserl e Heidegger e del concetto di tempo, anche se, a mio parere, è legittimo essere sospettosi di questi psicoanalisti americani (anche se Stern è anche svizzero) che solo ora scoprono improvvisamente la fenomenologia europea. Purtroppo la mia impreparazione filosofica non mi permette di valutare i suoi commenti sulla fenomenologia. Una cosa comunque l'ho capita bene: i "now moment" sono imprevedibili, accadono e basta. Possiamo solo essere grati alla divina provvidenza se accadono questi momenti di autentico "incontro" tra paziente e analista. Non ci avviciniamo ad essi tramite le libere associazioni, ad esempio, né con l'atteggiamento analitico standard, qualunque esso sia, casomai di più col nostro atteggiamento umano, personale, non stereotipato, non ritualizzato dello psicoanalista nel suo ruolo di professionista. Pare dunque che lo scopo sia quello di destrutturare il paziente, di aprirlo a esperienze, vissuti e "momenti" nuovi ("mistici", direbbe Tullio?), onde condurlo verso strade che aprano nuove possibilità comportamentali ed affettive. A questo riguardo, Stern ha fatto una sorta di "elogio della stupidità", cioè di quell'atteggiamento del paziente non finalizzato, non facilmente comprensibile, "stupido", in cui non capiamo niente e non sappiamo dove sta andando. Magari sono questi i momenti più importanti. Stern chiama questa stupidità "sloppyness", cioè trasandatezza, confusione, trascuratezza. Naturalmente non ho saputo trattenermi dal fargli una domanda, e chiedergli di spiegare esattamente come lui vede la differenza tra la sua sloppyness e le associazioni libere, dato che noi sappiamo che Freud e la tradizione psicoanalitica avevano appunto visto nelle associazioni libere (la regola aurea) questo modo per destrutturare il paziente, per spezzare il ciclo della ripetizione, scoprire cose nuove e impreviste (si pensi al concetto di "sorpresa" nel Muraro di "Sorpresa ed enigma", derivato da Theodor Reik), e ristrutturare i significati del paziente secondo nuove configurazioni e più in generale una maggiore integrazione psichica in cui determinati contenuti non fossero più difesi dalla rimozione. Stern mi ha risposto qui con facilità, dicendomi che le associazioni libere si basavano sul concetto di "determinismo psichico", cioè per Freud non erano affatto stupide, ma intelligentissime, andavano da qualche parte, erano guidate da una ben precisa causalità (ed era proprio per questo che Freud le utilizzava). Ma, dice Stern, noi ora non aderiamo più a questo tipo di scienza, la nostra scienza è quella del XX (o XXI) secolo, dove non a caso si parla di fuzzy logic, di fuzzy physics, di chaos theory, di causalità circolare invece che lineare, e così via. Era il concetto di causalità lineare che, a parer suo, stava dietro alle associazioni libere di Freud (io qui dissento nettamente, si pensi solo al concetto freudiano di "sovradeterminazione del sintomo", di "interpretazione parziale", ecc.). Sono rimasto perplesso, e non sono riuscito dal trattenermi dal fargli una seconda domanda (ben consapevole di rubare spazio alle poche domande concesse all'immenso uditorio - la sala delle Stelline era piena e molti non hanno potuto iscriversi per mancanza di spazio). Gli ho chiesto: se un fenomeno non è prevedibile, come facciamo a riprodurlo? Come facciamo a insegnare la psicoterapia, la psicoanalisi? Che tipo di scienza è questa, se esula dai concetti di controllo e predizione? Stern si è limitato a rispondere "Well, that's the real problem, that's a very good question. We have to work on it". Trattenendo a malapena la mia aggressività, non ho detto altro. Un'altra cosa che ha raccontato Stern, divertente, è quella dei WFM. Questo acronimo viene usato dai poliziotti americani, come esclamazione (vi sono anche altri acronimi simili usati in USA, si pensi al noto SOB - Son of a Bitch - che viene esclamato senza rischiare di dire una parolaccia perché si dicono solo le iniziali). Ma per tornare al nostro WFM, vi sono dei momenti nella vita in cui veramente possono avvenire dei punti di svolta o di non ritorno, in cui si possono decidere le sorti della nostra intera vita. Ad esempio nella vita di un poliziotto può capitare - si spera poche volte - di trovarsi faccia a faccia con un delinquente con le pistole puntate. Entrambi si guardano in faccia per pochi attimi, devono decidere cosa fare, e dalla loro decisione può dipendere anche la vita o la morte di uno dei due, o di tutti e due. Se uno decide di sparare, le conseguenze possono essere imprevedibili. Se invece uno decide di abbassare la pistola, l'altro può scappare, o, se l'altro è il poliziotto, possono profilarsi molti anni di galera. Comunque vadano le cose, quando il poliziotto (se è sopravvissuto) rientra nel suo "Police Precinct", si toglie il cappello, lo posa sul tavolo, si asciuga la fronte ed esclama, "Oh, God, what a WFM I had today!". WFM significa "Weird Fucking Moment", cioè, depurata questa espressione dalla parolaccia, vuol dire "bizzarro momentaccio", "terribile dannato momento", ecc. Ebbene, per Stern sono questi i momenti importanti in psicoanalisi, gli WFM. E' proprio in questi momenti imprevedibili e bizzarri, magari carichi di disagio o tensione da parte di entrambi paziente e terapeuta, che possono accadere le cose più importanti e che costituiscono dei punti di svolta per il cambiamento. Sono questi momenti quelli che possono essere alla base di importanti passi in avanti anche nello sviluppo infantile, dove nell'interazione madre-bambino - immagino adesso io - possono essere messi in atto importanti test "weissiani". In un certo senso dei bei WFM, ben gestiti, sono auspicabili in analisi. Ecco un tipico WFM in psicoanalisi: ad un certo punto il paziente, in una determinata seduta, chissà perché dice a se stesso: "Oggi ho proprio voglia di non coricarmi sul lettino, ma di guardare in faccia il mio analista". Detto fatto, lo comunica al suo analista, e si siede sul lettino, puntando dritto gli occhi su quelli dell'analista. I due si guardano un po' sbigottiti, in un certo senso come il poliziotto e il delinquente in quel WFM di prima, senza saper cosa dire o fare. Qui ci sono però mille modi con cui l'analista può uscirne, può dire ad esempio "Salve". Oppure "Come si sente", o niente, e così via. Secondo Stern sono questi, come dicevo, i momenti più utili, anche perché carichi di tensione emotiva nell'hic et nunc, pregni di implicazioni per la ristrutturazione profonda del paziente. E a questo punto Stern si è messo a parlare della ben nota questione del rapporto tra ritualità e spontaneità in analisi, dell'intergioco dialettico tra questi due momenti dal cui equilibrio secondo vari autori dipende gran parte del potere terapeutico di quello che facciamo. Ma quello che mi ha fatto arrabbiare è che Stern non ha assolutamente citato Irwin Hoffman, che, come immagino ben sapete, ha fatto di questo aspetto il fulcro della sua ricerca teorica e clinica degli ultimi 10-20 anni. Nell'intervallo non sono riuscito a trattenermi di chiedere personalmente a Stern come mai non avesse citato Hoffman, dato che aveva parlato dello stesso problema e per di più con le stesse identiche parole e riflessioni di Hoffman. Stern mi ha risposto ancora laconicamente "sì, avrei dovuto citarlo, è vero", ma non sono riuscito a strappargli i motivi di questa sua "dimenticanza", peraltro ripetuta dopo l'intervallo quando ha ripreso il discorso a fondo, e ancora con le stesse parole e teorizzazioni di Hoffman. Sappiamo che buona parte dei "nuovi" discorsi psicoanalitici si basano semplicemente sull'ignoranza, ma c'è un limite a tutto, considerato anche che a quanto pare Stern conosce bene Hoffman, e che Hoffman è venuto più volte in Italia a tenere seminari, i suoi articoli e il suo libro sono stati tradotti ecc. (Il paziente come interprete dell'esperienza dell'analista. Psicoterapia e scienze umane (1983), 1995, XXIX, 1: 5-39; Ritualità e spontaneità nella situazione psicoanalitica (1998). Roma: Astrolabio, 2000). Intendiamoci, non che io vada matto per Hoffman, anzi - come Tullio ben sa - ho tante critiche da fare anche a Hoffman, che fui io a invitare per primo in Italia, a farlo conoscere, a organizzare col mio gruppo di Bologna un convegno su di lui il 17-10-1998, ecc. Hoffman, che fu lo stretto collaboratore di Gill negli ultimi vent'anni della sua vita, pur divergendo molto dalle sue idee, ma a lui legato da un continue discussioni (è per questo che mi interessai a lui), era del parere, come peraltro Stern, che la psicoanalisi così come veniva teorizzata in senso classico era ben poco interessante. Si può dire che l'operazione fatta da Hoffman sia quella di invertire il classico rapporto tra psicoanalisi e antropologia, nel senso che egli non fa una "psicoanalisi dell'antropologia" (come in genere si è fatto), ma una "antropologia della psicoanalisi", in cui la psicoanalisi viene analizzata come uno dei rituali di guarigione della civiltà occidentale. Della psicoanalisi Hoffman guarda la cornice, la struttura, lo spazio in cui viene praticata, le sue regole, e cerca di capire come questo momento terapeutico si rapporta con gli altri momenti non terapeutici, sia all'esterno della seduta che soprattutto all'interno di essa, cioè tutte quelle volte in cui l'analista non si muove nel suo ruolo di professionista ma è "spontaneo", viene colto da quei momenti imprevisti, frequenti e inevitabili (ad esempio quando il paziente fa delle domande personali all'analista, o quando mentre esce, sulla porta, gli fa determinate domande - del tipo "mi presta l'ombrello che piove?", "dove ha comprato quella bella maglietta?" - ecc.). Sono questi i momenti che Hoffman chiama "liminali", riferendosi allo "spazio liminale" di cui parlano gli antropologi, quello spazio che è al limite (limen) tra il rituale e il non rituale, tra la struttura e l'antistruttura, tra "communitas" e lo spazio dedicato al rituale di passaggio o alla cerimonia sacra (è Victor Turner l'antropologo a cui Hoffman qui fa riferimento: vedi Il processo rituale: struttura e antistruttura, 1969, Brescia: Morcelliana, 1972; Antropologia della performance, 1986, Bologna: Il Mulino, 1993). Hoffman dice che ovviamente, proprio come ha sottolineato Stern, non è la spontaneità in quanto tale che conta, ma il suo potere deriva dal fatto che è inserita all'interno di un rituale, altrimenti non sarebbe più "spontanea", ma un comportamento come un altro. E' il saper vedere in modo dialettico l'antitesi tra spontaneità a ritualità l'aspetto magico della psicoanalisi, nel senso che è la corretta gestione di questa dialettica quella che è maggiormente pregna di implicazioni terapeutiche. Anche Hoffman, come Stern, svalorizza la utilità della interpretazione (anzi, a volte dice che è il saper non dire la verità ai pazienti quello che è più terapeutico). Inoltre anche Hoffman (anzi, soprattutto lui, oltre che Stern) sostiene che il valore mutativo delle interpretazioni, o in genere degli interventi dell'analista, sta nella loro capacità di imprimere nel paziente una direzione futura piuttosto che un'altra, anche per il solo fatto di come sono pronunciate tra i mille modi possibili di dire una stessa cosa (mille modi che però non sono infiniti - e questo è uno dei tentativi con cui Hoffman cerca di collocarsi rispetto alla questione dell'ermeneutica e del post-moderno, nel senso che lui ovviamente non crede che via sia una verità da scoprire, ma una nuova realtà da costruire insieme, anche se comunque vi sono dei "vincoli", dei limiti all'interpretazione). Non ho gran che voglia qui di dilungarmi a parlare di Hoffman, anche perché ne parlammo tanto in passato nelle liste (non so più dove - tu ricordi se è stato pubblicato qualcosa su Internet, Tullio?) e nel nostro gruppo di Bologna quando lo invitammo al convegno del 17-10-1998 con Fossi, Jervis, Casonato, ecc. (la rivista della SIPRe, "Ricerca Psicoanalitica", ci dedicò un numero, il 2/2000, con gli articoli anche di alcuni membri del nostro gruppo; la relazione invece di Cristiano Martello, che partecipava al nostro gruppo e fa l'antropologo, uscì sulla rivista di Casonato, "Psicoterapia"), Potete comunque immaginare che io sono abbastanza critico di Hoffman (e anche di Stern, a questo punto). La mia impressione è che non siano riusciti a fornire contributi veramente nuovi ai problemi dibattuti dalla psicoanalisi da un secolo a questa parte (se si esclude ovviamente la ricerca empirica di Stern sul bambino, ma questo è più che altro merito del suo laboratorio sperimentale). Se mi permettete un giudizio a rischio di essere affrettato (dovrei infatti far passare più tempo e prendere maggiore distacco dalle impressioni di questo seminario, prima di fare affermazioni di questo tipo), mi sembra che la loro importanza sia più che altro sociologica, nel senso che sono tra i tanti indicatori della crisi della psicoanalisi classica, dove molti autorevoli esponenti tutt'a un tratto scoprono che l'interpretazione non funziona più, che l'atteggiamento psicoanalitico classico così come loro l'avevano imparato (o era stato loro erroneamente insegnato) non è del tutto terapeutico, e così via. Sono insomma fenomeni che ci indicano non tanto come curare meglio i pazienti, quanto come è stata tramandata la psicoanalisi in buona parte di questo secolo. Questa almeno è la mia sensazione. Per ora mi fermo, ho già fin troppo approfittato della vostra attenzione con questa lunga mail. Non ho certo fornito un resoconto fedele del seminario di Daniel Stern, ma alcune mie riflessioni, imprecise, scritte di getto. Spero che alcune di esse stimolino il vostro interesse. Paolo Tullio Carere, 22 Aprile 2002:
E' vero, io avevo scritto che "tanto per Bion quanto per la Bucci il movimento deve essere bidirezionale, essendo due modi di elaborare l'informazione (o due modi di esperienza, o due dimensioni dell'esistenza), nessuna delle quali deve essere privilegiata a scapito dell'altra: il movimento deve essere, appunto, dialettico, un movimento di va e vieni dall'uno all'altro polo", in contrapposizione a Freud, per il quale il movimento doveva essere unidirezionale. Ma il "dover essere" di Bion o di Bucci non ha carattere prescrittivo, bensì descrittivo, come quando si dice che un animale per essere un mammifero "deve" allattare la prole. Vi risulta che qualcuno abbia allestito una ricerca sperimentale per stabilire se la mucca è un mammifero? Credo che a nessuno sia mai venuto in mente, senza per questo mettere in discussione lo statuto scientifico della zoologia, che si limita a descrivere la categoria mammifero come una struttura ricorrente in natura dotata di determinate proprietà. Allo stesso modo si possono osservare nella terapia reale (non in quella manualizzata) una serie di movimenti polari, tra i quali quello tra spontaneità e rituale, di cui si è occupato in particolare Hoffman (ma sono in tanti a occuparsene), occupa una posizione centrale (tanto ineludibile che persino Giorgio ha ammesso che esiste "una prevalenza di atteggiamenti artistici e persino mistici nella relazione col paziente"). Certo, si può riconoscere (a denti stretti) l'esistenza di questa polarità nella terapia, salvo poi affermare che nella teoria, e nella discussione tra di noi, non ce ne dobbiamo occupare, perché ci troviamo a un "diverso livello logico". E che dire se invece sono fior di teorici a occuparsene, come Bion, Loewald, Bucci, Hoffman, Stern, alcuni dei quali oltretutto sono anche delle vere star nel firmamento della ricerca empirica? Essendo questa una polarità centrale nella terapia, di cui studiosi di orientamenti e interessi tanto diversi si sono occupati, non dovrebbe essere un argomento d'elezione in una prospettiva integrativa? Ma per capirci meglio prendiamo un'altra delle polarità che mi stanno a cuore, quella tra dipendenza e cooperazione (rapporto tra impari/tra pari). Possiamo semplicemente constatarne l'esistenza in ogni tipo di terapia, anche in quelle condotte da Gianni, per sua stessa descrizione. Fin qui non c'è problema. Ma qual è il vantaggio di tener presente e studiare questa polarità come tale, come un "due", senza mescolarla e confonderla in un insieme di tre o quattro? E' semplice, e già uno dei primi pensatori dialettici, Gautama Buddha, lo aveva scoperto. Alla radice della sofferenza mentale, insegnava, c'è la coppia bramosia/avversione, oltre all'ignoranza che le compendia: cioè la coppia attaccamento/distacco che si radicalizza e perde la relazione dialettica tra gli opposti. La terapia di conseguenza, condensata nell'"ottuplice sentiero", consiste nel ristabilire questo equilibrio a tutti i livelli ai quali è perduto, rimettendo in movimento il flusso vitale o esperienziale ovunque ci sia un impedimento per qualche forma di eccesso o di mancanza (noto en passant che la teoria e la pratica buddhista attira l'interesse crescente di numerosi psicoterapeuti di diverso orientamento: non sarebbe un altro tema di cui occuparci, in una prospettiva integrativa?). Così, se riusciamo a mettere in relazione dialettica i due opposti dipendenza/cooperazione, in qualsiasi momento della terapia saremo pronti a cogliere i segnali che ci indicano il livello sul quale impostare la relazione, o la "giusta proporzione" tra le due modalità di rapporto richiesta dal processo in corso in ogni sua fase. La mancanza di dialettica tra i due livelli equivale invece alla presenza di un pregiudizio favorevole alla dipendenza o alla cooperazione con la conseguente infantilizzazione o adultizzazione del paziente che viene tenuto in una condizione di dipendenza più protratta del necessario, o al contrario viene spinto troppo rapidamente all'autonomia. Il fatto che Gianni dichiari apertamente un pregiudizio favorevole alla cooperazione, e nello stesso tempo non perda occasione per esprimere il suo fastidio per ogni forma di dialettica, mi sembrano aspetti interdipendenti di un unico atteggiamento "progressista" o "modernista" (che non è per me peggiore né migliore dell'ideologia opposta, tradizionalista o post-modernista - è semplicemente un atteggiamento ideologico).
Ti ho già fatto notare, Gianni, che questa idea della scienza come ricerca delle prove che confutino le nostre congetture non è più accettata nemmeno dagli epistemologi di scuola postpopperiana. E' solo una delle tante concezioni di scienza, certamente non la più avanzata (vedi Stern, citato da Paolo:" noi ora non aderiamo più a questo tipo di scienza, la nostra scienza è quella del XX (o XXI) secolo, dove non a caso si parla di fuzzy logic, di fuzzy physics, di chaos theory, di causalità circolare invece che lineare, e così via"). Io non contesto, Gianni, il tuo diritto di restare fedele al tuo amato Popper, anzi ho molto rispetto per questa tua fedeltà; ma non ne ho affatto per il tuo ricorrente e insistito tentativo di far passare la tua concezione della scienza come l'unica degna del nome, a fronte del fatto che gli stessi scienziati professano le idee più diverse al riguardo. Se uno scienziato come Stern si ritrova più in Husserl e Heidegger che in Bacone e Galileo una ragione ci sarà, no? Il tuo errore, Gianni (e quello di Popper), a mio parere è questo: la scienza non si basa (se non secondariamente) su confutazioni di ipotesi, ma sul movimento circolare tra *evidenze* (nòesis), e *argomentazioni* (diànoia) - le argomentazioni danno significato alle evidenze e aiutano a correggerle e a trovarne altre, le quali daranno luogo a nuove argomentazioni, e così via. E' il metodo noetico-dianoetico che già gli antichi conoscevano bene. Se esistono tanti tipi di scienze, è perché esistono tanti tipi di evidenze, di cui quelle offerte dalla ricerca sperimentale sono solo una parte, e una parte che la maggioranza dei terapeuti considera non particolarmente significativa. Le evidenze che contano davvero nel nostro lavoro, a giudizio di molti terapeuti, sono quelle studiate da Husserl e Heidegger (soggettive, non misurabili), ben più di quelle che interessavano Bacone e Galileo (oggettive, misurabili). Per me contano entrambe, e uno dei problemi che abbiamo di fronte è quello di metterle in relazione: una relazione dialettica, ovviamente, in cui il soggetto non prevalga sull'oggetto, né viceversa. Ma per fare questo occorre precisamente che in primo luogo le due dimensioni siano accolte entrambe e nessuna delle due sia ridotta all'altra, come invece avviene nelle diverse correnti soggettivistiche e oggettivistiche di pensiero. Un po' schematicamente potrei dire che esistono tre tipi di terapeuti: quelli che si ispirano a Galileo e ignorano Husserl, quelli che si ispirano a Husserl e ignorano Galileo, e quelli che hanno bisogno di Galileo non meno che di Husserl. Se a volte posso esservi sembrato antigalileiano, è stato solo per reazione al galileismo esasperato da cui mi sento avvolto su questa barca. Ma spero vi sarà chiaro che io sono un terapeuta e un ricercatore del terzo tipo. E non crediate che questo tipo sia il più diffuso nella SEPI: se si votasse, vincerebbe di sicuro il partito galileiano anche lì. Tornando all'errore di Popper, la riduzione della scienza a procedimento di confutazione di ipotesi ha come effetto che le evidenze di ordine soggettivo (quelle che interessano a Husserl, Heidegger e Stern) debbono essere trasformate in proposizioni tali da poter essere sottoposte a esperimento, e quindi debbono essere ridotte a qualcosa di oggettivo e misurabile. Si può fare, naturalmente; è anche utile farlo, io lo faccio continuamente nella mia pratica quotidiana, quando incoraggio i miei pazienti a trasformare le loro intuizioni e convinzioni in ipotesi suscettibili di essere sottoposte a test. Ma a patto di vedere che questa è solo una parte del lavoro, l'altra essendo quella opposta, che parte da una realtà data e cristallizzata per destrutturarla e arrivare a quei "now moments" che non sono affatto semplici intuizioni da trasformare ancora una volta in ipotesi da sottoporre a test, ma rappresentano un versante della terapia in its own right. Ieri sera mi è capitato di osservare l'espressione assolutamente estatica di una bambina dopo una poppata al seno. Eravamo tutti rapiti a contemplare quel suo "now moment". Davanti a un now moment ti inchini e ringrazi, non ti metti a escogitare esperimenti. Se mai ti interroghi su come puoi impostare la relazione per rendere più probabile il verificarsi di questi momenti. Tullio Giovanni Liotti, 22 Aprile 2002: Caro Paolo, grazie per il resoconto delle tue impressioni sull'incontro con Stern. Per esprimere la mia gratitudine, butto giù alcune delle riflessioni fatto leggendole (e ovviamente avendo in mente il nostro discorso a quattro). 1. Penso che le interazioni che Stern chiama "now moments" siano fra quelle che possiamo ritenere importanti per il cambiamento in psicoterapia, ma non credo che sia necessario immaginarli come momenti di "destrutturazione", a meno che con questo termine non si intenda quel tipo di cambiamento cognitivo che viene a volte colto con il concetto Piagetiano di "accomodation", con quello che giustamente citi di "esperienza correttiva", o similari. 2. Tendo ad assimilare le interazioni in cui si producono "now moments" al superamento di un test (nel senso di Weiss), cioè alla confutazione di una credenza patogena implicita (cioè connessa alla conoscenza procedurale) del paziente, ottenuta attraverso una congettura del terapeuta pure prodottasi nella conoscenza implicita (del terapeuta) che si è riflessa nel suo agire. Se ho capito bene, anche Stern si è soffermato sul rapporto fra WFM e now moments. 3. Non credo che, perché si producano "now moments", il terapeuta debba trovarsi in un stato mentale privo di memoria e desiderio (il famoso stato che dovrebbe essere determinato dalle faith in O, e che mi appare un concetto fuorviante). Al contrario, credo che lo stato mentale del terapeuta, capace di facilitare il prodursi di "now moments" innescanti un cambiamento terapeutico, sia caratterizzato dal tentativo cosciente (desiderio esplicito) di offrire al paziente una "base sicura" rispetto ai suoi bisogni di attaccamento, oppure di trovare un piano di cooperazione paritetica nel lavoro terapeutico, o ancora semplicemente di sottrarsi ad una interazione sgradevole (esempio: i test che Weiss chiama "da passivo in attivo"). 4. Se è così, allora il cambiamento che si produce dopo un "now moment" è simile nella sua struttura a quello che si ottiene quando il terapeuta concepisce in piena coscienza una formulazione del problema del paziente, capace di fornirgli la base per una interpretazione o per un altro intervento, che confuti la credenza patogena. Niente di straordinario, insomma: solo un'ennesima prova della possibilità umana di elaborare conoscenza e formulare congetture tanto sul piano esplicito della più chiara coscienza quanto su quello implicito-procedurale, quanto ancora nei numerosi livelli mentali intermedi fra i primi due (ad esempio: pensiero metaforico della veglia, pensiero onirico come quando "comprendiamo" un problema del paziente attraverso un sogno che lo riguarda, pensiero "musicale" come quello di un mio collega molto dotato nella musica, a cui vengono in mente melodie connesse ad emozioni che prova nella relazione col paziente, a cui lui dà molta importanza nei suoi processi di comprensione del caso, etc.). 5. Il punto, dunque, non è secondo me da dove emergano le nostre congetture (dall'elaborazione implicita o da quella esplicita o da quella metaforica della conoscenza), ma se POI le rendiamo esplicite e le vagliamo criticamente (oppure no). E soprattutto, è importante che tentiamo di formularle in modo che si possa immaginare un "esperimento", o una procedura controllata e pubblica, capace di confutarle. Non è invece tanto importante che il tentativo di confutazione avvenga attraverso ricerche su larga scala condotte da grandi gruppi di ricercatori, o in modi più modesti, ovvero addirittura se l'esperimento sia solo immaginario (Einstein, come si sa, procedeva proprio così: formulando le sue ipotesi e poi sottoponendole ad esperimenti immaginari: dopo, e da altri, sono stati condotti esperimenti pubblici e non immaginari). Ciò che non apprezzo, insomma, è lo sfuggire al compito di definire le proprie congetture in modo tale che si possa immaginare un esperimento (o una raccolta pubblica e sistematica di dati epidemiologici, etc.) capace di confutarle. Le congetture formulate in modo tale che non sia possibile IMMAGINARE un modo di confutarle pubblicamente, possono essere di grande valore estetico o spirituale per chi le formula e per chi le intrattiene, ma non fanno crescere la conoscenza comune e condivisibile. Persino in alcuni ambiti religiosi, basati su una grande congettura inconfutabile (e che infatti non muta, non cresce, resta fissa nel tempo ed anzi è considerata dai credenti relativa a ciò che è fuori del tempo), viene riconosciuta, per tutte le altre congetture, l'importanza della confutazione razionale e sperimentale: pensate al detto evangelico: "Dai loro frutti li riconoscerete", con cui si indica come distinguere le false congetture da quelle migliori. Per me, quelle della psicoterapia rientrano nelle congetture (e nelle conseguenti procedure) comuni a molti membri di una società (condivisibili, pubbliche): quindi è di assoluta importanza formularle in modo che sia possibile sottoporle al vaglio del metodo scientifico. 6. Tornando ai "now moments": la congettura che siano importanti nel determinare il cambiamento teraputico, è confutabile in linea di principio? Io credo di sì, se è possibile identificarli, da parte di terzi che non siano quel paziente e quel terapeuta, nel trascritto di una qualsiasi terapia di un qualsiasi paziente. Basta allora vedere se i casi di trattamenti in cui ci sono meno "now moments", o non ce ne sono affatto, portano a remissioni di sintomi e disturbi vari meno spesso di quelli in cui ce ne sono tanti. Inoltre si potrebbero immaginare altri esperimenti, in cui ad esempio, terapie senza now moments ma con confutazioni deliberate delle credenze patogene siano messe a confronto con terapie in cui le confutazioni delle credenze patogene avvengono attraverso now moments. 7. Si potrebbe inoltre determinare se i now moments emergono più spesso (o addirittura, come credo, soltanto) durante interazioni terapeuta-paziente coordinate da precisi sistemi motivazionali interpersonali. Io credo che non emergano mai quando la interazione terapeutica è coordinata dal sistema agonistico (dominanza-subordinazione) che a sua volta è tipicamente implicato in molte operazioni terapeutche basate sull'interpretazione psicoanalitica classica (ovviamente diverso è l'uso dell'interpretazione nella psicoanalisi relazionale), e in tutte le terapie "psicopedagogiche". Credo che invece emergano più facilmente quando l'interazione, non solo nella seduta in cui li si cerca ma anche in almeno un piccolo gruppo di sedute precedenti, è coordinata: [a] dal sistema motivazionale cooperativo, o [b] dal sistema di accudimento nel terapeuta e dal sistema di attaccamento del paziente, ma solo qualora il terapeuta tenti di indurre nel paziente un'esperienza di attaccamento sicuro al posto di quelle insicure contenute nella sua memoria .(Il terapeuta può far ciò anche facendo notare, SENZA GIUDIZIO, al paziente una sua contraddizione, e non solo con atteggiamenti "supportivi": l'accudimento può essere tanto "paterno" quanto "materno" ed ecco un'altra ragione per cui non mi riconosco negli assi di Tullio). 8. Questa mia congettura su quando si producono i now moments può essere vagliata sperimentalmente (è confutabile). Per farlo, bisogna solo mettere a punto scale di valutazione delle sedute (o tecniche di neuroimaging in un futuro non troppo fantascientifico) che permettano di evidenziare se lo scambio clinico è, in un dato momento, agonistico, cooperativo, di attaccamento-accudimento, o sessuale. Di mettere a punto tali scale alcuni Colleghi a Roma, a Torino e a Vicenza cominciano ad occuparsi. Secondo me in quattro o cinque anni ce la fanno (per mettere a punto l'Adult Attachment Interview nella sua forma preliminare ci sono voluti cinque anni, e per la sua forma attuale, non ancora del tutto soddisfacente, oltre venti). 9. Avanzare queste congetture mira, da parte mia, a dimostrare che esistono alternative all'altra congettura, quella secondo la quale, per citare le parole di Paolo: "Possiamo solo essere grati alla divina provvidenza se accadono questi momenti di autentico incontro tra paziente e analista". Forse possiamo individuare modi per dare una mano alla "divina provvidenza", e per di più vagliare scientificamente se questi modi funzionano bene o no. Se così fosse, potremmo diminuire l'imprevedibilità del fenomeno di cui Stern ed il suo gruppo si occupano. E naturalmente potremmo insegnarli, questi modi. Per il momento, pur non sapendo se conducono a maggiore prevedibilità dei now moments, io certamente insegno ai miei allievi come identificare quando si trovano in stati mentali coordinati dal loro sistema mentale cooperativo, o come identificare la sicurezza nell'attaccamento durante interazioni con un paziente adulto, e a privilegiare questi stati, e a cercarli attivamente. Potrei continuare, ma il tempo stringe. Un saluto affettuoso, Gianni P.S.: Se mai Tullio proponesse una maniera per identificare quando il terapeuta "lavora in O" nel trascritto o nel videotape di una seduta, naturalmente potremmo immaginare esperimenti che vaglino se lavorare in O sia terapeuticamente vantaggioso ( e ciò darebbe un dolore a chi come me non sa come liberarsi da memoria e desiderio, ma giuro che mi piegherei al verdetto della ricerca empiricamente controllata). Inoltre, qualcuno potrebbe progettare uno studio per decidere se "lavorare in O" equivalga ad una pausa in cui il terapeuta cerca, magari tacendo e cercando un assetto mentale cooperativo ed empatico, di sospendere interazioni agonistiche o di accudimento-attaccamento insicuro. Propendo ad immaginare, dal mio punto di vista cognitivo-evoluzionista, che sia questo ciò che Tullio fa nella relazione terapeutica quando afferma di lavorare in O: in tal caso, se anche l'immaginata ricerca dimostrasse che lavorare in O è terapeuticamente giovevole, non ne sarei addolorato, perché di sospendere interazioni agonistiche e di attaccamento insicuro, in terapia, sia pure a volte con grandissima fatica sono capace. Ma temo che Tullio affermi che in O bisogna avere solo fede, che non è definibile, e che non solo non è definibile (anche i qualia della coscienza non lo sono), ma neppure sono indagabili i suoi correlati comportamentali (quelli della coscienza lo sono: vedi Edelman, Damasio, etc.). E allora ... Tullio Carere, 23 Aprile 2002 Caro Gianni, ho letto con molto interesse il tuo commento al resoconto di Paolo. Ecco qualche mia riflessione al riguardo. 1. Mi è piaciuta la tua osservazione che i "now moments" emergano più facilmente quando l'interazione è coordinata dal sistema motivazionale cooperativo, o da esperienze riparative di attaccamento sicuro. Mi è piaciuta perché in precedenza, soprattutto nel tuo libro "La dimensione interpersonale della coscienza", mi era parso che tu privilegiassi la cooperazione rispetto alla dipendenza, mentre qui mi sembra che tu metta alla pari i due tipi di interazione. Se è così, viene meno l'obiezione che ti ho fatto in precedenza: non c'è pericolo di adultizzazione se tu tieni presenti, senza preferenze aprioristiche, sia il bisogno del paziente di un'esperienza di attaccamento sicuro, prolungata per tutto il tempo necessario, sia quella di cooperazione paritetica. 2. La relazione tra le due modalità interattive [a] e [b] (cooperazione e attaccamento sicuro) è già di tipo dialettico (me ne compiaccio), anche se solo tra due vertici del campo, invece che tra due assi. La descrizione che dai di queste modalità corrisponde esattamente ai miei vertici K e M, che però io colloco sui due assi che congiungono rispettivamente M a P e K a O, come sai. Le interazioni di vertice P corrispondono a quella modalità che Friedman chiama "adversarial attitude", e che forse tu collegheresti al sistema motivazionale antagonistico. Ma l'atteggiamento oppositivo non nasce dal desiderio del terapeuta di entrare in competizione, bensì da quello di mettere il paziente di fronte a una realtà spiacevole che questi cerca di evitare: è un fattore comune fondamentale, nel senso che nessun terapeuta può sottrarsi a questa funzione, quale che sia il metodo che dichiara di applicare, e che è evidentemente diverso dai primi due. I caregiver (non importa chi siano) debbono svolgere entrambe queste funzioni fondamentali: offrire un'esperienza di base sicura, e spingere gradualmente il bambino fuori da questa base, per confrontarsi con le mille contrarietà del mondo o i mille conflitti tra desiderio e realtà. Entrambe queste funzioni debbono trovare espressione nel campo della terapia: di qualsiasi terapia. Quanto al vertice O, corrisponde a un'altra funzione fondamentale in qualsiasi terapia, quella cui Hoffman si riferisce con il termine "spontaneità". F in O significa semplicemente affidamento all'ignoto, al non sapere, ed è quello che facciamo tutti quando ci affidiamo all'intuizione del momento, o all'ispirazione, e compiamo un gesto spontaneo, non ragionato, non calcolato, ma sentito come "la cosa giusta" da fare in un momento determinato. Mettere tra parentesi la memoria e il desiderio vuol dire essere completamente presenti alla situazione, non seguire la teoria, non fare o vagliare ipotesi, non essere condizionati da aspettative, nemmeno quella di risanare. Non dico che sia una condizione facile da raggiungere, dico solo che è fondamentale. Tutta la cultura orientale ruota intorno a questo "vuoto mentale", alla semplicità e spontaneità della "non-mente": tutte le tecniche di meditazione puntano a questo. Non è necessario che il terapeuta sia un maestro di meditazione, ma una certa capacità di stare nel non sapere, nel vuoto mentale deve averla: se non ce l'ha, non è un uomo libero, è un uomo affetto da epistemofilia, uno che è perduto se non può aggrapparsi a qualche teoria o a qualche ipotesi, confutabile o meno. Solo il terapeuta capace di sospendere teorie, ipotesi e ogni sapere è un terapeuta libero di applicare ogni teoria e formulare qualsiasi ipotesi senza esserne condizionato. 3. Sono d'accordo con te che i "now moments", se li intendiamo genericamente come momenti di cambiamento e di svolta (ma forse Stern non sarebbe del tutto d'accordo), possono derivare dai tuoi [a] e [b]. Aggiungo solo che possono derivare anche dai miei [c] e [d]. Ma soprattutto dalla capacità del terapeuta di fornire una delle quattro risposte, o una qualsiasi combinazione di due o più risposte, precisamente quando il paziente ne ha bisogno. Spero che quando avrai un po' di tempo leggerai il mio breve articolo "The logic of the psychotherapeutic relationship" (http://www.cyberpsych.org/sepi/logic.htm), in cui commento la posizione di Friedman che ha molte analogie con la tua. Anche lui vede la terapia come generata da due posizioni base, solo che per lui sono P e K, mentre per te sono M e K. La posizione O non è considerata da nessuno dei due, forse perché non è facilmente codificabile. Tuttavia, non solo è empiricamente constatabile (qualsiasi terapeuta non stereotipato usa una certa dose di spontaneità o creatività), ma è anche logicamente necessaria, per quanto detto sopra: chi non può affidarsi al vuoto ha paura del vuoto, e se consideriamo che la paura del vuoto (o della mancanza) è il tema centrale dell'esistenza umana (come ci ricordava Napolitani: ognuno di noi deve fare i conti col suo taglio di Fontana), come può aiutare il suo paziente a liberarsi di questa paura un terapeuta che non l'ha affrontata, e non avendola affrontata è costretto ad aggrapparsi a qualcosa per salvarsi? (I terapeuti si aggrappano alle loro credenze, le loro teorie, i loro metodi, e nella misura in cui si aggrappano non sono liberi, e nella misura in cui non sono liberi non possono liberare il paziente). 4. Il mio modello a due assi e quattro vertici è il prodotto di una ricerca. Non una ricerca sperimentale, naturalmente: una ricerca euristica. Non ho fatto esperimenti, ma mi baso su evidenze che sono sotto gli occhi di tutti e su argomentazioni che mi sembrano difficilmente oppugnabili. Naturalmente mi si può obiettare che ciò che per me è evidente per altri non lo è (per es. il vertice O a molti non è affatto evidente), e che le mie argomentazioni sono oppugnabilissime. Certo, la ricerca procede precisamente così: continuo a presentare le mie evidenze, e riformulo continuamente le mie argomentazioni, proprio per confrontare le une e le altre, in modo che da questo confronto altri vedano quello che vedo io, o io veda quello che vedono loro, o io o loro vediamo che ciò che credevamo di vedere invece non esiste. La ricerca è sempre stata questa, fondamentalmente. Certamente in alcuni casi la ricerca, oltre che di questo confronto di evidenze e argomentazioni, si può giovare anche di esperimenti (come quando Socrate fece dimostrare il teorema di Pitagora a uno schiavo). Ma bisogna vedere se ne vale la pena. Per cominciare, l'esperimento può essere immaginato, per seguire l'iter suggerito da te. Una seduta può essere siglata, come ho già detto in un messaggio precedente, per esempio M3, P2, K1, O2, misurando la presenza relativa del terapeuta nei diversi vertici. Anzi, non l'ho solo immaginato, ho fatto anche delle prove preliminari, e ho persino iniziato a testare con un collaboratore il grado di concordanza delle rispettive siglature (abbastanza buono, come prima impressione). Analogamente è possibile misurare la presenza del paziente negli stessi vertici (cioè il bisogno del paziente di trovare una base sicura, eccetera). E quindi la concordanza tra bisogno del paziente e risposta del terapeuta. E infine la correlazione tra il grado di questa concordanza e qualità della seduta (buona, sufficiente, scarsa) - l'ipotesi (confutabile) è che ci sia una buona correlazione tra grado di concordanza paziente/terapeuta, così misurato, e qualità dell'esito della seduta (la "buona seduta"). Tutto questo è senz'altro fattibile. Ma, a parte il fatto che non ho i mezzi per andare oltre una fase preliminare (chi mi paga i tre ricercatori a tempo pieno, eccetera?), anche se li avessi non avrei molta voglia di impiegare il mio tempo in un lavoro del genere. Sarebbe molto trendy, di sicuro. Ma mi distoglierebbe dal lavoro che a me sembra più significativo, che è quello di cogliere e mostrare le evidenze, e argomentare su queste. Ed è precisamente quello che facciamo sulla nostra barca, troppo piccola per impiantarci un laboratorio per fare esperimenti ma sufficientemente spaziosa per mostrarci l'un l'altro le rispettive evidenze, e esporre le rispettive argomentazioni. Questo è ciò che chiamo ricerca euristica, e che mi sembra molto più importante di qualsiasi esperimento. Gli esperimenti sono importanti in altre scienze, in cui i dati sono più facilmente oggettivabili senza eccessive forzature, ma a me (come alla maggior parte degli psicoterapeuti) non sembra che abbiano un'importanza più che marginale in una disciplina che ha che fare con dati eminentemente soggettivi come la nostra. Ma anche questa è un'argomentazione: sono pronto a cambiare idea, se mi presenterete evidenze e argomenti che mi indurranno a farlo. Tullio Giovanni Liotti, 25 Aprile 2002: Caro Tullio, notare i punti di accordo fra noi è importante, e ti sono grato per averlo fatto. Indubbiamente c'è da faticare un poco nella "traduzione" dei concetti da uno schema di pensiero all'altro, ma lo sforzo è importante, e dunque grazie per averlo fatto rispetto ai temi della cooperazione e dell'attaccamento. Rispondo in reciprocità, raccogliendo qualche tuo spunto.
Nel mio libro, che citi, intendevo trattare della coscienza più che della psicoterapia. Rispetto all'ampiezza della coscienza/memoria umana rispetto alla generalità delle relazioni possibili, non dubito a tutt'oggi che essa raggiunga il suo apice nelle cooperazione fra pari, e non nella dipendenza o nella competizione (o nella sessualità). Rispetto alla psicoterapia, hai ragione tu, bisogna continuamente fare i conti, assai più che in alcune altre relazioni umane, con situazioni che negano la pariteticità. Bisogna contentarsi a lungo, in psicoterapia, di quel grado discreto, ma non ottimale, di ampiezza della coscienza/memoria che si trova nell'attaccamento sicuro (non nelle forme insicure di attaccamento). Solo nell'ultimo capitolo del mio libro, dunque, dopo aver trattato di ampiezza della coscienza in funzione della qualità della relazione, mi soffermo sulla psicoterapia. Mi soffermo, cioè, sulla relazione terapeutica, e lì dichiaro che in essa (diversamente dalle relazioni di amicizia) la cooperazione è più una meta ideale che una condizione basilare di esperienza dei due interlocutori, proprio perché il paziente ha altre "esigenze" relazionali (di attaccamento e di competizione per il potere nella relazione) che precludono a lungo l'esperienza della pariteticità. Mi sembra che tradurre questa affermazione, cui ho dedicato l'ultimo capitolo del libro, nella tua idea di una necessaria tensione dialettica, in psicoterapia, fra pariteticità e offerta di cura (in risposta alle esigenze di attaccamento del paziente), o fra pariteticità e momenti di contrapposizione "agonistica", sia del tutto accettabile: ecco un importante punto di accordo fra noi. Neppure ho disaccordi da esprimere rispetto al vertice "O" del tuo sistema, se con esso ti riferisci alla spontaneità, all'autenticità, al riconoscimento del limite che le proprie teorie hanno rispetto alla comprensione di quanto accade, e alla generazione di nuove ipotesi (accomodamento). Trovo solo che riconoscere che così -- attraverso la dichiarazione sincera del proprio "non sapere" rispetto ad alcuni problemi che il paziente ci presenta, attraverso il periodico dubbio e l'atteggiamento critico sulle proprie teorie -- riconoscere dicevo che così opera la mente dello psicoterapeuta decente (nel senso dell'Inglese "decent"), è semplicemente riconoscere il fondamento della condizione umana. Così, con sospensioni critiche della fede nelle proprie teorie, opera la mente non solo dello psicoterapeuta decente, ma anche dello scienziato decente, del politico decente, dell'artista decente, della persona decente, e persino dell'uomo di fede religiosa decente (che la Fede, per essere tale, debba essere dialetticamente connessa al dubbio mi pare un'affermazione esplicitamente fatta da grandi menti religiose, se ricordo bene persino di alcuni Santi della Chiesa Cattolica). Non mi pare dunque che "O", così inteso, sia uno "specifico" della psicoterapia, e credo che tu sia d'accordo. Se invece, pensando al vertice "O", ti riferisci allo specifico dell'esperienza mistica (il Satori degli Zen, la grande illuminazione, la fusione con il divino, il raggiungimento dell'Essenza o Haqq dei Sufi, e così via), e affermi che DEVE essere presente nella psicoterapia, allora esprimo vivo e deciso disaccordo. Non perché non stimi la possibilità umana di quell'esperienza (che pure io non possiedo, naturalmente), ma perché non credo che il suo perseguimento debba essere prescritto allo psicoterapeuta nell'esercizio della sua professione (né a chiunque altro). E, per inciso, non credo che tollerare l'ambiguità e l'incertezza (capacità che certamente è importante che i pazienti sviluppino in terapia) equivalga a tollerare il "vuoto" del mistico, la "notte oscura dell'anima" di cui parla San Giovanni Della Croce, o ciò che è espresso dal "taglio" di Fontana (di questo, penso che lo psicoterapeuta possa benissimo non occuparsi mai nel corso di pur ottimi processi terapeutici). Un altro disaccordo, minore, è che "P" debba necessariamente e sempre riferirsi ad interazioni agonistiche: si può aiutare un paziente ad accorgersi delle sue contraddizioni e a rinunciare ai suoi evitamenti anche col metodo socratico di molti terapeuti cognitivisti, che è compatibile con atteggiamenti "accudenti" o materni (non voglio con questo affermare che siano i migliori: mancano ancora ricerche che permettano di sostenerlo o che confutino questa non mia congettura). D'accordo invece sul valore ed il senso del tuo lavoro di sintesi, comunque lo si voglia chiamare (da fedele popperiano, non considero la ricerca di definizioni terminologiche un fine supremo di chi persegue la crescita della conoscenza). Sono dispostissimo a chiamare il tuo lavoro: 1) ricerca euristica, 2) definizione sistematica di una pratica professionale, 3) riflessione critica su di essa, 4) ammirevole costruzione teorica alla ricerca di una sintesi, o altro ancora. E apprezzo molto che tu possa immaginare come siglare ogni interazione terapeutica nello spazio cartesiano definito dagli assi del tuo sistema. Certamente questa è la premessa per costruire, in base al tuo sistema, delle ipotesi falsificabili di grande interesse. Per fare un esempio, io potrei ipotizzare che sedute con una prevalenza di M e K (ad esempio: M3, P1, K3, O1) siano più probabilmente produttive del tipo di cambiamento "riduzione di rituali", nel paziente ossessivo, di sedute in cui il terapeuta si collochi più spesso in P e O (ad esempio: M1, P2, K1 e O2). E tu potresti confutare questa mia congettura, con una serie di osservazioni controllate e ripetibili. Ed io dovrei conseguentemente cambiare la mia strategia terapeutica con i pazienti ossessivi. Pazienza se una ricerca del genere noi due non la si faccia per mancanza di fondi, di tempo, o di voglia: l'importante è che qualcuno possa farla. Non l'Io è importante nella crescita della conoscenza, ma la Comunità di chi la ricerca. Quando dunque qualcuno la farà, questa ricerca, il suo lavoro avrà grande valore nell'indicare a tutta la Comunità degli psicoterapeuti, (anche a noi due che, in questa mia fantasia, la ricerca non la abbiamo fatta ma solo col nostro lavoro indicata), un possibile modo, forse migliore di altri, di affrontare il DOC. Ancora più interessante potrebbe essere vagliare l'ipotesi, di cui tu mi scrivi, che la concordanza di posizioni fra terapeuta e paziente sia la caratteristica della "buona seduta" (definita in termini di maggior benessere o minore sofferenza del paziente). Una tale ricerca si aggiungerebbe alle due o tre che, utilizzando strumenti di valutazione diversi, sono attualmente in corso in Italia. Uno di questi strumenti è l'Indice di Condivisione (nella comunicazione terapeuta-paziente) messo a punto da Bruno Bara, un cognitivista dell'Università di Torino, che ha lavorato a lungo con Johnson-Laird e adesso sta mettendo su un bel gruppo di ricerca, serio e di discrete proporzioni. Con diversi strumenti, un'altra ricerca sulla condivisione di significati fra paziente e terapeuta è progettata dal gruppo di Semerari a Roma, e altre due, se ho capito bene una frettolosa comunicazione, dal gruppo di Lavina Barone di Pavia-Vicenza e da quello di Lenzi, Bercelli e Viaro di Bologna-Padova. Ottimo ed abbondante, per la nostra Italietta. Insomma, noi non la facciamo, ma io sono assai contento che altri la facciano, la ricerca empirica sulle nostre congetture. Tu, e molti altri psicoterapeuti, non credete che queste ricerche valgano la pena, rispetto alla soggettività dell'esperienza che si fa in psicoterapia. Io, insieme ad alcuni altri psicoterapeuti, penso invece che valgano, eccome, la pena. Se il nostro disaccordo è tutto qui, siamo a posto. Non dovremo più entrare in focose diatribe. Basterà che ci rispettiamo a vicenda, e che perseguiamo ciascuno la nostra strada rispetto all'integrazione (la mia galileiana, e la tua tanto galileiana quanto non-galileiana). I nostri nipoti, ne sono certo, ne vedranno i buoni frutti, e saranno contenti che ci siano state entrambe queste strade (e la terza, anti-galileiana), e che fra i loro nonni ci sia stato chi ha perseguito l'una, o l'altra. Mi viene in mente una poesia di Montale (si chiama "DIALOGO" e la trovi in "Satura"), che descrive, appunto, un dialogo fra due contendenti. Uno afferma che "..la storia è un marché aux puces, non un sistema" (io penso: anche la psicoterapia, anche l'oggetto della scienza). L'altro replica che "provvidenza e sistema sono un tutt'uno, e il Provvidente è l'uomo" (mi sembra che sia vicino alla tua posizione). Il primo, nell'argomentare, sostiene un metodo binario (non enantiodromico o dialettico, se ho capito il senso di Montale, ma più secondo la diade 1-congetture e 2-confutazioni, più del tipo selezionistico: "dunque è provvidenziale anche la pestilenza?"). Il secondo sostiene invece un metodo ternario, che ricorda da vicino la dialettica hegeliana ("la peste è il negativo del positivo, è l'uomo che trasuda il suo contrario"). Personalmente, sono grato dell'esistenza di entrambi i contendenti della poesia di Montale: è quell'esistenza che ci ha regalato la poesia, e molto altro. Con i nostri disaccordi, noi, mi piace pensare, consegneremo ai nostri nipoti una psicoterapia migliore, più unitaria e più integrata proprio grazie all'inconciliabilità fra selezionismo e dialettica che però (che grande mistero!) non impedisce che ci siano importanti punti di accordo tra chi segue l'una e chi segue l'altra strada. Teniamoci dunque fraternamente d'occhio, e dialoghiamo alla ricerca di altri punti di accordo, durante i nostri rispettivi e divergenti percorsi. Un abbraccio (non psicoterapeutico: perdona la battuta). Gianni Tullio Carere, 9 Maggio 2002: Cari amici, ho letto con molto piacere al mio ritorno il messaggio di Gianni che mi sembra il punto d'arrivo di un cammino fin qui non poco accidentato e il punto di partenza di una nuova fase, contrassegnata dal passaggio di consegne dal sistema motivazionale agonistico a quello della cooperazione. Ce ne sono tutte le premesse: c'è ormai un'ampia identità di vedute tra Gianni e me su due vertici del campo (base sicura e laboratorio scientifico) e promettenti aperture sugli altri due; e al prezzo di un confronto a tratti aspro mi sembra abbiamo raggiunto anche un buon grado di comprensione e attenzione per i rispettivi approcci. Il congresso SEPI di San Francisco è stato molto ricco di stimoli. Personalmente ne ho tratto l'impulso a fare qualcosa per superare la dicotomia tra ricerca euristica e ricerca empirica. Mi hanno colpito in particolare le relazioni di Peter Fonagy e Drew Westen, entrambe molto critiche sul modo in cui è stata condotta la ricerca in psicoterapia fino ad oggi (la ricerca è fatta su manuali che non rispecchiano ciò che avviene nei trattamenti reali; si basa su caselle diagnostiche che non riflettono la complessità delle problematiche che si incontrano in terapia; è effettuata su trattamenti brevi, non rappresentativi dei processi di cambiamento che richiedono tempi per lo più medio-lunghi). Che cosa proponessero come alternativa non sono riuscito a capirlo bene, e non lo ha capito nemmeno nessuno dei colleghi cui lo ho chiesto; non l'ho capito nemmeno quando l'ho chiesto direttamente a Drew che, come saprete se lo conoscete, ha lo stile colloquiale di una mitragliatrice. Comunque entrambi dovrebbero mandarmi i loro interventi, che potremo studiare assieme. Più incoraggiante è stato Franz Caspar, che tuttavia nel corso di un lungo e affabile colloquio mi ha messo di fronte alla sua convinzione che la ricerca non può prescindere dalla raccolta di un materiale esaminabile da persone diverse da paziente e terapeuta, in pratica dalla videoregistrazione delle sedute. Mi sembra giusto, se si vuole fare della ricerca veramente empirica occorre accettarne fino in fondo le premesse e le regole. Il fatto che a me, come alla maggior parte degli analisti, la registrazione delle sedute sembri difficilmente accettabile perché troppo intrusiva, tale da compromettere o alterare inevitabilmente la spontaneità del processo, suona solo come conferma dell'impressione che la ricerca empirica, effettuata secondo i canoni del modello medico, non può essere la via maestra della ricerca in psicoterapia. D'altra parte la ricerca euristica, pur necessaria, non può rispondere di per sé all'esigenza oggi fortemente e giustamente sentita di produrre anche dati misurabili e valutabili da osservatori esterni. Come uscire da questo dilemma? Il progetto che ho immaginato e iniziato a discutere a San Francisco è uno sviluppo di quello che vi ho già accennato. Eccolo, per sommi capi. A intervalli regolari paziente e terapeuta fanno una relazione scritta di una seduta in cui, basandosi su manuali predisposti per questo scopo (uno per il paziente e l'altro per il terapeuta: li scriverò nei prossimi mesi, entro l'estate) [1] valutano la qualità dell'esito della seduta (buona, media, insufficiente); [2] motivano la loro valutazione (per quali motivi la seduta è stata buona o meno buona, quali sono stati i passaggi rilevanti della seduta a giudizio dell'uno e dell'altro); [3] valutano i bisogni fondamentali emersi nella seduta (MxPyKzOw); [4] valutano le risposte del terapeuta nella seduta, sempre col metodo MxPyKzOw (per [3] e [4] la valutazione è: alta/media/bassa); [5] nella seduta successiva terapeuta e paziente confrontano le rispettive valutazioni e le commentano: di questo confronto ciascuno dei due scriverà un breve resoconto che sarà aggiunto al materiale precedente. Ipotesi falsificabile: con il procedere della terapia la corrispondenza tra le valutazioni del paziente e del terapeuta (sia per quanto riguarda l'esito della singola seduta, sia per quanto riguarda la concordanza bisogni/risposte) tenderà ad aumentare se la qualità complessiva delle sedute sarà medio/buona. Vantaggi di questo tipo di ricerca: non è intrusiva, non richiede nessun tipo di registrazione; è metateoretica (è applicabile a qualsiasi tipo di terapia, basata su qualsiasi teoria e qualsiasi tecnica: sarà irrilevante ad esempio se il terapeuta fornirà un'esperienza di base sicura a partire da una teoria kohutiana o da una teoria dell'attaccamento, o magari da una teoria che non prevede affatto la produzione di questo tipo di esperienza, come sarà irrilevante se la produrrà con un approccio verbale o non verbale di qualsiasi tipo - conterà solo il fatto che sia alto il grado di corrispondenza tra le valutazioni del paziente e del terapeuta che è stata creata una base sicura e che il paziente ne ha bisogno); consentirà di confrontare diversi modelli (per esempio il mio amico portoghese Antonio Branco Vasco sta conducendo una ricerca che ha diversi punti di contatto con la mia, ma il suo modello ha sette variabili al posto delle mie quattro [secondo Hilde Rapp, che a sua volta si muove su una linea simile, le mie quattro sono più vicine alla "lingua degli angeli" delle sette di Antonio, e una ricerca come questa permetterebbe di verificare quale dei due modelli metateoretici funziona meglio]); risultati significativi si potrebbero ottenere già con un numero relativamente piccolo di sedute e di coppie paziente/terapeuta: non servono ricercatori a tempo pieno né apparati costosi; è facilmente replicabile; se il modello a quattro vertici (o quello a sette livelli di Antonio, o altri) si rivelasse affidabile, la procedura potrebbe essere adottata sistematicamente da qualsiasi terapeuta di qualsiasi orientamento per una valutazione a tempi regolari dell'andamento della terapia; il terzo pagatore potrebbe basarsi su questa misurazione per finanziare un trattamento o sospendere il finanziamento. Come vedete, questa ricerca sviluppa le premesse che vi avevo già anticipato, ma che non potevo tradurre in un progetto concreto perché ero ancora legato all'idea della ricerca empirica: registrazione di sedute, sbobinatura, molte ore di lavoro da parte di ricercatori a tempo pieno… tutte condizioni per me inaccettabili o impraticabili. La ricerca di cui vi ho brevemente descritto il progetto invece non è puramente euristica, ma nemmeno empirica. Infatti [a] non è teorica (non si basa su una teoria) ma metateorica (è uno studio sui fattori comuni, trasversale a *tutte* le teorie psicoterapeutiche); [b] non si basa su un materiale da studiare oggettivamente, come in ogni ricerca basata sul modello medico (la registrazione della seduta), ma sul materiale proprio della psicoterapia: le valutazioni soggettive che paziente e terapeuta danno della medesima interazione (lo studio di "procedure specifiche per disturbi specifici", caratteristico del modello medico, è scarsamente rilevante in psicoterapia [come ha mostrato la meta-meta-analisi di Luborsky], dove quello che soprattutto conta non è la procedura [prevista da un manuale] somministrata dal terapeuta, ma il modo in cui l'interazione è vissuta da una parte e dall'altra); [c] restituisce alla coppia terapeutica la competenza della ricerca di cui era stata espropriata dall'ideale medico-scientifico che ispira la ricerca empirica: la ricerca torna a essere una prerogativa interna, non esterna, alla pratica psicoterapeutica (alla coppia terapeutica si dovrebbe riconoscere persino il diritto di modificare il manuale, purché le modifiche siano ben definite, motivate, concordate e consegnate ad apposite relazioni scritte); [d] supera peraltro la concezione "privatistica" di molta psicoanalisi anche contemporanea, accettando il principio di rendere in certa misura pubblico il lavoro della coppia terapeutica, e verificabili i suoi risultati, attraverso la produzione regolare di relazioni "stereoscopiche" (cioè che combinano i due punti di vista) esaminabili da agenzie esterne (in particolare commissioni pubbliche che devono decidere se finanziare o meno un certo trattamento - in prospettiva dovrebbero essere ammessi al rimborso solo i trattamenti in cui è accettata una procedura di controllo di questo tipo [in questa direzione si sta già muovendo il sistema sanitario tedesco, mi ha detto Franz Caspar]). 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