Trattabilità (e terminabilità) in psicoterapia psicoanalitica nell'autismo.
Considerazioni dall'esperienza nel 'gruppo di studio sull'autismo' dell'AMHPPIA di Firenze (1).
G.Benedetti, E.Fattirolli, S.Guerri, P.Meucci, G.Pini, A.Sciarrino
Intervenire oggi nelle situazioni autistiche con modalità che fanno riferimento al metodo e alle conoscenze psicoanalitiche è più problematico che un tempo. La situazione è divenuta più complessa di alcuni decenni fa, sia forse per una certa perdita di interesse e fiducia in questo campo, sia per gli apporti delle neuroscienze, tanto a livello biologico che a livello di psicologia evolutiva e del comportamento, ma forse anche per 'errori' concettuali e applicativi da parte degli stessi psicoanalisti e psicoterapeuti, che rischiano di compromettere la possibilità di utilizzare un tipo di intervento che crediamo avere ancora una grande utilità. Di fronte agli attacchi distruttivi che sono rivolti alla psicoanalisi e forse anche a una certa confusione nel nostro campo v'è la necessità per la psicoanalisi e per gli psicoterapeuti che vi fanno riferimento di definire meglio i propri metodi, i propri riferimenti teorici, i dati e i fenomeni oggetto della sua osservazione, le proprie modalità di lavoro, l'effetto del proprio lavoro. Il campo dell'autismo è forse quello più complesso per la mescolanza di aspetti biologici e psicologici, individuali e familiari, laddove una quantità di fattori diversi influisce sulla situazione individuale e familiare, sulla sua evoluzione e sullo sviluppo della personalità. Parlare della trattabilità comporta toccare questi aspetti, anche se solo come questioni aperte.
Intendiamo quindi riesaminare rapidamente, sulla base della nostra esperienza e come introduzione a uno scambio di idee, la possibilità di intervenire psicoanaliticamente nei casi di autismo, cioè di costruire una situazione terapeutica compatibile con i criteri psicoanalitici, che abbia possibilità di modificare positivamente l'evoluzione dei bambini con autismo.
Premessa. Problemi diagnostici: autismo
Nella nostra esperienza ci siamo trovati a pensare da un'angolatura psicoanalitica, con questa denominazione -bambini con autismo- ai casi caratterizzati dalla presenza (indipendentemente dalle ipotesi eziopatogenetiche) di un particolare stato mentale, lo stato mentale autistico, ('stato autistico propriamente detto', per Meltzer), caratterizzato da assenza, smontaggio, blocco totale, di quello che chiamiamo vita mentale, cioé emozioni, sentimenti, pensiero, relazioni, comunicazioni, sostituite prevalentemente da autosensorialità e altre forme di riempimento dello spazio mentale con contenuti non mentali, in pratica annullandolo. Nel nostro lavoro ci siamo imbattuti però nella presenza in questi bambini di stati mentali alternativi - che abbiamo proposto di chiamare stati paraautistici, e che possono essere indicati come fetali, primitivi, bidimensionali, tridimensionali, ecc.- che abbiamo pensato utile distinguere dalle condizioni postautistiche, perché sono compresenti allo stato autistico. La maggior o minor prevalenza dello stato autistico e il tipo di stati paraautistici compresenti, nonchè il loro rapporto anche quantitativo (oltre che la maggiore o minore parte della personalità implicata) determina, secondo questo modello, i particolari disturbi dello sviluppo della personalità e le diverse compromissioni nelle capacità cognitive, di linguaggio, di comunicazione, di capacità prassiche, ecc. Si determinano così quei quadri clinici piuttosto diversi fra loro, ma che vengono comunque compresi sotto l'ambito del disturbo autistico, come spettro composito risalente a un comune disturbo di base.
Si è progressivamente imposta nella nostra concezione una visione dello stato autistico come reazione difensiva primordiale analoga per alcuni versi alla trasformazione cistica osservabile in organismi animali primitivi. Una trasformazione cui partecipa sia l'organismo ospitato che l'ospitante, essendo la parete della cisti costituita da una parte più interna costruita dall'ospitato e una parte esterna costruita dall'ospitante. Analogamente ci sembra partecipino alla costruzione della cisti autistica sia il bambino che la famiglia, ma possono trovarsi coinvolti anche altri adulti con cui il bambino viene a trovarsi, fra cui il terapeuta stesso.
Lo stato mentale autistico viene visto in questo modello come uno stato di incistamento protomentale, o prementale, che, analogamente alla forma cistica animale esclude ogni altro rapporto di scambio con l'ambiente, e si risolve in un rapporto 'simbiotico' o, peggio, 'parassitario': chi ha esperienza degli stati controtransferali di vuoto ed esaurimento e spogliazione in certi periodi del lavoro terapeutico con bambini con autismo, può riconoscere in quei momenti il livello di rapporto parassitario in cui il terapeuta è come un organismo parassitato. Come lo stadio di cisti si ha in un ambiente sfavorevole per lo sviluppo dell'organismo, e lo blocca in uno stato non sviluppato per un tempo indefinito, così lo stato autistico è una modalità estrema di 'ritiro' in condizioni in cui la relazione oggettuale, determinante per lo sviluppo, è ostacolata a un livello estremo. In ultima analisi lo stato autistico potrebbe essere una modalità di adattamento estrema fra ospite e ambiente, che blocca lo sviluppo, come lo stato di cisti. Gli ostacoli all'instaurarsi della relazione oggettuale potrebbero essere di natura diversa, variabile, da quello puramente individuale di una gravissima lesione cerebrale a quello puramente ambientale di un gravissimo disturbo delle interazioni, con tutte le possibili forme intermedie che portano comunque a un fallimento della relazione. Comunque, di fronte a una relazione oggettuale fallimentare che costituisce un pericolo gravissimo per la sopravvivenza (vedi l'ospitalismo di Spitz), l'organismo umano primitivo potrebbe reagire in certi casi con una trasformazione da altri stati mentali a uno stato autistico. E'
importante però ricordare che questo è solo uno degli stati mentali in cui può trovarsi la persona con autismo, e che la sua condizione può variare a seconda della prevalenza o meno di questo stato su altri. Questo modello permette forse di superare le diatribe causate dal considerare quella autistica come una difesa nel senso usato in psicoanalisi, cosa che richiede uno sviluppo mentale superiore a quello che si trova in questi casi. Lo stato autistico non è una difesa 'mentale', ma per così dire una difesa psicobiologica, a livello protomentale, indifferenziato, soma-tico/psico-tico, che ha anche aspetti gruppali, in quanto coinvolge la famiglia e le persone intorno, ma è comunque una difesa, una forma di adattamento che probabilmente segue meccanismi in qualche modo innati, che scattano a un livello particolare di disturbo del rapporto con l'ambiente.
A differenza dalle 'cisti' animali, però, lo stato autistico in certi casi può diventare una condizione disponibile per la personalità accanto ad altri 'stati mentali', e la personalità o una parte più o meno grande della personalità può passare da uno stato all'altro, come fra 'luoghi' diversi, in reazione a situazioni ambientali non tollerate. Ciò può avvenire, a un certo punto, non solo per effetto di condizioni ambientali sfavorevoli, ma per effetto di un'abitudine o quasi, come altri ha segnalato, di una vera e propria addiction cioè tossicodipendenza dallo stato autistico. L'attrazione che lo stato autistico dimostra per questi ragazzi ricorda l'attrazione che presenta lo stato indotto dalle droghe per i tossicodipendenti. Come per questi costituisce un'autocura dalle sofferenze della vita fuori dalla droga, per i bambini con autismo rappresenta il rifugio dalle sofferenze insopportabili delle frustrazioni e delle delusioni della vita relazionale e dello sviluppo.
Ciò può avvenire in soggetti con uno sviluppo cognitivo per certi versi evoluto, come nei casi di cosiddetta sindrome di Asperger, o in soggetti in cui lo sviluppo cognitivo è stato completamente bloccato come nei casi più gravi di sindrome di Kanner. Forse si può ritrovare anche in situazioni di personalità più evolute.
Fatte queste premesse, vorremmo entrare brevemente in merito all'argomento specifico. Nella preparazione di questa comunicazione, ci siamo trovati ad occuparci di questioni che riguardano le indicazioni e la fattibilità, gli inizi e le terminazioni, aspetti che ci sono apparsi strettamente embricati. Inoltre siamo trovati a riflettere su quello che stiamo facendo e sui fattori 'curativi' che pensiamo siano in gioco, cioè sulle basi epistemologiche del nostro lavoro in queste situazioni, che è necessario rinfrescarci periodicamente, pena il perdere le fila del nostro lavoro. La questione della valutazione dei risultati e dell'efficacia è poi in questo ambito sempre sullo sfondo, anche in rapporto ad altri metodi, alle aspettative, ma certo tutte queste cose non possono essere esaurite in una breve comunicazione...
Considerazioni su modalità di valutazione e di inizio trattamento
Riguardo agli inizi, riteniamo importante sottolineare che ci sono aspetti specifici legati all'autismo. Specialmente nelle fasi di primo contatto quella che si presenta è spesso una situazione gravemente traumatica: tutta la famiglia può trovarsi in stato di shock e grave squilibrio.
Se la diagnosi è stata effettuata già da un certo tempo può esserci in stato di riorganizzazione più o meno patologica e fissata a un livello di maggior o minor rigidità. Quindi, prima di qualsiasi progetto di psicoterapia individuale, ci sembra necessario considerare lo stato psicologico attuale della famiglia con un figlio con autismo, la 'fase' che questa sta attraversando in quella che potremmo chiamare la storia naturale dell'evoluzione della situazione autistica e il modo in atto di affrontarla (2).
Riteniamo che l'intervento non possa non valutare attentamente questi aspetti, che richiedono probabilmente modalità diverse di approccio.
Non intendiamo affrontare qui la questione dell'intervento nella prima fase dell'esperienza familiare del disturbo autistico. Diciamo solo che questa è una fase gravemente traumatica per il bambino e per tutta la famiglia e che ci sembra assolutamente necessario un intervento di contenimento di tutta la famiglia che accompagni la famiglia intera alla ricerca di un assetto compatibile con il migliore sviluppo possibile e la vita mentale di tutti i suoi membri. Questa prima fase di trattamento può essere determinante per la successiva evoluzione verso un intervento più 'tradizionale' di psicoterapia individuale e di sostegno psicologico e ambientale alla famiglia. La mancanza di intervento tempestivo e adeguato può determinare l'evoluzione sia del bambino che della famiglia verso condizioni di equilibrio più patologiche che talora sono così rigide da rendere vani i successivi sforzi terapeutici.
Interventi inadeguati o non tempestivi, probabilmente, contribuiscono a un'evoluzione non ottimale della situazione familiare e del bambino verso quadri atipici per il prevalere di stati mentali paraautistici e di modalità diverse di funzionamento patologico. O addirittura possono peggiorare ulteriormente la situazione. Va considerato cioè anche un possibile effetto iatrogeno sull'evoluzione patologica di certi casi (come anche F.Tustin più volte sottolineava): quello che facciamo non è mai privo di conseguenze.
Tutto ciò riguarda però forse, più che i singoli psicoterapeuti, i servizi e i centri che vengono in contatto in fase precoce con casi di autismo, o di disturbo pervasivo dello sviluppo, e richiederebbe un approfondimento specifico e una discussione approfondita, data l'importanza della questione.
Desideriamo qui soffermarci invece sull'intervento psicoterapeutico individuale con bambini con autismo, che può essere richiesto a psicoterapeuti privati o del servizio pubblico, che hanno da valutare l'indicazione a un lavoro lungo, difficile e a prognosi molto incerta.
Fra le prime questioni importanti che si pongono al terapeuta c'è quella della
Fase di valutazione
Di fronte alla richiesta di un intervento psicoterapeutico individuale in tali casi, nella nostra esperienza abbiamo visto che le modalità tradizionale di valutazione (alcuni colloqui coi genitori, tre o quattro sedute col bambino) si rivelano di solito insufficienti (vedi anche S.Reid in Il buon incontro, Astrolabio). I vari elementi in gioco possono essere colti solo dopo un lungo periodo -che nella nostra esperienza è diventato anche di uno-due anni. Molto tempo è necessario perché il terapeuta sia in grado di avere una conoscenza approfondita del bambino e della situazione familiare e ambientale. Spesso è capitato che le valutazioni iniziali siano state contraddette a distanza: anche a livello di impatto controtransferale, per così dire, l'iniziale impressione del terapeuta può mutare grandemente, e non sono rare le sorprese: un caso valutato inizialmente a prognosi positiva può perdersi nel vuoto, un altro preso per così dire senza troppa speranza può stupire il terapeuta per la sua evoluzione insperata.
Abbiamo usato l'espressione 'periodo di prova' per indicare il periodo di valutazione prolungata di uno due anni che ci è sembrato necessario in questi casi. Con questi tempi i limiti fra fase di valutazione e terapia vera e propria tendono a perdersi. L'idea di un 'trattamento di prova per due anni' certo può suscitare reazioni di perplessità e sconcerto. Di fronte all'eventualità di un possibile esito negativo dopo un così lungo periodo di tempo è inevitabile provare sensi di fallimento, impotenza, di colpa verso paziente e genitori... D'altronde questi aspetti sono per certi versi vicini alle questioni che sorgono riguardo alla terminabilità di queste psicoterapie, e per questo il tema della trattabilità nella nostra mente si è rapidamente collegato a quello della terminabilità. Vi torneremo quindi in seguito, se il tempo sarà sufficiente.
Quanto ai criteri possibili di trattabilità, per tornare al tema specifico del gruppo di lavoro,
ci sono sembrati determinanti, rispetto alla decisione di prendere in psicoterapia un bambino con autismo, i criteri ormai condivisi diffusamente che riguardano sia l'età che lo sviluppo cognitivo che la collaborazione della famiglia e dell'ambiente, come da molti riconosciuto, ma anche altri criteri che è importante valutare più specificamente nel trattamento di prova, quali in particolare: l'intensità dello stato autistico e la presenza e prevalenza di altri stati mentali parautistici ma anche la presenza di stati più relazionali e le loro caratteristiche; la diversa distribuzione nei diversi stati mentali della personalità o di parti di essa; la maggiore o minore difficoltà a passare dallo stato autistico a stati diversi più favorevoli per lo sviluppo, e ad esservi 'richiamato' e trattenuto dal terapeuta. Può essere valutata inoltre, dall'anamnesi, la quantità di tempo già passata in stato autistico. Si può valutare, insomma, quella che si può definire l'organizzazione della personalità del bambino con autismo e il livello di contatto e relazione con il terapeuta che questa permette. E questo é valutabile nell'osservazione in seduta, in un lungo periodo, spesso sulla base di vissuti controtransferali.
Possiamo così riassumere, come segue, i fattori che influenzano l'indicazione a un trattamento psicoanalitico (3)
A) fattori 'oggettivi', o estrinseci
1)legati al paziente:
-maggiore o minore 'gravità' (definibile operativamente come grado di prevalenza dello stato autistico e maggior o minore difficoltà nel 'richiamarlo': vedi sopra)
-età e livello cognitivo (sotto una certa età, apparentemente, 'gravità' e livello cognitivo sono meno influenti, sopra una certa età solo con certi livelli di sviluppo cognitivo e di possibilità comunicative verbali inizieremmo una terapia psicoanalitica...)
2) legati alla famiglia:
maggiore o minore 'disponibilità' e collaborazione (che dipende però talvolta dal tipo di intervento avuto...) e possibilità di supporto o di vera e propria terapia se necessario (ad esempio in periodo'critico'...): talora un periodo di contenimento familiare é necessario prima della terapia individuale... (vedi sopra)
3) legati all'ambiente (scuola, ambiente medico, risorse sociali...):
possibilità di un intervento 'globale' di stimolo e sostegno educativo, sociale, ecc. (4)
B) fattori 'soggettivi' o intrinseci all'incontro T-P
legati all''incontro' fra terapeuta e paziente, ai vissuti, alla disponibilità del terapeuta, alla sua esperienza e 'resistenza' al particolare tipo di relazione terapeutica con i casi di autismo e con quel paziente in particolare, ai limiti della possibilità di comunicazione e pensiero, esposto a vissuti controtransferali di vuoto e/o intrusione mentale ai limiti della sopportabilità (cfr ns lavoro cdm2000). Forse l'elemento principale consiste nella possibilità di mantenere la capacità di 'pensare' o meno da parte del terapeuta, in seduta e fuori, con supervisione o meno.... Nella nostra esperienza la partecipazione a un gruppo di lavoro specifico si è rivelata molto importante.
C'è anche la questione della trattabilità in certe condizioni e non in altre, ad es. intensiva sì, diversamente no.. Indubbiamente riteniamo che senza un trattamento di almeno tre sedute la settimana appare molto difficile verificare le possibilità terapeutiche.
Le indicazioni realistiche, riassumendo, potrebbero tener conto di:
-fase evolutiva e modalità di invio: contenimento adeguato della famiglia nella fase iniziale e in seguito (non 'scontato'..)
-caratteristiche di età, gravità e risposta a un periodo esplorativo prolungato
-'protezione della psicoterapia' di fronte a pressioni ambientali
-esperienza e preparazione del terapeuta, e possibilità di supporto di supervisione o di gruppo di lavoro per reggere valenze controtransferali al limite della sopportabilità, come è noto.
Veniamo quindi alla questione della
Terminazione e terminabilità
Direttamente connessa, come sopra accennato, alla questione trattabilità e alla prolungata fase di assessment-trattamento di prova ci si è collegata in mente subito anche la questione dell'indicazione a interrompere o meno in caso di "mancata risposta", dopo un periodo congruo di tempo (che non è mai meno di uno due anni, più spesso di quattro o cinque).
La questione riguarda in pratica la verifica e conferma del giudizio di trattabilità a distanza di tempo e la valutazione dei risultati ottenuti.
Tale questione secondo noi è da affrontare con criteri esclusivamente interni alla relazione terapeutica, anche se le notizie esterne possono influire, specialmente in caso di evoluzione esterna positiva. E' frequente infatti che il terapeuta sia disperato per la situazione in seduta, e le notizie esterne siano invece positive, mentre ci sembra meno frequente il caso opposto, di un buon andamento in seduta e notizie negative esterne. Tragico il caso in cui a un andamento buono della terapia corrisponda una disgregazione della situazione esterna, non sufficientemente contenuta, che porta infine alla compromissione anche della situazione interna alla terapia e all'interruzione.
Esperienze di 'terminazione'
Le esperienze di fronte a cui ci siamo trovati sono diverse: manca la terminazione per compimento dell'analisi, cioè per un giudizio che il paziente può 'andarsene', continuare da solo....
fine per blocco, impasse
fine per interruzione decisa dalla famiglia
fine per esaurimento progressivo, dopo un'evoluzione positiva, come per il raggiungimento di un limite non superabile per così dire di limiti oltre cui non é giustificabile 'economicamente' continuare, quanto a risorse in generale, non solo finanziarie...
Riguardo a quest'ultima evenienza, forse quella specifica esperienza terapeutica ha esaurito le sue possibilità, potrebbe essere utile una nuova esperienza, con un altro terapeuta? Forse il terapeuta che conduce il bambino a uscire dall'autismo non ha poi energie sufficienti a accompagnarlo nello sviluppo ulteriore e potrebbe essere meglio affidarlo ad un altro terapeuta. Si può pensare come alla fine di una fase e ci è progressivamente sorta l'ipotesi, anche su notizie disparate da altre esperienze, che forse una esperienza terapeutica di 'uscita dall'autismo', per così dire, può esaurire le risorse di una coppia terapeutica, e che una successiva esperienza potrebbe essere utile, non immediatamente, con un altro terapeuta, per una diversa fase di evoluzione, magari quella adolescenziale nelle situazioni postautistiche.
Criteri di terminabilità
La concezione della fine della psicoterapia,il pensiero della necessità comunque di finire, prima o poi - cioé dell'inevitabilità della fine nonostante l'idea che persistano bisogni che solo la psicoterapia può affrontare- ci sembra importante da tenere a mente, perché introduce l'idea del tempo ed evita di colludere inconsapevolmente con l'assenza di tempo caratteristica dell'autismo. Il rischio spesso può essere altrimenti quella dell'autoidealizzazione ..., fino a una fusione col bambino protettiva verso l'esterno, che ricorda però quasi la simbiosi e rischia di riprodurre un'evoluzione 'cistica': anche il terapeuta, come la famiglia, può attivare modalità cistiche di adattamento...
I criteri intrinseci di utilità e indicazione per la terminazione -che non é 'compimento', nel senso che non é solitamente una terminazione per il venir meno delle necessità di psicoterapia esistenti, ma più forse il termine di una fase di sviluppo accompagnato dalla terapia- della psi. o meno ci sembrano molto simili a quelli indicati per la trattabilità, e riguardano la valutazione della personalità, dei cambiamenti avvenuti. In particolare l'osservazione di elementi che depongono per il persistere di un'evoluzione della personalità e della relazione terapeutica, e anche delle variazione dei rapporti fra le diverse parti della personalità non autistiche Ultimo ma non minore la possibilità del terapeuta di mantenere la capacità di pensare
Ci sono esperienze difficili di perdita di utilità della terapia, di svuotamento della relazione terapeutica, mai disgiunte dal senso di fallimento Perdita di speranza e di resistenza del terapeuta di fronte a quella data esperienza, legata a quelle specifiche condizioni, esterne e interne... Inevitabili alcune domande Si poteva far meglio in diverse condizioni, con un altro terapeuta (più 'bravo', più 'esperto'...)? Altre esperienze sembrano di grande utilità per un certo periodo, con cambiamenti, sviluppo, ecc, ma poi sembrano giungere a esaurimento e parziale arresto, col fallimento di acquisire ulteriori competenze, ecc, stasi.
Data la prevalenza finora di una prognosi infausta nella cura dell'autismo, con qualsiasi metodo, il terapeuta è esposto a esperienze di fallimento con una frequenza piuttosto alta, e in questi casi a incertezze, dubbi sul proprio lavoro quanto mai disturbanti, anche per il bombardamento esterno cui deve fare fronte.
Inevitabile affrontare il problema dei 'fallimenti', le interruzioni, o le fini per esaurimento, ecc. Sono legati a cause "oggettive" , "soggettive", o a carenze e limiti degli interventi? Nei casi 'falliti' é possibile trovare sempre 'errori' di intervento, intendendo con questo termine interventi che non hanno 'contenuto' sufficientemente la situazione. Anche le interruzioni 'decise' dai genitori possono talvolta essere lette come valenze non contenute del terapeuta proiettate e agite dai genitori. Quindi certe situazioni 'falliscono': vuol dire che non erano trattabili o che non si é trovato il modo opportuno di trattarle? Ci sembra impossibile per il terapeuta non assumersi la responsabilità del fallimento.
Pur con diverse sfumature, riteniamo quindi che nella questione e nelle esperienze della terminazione possono pesare più che mai sulle valutazioni del terapeuta una quantità di fattori che rischiano di essere 'razionalizzati' in formulazioni oggettive legate al paziente, come la sua gravità, difficoltà esterne, livelli cognitivi insufficienti, ecc: la sola cosa però che si può dire in caso di interruzione è che il paziente non è risultato 'trattabile' da quel terapeuta, in quella situazione particolare, ma non esclude che con un altro terapeuta e un'altra situazione non sarebbe stato 'trattabile'.
Le nostre casistiche sono limitate ma i fattori "soggettivi" ci sembrano prevalere su quelli "oggettivi": essenzialmente quello che determina il giudizio di non rispondenza alla terapia è la difficoltà a stabilire e mantenere il tipo di intervento necessario al livello e per la fase in corso. D'altronde ci sono limiti umani, ovviamente, tanto più in queste esperienze al limite della tollerabilità e delle difficoltà soggettive ed oggettive. Però queste non debbono indurci, riteniamo, a trarre delle conclusioni cd 'scientifiche' di trattabilità o meno su situazioni e questioni ancora molto oscure e sconosciute come quella dell'autismo.
Cenno su aspetti epistemologici
Riguardo a quello che stiamo facendo e ai fattori 'curativi' che pensiamo siano in gioco, cioé alle basi epistemologiche del nostro lavoro.
Ci siamo trovati a considerare il nostro intervento come una facilitazione dello sviluppo, un richiamo dallo stato autistico, il tentativo di passaggio a- e mantenimento di- stati mentali relazionali più favorevoli per lo sviluppo e la nostra funzione come quella di favorire quindi il prevalere di certe modalità di relazione e comportamento, rispetto ad altre modalità.
L'attività che facciamo a questi livelli ci richiama, per alcuni versi, le parole di Meltzer sul lavoro con i pazienti chiusi in stati mentali che lui ha definito 'claustrum'. Il lavoro analitico vero e proprio, basato sull'interpretazione del materiale e del transfert non è possibile finchè i pazienti restano dentro il claustrum, tanto più dentro lo stato artistico o certi stati paraautistici bidimensionali. Per l'analista è un noioso duro e ripetitivo lavoro per far emergere i pazienti nel mondo relazionale. Solo a quel punto scatta la relazione analitica e l'analista si trova a fare il suo lavoro abituale, ben più vario e appassionante. Sembra inevitabile però dover passare attraverso la lunga e faticosa fase del 'richiamo', per usare questa espressione di Alvarez particolarmente significativa.
Torna la questione, ogni tanto, se quello che si fa é 'psicoanalitico' o altro (pedagogico, ecc), o comunque, di che rapporto ha con il corpus psicoanalitico. Specifico del lavoro psicoanalitico in queste situazioni ci è sembrato, non diversamente dal resto del campo della psicoanalisi, l'attitudine volta a mantenere una mente pensante anche in condizioni estreme, anche se inevitabilmente ciò non è possibile in ogni momento e condizione, ma comunque come tendenza, attitudine, tale da mantenere la possibilità di osservare e registrare i fenomeni in atto nella relazione, in entrambi i partecipanti. Sulla base di questi elementi essenziali di setting e relazione, un altro elemento specifico è il costruire modelli interpretativi sia della relazione che del funzionamento mentale sia del paziente che del terapeuta, che guidano ad interventi, che solo raramente diventano confrontabili con le classiche 'interpretazioni', e spesso sono comportamenti interpretativi, per così dire... Ci sembra che il metodo psicoanalitico, inteso come insieme di setting specifico e vincolante e di attitudine basata sull'attenzione al significato emergente nella relazione rimanga come l'elemento guida basilare del rapporto terapeutico, anche a questi livelli sicuramente presimbolici, o talora pseudosimbolici.
Direttamente collegata alla questione precedente c'è quella, più importante da un punto di vista operativo, se questo intervento - visto che spesso quello che facciamo é un'attività di 'richiamo' e di 'attivazione', certo al limite talora del consumo di energie psichiche, ma che a un'osservazione esterna non apparirebbe dissimile da quanto potrebbe essere fatto da un "buon educatore"- se dunque questo intervento non potrebbe essere fatto da educatori senza preparazione psicoanalitica, magari con la supervisione dello psicoanalista sull'educatore e sull'intervento ambientale, fino a che, come qualcuno dice, eventualmente non scatti un livello di sviluppo simbolico che permetta l'intervento diretto dello psicoterapeuta.
Non pretendiamo l'esclusività, e sicuramente persone di altra professionalità, non specificamente psicoanalitica, possono avere doti relazionali, di sensibilità e resistenza e intuito tali che lo guidino a raggiungere il bambino artistico e ad aiutarlo a un'evoluzione nel mondo relazionale. Cosiccome anche terapeuti 'formati' ed esperti possono andare incontro a 'fallimenti', come discusso sopra e d'altronde l'intervento nell'autismo è ancora a prognosi quanto mai incerta, indipendentemente dai metodi terapeutici usati. Ma ci sentiamo di sostenere che il tipo di lavoro col bambino con autismo tocca livelli di sviluppo mentale così primitivi, talora, addirittura prenatali, fetali, o talmente ai margini della vita mentale, a addirittura a livello non mentale, che ci sembra che attualmente la indicazione più mirata sia ancora quella di un intervento psicoanalitico, anche se nella particolare accezione che abbiamo cercato di indicare sbrigativamente.
Note:
1) Dal 94 alcuni psicoterapeuti di Firenze formati presso il Centro Studi Martha Harris e che avevano in terapia bambini con autismo hanno cominciato a incontrarsi periodicamente, con cadenza quindicinale, per confrontarsi e discutere insieme il loro lavoro. Le persone componenti non sono state fisse, qualcuna è entrato dopo qualche tempo, qualcun altro è uscito. Oltre agli autori di questa comunicazione, che ora costituiscono il gruppo di studio, ne hanno fatto parte per qualche tempo anche Franco Bruschi, Maria Paola Martelli, Maria Cristina Stefanini. Sono stati seguiti e discussi, più o meno ampiamente, una quindicina di casi, in varie fasi del percorso terapeutico. Altre comunicazioni derivanti dal lavoro nel gruppo sono state presentate alla Biennal Conference dei Terapisti Tavistock, Firenze 1998, al Convegno EFPP di Roma, 1999, e al Convegno sull'opera di Meltzer, Firenze, 2000.
Indirizzo: Gianmaria Benedetti, via S Reparata 69, 50129 Firenze. E-mail noe49@hotmail.com
(2) Cfr l'articolo di Sue Reid in 'Il buon incontro', Astrolabio e il volume dall' ultima Autism Conference della Tavistock, gli articoli di Sue Reid e T Klauber sugli aspetti traumatici.
(3) escludendo gli aspetti pratici e 'reali' di disponibilità di un terapeuta, nel pubblico o nel privato, e i fattori economici, nonchè gli aspetti 'istituzionali' nei servizi pubblici, da considerare a parte)
(4) Questione dell'intervento globale, integrato: Alcuni di noi, retrospettivamente, dichiarano l'intenzione di "non prendere più in psicoterapia un caso simile senza un intervento ambientale importante", e sottolineano la necessità di un gruppo di lavoro funzionante in un intervento globale ed integrato. Altri però, sulla base dell'esperienza non considerano questo come un criterio obbligatorio in tutti i casi.... e sottolineano come talora la casualità e la 'fortuna' entrano in gioco riguardo alle qualità delle persone (educatori, ecc.) che si occupano dell'intervento 'esterno', quanto a capacità di contatto emotivo e di relazione con bambini così, capacità che non sono automaticamente date dalla 'formazione'... Si afferma quindi, da molte parti, che spesso "vale comunque la pena di tentare"..., perché il rapporto terapeutico può rappresentare comunque un'esperienza unica e favorire un certo sviluppo, e perché spesso ha costituito un punto di riferimento comunque fondamentale per la famiglia, che ha permesso di resistere a situazioni ambientali difficili.
Il criterio della presenza di un intervento globale ha il senso forse più di un'indicazione "ottimale", indubbiamente da favorire e costruire, ma, focalizzando la nostra attenzione sulla relazione terapeutica, è necessario fare attenzione alle "azioni" dello psicot. che possono essere difficili da distinguere da 'agiti'... e che possono trovare razionalizzazioni negli aspetti di realtà esterni alla situazione terapeutica. Tutti noi abbiamo l'esperienza, penso, in supervisione individuale o di gruppo, della quantità di valenze controtransferali inconsapevoli che si rivelano quando presentiamo materiale clinico, e della facilità con cui chiunque di noi possa compiere azioni, apparentemente 'ragionevoli' che si rivelano a un'analisi più approfondita 'agiti ' coperti da razionalizzazioni, che vanno a scapito della possibilità di cogliere e contenere aspetti importanti in seduta... Ci sembra quindi necessario separare e proteggere il lavoro psicoterapeutico dal lavoro assistenziale ed educativo, cioè dal lavoro sulla realtà esterna, che va demandato ad altri.
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