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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Area: Psico-socio-analisi

PSICO-SOCIO-ANALISI: FONDAMENTI UNO

Trascrizione di un seminario di Luigi Pagliarani (1989)
a cura di Ermete Ronchi

Parte seconda


 

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6. Ansia e angoscia

Giusta domanda. In realtà il significato sarebbe lo stesso; ci sono però alcuni autori che addirittura usano le due parole con significati diversi e via via è invalso il senso che l'ansia sia un'angoscia meno forte, uno stato emozionale di minor sofferenza.

Anzi la cosa curiosa è che in inglese non esiste la parola. Per esempio Freud per dire angoscia usa "Angst" che é "paura", però, nel momento stesso in cui Freud la chiama paura la definisce in termini di paura inconscia per cui un conto è che io abbia paura della macchina che mi viene addosso o del rapinatore che mi può aggredire - questa è la paura ed è anche bene che l'abbia - e un conto è che io inconsciamente veda dei fantasmi nel traffico della strada o nel camminare notturno, che non ci sono, ma che invece in me determinano uno stato d'angoscia. In inglese la parola "anxiety" che viene usata normalmente per tradurre "angst" in realtà nel linguaggio corrente è "ansia"; non è "angoscia".

La vera parola inglese, - l'unico ad usarla in questo senso è Winnicott - è "agony", agonia, ma agonia non nel senso che intendiamo noi del moribondo, no, bensì tipica di uno stato emozionale che ci prende alla gola e che ci dà la sensazione, anche se non siamo in coma, che la nostra vita è in pericolo: ecco questa è l'angoscia.

 

7. La finestra psicosocioanalitica

Allora riprendiamo la finestra.

 

La casella n. 1 è il campo della psicoterapia individuale. La casella n. 3 è quello di una psicoterapia di gruppo. La casella n. 2 è quello dell'uomo "faber", nel ruolo. Ammettiamo che lei nella gestione del suo ruolo di assistente sociale e dei problemi che le crea un certo "cliente" o una famiglia, incontri difficoltà. Conosco bene il lavoro dell'assistente sociale, anzi, se le interessa, c'è un numero antico però credo ancora attuale di "Psicoterapia e scienze umane" tutto dedicato alla socioanalisi; vi figura, insieme ad altri saggi, il lavoro su una lunga ricerca relativa al ruolo dell'assistente sociale. Quello dell'assistente sociale è uno strano mestiere che è esposto spesso a diversi livelli di ansia, perché nella prassi, nel modo com'è socialmente recepito questo ruolo, gli si possono chiedere le prestazioni più umili - accompagnare alla posta una vecchia pensionata a ritirare la sua pensione - insieme ad altre prestazioni, specie quando si lavora in istituzione psichiatrica. Può succedere ad esempio che l'assistente sociale sia chiamata a sostituirsi allo psichiatra, allo psicoterapeuta e ad assumere un ruolo psicoterapeutico di grande responsabilità. Immagino che a lei sia capitato. Il che spesso avviene nel totale misconoscimento. Mettiamo che anche lei si trovi in difficoltà in una relazione con un cliente e magari la sua difficoltà è di questo tipo: ritiene di dover gestire il suo ruolo in certi termini però non è sicura di far bene. E allora richiede semplicemente una supervisione rassicurante. O addirittura ci può essere la situazione molto più dura, "non ce la faccio più", "non capisco", "non so cosa mi sta succedendo". Ecco, il fatto che lei venga da me o da un altro per una consulenza nella gestione del ruolo questo é "faber". Il quadrante 3 delinea il campo della consulenza psicosocioanalitica al ruolo.

Il settore n. 4 è quello dell'intervento psicosocioanalitico in una istituzione, in una USSL- ad esempio - come dicevo prima. Per cui se volete in questa finestra sono raffigurate - se i quattro settori li guardiamo separati - quattro professioni diverse. Nel primo quadrante c'è lo psicoanalista, lo psicoterapeuta; nel terzo c'è lo psicoterapeuta di gruppo, o l'esperto di dinamiche di gruppo; nel secondo c'è il consulente. Per esempio a lei, nel fare selezione, può darsi che si presentino dei problemi e che pensi, se non altro per collaudare il suo metodo, di avvalersi della consulenza di un socioanalista; addirittura domani nello svolgere il suo ruolo di selezionatore, lei non è altro che un socioanalista se lo fa in un certo modo, nei confronti del cliente che le commissiona il lavoro. Cosa deve in pratica riscontrare? Data una certa posizione di lavoro di cui conosce la job description, conosce il livello, la retribuzione ecc. e, date le richieste personologiche, gli skills - come oggi si dice in "aziendalese" - le abilità necessarie a ricoprire quella data posizione, lei deve potersi rendere conto, attraverso una certa tecnica, spesso un colloquio, se tra le persone che lei vede, quale di queste - nell'interesse dell'azienda e direi anche nell'interesse di chi lei deve selezionare - è quella che ricopre potenzialmente meglio il ruolo. Questa è socioanalisi se vuole. Sì, è un po' come la storia di quel personaggio di Moliére che parlava in prosa e non lo sapeva.

Il punto per me è interessante è dato dalla seguente circostanza: spesso, quando lavoro come consulente nella gestione di un ruolo (in faber, cioè), mi succede di scoprire che quel capo, quel dirigente, quel preside di scuola, quel politico, incorre sempre o con una certa ricorrenza in situazioni problematiche che più o meno si ripetono. Sì cambiano i problemi, mutano le persone con cui costui è in relazione, ma il disagio psicologico è sempre della stessa natura, lui casca lì, sempre. Qui insorge legittimo il sospetto che il "problema" sia in quella persona, che sia qualcosa di suo a determinare quelle situazioni. Allora cosa facciamo a questo punto? Andiamo a vedere in che misura problemi, conflitti, ansie appartenenti a un'altra epoca, a un ruolo altro della sua vita si ripetano nella situazione attuale. Per cui - considerando ad esempio il ruolo del capo - se nascono costantemente problemi tra me capo e lei, mio dipendente, a un certo punto si scopre che io, senza rendermene conto, vivendola anche come figlia - cosa che invece non è nella realtà perché lei è la dipendente di me coordinatore di quella equipe - inconsapevolmente di fronte a quelli che possono essere i suoi errori mi comporto come mio padre si comportava con me nei confronti dei miei errori di bambino. Per cui potrei scoprire che io utilizzo queste situazioni quasi vendicandomi delle ingiustizie che presumo di avere subito. Così il rapporto non è più tra me e lei o, nella situazione reale, tra quello che lei fa e quello che io giustamente potrei pretendere che lei facesse, tanto che, quanto più cerchiamo di spiegarci, tanto meno la cosa si risolve, perché lei non si colloca nella posizione di figlia, perché non ha nessun dovere di diventare mia figlia. Questa è una delle operazioni che, se volete, è sintetizzabile in termini molto semplici. Io uso questa esemplificazione che, fino all'altro giorno, chiamavo una metafora. Però mi sembra, a giudicare da come funziona e da come la vedo frequentemente utilizzata in "officina", mi sembra una buona concettualizzazione proprio perché è semplice. I quattro quadranti sono sempre tra di loro interattivi: da qui l'importanza di acquisire competenze professionali di tipo psico-socio-analitico.

 

8. Netto lordo e tara

A tutti noi hanno insegnato a scuola - addirittura alle elementari - la distinzione molto semplice, del peso netto, del lordo e della tara. Curiosamente questi tre vocaboli hanno anche altri significati. "netto" vuole dire "pulito" (per esempio i Tedeschi per dire "bello" dicono "net"). "Bello netto" lo diciamo anche noi per dire "pulito". "Lordo " vuole dire pesante ma vuole dire anche sporco e "tara", oltre che la cassetta che tiene le pere, è anche la tara mentale. Nella situazione che io ho appena descritto (e che dovrebbe essere gestita al netto, bello) che cosa può succedere?

Il netto è che io le ho dato una certa disposizione, lei l'ha capita, l'ha eseguita bene per certi versi, non bene per certi altri. Anzi, se sono un buon capo, approfitto dell'errore che vedo nel suo lavoro, per spiegarmi meglio e per curare la sua formazione, con vantaggio di entrambi. Se lei prima non mi avesse interrotto o io fossi uno di quei capi che le dicesse "lei parli quando è interrogata" oppure avessi dimostrato insofferenza, non avrei potuto sapere che una certa cosa non era chiara, come giustamente non era chiara, sarei andato dritto seguendo i miei pensieri e lei avrebbe continuato a non capire. Mentre invece il fatto che lei mi abbia potuto interrompere e abbia potuto spiegarsi, ha prodotto effetti utili, per entrambi e per il gruppo.

Se io però ho dei problemi di prestigio e ritengo che la sua interruzione sia un attacco alla mia autorità di ruolo, magari le rispondo, ma le rispondo male, le faccio capire che è lei che non ha capito perché io sono stato chiarissimo e allora veda un po' lei se non è il caso di interrogarsi sulla sua intelligenza. Da quel momento il rapporto tra me e lei è compromesso.

Cosa faccio? Al netto, dovrebbe essere affrontato in modo realistico e razionale, ma se io metto nei suoi errori una mia sofferenza di bambino quando il mio errore mi procurava il disprezzo di mio padre che mi diceva "da te non si caverà mai niente di buono quando invece tuo fratello, lui sì ...", lì c'è la tara; col rischio di gestire questa situazione non al netto. In sintesi l'operazione che io cerco di fare - e che qui vi in modo molto sintetico descrivo - è che tutte le volte che ci può essere una tara o ci sono indizi per supporre che ci sia una tara devo fare, quale interessato, questo lavoro di sottrazione della tara dal lordo. E devo addestrarmi ad applicare questa operazione tutte le volte che la situazione appare gestita al lordo. Ed è normale incontrare il lordo. Al momento non mi risulta esista il dogma dell'immacolata percezione.

Lei prima diceva che ha già trovato qualcosa che le può servire sul piano personale. Questa attenzione verso ciò che ho chiamato tara serve prima di tutto sul piano personale. Provate a pensare alle vostre relazioni affettive e con i genitori, con i figli, con i morosi o le morose; certi momenti ambigui oscuri, la gelosia, l'invidia, la paura, il tradimento. Quanta tara ci può essere se io, per esempio, nutro dei dubbi - soprattutto se inconsci - ho dei problemi sulla mia amabilità. Poniamo: una la sera la mia donna dice che non ha nessuna voglia di venire al cinema con me, oppure avrebbe anche voglia, ma ha preso un altro appuntamento, cosa normalissima, siamo nel 2000, perché no? Ma se in me c'è un morso antico che mi ha fatto sentire non sufficientemente amato perché mio fratello era il cocco di mia mamma, allora quello che è un appuntamento innocente diventa qualche cosa di diverso, una ferita. Dopo di che, quando ci rivediamo, al minimo lapsus che lei fa o alla minima incoerenza, divento inquisitivo. Capite come l'amore da questo momento può diventare un inferno? Per cui apprendere a saper sottrarre la tara dai rapporti affettivi è importante, voglio dire che se imparate questo, è già tanto. (ndr: nei seminari successivi tutto questo verrà poi ripreso e approfondito in termini di capacità di analisi del transfert-controtransfert nei vari contesti delimitati dai 4 quadranti della finestra psico-socio-analitica.).

Ci sono delle situazioni per le quali siamo addestrati e in virtù di questo apprendimento le gestiamo con saggezza a differenza di un tempo precedente quando agivamo in modo squilibrato. Però, siccome la vita presenta sempre degli inediti, ci sono dei momenti in cui noi dimentichiamo totalmente la componente "tara" e ce ne possiamo accorgere dopo un po', ad esempio perché qualcuno ce lo fa vedere; ma lì per lì l'angoscia emergente è l'emozione è tale che ci accieca. Quindi non è che su questo terreno si impara una volta per tutte; anzi a questo proposito io uso questa metafora: durante un trattamento psicoanalitico il processo, il cammino può essere descritto come una spirale. Non con un cerchio che si sviluppa su un piano. Si va su, lungo i tornanti della spirale, e si presentano situazioni, proprio nel salire, con nuovi, più alti livelli di responsabilità, e col crescere del livello aumenta anche il livello d'ansia. E se nel cerchio sottostante noi siamo stati abili, ce l'abbiamo fatta, nell'anello soprastante (che sembra più o meno presentare le stesse caratteristiche del precedente), ma che si trova ad un livello superiore, ecco! lì potremmo essere proprio in una situazione in cui il nuovo ci coglie non sufficientemente attrezzati, pronti. Li' occorre fare i conti con nuove emozioni sorgive. E - dicevo - vedo in analisi che man mano che il processo di autoconoscenza cresce e quindi anche la capacità di progettare avanza, si presentano nuovi traguardi, da cui possono prodursi anche regressioni. E non è mai finita. Ma vale la pena.

 

9. Una finestra con quattro accessi

Tra le quattro caselle della finestra psicosocioanalitica ci mettiamo allora una porta. Una porta nel senso che può essere chiusa tutte le volte che non è necessario risalire, ma che può anche essere aperta allorché sussisterà la capacità di progredire.

La stessa porta la dobbiamo vedere in una certa istituzione aziendale, di lavoro. Uso il termine "officina" alla latina, perché se la parola è rimasta nel nostro vocabolario come officina meccanica, per i latini era la fabbrica, l'azienda di quei tempi. Cioè era un lavorare in gruppo. Così globus non è altro che il termine latino per dire "gruppo", che a me piace più di "group". Un po' per contrastare l'inflazione dell'inglese ed anche perché dà il senso della globalità.

Allora nella "finestra psicosocioanalitica" ci sono 4 porte; l'intendimento della ricerca psicosocioanalitica può essere definito in questi termini: per un verso la capacità di ricercare in un campo a quattro dimensioni vi può servire per la buona gestione di ognuno di questi quattro ruoli, di questi differenti mestieri; oppure nella migliore gestione del ruolo che già svolgete normalmente, ognuno nel proprio ambito di lavoro. Credo che Ronchi vi abbia gia' informato che in questo percorso formativo, dopo la formazione psicosocioanalitica di base, viene proposta una doppia specializzazione: in campo "socio" per coloro che intendendo sviluppare la disciplina che riguarda soprattutto il mondo della organizzazione, delle aziende, delle istituzioni pubbliche o private; e, nell'altro filone, quello più prettamente "psico", la specializzazione in psicoterapia. Però il sentimento e il pensiero che anima la ricerca psicosocioanalitica italiana che noi sviluppiamo è che la frequentazione di tutti e quattro i settori migliora l'abilità nell'esercitare un'attività, un mestiere specialistico individuabile anche se sviluppato in uno soltanto dei quattro quadranti. In sostanza, sei tanto meglio preparato e attrezzato a operare nel tuo specifico professionale se hai avuto una formazione e un'esperienza di training anche nelle altre aree della finestra.

Io ad esempio mi accorgo che da quando mi dedico - ormai sono anni - allo sviluppo organizzativo in azienda, capisco e vedo delle cose in psicoterapia di gruppo che prima non vedevo. Non solo; grazie alla psicoterapia di gruppo quando vado in azienda vedo delle cose che altri non vedono. Per cui, se volete, questi esemplificati dalla "finestra" sono quattro mestieri diversi; il mestiere dello psicosocianalista infatti dovrebbe comprendere, a monte, a livello di formazione, una abilità, una capacità di gestione di tutti e quattro gli specifici. Che poi uno scelga la professione che preferisce anche in base a quello che la situazione oggettiva gli consente di più di coltivare. Anzi a questo proposito non insisto tanto perché tra il materiale che si è pensato di darvi in questo seminario introduttivo c'è la presentazione, che ho appena scritto l'altra notte, del libro di uno psicologo dell'organizzazione - americano - che si chiama Edgard Schein che va molto adesso, è addirittura un capo scuola. Ricordo che me lo ha fatto conoscere Varchetta un anno fa con un bigliettino che accompagnava il testo di questo autore. Il bigliettino che ho conservato diceva "guarda che Schein dice le stesse cose che tu ci stai dicendo da anni". Questo libro che pubblicherà l'editore Guerini è intitolato "La prospettiva clinica nelle organizzazioni" (ndr: il titolo definitivo sarà poi "Sviluppo organizzativo e metodo clinico", Guerini e Associati, Milano, 1989). Schein sostiene che la formazione, dacché si è data a modelli rigidi e cioè ha tradito, ha dimenticato la clinica, si è corrotta. E il suo libro non è altro che il racconto del suo processo e di come sia importante l'atteggiamento clinico, che significa essere attenti, cercare di capire le dinamiche dei sentimenti che intricano le relazioni. Sentimenti di ogni tipo, questa è la clinica.

 

10. Sguardo clinico e professionalita’

E anche per chi non è intenzionato a dedicarsi alla psicoterapia, alla psicologia clinica, ma intende limitarsi ad altri ambiti, lo sguardo clinico è indispensabile ai fini di meglio gestire la propria situazione professionale. Anzi c'è un testo classico di E. Jaques il cui titolo inglese originario suonava come "Il cambiamento culturale di una azienda" - in italiano è stato tradotto in "Autorità e partecipazione in azienda” (ndr: E. Jaques, "Autorità e partecipazione nell’ azienda - Il cambiamento culturale in una fabbrica", Angeli, Milano, 1975) in cui l'autore introduce il termine di atteggiamento clinico, e parla di socioanalisi. In gran parte la socioanalisi, in Italia poi evolutasi in psicosocioanalisi, fa capo a Elliot Jaques. Il libro è il racconto della trasformazione culturale a cui è chiamata una azienda metalmeccanica inglese con la fine della seconda guerra mondiale e col passaggio dall'economia di guerra all'economia di pace. Cioè il discorso d'avvio è economico, produttivo, di mercato, di marketing; però la situazione di produzione crea problemi che vanno visti con occhio "clinico".

Ed ecco allora la psicosocioanalisi come atteggiamento clinico anche nei confronti delle aziende. Cosa vuole dire clinico? Io nella mia presentazione do un'altra spiegazione che non vi dico così non perdiamo tempo, ve la leggete se avete voglia. Clinico viene dal greco "klinéin" che, tra altri significati, vuole dire chinarsi. Cioè l'atteggiamento clinico descrive il medico che si china sul letto del paziente, del malato. E in quanto si china, lo ascolta, lo vede, lo ausculta, dialoga con lui. La clinica in senso più lato, relativamente a un ruolo nelle istituzioni, significa proprio assumere questa capacità di ascolto, di auscultazione in maniera da riuscire a capire che cosa sta realmente accadendo e istituire quella relazione - col malato direbbe il medico, ma con l'istituzione o con l'uomo diciamo noi - indispensabile perché ci possiamo capire. Tutto qui. (Oggi si parla di relazione con un soggetto individuale, gruppale e istituzionale. Ndr.)

- Partecipante: Prima parlavo del mio uomo o della mia donna - in materia di selezione del personale - per indicare la persona "candidata" e di cui il mio cliente, il committente mi ha fornito il "profilo ideale". Secondo me esistono due aspetti da considerare. A volte cerco di fare il "matrimonio", ma nell'ambito del possibile matrimonio tifo sempre per il candidato più che per il cliente. Una mia deformazione?

- Pagliarani: No, credo che sia bene invece; credo che questo sia nell'interesse anche del cliente.

- Partecipante: Il mio candidato ideale allora è "questo"; la mia azienda ideale é "questa". Purtroppo molto spesso io trovo la persona ideale ma non trovo l'azienda ideale. Io ho molta più disillusione, scoramento, nell'accorgermi che l'istituzione è un'istituzione "balorda" mentre io mi do da fare come un pazzo per trovare invece una brava persona, cioè l'ideale. E poi vado a mettere, qui mi piange il cuore, una brava persona all'interno di un merdaio. Questo é come vedo la situazione. Mi scusi ma queste riflessioni me le ha tirate fuori lei.

- Pagliarani: Perché si scusa? Lei forse ancora non lo sa ma é bioniano. Di Bion forse avete sentito parlare. Bion prima di morire si stava interessando al problema dell'esercizio della sovranità, della leadership, del potere, arrivando a individuare - Pagliarani:con geniale semplicità - la forma buona e la forma cattiva di gestione del potere, dell'autorità di un capo. Bion connota le due forme in questo modo: la cattiva forma è connotata dall' esclusione e dal monopolio; laddove ci sono esclusione - dalle informazioni, dalle comunicazione, dai giudizi, dall'ascolto ecc. -, e dove c'è monopolio, lì c'è la cattiva forma. La buona forma è connotata da integrazione, coerenza, globalità. Lei dice che la sua azienda difetta in materia di globalità e di integrazione e non è nemmeno coerente tra quello che dice di voler fare e quello che fa. Solo che Bion dice che le due forme, quella buona e quella cattiva, coesistono sempre. Dipende - questo lo aggiungo io ma penso che sia implicito - dal tasso, dalla percentuale del mix. Certo che la situazione più patologica è quella dove la cattiva forma prevale nettamente sulla buona. La situazione buona, auspicabile, ideale direbbe lei, ma che non é quasi mai raggiunta è quella in cui stravince la forma buona. Allora si potrebbe dire, siccome lei parlava prima anche del suo conto in banca - certo che se lei li vuole fare subito i soldi allora deve, come si diceva una volta, legare l'asino dove vuole il padrone, ma bisogna vedere come si sente lei con se stesso; se però ha un po' di pazienza e magari ora cerca di guadagnare quello che le permette di campare, con la possibilità anche di avere il conto in banca - allora, dicevo, occorre cogliere le opportunità, magari in tempi lunghi, per cui lei accetta provvisoriamente un compromesso, ma utilizza questa situazione anche per allevare, educare le sue potenzialità; l'importante è che lei trovi in questa azienda qualcuno, che sicuramente c'è, che ha la stessa sensibilità e se ne fa un alleato.

 

11. Etica e formazione

E' chiaro che lei in questo modo non sta ingannando l'azienda; la ingannerebbe in realtà quando mettesse l'asino dove vuole il padrone. Magari la strapagano per questo. Ecco perché dico che in questo modo lei fa anche l'interesse, il tornaconto dell'azienda. Certo che bisogna avere il coraggio per le affermazioni che si fanno. Oggi la formazione aziendale è un grosso business. Io sono stato in luglio ad un bellissimo seminario proposto da uno dei massimi esperti italiani. Già alle prime relazioni avevo una gran voglia di intervenire, sicché ho preso degli appunti e pian piano avevo accumulato tre pagine di appunti. Per cui dopo c'era il problema: che cosa scelgo? Alla fine ho scelto di non dire niente e di stare a guardare una volta tanto. E mi è stato molto utile il confronto tra il bel discorso sull'etica professionale, oggi di moda, e presentata con minuetti sul palco dei relatori e quanto sentivo dai discorsi nei corridoi, di tutt'altra natura. Allora "la formazione è il business", sicché “l'etica non si può realizzare perché il committente ...”. Non sarà un alibi? Spesso invece io vedo che è il formatore che non ha il coraggio di uscire dai suoi schemi per mettersi in gioco.

Quindi c'è un grosso lavoro da fare con la differenza magari che se lei non lega l'asino dove vuole il padrone incassa meno per adesso però ha più gusto nel suo lavoro e questo paga subito oltre che a lungo andare. Per esempio questo libro di Schein - a me fa piacere perché finalmente in America si fa un discorso così - comincia ad avere ascolto. Ma dieci anni fa Schein non avrebbe avuto ascolto. Adesso dice cose che hanno ascolto, vende libri e credo che il suo conto in banca vada meglio. Ma non è stato facile dato che la tendenza e' opposta. C'è stato quel rapporto del MIT sulla conduzione delle aziende americane. Mentre anche da noi tuttora c'è un americanofilia spaventosa. Io ho sentito venire in Europa Pettygrew, uno dei grossi nomi internazionali. Diceva delle banalità e delle ovvietà che costavano però centinaia di migliaia di dollari. Era venuto dall'America...

 

12. Difetto fondamentale e bello fondamentale

Basta con le digressioni. E vengo al concetto del difetto fondamentale. Non l'ho inventato io. Viene dalla scuola di Balint. Lo psicoanalista ungherese, trapiantato a Londra, che forse avete sentito nominare a proposito dei " gruppi Balint".

Noi nasciamo, veniamo al mondo ben attrezzati di cromosomi, ma imperfetti; veniamo mancanti. Basterebbe il confronto, per non farla lunga, tra il momento della nascita di un gatto e il giorno in cui nasce un neonato. Il gatto si aggrappa subito, magari ancora cieco, al corpo della gatta e succhia; il neonato è in grado di succhiare però la madre deve portarlo al seno. Dopo qualche giorno il gatto cammina e il bambino ci metterà mediamente 10-12 mesi quando non di più. Perché noi siamo degli "animali difettosi", però è anche vero che questa difettosità, se non ci schiaccia, se non supera una certa soglia, è stimolante. La mancanza è stimolante tanto che basterebbe che ci guardassimo qui intorno; tutto quello che c'è dai vestiti, alle penne, al registratore, la pipa, il televisore, ecc. li abbiamo inventati noi. In quanto difettosi. Le api hanno sì un'organizzazione sociale ma che è ripetitiva, che è sempre quella. L'alveare di oggi è identico penso a un alveare di 2000 anni fa. Se venisse un ominide della preistoria non si riconoscerebbe in noi, in quel che siamo: saremmo i suoi marziani.

Allora, tornando alla difesa e alla depressione di cui vi dicevo prima, i momenti critici della nostra vita affettiva o di lavoro, possono riportarci allo stadio del difetto fondamentale. Poveri noi, noi poverini, noi inadeguati. Però nello stesso tempo noi ci portiamo dentro anche l'idea, forse è più giusto dire la sensazione, il sentimento, di quello che io chiamo il bello fondamentale. Se vi facessi questa domanda: chi è che fabbrica la placenta? Come mai noi trascorriamo la fase di vita fetale dentro a questa sacca? Chi la produce?

- Partecipanti: L'organismo della madre.

- Pagliarani: Anch'io ho sempre pensato così. Invece non è così. Quel nuovo individuo che è l'embrione - per 50 e 50% erede del patrimonio cromosomico del padre e della madre - questo essere, questo microscopico ente che è l'inizio di un individuo, per 8 settimane circa non si è ancora aggrappato alla parete dell'utero e si autoalimenta; per cui c'è un inizio della nostra vita, proprio le prime settimane, nel segno dell'autonomia. E' solo dopo l'embrione si attacca, e nell'attaccarsi operano degli ormoni che permettono la fabbricazione di questa sacca, dentro la quale si ha lo sviluppo. Il formarsi della placenta è un atto autonomo. Sicché noi siamo per un verso, soprattutto nel nascere, difettosi, mancanti per cui se non avessimo chi ci sostiene moriremmo, ma nello stesso tempo siamo portatori di questa capacità di autonomia.

Per di più c'è l'esperienza di bellezza data dall'intimità tra neonato e madre nel momento della poppata. Quella è un'esperienza oltre che di nutrimento, di calore, è un'esperienza di bellezza che poi si perde. Perché sopravvengono le frustrazioni, perché i nostri genitori ci fanno fare delle cose che noi da bambini pensiamo siano ingiuste; però la traccia, il ricordo di questa esperienza di bellezza originaria, resta e spesso - ecco perché la bellezza nel momento in cui la ritroviamo può anche dare angoscia - noi nella nostra depressione finiamo col ritenere portatori di bellezza gli altri, gli amici, i modelli cui ci ispiriamo. Il che è una vera e propria operazione di alienazione da se stessi, di quello che di buono c'è comunque - e di bello - in noi.

Questa alienazione io la trovo - ed ecco perché la denuncio visto che siamo in un ambito di formazione, e se ne parla anche nel testo di Schein - persistente indipendentemente dalla scuola, dall'indirizzo, dal modello seguito, nello stile e nel modo di fare formazione. Spiego subito. Una delle tappe necessarie, giuste, di una buona formazione - guai a non percorrerla - consiste nel procedere all'analisi dei bisogni. Allora il formatore bravo, invece di portare il suo schema precostituito in quell'ambiente, fa una ricerca per vedere quali sono i bisogni e cercherà poi di dare la sua prestazione cercando di appagare questi bisogni. Ma raramente si fa l'analisi delle risorse presenti - comunque - anche nella situazione più destrutturata. Cioè l'altro - facciamo il caso del paziente (più che del candidato, nel caso della selezione) - che si presenta con un quadro patologico piuttosto grave; una di quelle situazioni psichiatriche da mettersi le mani nei capelli. Io lo prendo in analisi, se lo prendo; ma perché lo prendo? Non perché io sono un mago, bravissimo, per cui più è difficile la situazione più sono stimolato, anzi, ci sono delle situazioni che mi fanno una paura della madonna. Lo prendo quel tizio o quella tizia in quanto sento, avverto in lei o in lui la presenza di risorse che possono collaborare con me. Perché se non collaboriamo io posso essere Freud - che non sono - ma non accade niente. Uno invece che - diceva Freud - guariva anche i cavalli era Ferenczi che aveva il "furor sanandi". Ma Ferenczi è anche quello che a un certo punto trasforma il suo paziente in un proprio consulente; e si sottopone lui all'analisi del paziente. Se non c'è una fiducia nella risorsa dell'altro, non c'è il risultato che può essere solo il risultato di una coniugazione di un matrimonio simbolico, di una alleanza - difatti si chiama alleanza terapeutica, alleanza di lavoro. Se non c'è questo, non c'è analista che possa sanare una situazione patologica. Allora questo è un altro punto che vi sintetizzo in termini molto rapidi.

 

13. Alleanza terapeutica e alleanza di lavoro

Qui cosa c'è alla base? Che poi è anche alla base dell'atteggiamento clinico: per quanto destrutturata sia, quella persona viene in analisi, anche se non lo sa e denuncia magari certi sintomi, quelli che la fanno stare male, ma viene perché ha una speranza, di stare meglio, cioè una speranza che l'amore, un rapporto d'amore sia possibile. E' questa la base dell'alleanza terapeutica o di lavoro

(...registrazione mancante...)

- Pagliarani: Lei non ha usato questo termine, però prima diceva "magari patisce il mio conto in banca, ma curo il tornaconto del candidato". Cosa vuole dire curare il tornaconto del suo candidato? Se la cosa non le fa impressione - anche perché ci può essere il candidato, la candidata, cioè se non ha paura di omosessualità - cercare il tornaconto dell'altro vuole dire amarlo. Tutto qui. Amarlo non significa accondiscendenza totale, essere al suo servizio, no! Amarlo può significare anche sgridarlo se questo non è dettato da un gusto sadico, usando la propria autorità di ruolo ma, nell'interesse della relazione.

Per esempio: l'altro giorno parlavo con una grossa dirigente anzi un'imprenditrice che è mia cliente da tanti anni. Mi raccontava ultimamente che - cosa rara nella sua azienda perché c'è un bel clima di lavoro e si vogliono bene, al punto che a volte lei può anche non andare in azienda, sicura che l'attività procede - mi diceva però che arriva anche il momento in cui scopri che quel tal dipendente non va bene. E lei che è portata a tessere relazioni nel segno dell’affettuosità, era un po' intrigata a dovergli dire questo; ma poi ha trovato il modo. Cioè ha fatto capire al dipendente - volendogli bene - che il suo posto non era lì in quel ruolo.

Risultato: siccome all'altro erano già arrivate delle avvisaglie, alla fine questo Tizio dice: "pensi che io sentivo qualcosa del genere ed ero venuto qui a dar battaglia. Adesso sono invece convinto". Questa allora è una valutazione non sadica, ma dettata da affetto, da amore, da rispetto della persona, senza ipocrisia. Ferenczi dice: "quegli analisti così gioviali e che sorridono sempre nascondono sotto la loro ipocrisia l'odio che provano per i pazienti". Ed è vero, almeno per alcuni; a volte capita sentirli dire nei corridoi: "accidenti, se non fosse venuto quello lì oggi", "guarda te se oggi devo rompermi le scatole con questa matta qui "...

Tutto questo ci riporta al tema della relazione e ai suoi elementi essenziali e cioè

  • difesa, punto numero uno;
  • difetto e bello fondamentale, punto numero due;
  • a coppia punto numero tre.

 

14. La coppia

La coppia perché? Intanto coppia viene dal latino "copula" da cui anche copulare, la copula, copulazione, cioè la coppia come entità la più semplice di relazione. Non necessariamente solo di due persone, per esempio in questo momento c'è una relazione di coppia tra me che sto parlando e l'insieme del vostro gruppo che mi sta ascoltando; quando io parlavo a uno di voi la coppia era tra me e quel partecipante e l'altra coppia era di voi insieme che ascoltavate; poi c'è il rapportarvi di ognuno di voi con l'altro, col sottogruppo.

Non a caso Bion usa i simboli di "femmina" e "maschio" per individuare la relazione, qualsiasi tipo di relazione f m. Il cerchio con la croce e il cerchio con la freccia. Questa è la relazione.

Ed è nella coppia, in ogni accoppiamento, che c'è il bene e il male. Si potrebbe dire in altri termini: la relazione è la risorsa fondamentale ai fini del lavoro quale che sia, ma è anche il luogo di tutti i disturbi. Quindi si tratta di gestire le relazioni. Prima ho usato la parola " amore ", in realtà la situazione è più complessa; perciò preferisco usare una sorta di neologismo: "amorodio", amore e odio fusi. Una sintesi, partendo dal presupposto che odio non è il contrario di amore.

Il contrario dell'amore è l'indifferenza. C'è la situazione piena di emozioni da una parte, all'opposto c'è una situazione senza emozioni cioè indifferente; e infatti noi possiamo provare odio proprio per quelle situazioni che sono affettivamente molto investite. Prima parlavo della coppia di morosi: io posso odiare la mia donna proprio perché la amo; dipende da ciò che mi fa patire , al punto che si arriva anche a dire "maledetto quel giorno che ti ho conosciuta".

E ogni relazione quanto più è investita tanto più contiene queste dinamiche.

 

15. Coppia azienda e globalita’

Le cose da dire sono tante, in questo seminario introduttivo mi limito a questa soltanto. Dal punto di vista aziendale, per chi lavora nell' azienda, questo concetto della coppia, questa sottolineatura della coppia è rilevante, per me, perché se voi guardate l'organigramma più comune, più semplice o più complicato di un'azienda voi vedete dei tracciati che indicano degli individui; il capo di quella linea che ha una serie di dipendenti che sono il gruppo dei suoi dipendenti. Ognuno di questi capi intermedi è un individuo che ha un capo a sua volta al di sopra e che poi ha alle sue dipendenze un'altra serie di persone. Se volete, è una specie di albero. Questa ad esempio - questa T rovesciata che disegno - é una cellula di organigramma; ci possono poi essere varie ramificazioni.

Vedete, in questo schema ci sono degli individui e dei gruppi; non ci sono coppie. Non ci sono nell'organigramma; ma invece ci sono nella realtà. Per esempio due persone che ricoprono un ruolo, mettiamo B e C sono, se guardiamo l'organigramma, alla pari; con competenze diverse ma alla pari, allo stesso livello di autorità di ruolo. Ad esempio B è la direzione marketing e C è il responsabile di ricerca e sviluppo. Però è importante che ci sia circolazione, perché il marketing potrà per esempio rilevare da una ricerca di mercato che il prodotto da fare o la confezione o il prezzo o il "plus", come dicono gli uomini di marketing, deve avere certe caratteristiche. B avrebbe tutto l'interesse a che quello che gli viene da una ricerca di mercato, da una ricerca motivazionale ecc., sia tesaurizzato da C in modo che la ricerca si mettesse a studiare dei prodotti con certe caratteristiche; e, viceversa, C avrebbe interesse a che il marketing operasse su certi obiettivi in maniera tale da assicurare comunque integrazione tra i due reparti dell'azienda. A - cioè il capo al di sopra di B e C - dovrebbe curare, presidiare la globalità, più di tutto. Attenzione alla globalità che significa favorire l'integrazione tra i ruoli, non la confusione, la conflittualità. Lo stesso vale per tutti i capi di ogni livello gerarchico, e per tutti i campi di attività.

Immaginiamoci che in questa situazione invece, per vari motivi, ci sia un rapporto privilegiato tra A - il capo - e B da cui C si sente escluso ( e tutte le volte che ci sono delle riunioni lui si accorga di questo). Ecco una coppia (A-B) rovinosa; qui abbiamo l'esercizio della cattiva forma di gestione del potere: esclusione. Ne consegue, ad esempio, ai fini della "educazione" della sua azienda, che sarebbe importante per A andare a vedere - perché ufficialmente non appare - le coppie che si sono formate; vedere se sono accoppiamenti sani, funzionali, coerenti. Perché no? Il capo deve anche permettere, senza sentirsi escluso, che i due possano parlare tra di loro e non pretendere di voler monopolizzare tutto.

- Partecipante: Quindi possono esistere anche delle coppie, non è sempre negativo.

Anzi, se io ho appena parlato dell'importanza delle relazioni che sono anche il luogo del disturbo e se coppia vuole dire relazione, guai a che non ci siano le relazioni, di coppia anche, ma bisogna vedere di che qualità. Anzi è uno degli asserti di Bion, quando definisce il buon gruppo rispetto al cattivo gruppo. Per Bion il buon gruppo è quello che accetta senza entrare in tilt sia le uscite sia gli ingressi delle persone; è quel gruppo che accetta tutti gli accoppiamenti che si creano al suo interno. Il buon gruppo è quello attento al tempo reale, mentre il gruppo malato, il gruppo psicotico, perde la nozione di tempo, il suo è un altro tempo rispetto al cosiddetto tempo reale.

E' importante questo concetto perché ci permetterebbe subito di addestrarci ad una sorta di abilità diagnostica. Per esempio se in un gruppo o in un reparto o in un rapporto la situazione non è buona, andrò ad accertare che tipi di coppie ci sono e di che qualità. Perché potrebbero essere coppie tossiche, che intossicano l'aria del clima istituzionale, aziendale.

 

16. Coppia, formazione e terapia

L'altra cosa da dire, sempre ai fini della formazione, ma anche al fine del buon rapporto terapeutico, è che mi sembra di individuare due tipi di coppia, fondamentalmente. La donna, considerata in quanto sesso femminile, presenta due aspetti. Uno è quello di partner nel rapporto sessuale col maschio (dove la natura ha fatto sì che, almeno per quel che riguarda la coppia umana - perché in altre coppie soprattutto in entomologia, negli insetti, ci sono forme di accoppiamento le più diverse - nel rapporto sessuale umano, dicevo, la donna è penetrabile e l'uomo è penetrante. L'amore - si potrebbe dire - l'amore e non semplicemente l'atto sessuale, è una piena reciproca totale compenetrazione. Lì c'è fusione estatica, la beatitudine a due nel momento apicale dell'orgasmo. Nell'atto sessuale si hanno, un sesso maschile e un sesso femminile. Poi la donna, in quanto portatrice del grembo e quindi gravida, partoriente, puerpera, è al centro di un altro rapporto di coppia che è il rapporto madre-figlio. Il che non esclude che ci sia qualcosa di simile anche nel rapporto padre-figlio, zia-nipote, però se consideriamo la funzione più materna, più comune, quella dell'allattamento, nel momento stesso che la donna si sgrava - come si dice - il bambino esce dall'utero. La madre se lo tiene in grembo; e il bambino è di nuovo un essere sostenuto, però essendo uscito, nato. Grembo e utero sono, sì, sinonimi, ma non significano la stessa cosa. Anche perché, mentre nell'utero vige una sorta di omeostasi per cui basta che il feto mandi dei segnali affinché sia automaticamente nutrito, stando dentro; nel caso invece del grembo, intanto il neonato respira, è venuto al mondo, per cui ha sperimentato anche il trauma dell'essere gettato nel mondo, e poi l'omeostasi è finita. Ci saranno per lui l'appagamento e la frustrazione, continuamente: la madre è assente e presente, mentre finché la vita era una vita uterina la madre era sempre un contenitore "presente".

Non so se avete visto a Samarcanda quella trasmissione interessantissima sui due fratellini di 5-7 anni, piccoli geni, tanto che hanno dei problemi nell'inserimento scolastico. La scuola li ha esclusi perché questi qui parlano come dei professori, lavorano col computer, scrivono poesie, studiano 8 ore al giorno, e giocano anche.

- Partecipante: Dove?

- Pagliarani: A xy, provincia di Modena.

- Partecipante: Sono fratelli?

- Pagliarani: Fratelli; con la differenza di 2 anni ed è uno strazio per loro non poter andare a scuola perché vorrebbero avere amici; ma sono risultati troppo avanti per cui la scuola li ha respinti.

- Partecipante: Sono troppo bravi?

- Pagliarani: Sì. Qui sta il problema, il paradosso. Mi verrebbe da dire, se così è, che per il fatto che questi qui la sanno troppo lunga, la scuola li rifiuta, quando per legge non potrebbe rifiutarli. E' la scuola che entra in ansia e si sente disattrezzata rispetto a questi scolari eccezionali. Gli insegnanti hanno bisogno di bambini "normali", quelli che devono essere imbinariati secondo le categorie prestabilite. Invece la vita è varia, non sta negli schemi. Ma l'aspetto che mi ha incuriosito sta nella loro mamma, è un bel tipo, è curiosa, strana anche. Come infermiera ha lavorato per anni in un reparto di rianimazione, e poi si è dovuta licenziare perché questi figli crescevano, all'asilo non potevano andare, sicché ha dovuto dedicarsi ai due bambini.

- Partecipante: Avevano un difetto alla vista, no? In questo modo li ha anche educati ma anche iperprotetti.

- Pagliarani: Si è vero quello che dice lei, ma la cosa che mi ha colpito è che a un certo punto lei - come giustamente dice - non poteva pretendere che all'asilo si dedicassero a tutti quegli esercizi noiosi di ottica. E quindi lei ha dovuto stare a casa, perché erano tutti e due strabici e si trattava di accecare l'occhio dritto in maniera da attivare l'occhio strabico. Il fatto che mi ha colpito è che questa donna avendo lavorato per anni in un reparto di rianimazione dove si fa di tutto per ri-animare, lei, dal giorno che è rimasta incinta ha cominciato a parlare al feto e naturalmente non ha smesso di parlare quando poi sono nati, a maggior ragione. Sicché oggi questi bambini parlano come dei libri. Fanno persino impressione.

 

17. Coppia, e bisessualita’

Tornando a noi: nei rapporti di lavoro si danno secondo me tutti e due i tipi di coppia. Per esempio nel momento in cui io, capo, se sono capo, sono ad esempio alle prese con un'assunzione, proprio con il candidato che lei mi ha trovato e che io cercavo. Una persona che magari è alla prima esperienza; allora io mi devo dedicare a lui. Prima di pretendere le sue prestazioni devo integrarlo, devo fargli vedere cosa facciamo, devo mostrargli il nostro stile di lavoro, cioè devo formarlo. E, non solo simbolicamente, questo tipo di rapporto di coppia è simile a quello dell'allevamento. Madre-figlio. Dove l'altro ha sì un minimo di capacità, ad esempio di "suzione", di ascolto, di osservazione, però non è ancora in grado di svolgere certe operazioni. E questo è un tipo di coppia.

Ma da quando l'altro ha acquisito le basi e le informazioni e la formazione ai fini di bene operare, da quel punto la coppia è simbolicamente assimilabile a quella di maschio-femmina. Nel senso che sono pari, indipendentemente dal grado gerarchico, sono pari come esseri. E a differenza dell'alcova dove la capacità di penetrazione è maschile e la disposizione alla penetrabilità è femminile, dal momento che qui non siamo più a letto, le due funzioni sono alterne.

In questo momento il penetrante sono io; voi mi ascoltate, ma un attimo fa quando lei mi ha chiesto quello che mi ha chiesto, il ruolo penetrante è stato suo e io ero il penetrabile che ascoltava. E' come se, sul piano del lavoro, fosse richiesta ai fini di questo secondo tipo di coppia, non più la coppia madre-figlio, ma fosse richiesta ai contraenti, che siano due persone, o siano due reparti, la bisessualità. Cioè una compenetrazione continua che significa sapere ascoltare per poi poter produrre la domanda, il prodotto, o quant'altro.

Torniamo alla gestione patologica. Ci può essere il capo che - in una data riunione - tiene la sua relazione o presenta un certo quadro per cui bisogna che vengano fatte certe cose in un certo modo; e magari lo ha presentato anche bene con molta semplicità, preoccupato che gli altri capissero, accettando le interruzioni, le richieste di chiarimento. Però a un certo punto può intervenire qualcuno che dice: "ma, visto che le cose stanno in questo modo e vogliamo raggiungere questo obiettivo, non sarebbe meglio fare così?" e suggerisce un'altra idea. Magari detta male, magari ancora imperfetta, che però è un'idea. Un'idea che, in quanto ascoltata da un capo che si fa penetrare, potrebbe rappresentare una soluzione ancora migliore. Se però, come capo, a quel punto io mi sento offeso nella mia virilità per il fatto di dovermi fare penetrare da un'idea dell'altro e la rifiuto, ecco che la bisessualità di cui parlo non c'è più. E proprio perché, all'idea di avere un ruolo anche femminile, quel capo sente compromessa la sua figura, la sua immagine. E curiosamente, poi, nei corridoi, quel tipo di capo viene chiamato "testa di cazzo", "il cazzone", proprio perché vuole essere solo questo.

 

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NOTE:

    7. E' da notare la dinamica. Il tema della bisessualità , oggetto di riflessione ma anche stile di relazione ora meglio praticato anche sul livello del gruppo d'aula, ha consentito agli allievi - prima prevalentemente passivi e taciturni, o interloquenti con molta parsimonia - di diventare attivi, proponendo considerazioni, idee, stimoli. E il docente ora, invece di rispondere subito, preferisce provocare altri interventi, sia per favorire l'espressività sia per verificare la propria comunicazione, al fine di renderla confacente all'uditorio. Solo adesso si ha un vero e proprio dialogo.

 


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