Sulla Psicopatologia:caute riflessioni di uno psichiatra che non disdegna la psicoanalisi,di uno psicoanalista che non disdegna la psicopatologia
di Fausto Petrella
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Introduzione (a cura di Mario Rossi Monti) Questo articolo del prof. Fausto Petrella è già stato pubblicato dalla rivista "ATQUE. Materiali tra Filosofia e Psicoterapia" in un numero dedicato alla psicopatologia (Ancora la Psicopatologia?, n.13,p.155-178, 1996). E' un lavoro che ripropongo nel tentativo di valorizzare le interazioni tra la psicopatologia fenomenologica e psicoanalisi, che vivono, come scrive Petrella, nella condizione di "separati in casa"; in esso infatti vengono discusse - dal punto di vista di "uno psichiatra che non disdegna la psicoanalisi" e di "uno psicoanalista che non disdegna la psicopatologia" - le posizioni di Gerd Huber, Gisella Gross e della Scuola di Bonn che ha elaborato, in questi ultimi anni, il modello dei sintomi base nello studio della schizofrenia. Si ricorda che sono disponibili in Italiano i due strumenti messi a punto dalla Scuola di Bonn per la valutazione dei sintomi base: Stanghellini G., Ricca V., Quercioli L., Cabras PL. (a cura di): FBF - Questionario dei Sintomi-Base, Organizzazioni Speciali, Firenze,1991; Maggini, C., Dalle Luche, R. (a cura di): BSABS. Scala di Bonn per la valutazione dei sintomi-base. ETS, Pisa 1992. Una discussione delle proposte avanzate dalla Scuola di Bonn si è svolta in occasione del Congresso inaugurale della Società Italiana per la Psicopatologia (Il Senso della Psicopatologia, Firenze, 23 marzo 1996). Gli Atti di quel Congresso sono stati pubblicati dalla Rivista "Psichiatria Generale e dell'Età Evolutiva", 34, 1997. Ringrazio per il permesso di riprodurre questo articolo il prof. Petrella, il prof. Paolo Francesco Pieri (Direzione della Rivista "ATQUE") e Moretti e Vitali Editori.
Vorrei prendere l'avvio da un notevole scritto di Gerd Huber e Gisela Gross (1995), che sintetizza i criteri psicopatologici che li hanno guidati nella loro lunga ricerca su ciò che hanno chiamato "sintomi-base" della schizofrenia, per fare alcune considerazioni generali sullo stato attuale della psicopatologia. Così facendo esprimerò sinteticamente, spero nel modo più esplicito, le mie posizioni odierne verso la psicopatologia, intesa come disciplina fondamentale per la psichiatria, ma rispetto alla quale esiste, ormai da molto tempo, una innegabile situazione di crisi. Tenterò anche di dire in quale senso - sulla scorta di Jaspers - ritengo invece indispensabile la psicopatologia, e per quali ragioni mi appare manifesto un suo deperimento, da considerarsi negativo e preoccupante. Un certo numero di psichiatri italiani, che condivide questa preoccupazione, ha deciso di avviare recentemente su tutto il problema una sistematica discussione all'interno di una nuova associazione scientifica, la Società italiana per la psicopatologia. Questo scritto può essere considerato una tessera molto parziale di un auspicato ed esteso dibattito sulla psicopatologia. Ma quale psicopatologia? Anche Gross e Huber (1993) si ponevano un'identica domanda, nel loro scritto intitolato interrogativamente: <<Abbiamo ancora bisogno di una psicopatologia? E se così fosse, di quale psicopatologia?>>. Una simile domanda è così radicale e indiscreta, da costringere a dichiarare le proprie posizioni. Se non vi fossero posizioni eterogenee e differenziate, nonché pratiche sostanzialmente dissimili da luogo a luogo, direi da istituzione a istituzione e addirittura da psichiatra a psichiatra, certo non vi sarebbe motivo per pensare un simile interrogativo. Il nesso fra le pratiche attuate e il modo di concepire l'oggetto della psichiatria è ovviamente qui della massima importanza. Huber e Gross forniscono una risposta positiva alla loro domanda, attestata dalla loro lunga e innovativa ricerca sulla schizofrenia, nel solco della più qualificata tradizione psicopatologica di lingua tedesca. La dottrina dei sintomi-base e la interessantissima scala "soggettiva" di valutazione che propongono, rilanciano su basi originali e nuove l'istanza osservativa e l'oggettivazione di fatti significativi, che sono alcuni degli intenti principali dell'atteggiamento psicopatologico. Nel loro caso i fatti notevoli che mirano a rilevare non sono comportamenti, ma vissuti che vengono autoosservati dai pazienti stessi. È quindi una nuova dimensione che essi propongono al paziente di oggettivare in se stesso, più intima, più aderente alla lettera della comunicazione del paziente, più prossima all'esperienza aspecifica della sua vulnerabilità. Questa parola - vulnerabilità - è stata giustamente evocata dagli attenti commentatori italiani della ricerca di Huber e Gross (Ballerini e Rossi Monti, in Stanghellini, 1992), sottolineando che essa si avvicina assai più di altre a quel substrato nervoso che in qualche modo deve pur essere alterato in questi soggetti. Nello stesso tempo Huber e Gross dichiarano gli scopi della loro psicopatologia fenomenologica che si ispira direttamente a Jaspers: impiegare l'introspezione del paziente, l'empatia statica e la comprensione genetica dell'osservatore per <<produrre il movimento, la connessione e la continuità della vita psichica, non solo nello sviluppo psicopatico e nevrotico, ma anche, per quanto possibile, nelle psicosi>>. Quando accenno a una crisi, non penso dunque a una crisi di Huber e Gross, e neppure a un mio disagio professionale eccedente. Ciascuno di noi ha un buon rapporto di continuità con i suoi padri spirituali e metodologici, e avverte di proseguire costruttivamente nella scia di una salda tradizione. E tuttavia mi sembra innegabile una difficoltà complessiva della psicopatologia e della psichiatria, intese sia come discipline scientifiche, sia come pratiche applicative, che dovrebbero riflettere un corpo di conoscenze sufficientemente solido e integrato. Esse rivelano invece al loro interno discordanze stridenti di vario genere. I riferimenti concettuali e i punti di vista comunemente attivati sono di solito troppo eterogenei per essere applicati convenientemente e concordemente a una realtà umana essa stessa troppo complessa. Poiché la psicopatologia parla innanzitutto dello psicopatologo, sento preliminarmente il dovere di dichiarare qualche dato della mia storia professionale, non già per vanità, ma per situarmi e definire i miei punti di vista e di esperienza. La storia di ognuno è importante, ed è anche importante sapere chi è colui che parla, che tipo di psicopatologo è. Dirò allora subito che il mio atteggiamento psichiatrico e clinico è stato sino dall'inizio fortemente influenzato dalla mia formazione psicoanalitica. La mia pratica psicoanalitica con i pazienti si è da sempre anche cimentata nella psicoterapia della schizofrenia e degli stati psicotici più gravi, talora (cioè non sempre!) con veri successi terapeutici. Proprio in quanto psicoanalista e psichiatra mi sono costantemente interrogato sui momenti di concordanza (e di discordanza) del lavoro psichiatrico sia con la psicoanalisi, sia con lo stile della ricerca fenomenologica: penso senz'altro alla fenomenologia di Jaspers, ma anche a Binswanger e a Minkowski, e in particolare ai filosofi che li hanno ispirati, tutti non medici, che hanno cercato di costruire una visione e una descrizione dell'esperienza umana, senza la preoccupazione, tipica nell'alienista, di stabilire se un definito modo d'essere e di sentire siano più o meno morbosi, siano cioè da imputare a malattie nel senso medico della parola, oppure siano declinazioni antropologiche legittime. Ogni manifestazione umana, anche la più distorta, ha sempre molte ragioni d'essere. Il problema sta innanzi tutto nello stabilire su quale terreno porre queste ragioni. Dirò subito che non ritengo che sia il cervello, solo il cervello, il terreno da esplorare, per trovare i fondamenti di questa legittimità. Il cervello è l'organo della mente, ma l'esperienza umana, il modo d'essere di ciascuno, il suo Erlebnis, nella normalità o nella patologia lesionale più grave, non possono ridursi a espressione del cervello, comunque inteso. Anche se troviamo lesioni cerebrali, come nelle demenze, ciò che osserviamo nel comportamento e nei discorsi del demente non è mai il risultato diretto di queste lesioni. I mondi esperienziali dei pazienti vanno cioè immaginati, percepiti e compresi nella loro singolarità. Ciò richiede l'attivarsi di relazioni significative con i modi d'essere specifici d'ogni singola condizione morbosa, in connessione col proprio contesto e situazione. Solo a partire da questo sfondo diventa possibile definire la reale consistenza di una limitazione funzionale e la sua latitudine effettiva. È per questo motivo che mi sono anche da sempre confrontato come psichiatra con la realtà microsociale della malattia mentale, così come veniva osservata non nello studio psicoanalitico, o nella riflessione fenomenologico-esistenziale o antropofenomenologica, ma in connessione con i quadri istituzionali della psichiatria, dei quali ho seguito e promosso gli sviluppi e i mutamenti, e in riferimento al gruppo familiare, al gruppo di discussione dei casi clinici nelle istituzioni e in rapporto con l'insieme sociale circostante nell'esperienza sul territorio. L'attenzione rivolta a questi aspetti non significa affatto che io sia fautore di una psichiatria e di una psicopatologia "brain-less": tutt'altro. Ciò non sarebbe possibile e neppure auspicabile, ovviamente. Anche se i maggiori rischi di fraintendimento stanno sicuramente nell'adottare oggi una psichiatria "mind-less", per usare le espressioni ricordate da Ballerini e Rossi Monti (1992). Ho avuto infine (ma in realtà al principio) un'esperienza, protratta per alcuni anni, di assidua ricerca sull'attività nervosa superiore in varie condizioni morbose. Benché abbia abbandonato abbastanza presto questo tipo di ricerca fisiopatologica, essa mi ha permesso di confrontarmi praticamente con metodologie di indagine, che aspiravano ad essere obiettive e rigorose, applicate ai malati di mente. Ma ciò che mi apparve poco convincente e alla fine insoddisfacente in quelle mie ricerche giovanili fu proprio la cattiva conoscenza clinica di colui che veniva indagato, lo scarto che passava da un lato fra la persona esaminata, la sua insufficiente definizione clinico-sintomatologica, e dall'altro l'applicazione di queste metodologie obiettive, che rilevavano poligraficamente una serie di risposte somatiche, vegetative e comportamentali a vari tipi e sequenze di stimolazioni sensoriali e verbali. Per interrogare adeguatamente il cervello, dobbiamo porgli delle domande che non nascono dal cervello stesso, ma da comportamenti, situazioni e stati d'animo, inclusi quelli dell'esaminatore; e tutto questo richiede di essere pensato correttamente. Posso oggi solo dire che un fatto è certo: se avessi insistito e sviluppato questo tipo di ricerche, la mia stessa vita, la mia esistenza e anche il tipo di psichiatria che faccio sarebbero state molto diverse. Mi rendo anche conto che, precisando tutto questo, non ho comunque fornito alcun vero chiarimento sulla mia pratica effettiva con le psicosi. La domanda radicale che Huber e Gross si pongono, <<Che bisogno c'è di una psicopatologia?>>, non sarebbe stata possibile ancora negli anni 50 e all'inizio degli anni 60, all'epoca cioè nella quale terminavo i miei studi medici e specialistici. La psicopatologia godeva allora di buona salute e di grande rispetto e prestigio, soprattutto in ambito accademico. E ciò perché: 1o La Psicopatologia generale di Jaspers, settima edizione, era stata tradotta in lingua italiana da Romolo Priori nel 1955. Precedentemente, chi non leggeva il tedesco poteva studiarla nella traduzione in francese di J.-P. Sartre e P. Nizan. 2o La prima traduzione della terza edizione della Psicopatologia clinica di K. Schneider fu disponibile in italiano grazie all'ottima versione di Bruno Callieri nel 1950, che curò anche due successive e diverse edizioni della medesima opera. 3o Una èlite di psichiatri si stava appassionando alla psichiatria antropo-fenomenologica soprattutto di ispirazione binswangeriana, che proponeva una visione nuova dell'esperienza dei malati. 4o Gli Études psychiatriques di E. Ey, e il loro spirito di grande correlazione interdisciplinare, all'insegna dell'osservazione clinica, vennero completati anch'essi in quegli anni. 5o Le Opere di S. Freud non erano ancora tradotte nella nostra lingua, se non molto parzialmente. 6o Era in corso a quell'epoca lo studio clinico diretto di pazienti psicotici da parte di un ristretto numero di psicoanalisti, che contraddiceva l'assunto freudiano dell'inaccessibilità alla terapia psicoanalitica delle grandi psicosi endogene. 7o Stava sviluppandosi in quegli anni la psicofarmacologia e la terapia neurolettica e antidepressiva delle psicosi. 7o Infine, una vasta letteratura, soprattutto americana, mostrava l'ibridazione in atto tra psicoanalisi e psichiatria, di cui è testimonianza il voluminoso trattato di psichiatria curato da S. Arieti. Tuttavia mi accorsi ben presto che anche allora - dobbiamo oggi riconoscerlo - le più alte espressioni del sapere psicopatologico giacevano inoperose nei libri, inclusi quelli psicoanalitici, di dubbia utilità se non veniva attivata l'esperienza psicoanalitica, o almeno qualcosa che le assomigliasse. Mentre le pratiche reali della psichiatria dell'epoca, delle quali è difficile gloriarsi nella stragrande maggioranza dei casi, avvenivano all'insegna di un empirismo diagnostico e operativo in genere grossolano. La psicopatologia non serviva a migliorare le cose. Molti psichiatri estraevano sbrigativamente proprio dalla psicopatologia jaspersiana alcune parole d'ordine demoralizzanti e demotivanti, come l'essenziale incomprensibilità delle psicosi endogene e del loro fondamento primario, nonché la nozione di processo. La processualità "organica", non veramente dimostrata e conosciuta, era una vera credenza, che rispondeva positivamente ai punti interrogativi che Schneider aveva posto nella sua tabella classificatoria delle malattie mentali: le psicosi endogene andavano considerate come vere malattie, anche se non ancora definite sul terreno somatologico, e non malattie "come se" o fenomeni solo apparentemente morbosi come tutto il resto. L'enfasi su questi termini jaspersiani andava nella direzione di una facile e teoricamente accreditata giustificazione, o legittimazione, dell'atteggiamento di desistenza clinico-terapeutica verso gli psicotici, sino all'abbandono affettivo e al disinteresse per i ricoverati. Non insisterò nel descrivere dettagliatamente l'estensione e gli effetti nefasti di questo disinteresse pratico, giustificato con argomenti biologici e psicopatologici di principio. Tutto questo si intreccia con la storia delle istituzioni psichiatriche, certamente in Italia, ma anche nelle società civili europee ed extraeuropee. Questo stato di cose ha contribuito sicuramente a gettare un discredito sulla psicopatologia e a giustificare i movimenti critici di rigetto di queste forme di sapere, soprattutto tra i giovani psichiatri, aprendo uno spazio di considerazione psicologica e sociale dei pazienti. Anche questo spazio ha mostrato tuttavia, nel corso degli anni, limiti e insufficienze d'ogni tipo. La considerazione della dimensione psico-sociale della psichiatria ha tuttavia modificato molte cose, almeno nel nostro paese e a giudizio di molti, senza comunque veramente risolvere il problema. Ma non vorrei insistere su questo cattivo uso di Jaspers, che mi sembra soprattutto un interessantissimo fenomeno sociologico. Se invece vogliamo, come è giusto, mettere l'accento sui meriti di K. Jaspers, si deve riconoscere alla sua Psicopatologia generale di aver sottolineato, con grande forza e con assoluta chiarezza, l'esigenza di una sistematica e incessante riflessione sui linguaggi della psichiatria, sui suoi procedimenti logici e scientifici, sul significato delle partizioni sulle quali fonda il suo sapere. Se, sollecitato da Huber e Gross, che a Jaspers si riferiscono in maniera esplicita, dovessi dire ciò che per me è ancora vivo dell'opera psichiatrica jaspersiana, mi esprimerei tuttavia in termini più limitativi e al tempo stesso più generali rispetto a loro. Condivido profondamente l'opinione di Huber e Gross che anche nelle psicosi esiste un'ampia possibilità di comprensione, che l'elemento biografico sia importante, assai più di quanto ammettessero la psicopatologia classica e anche l'antropologia fenomenologica. Anch'io non penso a una eterogeneità insormontabile dello schizofrenico, anche se il comprenderlo veramente, partecipando radicalmente alla sua esperienza, può essere straordinariamente difficile. Tuttavia metterei anche Jaspers fra i fautori di questa impostazione classica. Non valorizzerei allora tanto le sue proposte ordinatrici, non il formalismo astratto delle sue descrizioni, e neppure il suo modo di intendere la nozione di Einfühlung, che Jaspers derivò da Dilthey, con la connessa comprensione statica e genetica. Mi sembra - leggendo Huber e Gross - che essi vadano oltre Jaspers stesso, più di quanto ammettano e si avvicinino veramente ai loro pazienti, anche quando hanno di mira non la loro persona, ma proprio la loro malattia. Almeno: questa vicinanza mi sembra la scommessa dei loro sintomi basali. Mi sia qui consentita una digressione a proposito della psicopatologia jaspersiana. Lungi dall'essere una categoria, una sorta di a priori dell'umano, l'Einfühlung, l'immedesimazione, l'entropatia, si rivela un momento problematico, soprattutto di fronte alla difficoltà, all'urto contro l'ostacolo della non comprensione, che pure è un dato di fatto nell'esperienza con la psicosi. È proprio la "sfera di comunanza", il "ritrovamento dell'io nel tu", che per Dilthey stanno a fondamento dell'Einfühlung, che sembrano perduti o compromessi a un certo punto nella malattia mentale. Qui il comprendere e l'immedesimazione subiscono uno scacco, sul quale Jaspers ha a lungo ragionato. Dinanzi a quest'urto, al "muro" dell'incomprensibile, la consapevolezza del clinico dovrebbe prestare attenzione alle opzioni di fondo che si attivano nei suoi procedimenti. Occorrerebbe sapere dove, come e quando inizia ciò che ci appare come sintomo, come il sintomo viene differenziato da ciò che dobbiamo considerare esperienza ordinaria e pienamente comprensibile, date certe forme di vita in specifici contesti d'esistenza. E poi: di cosa è sintomo il sintomo? Ricordo con fastidio certe pagine del saggio di Jaspers su van Gogh, quando il grande medico e filosofo cerca, arrancando sugli specchi, di correlare l'ultima, straordinaria fase della pittura dell'artista alla sua malattia, della quale sarebbe espressione, e quanto appaia invece più vicino all'artista e all'uomo il folle Artaud nella sua comprensione emotiva e identificativa con lui. Allo psichiatra è richiesta almeno un po' della follia di Artaud, che a van Gogh dedicò uno studio di sconvolgente acutezza, se vuole intendere qualcosa del dolore psichico e delle sue vicissitudini espressive e comportamentali. Non sappiamo quanto Jaspers ascoltasse veramente i pazienti. Molti dei fenomeni che egli cita e descrive nella sua opera sono derivati da auto-descrizioni di folli-che-scrivono, anziché da contatti personali. E il teatro della scrittura non può essere certo assunto come l'espressione diretta di una manifestazione morbosa che ivi viene descritta e che viene presa per buona e autoevidente. Anche gli elementi autobiografici ai quali la correliamo, sono comunque da interpretare. Alcuni folli "storici", i cui discorsi Jaspers utilizzò per le sue descrizioni, hanno suscitato del resto dibattiti diagnostici e contrasti interminabili fra gli psichiatri dell'epoca, dibattiti ora caduti nell'oblio. Sarebbe troppo lungo analizzare il procedimento col quale Jaspers contrappone il comprendere allo spiegare, l'intuizione alla causalità. Tuttavia qualche accenno va fatto. Jaspers non vuole rinchiudere la malattia mentale in schemi esplicativi, e si sforza invece di prospettarla nel quadro complessivo dell'esistenza. Chi è capace di comprensione psicologica, è in grado di partecipare ai contenuti psichici, immagini, figure, simboli, ai fenomeni espressivi e vissuti nei quali tali contenuti si estrinsecano, alle relazioni genetiche fra questi fatti vissuti e ai loro documenti oggettivi. Tuttavia, a un certo punto, ci si può urtare nel muro dell'incomprensibile. La risposta jaspersiana è: dove non vi è coscienza non c'è nulla da comprendere. Ma occorre anche qui compiere delle faticose distinzioni. È una caratteristica della coscienza guadagnare terreno, procedendo al di là dei suoi limiti. Da questo inconscio, inteso come "inosservato", ma suscettibile di essere rischiarato dalla comprensione, va secondo Jaspers distinto l'inconscio extracosciente, che è non comprensibile in linea di principio. Di fronte ad esso la comprensione cede. L'extracosciente è da Jaspers trattato in due differenti direzioni. Da un lato nel corpo e nei suoi meccanismi, che costituiscono un limite al comprendere della coscienza. Qui non c'è niente da rischiarare, ma solo da indagare ad opera delle scienze empiriche. Dall'altro <<l'incomprensibile sta nell'esistenza>>. Così dicendo, Jaspers intendeva, io credo, affermare che dall'esistenza procede la possibilità di comprensione dell'uomo, ma l'esistenza come tale non può essere compresa. Essa è un fondamento inesplorabile, che sta all'origine della libertà dell'uomo.
Jaspers mette in guardia dall'idea che un allargamento della comprensione si possa ottenere, ipotizzando meccanismi psichici in azione, "come se" questi fossero coscienti. La comprensione "als ob" era per lui solo un'ipotesi. Per Jaspers, Freud era un campione di questo tipo di comprensione. <<Freud si paragonava a un archeologo che da frammenti interpreta opere umane>>. <<La grande differenza - commentava Jaspers - sta solo nel fatto che l'archeologo interpreta ciò che è stato, mentre nel "comprendere come se" è molto dubbia proprio la reale esistenza di ciò che è stato compreso>>. Resta il fatto che comprendere come se meccanismi extracoscienti fossero in azione, come se esistesse una volontà inconsapevole che agisce all'insaputa del soggetto, oppure prendendosi cura del non senso apparente di certe proposizioni e comportamenti, permette di configurare i fenomeni in quel mobile confine dove si decide il limite del nostro comprendere. Solo il protratto incontro e scambio tra persone permette di vedere il muro come una difesa, che si costruisce non solo da parte del paziente, ma anche e soprattutto da parte dell'osservatore.
Ciò non significa per Jaspers una rinuncia ad approfondire e rischiarare sempre più l'esperienza mediante la comprensione. Quando egli tratta, per esempio, delle forme fondamentali della comprensibilità, nascono pagine memorabili e a torto dimenticate dall'odierna psicopatologia, restando sempre sul terreno del linguaggio e di un autentico descrivere, contro ogni ipotesi empirica e postulato scientifico, per restare aderente a tensioni spirituali che ciascuno può afferrare come tali dentro di sé.
(Si fornisce un elenco dei principali testi consultati, anche se non sempre espressamente citati nel corso di questo lavoro)
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