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PSYCHOMEDIA
TERAPIA NEL SETTING INDIVIDUALE
Modelli e Tecniche in Psicoterapia



Panorama storico della psicoterapia internazionale

Paolo Migone


tratto da:
Alberto Zucconi (a cura di)
La formazione in psicoterapia
Quale scuola scegliere dopo la laurea?

Alpes

Può essere un’idea sconsiderata quella di tracciare un panorama storico della psicoterapia internazionale, tanto questo campo è frammentato, complesso e scivoloso. Il rischio non è solo quello di cadere in semplificazioni, ma soprattutto di basarsi su nominalismi, come se tutte le scuole di psicoterapia chiamate in un certo modo per così dire “esistessero veramente”, mentre sappiamo che a volte la loro identità è basata su tradizioni affettive o istituzionali che cercano di riempire il vuoto lasciato da una legittimità teorica che si è incrinata alla luce dei progressi fatti da altre scuole e dalle salutari fertilizzazioni trasversali tra scuola e scuola. Andrebbe insomma differenziata una storia sociologica della psicoterapia da una storia delle idee effettivamente caratterizzanti le varie scuole, e per far questo occorre naturalmente partire dalla prospettiva teorica di una scuola, cosicché vi è il rischio che vi siano tante storie della psicoterapia quante sono le scuole stesse. Le cose infatti non sono più semplici come una volta quando vi erano pochi indirizzi psicoterapeutici, ciascuno portatore di due o tre concetti apparentemente chiari e condivisi da tutti.

In questo mio breve panorama storico cercherò dunque di mantenermi in equilibrio tra una prospettiva sociologica (inevitabile) e una riflessione critica sulle teorie delle vari scuole, ben sapendo che il mio tentativo non può essere esente da pregiudizi. Suggerisco quindi di considerare il mio resoconto come una serie di approssimazioni soggettive da confrontare con altri punti di vista. Se si vuole descrivere questo complesso campo ai giovani in formazione, da qualche parte bisogna pur iniziare affinché possano farsi delle idee, per poi eventualmente criticarle e farsene delle nuove. (Dato che per limiti di spazio dovrò essere molto sintetico, riporterò dei riferimenti bibliografici così che il lettore interessato potrà approfondire singoli aspetti; inoltre, per facilitare un inquadramento storico riporterò tra parentesi quadre gli anni di nascita e morte dei principali autori).

Cosa è la psicoterapia?

Innanzitutto ritengo che veda definita la psicoterapia, differenziandola da cosa essa non è, ad esempio dall’amicizia. Intuitivamente molti sanno rispondere a questa domanda, ma a ben vedere non è così facile. In che modo la psicoterapia è diversa dall’aiuto generico ricevuto da un amico? Tutti sappiamo che un amico può essere ben più bravo di uno psicoterapeuta (e sappiamo anche, se è per questo, che la vita può fare molto più bene – o più male – di qualunque psicoterapia). Qual è dunque la differenza tra la psicoterapia e l’amicizia? A mio parere l’unica differenza che regge alle tante obiezioni che si potrebbero fare è che la psicoterapia è una professione, mentre l’amicizia non lo è. Con questo sono consapevole di aver detto una tautologia, dato che non ho risposto alla vera domanda: che cosa rende efficace questa professione? O meglio: cosa rende uno psicoterapeuta più bravo di un altro? E la stessa domanda potrebbe essere rivolta a un amico: cosa differenzia un bravo amico (un “amico psicoterapeuta”, si potrebbe dire) da un amico “meno bravo” o, se così si può dire, “meno amico”? Se la differenza risiede solo nel ruolo professionale, si scivola in quelle posizioni (peraltro presenti nel dibattito attuale – per certi versi si veda un Hoffman, 1998; Migone, 2003) secondo cui il fattore curativo risiede solo nel ruolo autorevole (quindi professionale) riconosciuto al terapeuta in una determinata comunità, o nelle regole del setting, in definitiva in quella che potrebbe essere rubricata come “suggestione”. Secondo queste posizioni, lo psicoterapeuta sarebbe un moderno sciamano che guarisce non per l’arte che crede di possedere ma per il suo ruolo autorevole nella comunità, che prescinde dai suoi interventi tecnici che invece funzionerebbero come contorno, come razionalizzazione dell’intervento.

Alcuni potrebbero obiettare che la differenza è che nell’amicizia non si devono cercare spiegazioni rispetto ai motivi del cambiamento, non ci si deve interrogare, mentre nella psicoterapia si fa un lavoro di autoriflessione. Si suole dire, ad esempio, che il transfert (con questo termine qui non mi riferisco alla psicoanalisi, ma intendo genericamente qualunque forza che può provocare il cambiamento) agisce sia all’interno sia all’esterno della terapia, con la differenza che nella vita viene agito, mentre nella terapia viene analizzato. A me però non sembra che questa sia una differenza sostanziale, sia perché questo può non essere vero per tutti gli approcci psicoterapeutici (in alcune psicoterapie non viene richiesta alcuna riflessione), sia perché anche in certe amicizie si può “riflettere” e “spiegare” (è quasi impossibile non pensare mai o non spiegarsi qualcosa), e poi in molte psicoterapie è stato dimostrato che le spiegazioni date dal terapeuta non sono quelle responsabili del cambiamento. Siamo quindi ancora al punto di partenza, e rimaniamo col ruolo professionale, e la sua tautologia, come unica differenza.

A questo punto siamo fermi, in un impasse, ma prima di proporre come risolverlo vorrei fare alcune riflessioni su un altro modo di definire la psicoterapia, quella secondo la quale essa sarebbe un trattamento tramite il rapporto interpersonale, quindi con mezzi cosiddetti “psicologici”. È nota ad esempio la bella affermazione di Balint (1956) secondo la quale nella psicoterapia il terapeuta “somministra se stesso come farmaco”. Dire però che la psicoterapia utilizza metodi “psicologici” ci mette nel bel mezzo di un problema, quello del rapporto mente-corpo. Infatti, per non cadere in una posizione dualista (oggi rifiutata praticamente da tutti), sappiamo che ogni modificazione psicologica si accompagna sempre a una modificazione biologica, altrimenti non esisterebbe (e la modificazione biologica che accompagna l’intervento psicologico in taluni casi è stata dimostrata anche da ricerche empiriche; si vedano ad esempio i lavori di Kandel [1998, 1999, 2005] che gli meritarono il Premio Nobel). A rigore quindi non avrebbe senso separare nettamente i trattamenti psicologici da quelli biologici o fisici. Possono differire però i metodi con cui si intende operare il cambiamento, e per psicoterapia si potrebbe intendere l’utilizzo – per raggiungere lo stesso obiettivo – di metodiche non direttamente biologiche (come ad esempio i farmaci, il cui utilizzo rientra nella psichiatria). E sarebbe interessante qui discutere la differenza tra i cambiamenti indotti dai farmaci e quelli indotti dalla psicoterapia, ma non entro in questa problematica e assumo che si tratti di cambiamenti che modificano in qualunque modo lo stato soggettivo e/o comportamentale.

Va precisato però che ogni intervento psichiatrico (o anche medico) avviene sempre e inevitabilmente all’interno di una relazione psicologica più o meno consapevole, che lo condiziona a volte in modo massiccio. Per questo motivo è impossibile separare la psichiatria dalla psicoterapia, nel senso che un influenzamento del paziente in senso lato avviene sempre in qualunque professione di aiuto (come, se è per questo, in qualunque rapporto interpersonale). Questo tipo di condizionamento (attraverso parole, gesti, aspettative consce ed inconsce, ecc.) viene definito effetto placebo (dal latino “compiacerò”, “mi adeguerò”), ed è estremamente potente, tanto che ricerche controllate (appunto dal placebo) in più occasioni hanno faticato a dimostrare una differenza tra psicofarmaci efficaci e sostanze inerti della stessa forma e colore (cioè placebo), dato che l’impatto della relazione interpersonale era responsabile di gran parte della varianza (eclatante a questo riguardo è l’esempio dei farmaci antidepressivi; vedi Migone, 2005). La vera alternativa dunque, a rigore, non dovrebbe essere tra psicoterapia e psichiatria, o tra trattamenti psicologici e biologici, ma – e questo è un punto che ritengo importante – tra due diversi trattamenti che sono entrambi psicologici: “trattamenti psicologici in cui non vengono utilizzati psicofarmaci” e “trattamenti psicologici in cui vengono utilizzati anche psicofarmaci”.

Torniamo dunque al nostro tentativo di definire la psicoterapia. Dicevamo che eravamo ad un impasse perché non riuscivamo a differenziare in modo preciso la psicoterapia dall’amicizia, e rimanevamo solo col ruolo professionale come unica discriminante, ben consapevoli della debolezza intrinseca di questa definizione che è formale e non sostanziale. Proviamo allora a prendere un’altra strada, e chiederci quando questa professione è comparsa nella storia dell’umanità. A ben vedere però possiamo dire quali sono le prime forme di psicoterapia solo se già ne abbiamo una definizione, per cui siamo da capo. Ricordo ad esempio che una volta un collega disse che la prima forma di psicoterapia è stata il grooming col quale le scimmie si tolgono le pulci l’una dall’altra. Ma occorre essere più specifici altrimenti la psicoterapia diventa tutto, e quindi niente.

Vorrei allora dare io una definizione molto allargata di psicoterapia, che forse è coerente e può essere accettata da tutti: una delle definizioni possibili di psicoterapia è che essa è «la disciplina che ha cercato di studiare, scomporre e utilizzare al meglio l’onnipresente effetto placebo» (Migone, 2004a, p. 70). Posto cioè che l’effetto placebo esiste, e che la sua importanza è stata dimostrata empiricamente (e proprio da coloro che spesso sono nemici della psicoterapia, i farmacologi), tanto vale studiarlo, capire cioè di quale natura può essere questo influenzamento così potente che esiste tra persone che interagiscono tra loro. Capirne meglio la natura può servirci a prolungarne l’effetto. È noto infatti che uno dei punti deboli della suggestione è la sua relativa instabilità, cioè dura poco o comunque non quanto vorremmo, e a questo riguardo sappiamo che Freud abbandonò l’ipnosi (che è una forma di suggestione) proprio perché il miglioramento non permaneva. Lo sforzo di Freud nella costruzione dell’edificio psicoanalitico non fu altro che un arrovellarsi per trovare un metodo che desse maggiori garanzie di stabilità nei cambiamenti raggiunti con l’ipnosi (Migone, 2010, cap. 1).

Fatte queste considerazioni, occorre chiarire meglio, onde evitare fraintendimenti, in che senso io intendo qui utilizzare il termine “psicoterapia”: la intendo come una pratica in cui il terapeuta utilizza mezzi psicologici consapevolmente, e non come una pratica in cui il cambiamento avviene tramite mezzi psicologici ma il terapeuta è erroneamente convinto che esso avvenga grazie ad altri fattori, ad esempio fisici.

L’ipnosi e la suggestione

Secondo questa accezione più ristretta, quindi, la psicoterapia ha una storia relativamente recente, poiché il primo esempio di utilizzo esplicito del rapporto interpersonale a scopi terapeutici si può dire sia rappresentato dall’ipnosi, che fiorì in Francia nell’Ottocento (alla scuola di Nancy con Liébeault e Bernheim, e in seguito soprattutto alla Salpetrière di Parigi con Jean-Martin Charcot [1825-1893] e poi Pierre Janet [1859-1947]). Il mesmerismo invece, che si diffuse in Europa nel Settecento grazie a Franz Mesmer [1734-1815], faceva leva (come peraltro la gran parte delle pratiche primitive o sciamaniche di guarigione) su supposti metodi “fisici” (la magnetizzazione, il rame, l’acqua, ecc.) anche se essi erano inefficaci, essendo le guarigioni dovute meramente al rapporto interpersonale che si instaurava tra il magnetizzatore e il paziente, cioè al placebo. Invece nello spiritismo, che nacque a metà dell’Ottocento negli Stati Uniti per poi diffondersi nei salotti europei, non vi sono mezzi fisici ma solo psicologici, di tipo suggestivo (questa pratica comunque non viene considerata “psicoterapia”, ma una sorta di intrattenimento, che però produce effetti, come ad esempio vedere o credere certe cose).

L’ipnosi, tecnica psicoterapeutica tuttora praticata per specifici e limitati disturbi, invece è stata studiata a fondo in termini scientifici e ha anche subìto importanti sviluppi: si pensi agli insegnamenti di Milton Erickson [1901-1980], un terapeuta geniale e forse definibile come “eclettico”, che ha rivoluzionato l’ipnosi tradizionale trasformandola in una terapia in cui il paziente viene influenzato nel dialogo (Erickson, 1982-84; Haley, 1985). O meglio, si teorizza che non viene influenzato come in una classica terapia ipnotica o suggestiva ma, come sottolineano vari autori neo-ericksoniani, il paziente riesce a perseguire il proprio progetto di vita in modo originale e senza essere influenzato dal terapeuta, quindi in modo non diverso, curiosamente, dagli approcci umanistici o dinamici che si pongono all’opposto dell’ipnosi (come si può vedere, abbiamo già qui un bell’esempio della complessità del rapporto tra storia ufficiale di una scuola e storia delle idee sottostanti o, se vogliamo, dell’intricato rapporto tra teoria e tecnica).

Facciamo il punto di quanto detto fin qui: se per psicoterapia intendiamo l’utilizzo consapevole della relazione a scopi terapeutici, il mesmerista non era uno psicoterapeuta ma un medico (non ci interessa qui se era un cattivo medico – Mesmer, peraltro, fu condannato da un tribunale napoleonico per ciarlataneria – ci basti sapere che voleva essere un medico); si può anche dire che Mesmer fosse uno psicoterapeuta malgré lui, cioè malgrado le sue intenzioni, inconsapevolmente, perché noi sappiamo che era sostanzialmente uno psicoterapeuta perché i cambiamenti prodotti nei suoi pazienti non erano dovuti ai metodi da lui ritenuti efficaci ma dalla forza della relazione interpersonale di cui lui era ignaro (per un approfondimento su Mesmer, l’ipnosi, Janet e in generale la nascita della psicologia dinamica, si rimanda alla fondamentale opera di Ellenberger, 1970).

Ci si può chiedere perché mi sono soffermato a parlare del mesmerismo, una pratica di due secoli fa. Il motivo è perché il mesmerismo in realtà può essere visto oggi come una metafora, un grande paradigma della psicoterapia, nel senso che tutti noi curiamo utilizzando i modelli in cui crediamo ma spesso senza sapere, proprio come Mesmer, che non sono quelli i responsabili del cambiamento, bensì altri fattori (Migone, 1995, 2008a). La storia della psicoterapia mostra impietosamente questa verità, basti pensare ai “viraggi di paradigma” che hanno caratterizzato molti approcci psicoterapeutici. Si può dire inoltre che i mesmeristi siano tuttora vivi e vegeti, perché praticano numerosi nel mondo occidentale: si può dire che i moderni mesmeristi siano i pranoterapeuti, colleghi che – se non crediamo nell’energia delle loro mani – aiutano molte persone col rapporto interpersonale (quindi con la “psicoterapia”) credendo però, proprio come Mesmer, di aiutare con una supposta energia fisica. Ma, estremizzando questo discorso, sono moderni mesmeristi anche tutti quei medici di base e quegli psichiatri che non credono nella forza della relazione interpersonale e che aiutano tante persone convinti che la cura avvenga solo grazie ai farmaci che prescrivono (anche quando questi farmaci sono molto poco efficaci, come le vitamine, i ricostituenti o a volte gli antidepressivi). Se ne fossero maggiormente consapevoli, e se ad esempio ascoltassero di più i loro pazienti, questi guarirebbero di più, come molte ricerche hanno dimostrato. Da questo punto di vista, non sono stati fatti molti passi avanti dal Settecento, nel senso che tanti medici sono ancora dei “guaritori”, poco consapevoli dell’importanza del rapporto interpersonale come fattore di cambiamento.

 

Il movimento psicoanalitico

Sigmund Freud [1856-1939] apprese l’ipnosi da Charcot durante il suo soggiorno parigino del 1885, e la utilizzava regolarmente essendo a quel tempo praticamente l’unica tecnica psicoterapeutica esistente. Allora infatti per essere psicoterapeuti bisognava essere degli ipnotisti, non vi era altro sul mercato. E fu proprio dall’abbandono dell’ipnosi che nacque la psicoanalisi, cioè il primo e più importante tipo di psicoterapia del Novecento e che influenzò tutte le psicoterapie successive (o perché ne assorbirono aspetti, o per differenziarsene). Freud, insoddisfatto dei risultati passeggeri dell’ipnosi, volle provare a raggiungere gli stessi effetti mantenendo il paziente fuori dalla trance ipnotica, e quello che voleva ottenere era che essi ricordassero ugualmente l’evento traumatico che secondo lui aveva provocato la malattia. A questo scopo chiese ai pazienti, da svegli, le “associazioni libere”, che segnarono la nascita della psicoanalisi come tecnica.

La teoria e la tecnica psicoanalitiche, sia durante la vita di Freud ma soprattutto dopo, si modificarono frammentandosi in mille scuole, al punto che oggi non esiste più la psicoanalisi, ma esistono molte psicoanalisi. Dopo le prime scissioni di Jung [1875-1961], che fondò la Psicologia Analitica, e Adler [1870-1937], che fondò la Psicologia Individuale, ne seguirono tante altre. Nella psicoanalisi infantile, presto avvenne lo scontro tra Anna Freud [1895-1982], a Vienna, che riteneva che la tecnica dovesse tenere in giusta considerazione il livello di maturazione del bambino, e Melanie Klein [1882-1960], a Berlino, che privilegiava le precoci interpretazioni di transfert, in particolare delle pulsioni aggressive, e che per giustificare la sua tecnica interpretativa retrodatò la formazione del Super-Io e delle altre istanze psichiche. Tra queste due prime donne della psicoanalisi faceva sentire la sua voce Donald Winnicott [1896-1971], attivo fin dagli anni 1930, principale esponente del middle group tra gli “annafreudiani” e i kleiniani di Londra quando sia Anna Freud che Melanie Klein si erano trasferite nella capitale inglese.

La tradizione ortodossa della psicoanalisi, a cui apparteneva Anna Freud, continuò con la Psicologia dell’Io di Heinz Hartmann [1894-1970], David Rapaport [1911-1960], Erik Erikson [1902-1994] e altri (si pensi solo ai più recenti Arlow e Brenner), soprattutto negli Stati Uniti dove dominò per buona parte del XX secolo, mentre la teoria kleiniana (in seguito modificata da vari autori post-kleiniani come Wilfred Bion [1897-1979] e altri) si diffuse molto in Sud America e in altri paesi neolatini come l’Italia e la Spagna. In Francia invece fin dagli anni 1950 si diffuse la scuola di Jaques Lacan [1901-1981], che partiva da premesse completamente diverse. Alcuni autori, all’interno della “scuola inglese” di psicoanalisi (Suttie, Fairbairn, Guntrip, Balint, ecc.), fin dagli anni 1930 fondarono la “teoria delle relazioni oggettuali”, che assegnava importanza ai rapporti interpersonali e non solo alla teoria freudiana delle pulsioni (in Nord America dagli anni 1970 questa teoria verrà elaborata da Otto Kernberg tramite un tentativo di integrazione della Psicologia dell’Io con certi aspetti della teoria kleiniana). Quasi contemporaneamente agli sviluppi della scuola inglese, ma in modo indipendente, negli Stati Uniti fin dagli anni 1920 Harry Stack Sullivan [1892-1949] e altri (Karen Horney, Erich Fromm, Frieda Fromm-Reichmann, Clara Thompson, ecc.) percorsero vie simili, ma dando meno importanza alla dimensione “intrapsichica”. Alla Washington School of Psychiatry essi fondarono il movimento di “psicoanalisi interpersonale” (detta anche “culturalista”, “neofreudiana”, “revisionista”, ecc.), che originariamente rappresentò una importante frattura del movimento psicoanalitico nordamericano; gli “interpersonalisti” – così venivano chiamati – rinnegarono la teoria delle pulsioni ed erano convinti che nello sviluppo della personalità fossero ben più importanti i rapporti interpersonali. Negli anni 1980-90 il movimento post-sullivaniano, dopo circa mezzo secolo in cui aveva avuto un ruolo marginale, grazie soprattutto alla leadership di Stephen Mitchell [1946-2000] e altri subì una svolta perché integrò le teorie delle relazioni oggettuali della scuola inglese, arricchendo quindi la sua prospettiva con una maggiore attenzione verso il mondo interno (l’intrapsichico infatti era un po’ la “bestia nera” dei sullivaniani, perché gli ricordava troppo la teoria delle pulsioni). Mentre prima questo movimento era chiamato “psicoanalisi interpersonale”, ora divenne sempre più noto come “psicoanalisi relazionale”, appunto per rimarcare questo cambiamento, e incominciò a diffondersi e a influenzare notevolmente anche la corrente ortodossa. Come ha recentemente affermato Kernberg (2011a, p. 7), si può dire che il movimento della psicoanalisi relazionale rappresenti ormai la metà della psicoanalisi nordamericana, e si è molto diffuso anche in Europa e in America Latina.

La psicoanalisi tradizionale dagli anni 1970 fu scossa anche dall’impetuosa avanzata del movimento della Psicologia del Sé di Heinz Kohut [1913-1981], originato a Chicago, che a partire dallo studio del narcisismo propose radicali trasformazioni teoriche e cliniche, rilanciando il concetto di empatia (peraltro già sottolineato, al di fuori della psicoanalisi, da Rogers, 1942, 1946, 1957) e ribadendo l’importanza delle figure parentali nello sviluppo a scapito delle pulsioni freudiane (per un approfondimento su Kohut, vedi Migone, 2007, 2010 cap. 10). Va ricordato che a Chicago fin dagli anni 1930 lavorava Franz Alexander [1891-1964], che nel 1946 formulò il concetto di “esperienza emozionale correttiva”, e si può dire che la scuola di Chicago sia stata la continuazione della scuola di Budapest che era guidata da Sándor Ferenczi [1873-1933]: anche Alexander era di origini ungheresi, e come lui sottolineava l’importanza della relazione e del rapporto emozionale, come farà Kohut. Il movimento kohutiano si intreccerà con varie correnti, più o meno legate al filone della psicoanalisi interpersonale (relazionali, intersoggettive, socio-costruttiviste, ecc.), e si può dire che costituisca la matrice teorica anche della infant research, cioè della ricerca psicoanalitica infantile di tipo sperimentale (Stern, Lichtenberg, Emde, Greenspan, ecc.) che negli anni 1980 revisionerà la teoria dello sviluppo e della motivazione invalidando alcune idee di Margaret Mahler [1897-1985] sullo sviluppo infantile (ad esempio il concetto di una primitiva fase autistica, di non-relazione – coerente col concetto freudiano di “narcisismo primario” – quando invece è stato dimostrato che esiste una precocissima capacità del bambino di relazionarsi con la madre).

Parallelamente, in Inghilterra dagli anni 1960 si sviluppò la teoria dell’attaccamento di John Bowlby [1907-1990], che si può dire un naturale sviluppo di certe idee del middle group londinese. Bowlby fu inizialmente osteggiato dall’establishment psicoanalitico perché lui rifiutava la teoria freudiana delle pulsioni, secondo cui la libido sarebbe una motivazione primaria e le altre motivazioni secondarie perché derivate da essa, mentre Bowlby insisteva nel concepire l’attaccamento come un sistema motivazionale innato e autonomo dalla sessualità. Solo dopo la sua morte, negli anni 1990, la teoria dell’attaccamento rapidamente attirò l’interesse di tanti ricercatori, sia all’interno che all’esterno del movimento psicoanalitico, grazie anche a Mary Ainsworth [1913-1999] e a Mary Main che raccolsero l’eredità di Bowlby e contribuirono ad assicurare ad alcune idee della psicoanalisi un posto nel mondo scientifico ed accademico che forse mai aveva avuto prima (si pensi solo all’attuale importanza di un autore come Peter Fonagy).

Le evoluzioni del movimento psicoanalitico sono così complesse che certo non si può pretendere che questo mio resoconto sia esaustivo (per un bilancio della psicoanalisi contemporanea confrontata con quella classica, rimando all’importante lavoro di Morris Eagle, 2011). Posso citare, prima di concludere e passare ad altri sviluppi della psicoterapia, l’opinione sullo stato complessivo della psicoanalisi espressa recentemente da Otto Kernberg, che è stato presidente dell’Intenational Psychoanalytic Association (IPA) e che forse è uno dei più autorevoli psicoanalisti viventi: «Oggi la “corrente principale” – o mainstream – della psicoanalisi è rappresentata dagli psicologi dell’Io, dai kleiniani inglesi, dagli indipendenti inglesi (cioè il middle group), e dai francesi non lacaniani. Io ritengo che questi quattro orientamenti stiano convergendo. Un secondo approccio importante è rappresentato dalla psicoanalisi relazionale, che a sua volta combina gli orientamenti sullivaniano, interpersonale, intersoggettivo e la Psicologia del Sé di Kohut. Un terzo approccio è la scuola lacaniana. Questi sono i tre approcci principali oggi in psicoanalisi, ovviamente a mio parere» (Kernberg, 2011b, p. 467).

Il movimento cognitivo-comportamentale

Dopo la psicoanalisi, che come si è detto fu il primo movimento psicoterapeutico del Novecento, si sviluppò, da radici completamente diverse, un secondo movimento: il comportamentismo o behaviorismo (da behavior, comportamento) che in seguito si trasformò in terapia cognitivo-comportamentale e cognitiva. Questo originale approccio prevedeva che solo il comportamento osservabile e misurabile potesse essere oggetto di studio, per cui si prescindeva dall’intrapsichico (e quindi anche dal concetto di inconscio, che era centrale in psicoanalisi). Questo approccio fu fondato nel 1913 con un manifesto di John Watson [1878-1958], che adattò la teoria del condizionamento classico del russo Ivan Pavlov [1849-1936] per indurre, cancellare o modificare determinati comportamenti (tramite rinforzo positivo o negativo, ecc.). Un altro importante comportamentista fu Burrhus Frederic Skinner [1904-1990], che assieme a Tolman, Hull e altri elaborò la teoria dell’apprendimento, base della psicoterapia comportamentale.

Il comportamentismo dominò la psicologia sperimentale americana dagli anni 1930 agli anni 1960, mentre la psicologia clinica era dominata dalla psicoanalisi che incominciò a declinare dagli anni 1970. Il paradigma comportamentista, per il suo riduzionismo, entrò in crisi negli anni 1960-70 quando avvenne la cosiddetta rivoluzione cognitiva, cioè la riscoperta della mediazione cognitiva (e di tutte le sue implicazioni) tra lo stimolo (S) e la risposta (R). La terapia cognitiva quindi studia e corregge le credenze patogene del paziente, i suoi schemi cognitivi o cognizioni. I più noti esponenti della psicoterapia cognitiva in Nord America sono stati Aaron Beck e Albert Ellis [1913-2007]; va ricordato però che questi due padri della terapia cognitiva americana hanno avuto una formazione psicoanalitica, e che nei loro scritti raramente troviamo riferimenti al comportamentismo, per cui – contrariamente al luogo comune secondo cui la terapia cognitiva fu un’evoluzione del comportamentismo – il cognitivismo clinico nacque invece autonomamente, come reazione alla psicoanalisi ritenuta poco efficace, troppo lunga, e soprattutto legata a una metapsicologia freudiana astratta e superata (Semerari, 2000, p. 7).

Va detto anche che dagli anni 1990 il movimento di terapia cognitiva e la psicoanalisi si sono avvicinati nello studio di aree di interesse comuni, come ad esempio la teoria dell’attaccamento di Bowlby (esempi di questa tendenza sono il già citato Fonagy in Inghilterra, e Giovanni Liotti e Antonio Semerari in Italia) o le neuroscienze (si pensi alla “neuro-psicoanalisi”, un campo in rapida espansione), provocando interessanti convergenze. Il movimento di terapia cognitiva peraltro in Italia si divide in varie correnti (Sanavio, 1998), come la terapia cognitivo-comportamentale (evoluzione diretta della terapia comportamentale), cognitiva in senso tradizionale (detta anche “razionalista”), “cognitivo-evoluzionista” (quest’ultima ben rappresentata da Giovanni Liotti), “cognitivo-costruttivista”, ecc. Va menzionato anche il contributo di Vittorio Guidano [1944-1999], che ha proposto un cognitivismo cosiddetto “post-razionalista”. Anche nel movimento cognitivista vi è dunque un arcipelago di scuole, alcune delle quali a livello clinico assomigliano molto ad alcuni approcci psicodinamici (per una discussione, rimando a Migone, 2010, cap. 5).

La terza forza: il movimento umanistico-esperienziale

La psicoanalisi e il comportamentismo, questi due importanti movimenti psicoterapeutici che partirono da premesse opposte, seppur ciascuno differenziato al suo interno in varie scuole, non costituiscono però gli unici filoni entro cui si possono far rientrare tutti gli approcci psicoterapeutici. Esiste infatti una cosiddetta “terza forza” del movimento psicoterapeutico, che si volle differenziare da entrambi e che originò circa alla metà del Novecento negli Stati Uniti, soprattutto in California. Questo terzo movimento, che a volte viene chiamato “umanistico-esperienziale” e anche fenomenologico o esistenziale, si può dire sia una reazione all’approccio materialistico, oggettivante o scientifico (criticato soprattutto nella sua versione cosiddetta “scientista”) che si riteneva accomunasse sia la psicoanalisi sia il comportamentismo. Questa terza forza comprende una vastissima area che, se caratterizzata dal solo rifiuto di schierarsi con uno dei due maggiori approcci, rischia di essere generica, ma vi sono alcune coordinate che si possono dire caratterizzanti: ad esempio il concetto di “autorealizzazione” (self-actualization), e più in generale una maggiore fiducia nelle risorse innate dell’individuo che lo spingono verso il miglioramento e la realizzazione delle proprie “potenzialità umane”. Si può dire che questa impostazione della terza forza è effettivamente diversa nella misura in cui fa riferimento, a livello filosofico, alla analisi esistenziale (Daseinanalyse) di Ludwig Biswanger [1881-1966] e più in generale all’approccio fenomenologico dei primi decenni del Novecento (Edmund Husserl [1859-1938], Karl Jaspers [1883-1969], Martin Heidegger [1889-1976], ecc.), seguìto da non pochi psicoterapeuti interessati anche al lavoro con gli psicotici.

Probabilmente il maggiore esponente della psicologia umanistica è Carl Rogers [1902-1987], che ha fondato la “psicoterapia centrata sul cliente” (ora si dice “sulla persona”), un approccio detto anche “non direttivo” che è caratterizzato da tre principali aspetti tecnici: la accettazione incondizionata del cliente, la empatia, e la congruenza del terapeuta verso il proprio vissuto e mondo interiore (i termini “cliente” o “persona” qui non sono casuali, in quanto l’intento è quello di allontanarsi da un approccio medico e “obiettivante”, cioè non “umanistico”). L’approccio rogersiano è stato molto influente negli Stati Uniti, e tra le altre cose giocò un ruolo pionieristico nel campo della ricerca empirica (con l’utilizzo ad esempio della registrazione delle sedute). Rogers ebbe intuizioni importanti sullo sviluppo della personalità e sulla tecnica terapeutica; anticipò ad esempio l’importanza del ruolo dell’empatia, che come si è detto verrà ripreso da Kohut (1971) molti anni più tardi (per alcune riflessioni su Rogers, rimando a Migone, 2006b).

Un’altra figura importante di questo movimento è Fritz Perls [1893-1970], che fondò la psicoterapia della Gestalt, caratterizzata da una attenzione – molto maggiore di quanto avesse fatto una certa (e forse mal compresa e mal praticata) psicoanalisi tradizionale – al vissuto esperienziale del paziente nel “qui ed ora” (hic et nunc), con tecniche di coinvolgimento e attivazione emozionale (role palying, ecc.). Un altro caposcuola è Eric Berne [1910-1970], che fondò la Analisi Transazionale (AT), una tecnica derivata dalla psicoanalisi e più pragmatica, e utilizzata molto anche in psicologia del lavoro, basata sulla analisi dei “copioni” del paziente a partire dal contratto terapeutico, tramite i concetti di “genitore, adulto, e bambino”.

Altri approcci

La galassia degli approcci psicoterapeutici che possono essere considerati come facenti parte della “terza forza” è così vasta che è impossibile tracciarne una mappa completa, anche perché certi movimenti sorti successivamente non incarnano certo i principi della psicologia umanistica, eppure a volte per comodità vi vengono inclusi “in negativo”, cioè per il solo fatto di non rientrare chiaramente in nessuno dei due approcci principali (psicodinamico e cognitivo-comportamentale). Si pensi ad esempio alla Logoterapia di Viktor Frankl [1905-1997], alla Psicosintesi di Roberto Assagioli [1888-1974], o alla Programmazione Neuro-Linguistica (PNL) di Bandler & Grinder, proposta negli anni 1970 e anch’essa spesso usata in psicologia del lavoro. Oppure si pensi a una scuola ancor più influente, la Psicoterapia Sistemica, che ha avuto un’enorme diffusione in Italia a partite dagli anni 1970 – anche come reazione a un certo modo di praticare la psicoanalisi in cui veniva data poca importanza al contesto familiare e ambientale del paziente (Migone, 2010, cap. 2) – per poi ridimensionarsi, soprattutto a livello teorico, dalla metà degli anni 1980. La terapia sistemica privilegia il lavoro con la famiglia anziché col paziente singolo, e uno dei suoi filoni più caratterizzanti, rappresentato dalla scuola di Milano fondata da Mara Selvini Palazzoli [1916-1999], faceva riferimento alla cosiddetta scuola di Palo Alto (California) di Paul Watzlavick [1921-2007], a Gregory Bateson [1904-1980], e altri; veniva teorizzata la “scatola nera” (black box) al posto della mente individuale e venivano analizzate in modo “obiettivo” (anche dietro uno specchio unidirezionale) le comunicazioni tra i componenti di un sistema familiare per poi modificarle tramite determinate strategie comportamentali o verbali. Alcuni aspetti di questo approccio, ovviamente, possono essere considerati molto più vicini al comportamentismo che all’approccio umanistico, per cui sono di difficile collocazione se usiamo una classificazione delle psicoterapie basata su tre “forze” principali. Riguardo alla terapia sistemica, forse si può dire che a livello clinico, e soprattutto dalla metà degli anni 1980, essa sia diventata molto simile a una terapia psicodinamica, ad esempio a quella di gruppo, nel senso che vengono analizzate attentamente le dinamiche interpersonali. La scuola sistemica che invece ha continuato in modo coerente l’approccio di Palo Alto e dell’originario gruppo milanese di Mara Selvini si definisce più appropriatamente terapia “strategica”.

Esistono poi infiniti altri approcci o tecniche che sarebbe impossibile qui non solo descrivere ma persino elencare. Si pensi ad esempio alla bioenergetica e alla psicoterapia corporea o funzionale di Wilhelm Reich [1897-1957], Alexander Lowen [1910-2008] e altri (una tecnica psicodinamica che prevede manipolazioni corporee), al Training Autogeno di Johannes Heinrich Schultz [1884-1970] e altre tecniche di rilassamento (che sono versioni occidentali dello Yoga, di tecniche di meditazione, ecc. [per una discussione del problema della “traduzione” di aspetti delle filosofie orientali nella psicoterapia occidentale, vedi Migone, 2008b]), allo psicodramma di Jacob Moreno [1899-1974] (che prevede tecniche di recitazione, la quale può essere eventualmente rielaborata in senso psicoanalitico), alla terapia di gruppo o alla gruppoanalisi di Siegfried Heinrich Foulkes [1898-1976] e altri (dove si analizzano le dinamiche di gruppo e/o dei singoli pazienti nel gruppo), al Biofeedback (dove si registrano determinate variabili – come conduttanza elettrica cutanea, e quindi la sudorazione – per mostrale in simultanea al paziente, ad esempio tramite video o suoni, e quindi attivare autoregolazioni inconsce), alla socioterapia o psicoterapia istituzionale (utilizzata nelle istituzioni), e così via. Riguardo alla psicoterapia corporea e al Biofeedback, si può far notare che il loro appoggiarsi non solamente al linguaggio e quindi a mezzi “psicologici” – in un caso per le manipolazioni corporee e nell’altro per la strumentazione tecnica – non impedisce a loro di essere considerate “psicoterapie”, il che illustra bene la difficoltà classificatoria cui si accennava prima, e anche i sottostanti problemi relativi al rapporto mente-corpo.

Conclusioni

La classificazione delle psicoterapie che qui ho scelto è quindi meramente storica e descrittiva. Come ho detto prima, si può dire che la classificazione delle psicoterapie dipenda dal criterio adottato: se si classificano per il loro meccanismo di azione, diventa impossibile raggiungere una classificazione accettata da tutti poiché, essendo ogni tecnica derivata da una propria teoria che è diversa dalle altre, ogni approccio può giustamente sentirsi in diritto di “interpretare” e classificare tutti gli altri. Ad esempio, un comportamentista potrebbe argomentare che, dal suo punto di vista, la psicoanalisi funziona solo grazie a una serie di (de)condizionamenti progressivi (mentre le interpretazioni dell’analista sarebbero delle “razionalizzazioni” o comunque farebbero da sfondo), e, viceversa, uno psicoanalista o un rogersiano potrebbero arguire che il paziente di un comportamentista migliora non grazie alla desensibilizzazione sistematica ma ad alcuni aspetti relazionali, anche se mai verbalizzati né riconosciuti da entrambi i partner della terapia. Ad esempio Hans Eysenck (1985), partendo da una prospettiva comportamentista, una volta argomentò che la psicoanalisi funziona per il semplice fatto che espone il paziente a un progressivo decondizionamento rispetto ai suoi pensieri ansiogeni, grazie al rilassamento ottenuto nelle sedute frequenti in cui una persona amica ed empatica lo fa parlare, incominciando dai suoi contenuti meno ansiogeni a quelli sempre più disturbanti, fino a una desensibilizzazione sempre maggiore; secondo Eysenck quindi la psicoanalisi sarebbe inconsapevolmente una imitazione della – a suo parere – più efficace e più rapida terapia comportamentale. Questa argomentazione di Eysenck (ovviamente ritenuta semplicistica dagli esponenti delle terapie psicodinamiche), vuole essere solo un esempio, e possiamo esercitarci a interpretare tutti gli approcci psicoterapeutici alla luce delle premesse teoriche di approcci alternativi.

Tra i tentativi di fare ordine nei tanti approcci psicoterapeutici, vanno menzionati anche quelli di differenziare i fattori “aspecifici” dai fattori “specifici”: dato che molte ricerche sul risultato della psicoterapia avrebbero dimostrato che tecniche diverse producono risultati simili (Migone, 1996b, 2006a, 2009), alcuni autori hanno dedotto che i fattori terapeutici della psicoterapia vanno ricercati nei fattori aspecifici (o comuni) che accomunano tra loro tutti gli approcci psicoterapeutici (ad esempio il fatto che un paziente chieda aiuto a una persona ritenuta esperta, un clima accogliente, una certa regolarità delle sedute, ecc.), mentre i fattori specifici che caratterizzano la identità di ogni singola scuola invece sarebbero meno rilevanti (Wampold, 2001). Tra coloro che hanno studiato i fattori comuni va menzionato innanzitutto Saul Rosensweig [1907-2004] che, come ricordano Luborsky, Singer & Luborsky (1975, p. 106; Luborsky et al., 2002), è stato il primo a sottolinearne l’importanza, suggerendo quella che diventerà nota come “ipotesi dell’uccello Dodo” o “verdetto di Dodo” (Rosensweig, 1936), una metafora tratta da Alice nel paese delle meraviglie (Carrol, 1865) in cui l’uccello Dodo indice una corsa per poi proclamare ufficialmente “Tutti hanno vinto e ognuno deve ricevere un premio”. Dopo Rosensweig va ricordato Carl Rogers (1942, 1946, 1949, 1957; Rogers et al., 1967), menzionato prima, che produsse anche una notevole mole di ricerche, e che già nel 1940 assieme a Rosenzweig, Allen, Waelder e altri intervenne a un importante simposio sui fattori comuni (Watson, 1940). Un altro autore storicamente molto importante in questo dibattito è Jerome Frank [1909-2005], che in un famoso libro (Frank, 1961) individuò i fattori “comuni” o “aspecifici” della psicoterapia in determinate condizioni che servirebbero a inquadrare i sintomi all’interno di una cornice esplicativa convincente e a “sollevare il morale” del paziente per innescare una catena di reazioni verso il cambiamento. Frank identificò quattro elementi condivisi da tutte le psicoterapie: 1) un interesse per il benessere del paziente e la formazione di una relazione di fiducia; 2) un setting che ricrea l’atmosfera di un luogo sicuro, come un “santuario” che è “sorvegliato da un tollerante protettore”; 3) uno schema concettuale che spieghi al paziente i suoi “comportamenti e stati soggettivi irrazionali o sconcertanti”, con formulazioni convincenti e inserite nella “cosmologia dominante della sua cultura”; 4) un insieme di procedure basate sullo schema concettuale, le quali costituiscono la giustificazione per il mantenimento del rapporto terapeutico. Si può argomentare che i fattori aspecifici, certamente importanti, potrebbero costituire una base comune alla quale singole scuole psicoterapeutiche “aggiungono” tecniche particolari “specifiche” che possono migliorare l’efficacia della psicoterapia. Il discorso però qui si fa complesso, perché implica per esempio la possibilità di “smontare” (Westen et al., 2004, pp. 29-31) un approccio psicoterapeutico in “pezzi” separati e non considerarlo invece come un “processo” unitario, un’unica “gestalt”. Vi è poi una ironia nel tentativo di suddividere i fattori terapeutici in aspecifici e specifici: alcune scuole, ad esempio quella rogersiana, potrebbero considerare specifici i fattori che altre scuole considerano aspecifici (empatia, accettazione del paziente, ecc.), capovolgendo questa suddivisione.

Altri autori hanno cercato di costruire modelli generali della psicoterapia affermando per esempio che in quasi tutti gli approcci vi sono sempre due principali fattori curativi, uno che tende ad accogliere e accettare il paziente, a empatizzare con lui, a fornirgli insomma un ambiente di contenimento o di crescita e così via, l’altro invece che lo spinge verso il cambiamento, a esplorare il suo mondo interno ed esterno, a conoscere se stesso, o a essere assertivo ecc. Vi è anche chi ha usato le metafore delle figure femminine e maschile, o di “madre” e padre” (Carere-Comes, 2002) per rappresentare queste due “facce” della psicoterapia, facce che in realtà dovrebbero essere della stessa medaglia o in rapporto dialettico tra di loro: da una parte il terapeuta accetta il paziente nel suo dolore e nella sua difficoltà a migliorare, dall’altra gli spiega come fare a cambiare e lo spinge verso il miglioramento, eventualmente con tecniche mirate. Nella tradizione psicoanalitica questi due fattori curativi sono stati chiamati in vari modi, si pensi ad esempio al continuum “supportivo-espressivo” (Luborsky, 1984), secondo il quale con ogni paziente si deve oscillare tra il “rinforzo delle difese” e l’“analisi delle difese”; Freud li definiva “attaccamento” e “comprensione”, come ha descritto molto bene Friedman (1988, cap. 3; vedi Migone, 1989, 2010 cap. 6) mostrando anche che Freud li valorizzava entrambi, senza mai essere sicuro fino in fondo su quale dei due fosse più importante (per “attaccamento” si può intendere anche suggestione, rapporto emozionale, transfert positivo, ecc., mentre per “comprensione” si può intendere la interpretazione o una migliore conoscenza di sé; Bion [1970] parlava di L [Love, amore] e K [Knowledge, conoscenza]). Naturalmente alcune scuole psicoterapeutiche danno più importanza a un fattore piuttosto che a un altro, ad esempio si può dire che gli approcci umanistici sottolineino gli aspetti accoglienti (“materni”), mentre gli approcci cognitivo-comportamentali quelli direttivi (“maschili”). Non va dimenticato però che qui i termini “maschile” e “femminile” vanno visti in senso figurato, altrimenti cadremmo in stereotipi sessisti profondamente sbagliati, anche perché queste due componenti si dovrebbero integrare dentro di noi se vogliamo avvicinarci a un modello di funzionamento psicologico equilibrato. Tutte le scuole naturalmente cercano di teorizzare una impostazione equilibrata, però partendo, come è naturale, dalla propria concezione della mente e dello sviluppo della personalità. In campo psicoanalitico, tra coloro che hanno cercato di affrontare la questione della pluralità dei modelli e il problema di come fare ordine tra di loro, si possono menzionare Fred Pine (1985, 1988; vedi Migone, 2004b) che scrisse sulle “quattro psicologie” della psicoanalisi, e soprattutto John Gedo (1979; vedi Migone, 1985), a cui mi sento vicino, un autore della scuola di Chicago che fu stretto collaboratore di Kohut, che propose un “schema gerarchico” in cui sono collocati i cinque principali modelli psicoanalitici rapportati ad altrettante modalità tecniche di intervento. Tanti autori, peraltro (ad esempio Leo Rangell, 2007), hanno sempre sostenuto che il fatto che esistano scuole o tecniche terapeutiche diverse non deve rappresentare un problema, perché tutte sono importanti e potrebbero restare sotto lo stesso ombrello; il problema è che tanti autori, quasi come se avessero i paraocchi, vedono solo un aspetto che vogliono mettere in risalto, o si occupano di un gruppo diagnostico particolare, e così via.

Va considerato inoltre che una grande differenza tra le psicoterapie dipende dalle diverse indicazioni, non solo nel senso che determinate tecniche sono mirate al trattamento esclusivo di singoli disturbi o diagnosi (ad esempio una fobia semplice, oppure un più complesso disturbo di personalità, oppure un quadro grave come la schizofrenia, o addirittura un mero disagio esistenziale), ma anche nel senso che, per lo stesso paziente, possono mirare a scopi diversi (ad esempio un rilassamento muscolare temporaneo o la cura di un vero e proprio disturbo mentale). Non a caso, una recente tendenza – ad esempio quella che caratterizza il movimento che ha portato agli elenchi dei “trattamenti supportati empiricamente” (Empirically Supported Treatments [EST]), cioè basati sulle prove di efficacia o evidence-based (Chambless & Ollendick, 2001; Westen et al., 2004; Wachtel, 2010) – è quella di classificare le psicoterapie, molto pragmaticamente, a seconda del disturbo specifico che si propongono di trattare e non dell’approccio teorico che si suppone abbiano alle spalle.

Concludendo questa breve storia della psicoterapia, forse si può sostenere che non hanno più senso molte classificazioni tradizionali, sia per gli sviluppi avvenuti all’interno di ogni singolo approccio, sia perché tutti gli approcci si sono influenzati reciprocamente. Ma con questo non intendo dire che non vi siano differenze tra diversi modi di lavorare, anzi, vi sono differenze sostanziali che meritano di essere sottolineate (e insegnate), ma queste differenze spesso e volentieri non sono affatto quelle che sembrano a prima vista o secondo certi luoghi comuni o stereotipie. A volte, estremizzando somiglianze in approcci molto diversi tra loro, si scoprono anche grosse differenze che non sono quelle però che si credevano prima. È esemplificativo il fatto che vi possono essere molte più somiglianze tra due approcci di­chiaratamente lontanissimi che tra due approcci appartenenti alla stessa tradizione.

In questo secondo secolo di storia della psicoterapia la sfida è quella di ritrovare con coerenza il nesso tra teoria e tecnica. E non è escluso che in un lontano futuro, perfezionando la nostra teoria della tecnica, chiarendo vari fraintendimenti e superando vecchi steccati, si arrivi gradualmente a una teoria della psicoterapia “senza aggettivi”: cioè non più psicoanalitica, cognitiva, sistemica, rogersiana, ecc., ma “psicoterapia” tout court (per una discussione della complessa questione della “integrazione” di diverse tecniche psicoterapeutiche, che è foriera di fraintendimenti, vedi Migone, 1997, 2002). Questo sogno, coltivato da tanti, renderebbe la psicoterapia certamente più “scientifica”, nel senso che non assisteremmo più all’imbarazzante offerta di diverse terapie per gli stessi disturbi, e la psicoterapia assomiglierebbe maggiormente alla medicina. Ma occorre avere cautela perché l’altra faccia della medaglia sarebbe l’appiattimento ad un solo paradigma, mentre la molteplicità di approcci, ciascuno libero di esplorare e fare scoperte secondo i propri metodi, può essere una ricchezza per questo campo così complesso e, tutto sommato, ancora abbastanza giovane (Migone, 2012).

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