PSYCHOMEDIA
Telematic Review

Dalle Rubriche di Paolo Migone
"Problemi di Psicoterapia
Alla ricerca del 'vero meccanismo d'azione' della psicoterapia"
pubblicate sulla rivista

 

Il Ruolo Terapeutico, 1993, 62: 55-58

Riflessioni cliniche sul lavoro del "San Francisco Psychotherapy Research Group" guidato da Weiss & Sampson
 

Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane

 

"Un professionista di 35 anni chiese una terapia con la motivazione conscia di tro-vare il coraggio di sposare la fidanzata impegnandosi in questo progetto di vita con lei. Fu messo in un programma di ricerca di terapia breve (16 sedute) con un terapeuta che seguiva la tecnica di Davanloo. Dalla anamnesi il terapeuta apprese che il paziente era figlio unico di genitori infelicemente sposati; il padre era operaio e la madre una donna cronicamente depressa che si lamentava sempre del marito. Essa aveva usato il figlio come amico e confidente, e si era appoggiata a lui il quale era arrivato al punto di trascurare le sue amicizie per stare accanto alla madre. Quando il paziente si trasferì in un'altra città per frequentare l'università, i rapporti che incominciò ad avere con le ragazze mimavano quello avuto con la madre: erano donne che avevano bisogno di lui, che aiutava e per le quali si sacrificava. L'analista aveva formulato l'ipotesi di una "inibizione edipica verso il matrimonio", ed era convinto che lo scopo della terapia fosse quello di liberarlo dai suoi sensi di colpa di "tradire" la madre e di sposare la fidanzata".

Questo è l'inizio di un caso clinico che, una volta completato e interamente registrato su nastro, viene studiato da una équipe di ricercatori del Psychotherapy Research Group del Mount Zion Hospital di San Francisco, guidato da Joseph Weiss e Harold Sampson (ora chiamato San Francisco Psychotherapy Research Group). Osserviamo ora come andò il trattamento:

"Nelle prime 9 sedute la terapia procedette con fatica, più o meno in uno stallo: il terapeuta continuava a far notare al paziente le sue paure di sposarsi interpretando le dinamiche edipiche e il legame con la madre che non voleva tradire. Alla 10a seduta il paziente disse che non era migliorato, e che temeva di non migliorare neanche nelle restanti 6 sedute; questo materiale ven-ne elaborato e infine considerato una forma di resistenza. Alla 12a seduta il paziente era sempre più agitato, e chiese ancora di poter continuare la terapia oltre le 16 sedute. Il terapeuta non cedette, e rimase legato al contratto iniziale. Il paziente continuava a peggiorare mostrando sempre più ansia e agitazione, fino a quando inaspettatamente, alla 14a seduta, annunciò di aver lasciato la fidanzata. Il terapeuta rimase sorpreso, continuò nella sua linea interpretativa della resistenza verso il matrimonio, non cedette sul contratto, e alla 16a seduta terminarono come stabilito, senza una chiara com-prensione di cosa fosse accaduto e avesse fatto in modo che il paziente lasciasse la fidanzata. Il terapeuta considerò questa terapia come non riuscita".

I ricercatori ipotizzano che in realtà il paziente, contrariamente alle sue intenzioni consce, avesse il "piano inconscio" che la terapia lo aiutasse a districarsi da questo rapporto, e incominciano a cercare elementi che convalidino questa loro ipotesi. Osservano ad esempio che la attuale fidanzata era più anziana di 12 anni, alcolista, con due bambini da un precedente matrimonio. Fanno quindi l'ipotesi che il paziente inconsciamente avesse voluto "testare" il terapeuta sulla capacità di interrompere un rapporto con una persona dipendente e bisognosa di aiuto come la madre. Col meccanismo del "rivolgimento del passivo in attivo" (passive into active) avrebbe invertito i ruoli nel transfert e voluto vedere se il terapeuta fosse stato capace di separarsi da lui. Infatti, in una escalation di richieste, lo aveva supplicato di non lasciarlo, ma il terapeuta avrebbe superato il test terminando ugualmente la terapia, rispondendo così, inconsapevolmente, non alla sua richiesta conscia ma a quella inconscia.

Il terapeuta, intervistato dai ricercatori, dice che interruppe alla data prefissata per tener fede all'impegno della terapia breve del programma di ricerca di cui faceva parte. Interrogato su possibili altri motivi per cui fu capace di resistere alle pressioni del paziente, superando anche eventuali questioni etiche, dice che comunque non avrebbe potuto continuare perché doveva assentarsi per impegni presi in precedenza (ironicamente, questi impegni si rivelarono poi essere il proprio matrimonio e successivo viaggio di nozze!). Nonostante quindi le motivazioni per l'interruzione fossero state molto diverse, il terapeuta senza saperlo avrebbe superato il test del paziente e sarebbe stato capace di aiutarlo. Al follow up il paziente risultò ancora non sposato, non fidanzato con quella donna né impegnato in relazioni masochistiche, ma non troppo insoddisfatto della propria condizione di single.

Questo suggestivo caso clinico che ho appena descritto mi è stato raccontato da George Silberschatz, un membro del "Gruppo di Ricerca sulla Psicoterapia" di San Francisco guidato da Weiss & Sampson, un gruppo che nell'ultimi anni è diventato molto noto soprattutto per una imponente ricerca empirica sul processo psicoanalitico nella quale hanno validato con successo alcune loro ipotesi. Il loro libro principale è uscito nel 1986 [Joseph Weiss, Harold Sampson & the Mount Zion Psychotherapy Research Group, The Psychoanalytic Process: Theory, Clinical Observation, and Empirical Research. New York: Guilford]. Poco è uscito in italiano sul lavoro di questo gruppo: ad esempio ne parla molto elogiativamente Morris Eagle nel cap. 8 del suo libro del 1984 La psicoanalisi contemporanea [Bari: Laterza, 1988], dove dice che si tratta di un raro esempio di teoria psicoanalitica semplice, elegante, e puramente "clinica" (cioè non metapsicologica, potendosi reggere autonomamente senza il ricorso a ipotesi teoriche più astratte e non da tutti condivise) (nel 1999 è stato tradotto da Bollati Boringhieri il libro di Weiss del 1993 Come funziona la psicoterapia, con una presentazione di P. Migone e G. Liotti; per una discussione teorica delle idee di Weiss & Sampson, vedi anche Migone P. & Liotti G., Psychoanalysis and cognitive-evolutionary psychology: an attempt at integration, International Journal of Psychoanalysis, 1998, 79, 6: 1071-1095, pubblicato anche in Internet sul sito dell'International Journal of Psychoanalysis all'indirizzo: http://www.ijpa.org/archives1.htm, dove vi è l'articolo, la discussione nel forum dell'International Journal e il riassunto della discussione scritto da Paul Williams; vedi anche la mia rubrica del n. 68/1995 del Ruolo Terapeutico dove parlo ancora del gruppo di Weiss & Sampson). Notevole poi è il loro lavoro di ricerca empirica condotto in questi ultimi decenni, cosa anche questa rara nel panorama psicoanalitico; prova ne è che due anni fa la rivista divulgativa ad alto livello Scientific American, tradotta nelle principali lingue del mondo, nel momento in cui decise di occuparsi di psicoanalisi commissionò proprio a Weiss un articolo sul funzionamento mentale inconscio ["I processi mentali dell'inconscio". Le Scienze, 1990, 261, maggio: 68-75].

Ma quali sono più precisamente le ipotesi cliniche di Weiss e Sampson? Trovando interessante il loro lavoro, ho invitato in Italia nell'aprile 1991 per un seminario George Silberschatz, un membro del gruppo, e ho voluto approfondire le loro posizioni recandomi per una settimana nel marzo 1992 al Workshop annuale del gruppo tenuto all'Istituto Psicoanalitico di San Francisco, dove ho potuto farmi un'idea più precisa delle loro idee e del loro modo di procedere. Ho poi tradotto il primo capitolo del loro libro, e ho scritto un saggio-recensione del loro lavoro complessivo, a cui rimando per un approfondimento (entrambi usciranno sul n. 2/1993 di Psicoterapia e Scienze Umane). Quello che intendo fare in questa mia rubrica è introdurre le loro posizioni, per metterne in evidenza alcuni aspetti e stimolare l'interesse attorno a questi sviluppi della ricerca psicoanalitica.

Joseph Weiss, un analista didatta dell'Istituto Psicoanalitico di San Francisco, incominciò a riflettere su certe sue idee che aveva sul "meccanismo di azione" della psicoterapia tra gli anni '40 e '50, per poi collaborare stabilmente con Harold Sampson nel 1964; insieme progettarono la rigorosa ricerca empirica quantitativa sul processo psicoanalitico allo scopo di poter testare le loro ipotesi. Nel 1972 fondarono il gruppo, che allora comprendeva 10 persone, e che oggi si è molto allargato, comprendendo a pari titolo psichiatri, psicologi, e assistenti sociali (cosa questa molto bella e rara nella comunità psicoanalitica nordamericana).

L'idea iniziale da cui Weiss prese le mosse è molto semplice: egli rimaneva sempre molto colpito da un fatto tanto comune quanto paradossale, il fatto che spesso la gente al cinema non piange nei momenti più drammatici e dolorosi, ma "al lieto fine". In un film di una storia d'amore magari si può provare poca o nessuna emozione quando gli amanti litigano e si lasciano, ma ci si commuove fino alle lacrime quando essi risolvono le loro difficoltà e tornano insieme: qui si può diventare felici, provare una breve ma non spiacevole sensazione di tristezza, e piangere. Cercando di comprendere questo curioso fenomeno, Weiss arrivò ad ipotizzare (come poi scrisse in un articolo dal titolo "Crying at the happy ending", pubblicato nel 1952 in The Psychoanalytic Review, 39, 4: 338) che, identificandoci nei personaggi del film, quando le condizioni sono avverse proviamo sì dolore, ma non possiamo permetterci di esprimerlo consciamente perché a scopo adattivo ci mettiamo in una condizione di difesa; quando poi, al "lieto fine", percepiamo una condizione di sicurezza, grazie alla nostra nuova posizione di forza possiamo permetterci di provare ed esprimere il dolore che fino a quel momento avevamo dovuto rimuovere.

Ovviamente questo è un esempio solo apparentemente semplice, che aiuta a comprendere il nostro funzionamento in situazioni ben più complesse e generali che riguardano l'intera nostra vita e soprattutto la psicoterapia. La psicoterapia infatti, a ben vedere, è una grande metafora del "pianto al lieto fine": il paziente, la maggior parte delle volte inconsciamente, viene in psicoterapia per cercare di ricreare quelle condizioni di sicurezza che gli permettano di ripercorrere e ricordare parti dolorose della sua vita, per parlarne con qualcuno, per rielaborarle e capirle meglio, per risolverne gli aspetti rimasti irrisolti e rivivere i sentimenti che non gli era stato permesso di provare, e così via; il paziente insomma spesso viene in terapia per "piangere", ma altre volte anche per provare ad essere felice senza i pericoli che magari aveva temuto che in tal caso si avverassero. E' solo con la "nuova esperienza" della psicoterapia che il processo terapeutico viene messo in moto e si modificano gli schemi mentali e le credenze patogene che prima affliggevano il paziente.

Ma vediamo un altro esempio citato da Weiss nel primo capitolo del libro, un esempio anche questo non tratto dalla ricerca sui pazienti, ma da un episodio accaduto con una amica:

"La dr.ssa N, una collega, alla nascita di un figlio nel suo secondo matrimonio si commosse intensamente. Quando il neonato dopo il parto le fu portato nella stanza, lei non solo scoppiò a piangere, ma recuperò anche i ricordi di un altro figlio dal suo primo matrimonio che era morto nove anni prima all'età di 2 anni. Prima di quel momento la Dr.sa N era stata quasi incapace di ricordare il bambino morto. Di fatto, in una occasione aveva molto sorpreso sua madre per non averlo riconosciuto nell'album di fotografie di famiglia. Ma, dopo la nascita di questo secondo figlio, non solo ricordò vividamente il bambino morto, ma ricordò anche quanto era stata felice con lui e quanto era stata devastata dalla sua morte. Inoltre recuperò questi ricordi senza esserne sopraffatta".

Anche qui un evento lieto, un "lieto fine", permette a questa donna di piangere, ma non solo, di ricordare anche aspetti della sua vita che aveva precedentemente rimosso per l'eccessivo dolore. Si noti che i ricordi dolorosi adesso non la sopraffanno, ma sono i benvenuti, per così dire, ora che la donna si è rassicurata dalla nascita del secondo figlio (il fatto che i ricordi riemergono senza angoscia segna un punto teorico importante, secondo Weiss e Sampson, in quanto è in favore dell'ipotesi che l'Io esercita "in modo intelligente" un controllo inconscio sulla barriera della rimozione - non a caso hanno chiamato la loro teoria "control-mastery theory"). Ma osserviamo come Weiss elabora ulteriormente la comprensione di questo episodio:

"La gioa e il pianto della dr.ssa N alla nascita del suo secondo figlio possono essere dipesi anche da un altro fattore, che io non discussi con la dr.ssa N (che non era una paziente) ma che, sulla base della mia esperienza con certi pazienti, ritengo probabile: lei inconsciamente può aver vissuto la morte del primo figlio come una specie di punizione. Dal fatto che il figlio le era stato portato via può aver inferito che lei non meritava di avere un figlio. Forse aveva concluso che era una persona cattiva o almeno sfortunata, o che "Dio le aveva voltato le spalle". Se la Dr.sa N si fosse sentita così, potrebbe aver rimosso la tristezza in parte perché potrebbe aver sentito che nella morte del figlio lei aveva semplicemente ricevuto proprio quello che si meritava. Così la Dr.sa N può essere stata colma di gioia per la nascita del secondo figlio in parte perché questa nascita disconfermava la sua precedente idea secondo la quale lei era stata una persona immeritevole. Se la nascita del secondo figlio la convinse che lei di fatto non era indegna, forse poteva permettersi di vivere la morte del primo figlio non come una punizione ma come una triste e immeritata perdita".

Emerge qui con chiarezza la componente "cognitiva" dell'approccio di Weiss e Sampson, componente che non a caso li ha resi molto conosciuti e apprezzati all'interno del movimento cognitivista, quasi come se queste idee oggi possano rappresentare un "ponte", o un felice punto di convergenza, tra la psicoanalisi e la terapia cognitiva [tra i tanti riferimenti che qui si potrebbero fare, si veda il bell'articolo di Bowlby, autore ora molto considerato dai cognitivisti, "Sul possedere nozioni che non si supponeva di possedere e sul provare emozioni che non era permesso provare", in V.F. Guidano & M.A. Reda, a cura di, Cognitivismo e psicoterapia. Milano: Angeli, 1985, pp. 123-131].

Ma per tornare alle idee centrali dell'approccio di Weiss e Sampson, che ci serviranno per comprendere meglio anche il suggestivo caso clinico che ho esposto all'inizio, volendo semplificare molto potremmo dire che essi ritengono che l'essere umano non sta al mondo solo per scaricare energia o per ripetere esperienze passate, ma per migliorare, per adattarsi meglio all'ambiente, per cercare situazioni nuove che gli permettano di disconfermare le sue credenze patogene. E' una visione quindi ottimistica, diversa da una concezione più pessimistica che concepisce il transfert come una mera coazione a ripetere. In questo Weiss e Sampson affermano di discostarsi dalla concezione freudiana originaria esposta nel settimo capitolo de L'interpretazione dei sogni, e seguono le posizioni espresse dallo stesso Freud in alcuni scritti tardivi, e meglio elaborate in seguito dalla Psicologia dell'Io col concetto di adattamento e di difesa, e recentemente ancor più messe in luce dalla ricerca psicoanalitica infantile. Più precisamente, secondo Weiss e Sampson il paziente cerca inconsciamente nuove esperienze e persone capaci di superare dei "test", allo scopo di disconfermare le proprie credenza patogene inferite dalle esperienze infantili. Il compito del terapeuta sarebbe quello di superare i test che il paziente continuamente gli sottoporrebbe allo scopo di disconfermarle. Un altro importante concetto centrale di questo approccio sarebbe dunque, oltre a quello di "test", quello di "piano inconscio", secondo il quale il paziente andrebbe alla ricerca di situazioni e di persone capaci di superare i test che lui sottopone; se questo assunto non fosse vero, dicono Weiss e Sampson, non riusciremmo a spiegarci sempre il motivo per cui i pazienti chiedono una terapia, in quanto preferirebbero rimanere come sono, guidati dalla propria coazione a ripetere. Il "piano inconscio" andrebbe diagnosticato il più precocemente possibile (e a questo scopo hanno sviluppato precise metodologie utilizzate nella loro ricerca empirica), cosicché, una volta identificato, possiamo assecondarlo con determinati interventi, o interpretazioni, "consoni al piano" (pro-plan interpretations).

Nelle loro discussioni cliniche, ho notato che le "credenze patogene" che vengono interpretate più frequentemente sono la "colpa edipica" (non diversa da quella freudiana classica), la "colpa da separazione" (come nel caso che ho descritto all'inizio), e la "colpa del sopravvissuto" (studiata inizialmente sui sopravvissuti all'Olocausto o ai campi di concentramento, poi estesa a situazioni più generali come quelle originate dalle differenze tra familiari o fratelli meno fortunati, ecc.). Un tipico esempio di credenza patogena è la situazione del paziente che risponde peggiorando o tentando di interrompere il trattamento dopo che ha inconsciamente provato fiducia e attaccamento col terapeuta: in questo modo sottopone il terapeuta a un potente test per vedere se quest'ultimo è capace di disconfermare la sua credenza patogena di meritare di essere respinto o di non meritare amore e interesse. Anche qui ho trovato interessanti parallelismi con l'approccio cognitivista. Ad esempio Liotti [J. Cognitive Psychother., 1991/2, p. 107] racconta il caso di una paziente con problemi di attaccamento tipo avoidant, che incontra un terapeuta di cui si può fidare, da cui si sente capita, ecc., e dopo le prime sedute mostra sfiducia, svalutazione, intenzioni di interrompere la terapia, ritardi, assenze, e prova anche nausea prima delle sedute. La spiegazione cognitivista di questi fenomeni è, seguendo Bolwby, che il "sistema dell'attaccamento" viene inconsciamente riattivato, dopo che era rimasto silente per anni a seguito di traumi relazionali, per cui la paziente cerca di difendersi dal dolore temuto (bisogna comunque fare sempre attenzione a distinguere questi fenomeni regressivi dalla "nevrosi transferale regressiva iatrogena" della psicoanalisi classica, causata dal "setting infantile" della Macalpine di cui ci ha parlato Gill [vedi Il Ruolo Terapeutico, 59/1992, p. 11]). E indubbio che queste geniali intuizioni cliniche, supportate ora da dati di ricerca, arricchiscono di nuova luce importanti concetti della psicoanalisi classica quali "nevrosi di transfert", "regressione terapeutica", e forse anche "reazione terapeutica negativa" e "riacutizzazione del sintomo prima del miglioramento" (può non essere fuori luogo ricordare qui anche la bella metafora del "woodshedding" usata in psichiatria da Strauss et al. [Am. J. Psychiatry, 1985/3, pp. 289-296] per spiegare apparenti peggioramenti o regressioni del paziente prima di progressi significativi): quando si dà al paziente un buon holding environment, un "setting sicuro", empatia, una buona interpretazione, ecc., egli può peggiorare. Inutile dire quanto sia difficile dimostrare empiricamente queste ipotesi, cosa che ora stanno cimentandosi a fare i membri del gruppo, eppure esistono tentativi indiretti di verifica: secondo l'ipotesi che il paziente possa peggiorare dopo un buon intervento perché vuole testare ulteriormente il terapeuta, si può constatare per esempio che il paziente mette maggiormente alla prova i terapeuti bravi che quelli meno bravi, i veri amici che quelli di cui si fida meno, e così via.

Non posso dilungarmi oltre in questa discussione, e rimando ai lavori che ho citato prima. Riguardo all'importanza del superamento dei test nell'esperienza col terapeuta, mi limito a sottolineare quanto somiglianti siano queste posizioni da quelle espresse da Franz Alexander nel 1946 col concetto di "esperienza emozionale correttiva" (non a caso nel n. 2/1992 di Psicoterapia e Scienze Umane, dove compariranno l'articolo di Weiss e la mia recensione, ho voluto tradurre, per la rubrica "Cassici", anche alcuni capitoli dell'interessantissimo libro di Alexander del 1946 Psychoanalytic Therapy, dove per la prima volta descrive il concetto di "esperienza emozionale correttiva"). Con la riproposizione dell'efficacia del rapporto emozionale, tanto criticata da Eissler (1950) nello scontro con Alexander [vedi Psicoterapia e Scienze Umane, 1984, 3: 5-33 (I parte), e 4: 5-35 (II parte)], dopo decenni di dibattiti e di esperienze cliniche si riaffacciano in modo inquietante i misteri del "vero meccanismo d'azione" della psicoterapia: per cambiare un paziente in che misura è indispensabile l'insight, e quando è sufficiente l'esperienza emozionale col terapeuta, come è ben evidenziato nel caso clinico che ho esposto all'inizio?

Nota:
    Per un approfondimento sul San Francisco Psychotherapy Research Group di Weiss & Sampson, vedi Migone P., Terapia psicoanalitica, Milano: Franco Angeli, 1995, pp. 196-197. Vedi inoltre la mia rubrica del n. 68/1995 del Ruolo Terapeutico. Sui problemi della terapia breve, vedi questo articolo: Migone P., Terapeuti "brevi" o terapeuti "bravi"? Una critica al concetto di terapia breve. Psicoterapia e Scienze Umane, 2005, XXXIX, 3: 347-370.
Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane
Via Palestro 14, 43100 Parma, tel./fax 0521-960595, E-Mail <migone@unipr.it>

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