Il Ruolo Terapeutico, 1995, 68: 41-44
Paolo Migone
Nella mia rubrica del n. 62/1993, discutendo il lavoro del "San Francisco Psychotherapy Research Group" di Weiss & Sampson, avevo presentato un caso clinico in cui un paziente era riuscito a fare un netto miglioramento grazie alla interruzione forzata della terapia. Il paziente insisteva che la terapia continuasse, e il terapeuta era stato capace di resistere alle sue pressioni e di terminare come era stato stabilito. L'ipotesi era che il paziente avesse inconsciamente sottoposto a test il terapeuta, il quale terminando la terapia aveva superato il test: il paziente, identificandosi col terapeuta ed invertendo i ruoli nel transfert, aveva così imparato che era possibile separarsi da una persona bisognosa di aiuto, senza per questo sentirsi troppo in colpa, ed era stato quindi capace di separarsi dalla sua fidanzata, cosa che in fondo desiderava ma che prima non aveva avuto il coraggio di fare. Nella rubrica di questo numero voglio allargare il discorso e parlare più in generale delle implicazioni teoriche della elaborazione terapeutica della fine della terapia (è un tema questo molto sentito anche nella psicoterapia nei servizi pubblici, dove a volte si è costretti a fare terapie brevi, e quindi mi ricollego anche al tema della mia rubrica del n. 65/1994 che era dedicata appunto alla psicoterapia nei servizi pubblici). Per fare capire meglio cosa voglio dire, racconto anche qui un esempio clinico, che però è esattamente l'opposto di quello precedente: un caso in cui fu proprio la ferma opposizione del terapeuta alla intenzione della paziente di terminare la terapia il decisivo punto di svolta nel senso del miglioramento. Come spero risulterà chiaro dopo, i due opposti esempi clinici hanno le stesse implicazioni teoriche: quelle riguardanti l'elaborazione della fine della terapia come intervento terapeutico, e l'importanza per l'analista di saper interpretare i significati specifici, consci e inconsci, dati dal paziente alla esperienza terapeutica nel suo complesso. L'esempio clinico La paziente era una donna di 27 anni in terapia settimanale con me da circa 4 anni, senza un tangibile miglioramento nella sua vita. Era fuori corso all'università, con una inibizione allo studio pur essendo una donna molto intelligente, e si manteneva facendo la cameriera in un ristorante, un lavoro part-time che non le piaceva e che era molto al di sotto delle sue potenzialità. Senza entrare nel dettaglio di questo caso, sia sufficiente qui dire che lei aveva paura che se avesse avuto successo nella vita uno dei suoi genitori avrebbe potuto morire di cancro, infarto o altra malattia. Spesso mi parlava di suoi amici cari che erano morti di cancro o di incidenti, come se fosse un segno del destino. Era la meno attraente delle sue sorelle, ed era sempre stata considerata il "brutto anatroccolo" della famiglia. Da alcuni mesi pensava di terminare la terapia perché la riteneva inutile. Io non ero mai stato convinto che questa fosse una buona idea, e mi ero sempre opposto con varie argomentazioni, del tipo che se la terapia poteva esserle inutile, non per questo era dannosa, a meno che lei non me lo dimostrasse, e così via. I suoi tentativi di convincermi che era giusto terminare questa "inutile" terapia crebbero sempre di più, fino al punto in cui mi divenne sempre più difficile convincerla a restare. Arrivò a dirmi che lei era semplicemente stanca di me e della terapia, e che questa poteva essere una ragione sufficiente. Ma anche in questa seduta io dissi fermamente che non ero d'accordo, e che era meglio continuare. Ovviamente avevo in mente la control-mastery theory di Weiss e Sampson e i molti esempi da loro descritti (si veda ad esempio il caso della "Signorina P", raccontato da Weiss [1986], tradotto in Psicoterapia e Scienze Umane, 2/1993, pp. 55-59), e pensai che questo poteva essere un grande test riguardo a qualcuno che finalmente non la respingesse. Aspettai comunque la successiva seduta abbastanza preoccupato, temendo che avrebbe potuto non tornare, e sperando che le intuizioni di Weiss e Sampson fossero giuste. Alla seduta successiva a quella in cui mi aveva messo alla così duramente prova, e in cui io di nuovo dissi che non ero d'accordo con lei, la paziente tornò di buon umore, e riferì delle narrative positive su altre sue situazioni di vita, amici, e se stessa. Era un raro momento nella terapia. Nella seconda parte della seduta pianse molto, e mi disse cose che non mi aveva mai detto prima in tutti questi 4 anni: mi svelò di avere pensieri molto depressivi, come di avere un cancro al fegato, di pensare che la morte era imminente, e così via. Ricordò nuovi episodi in cui la sua madre egocentrica e narcisista la aveva respinta e fatta sentire senza valore. Mostrò una tale fiducia in me che non aveva mai avuto prima. Il senso di sicurezza che aveva percepito le aveva fatto allentare la rimozione di ricordi dolorosi, rivelando quindi una maggiore forza e fiducia. Terminò la seduta con la consapevolezza che questa non era la sua ultima seduta, ma che anzi, la sua analisi probabilmente iniziava proprio in quel momento. Discussione A commento su questo esempio clinico, qui vediamo che se a questa paziente fosse stata offerta una terapia breve, o se io non avessi retto alle sue pressioni per terminare la terapia, con tutta probabilità questa dinamica non sarebbe emersa, sfuggendo al lavoro analitico, e la paziente avrebbe avuto una ulteriore conferma che non vi sono persone, neanche tra i terapeuti, disposti a "non respingerla". Come per l'altro esempio clinico (quello che ho raccontato nella rubrica del n. 62/1993), si è trattato di una "esperienza emozionale correttiva" (concetto formulato da Alexander nel 1946: vedi la traduzione su Psicoterapia e Scienze Umane, 2/1993, e il lavoro di Alexander del 1946 al sito http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/alexan-1.htm). Questo tipo di esperienze correttive sono fondamentali per il cambiamento, anche se rimane intoccato il problema dell'insight (spesso esse avvengono senza insight), per cui sta al terapeuta, sempre che voglia fare un lavoro psicoanalitico, rielaborare poi col paziente il significato del cambiamento avvenuto (per una discussione critica del concetto di Alexander di "esperienza emozionale correttiva" da un punto di vista psicoanalitico, rimando all'importante lavoro di Eissler del 1950, che cito spesso nelle mie rubriche, intitolato "Il Chicago Institute of Psychoanalysis e il sesto periodo dello sviluppo della tecnica psicoanalitica", Psicoterapia e Scienze Umane, 3/1984 [I parte], e 4/1984 [II parte], ora anche su Internet al sito http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/eiss50-1.htm). Questa problematica della elaborazione terapeutica della fine della terapia è importante anche per quanto riguarda la teoria delle terapie brevi, dove viene teorizzata la durata limitata come regola a priori, uguale per tutti i pazienti, i cui significati (separazione, lutto, riedizione del "trauma della nascita", ecc.) eventualmente vengono elaboratati col paziente. Da alcuni terapeuti brevi viene anche teorizzato il valore "terapeutico" dello stabilire in anticipo la fine della terapia, cioè del "time-limit setting", come se esso "sveltisse" il lavoro, aiutando a superare le resistenze, sia del paziente che del terapeuta, a lavorare analiticamente, a non "sprecare sedute", ricordando, come elemento di realtà, che l'analisi ha una fine. In altre parole, il time-limit setting, secondo alcuni terapeuti brevi, può far diminuire il rischio che la terapia diventi una tranquilla e interminabile analisi, che forse non è altro che il risultato della resistenza del paziente in collusione con problemi controtransferali dell'analista (la comune fantasia di trovare un paziente ricco come "buon investimento economico" esprime bene la razionalizzazione di alcuni di questi problemi controtransferali). Io invece non sono assolutamente d'accordo con queste affermazioni, che ritengo superficiali e basate su una errata teorizzazione. E' vero che una terapia breve può avere effetti terapeutici per determinati pazienti (come il caso descritto nella mia rubrica del n. 62/1993), ma solo quando le loro specifiche dinamiche conflittuali possono trarre beneficio da quel tipo di esperienza di separazione. Un altro paziente (come il caso della paziente descritta prima) può richiedere proprio una esperienza contraria, di terapia lunga e quasi interminabile, come unico modo per fornirgli una "esperienza emozionale correttiva" (quale sia il peso dell'esperienza e quale il peso della interpretazione verbale - senza esperienza di separazione o di continuazione della terapia - rimane uno dei problemi più misteriosi della psicoterapia, sul quale qui non voglio entrare; per alcuni fiochi lumi, rimando comunque alla mia rubrica del n. 52/1989, intitolata "La teoria psicoanalitica dei fattori curativi"). In altre parole, ritengo che sia importante uscire dalla logica del time-limit setting come regola tecnica di base utilizzata a priori, "interna" alla teoria della tecnica di terapia breve. Questa concezione, contrariamente alle intenzioni radicali e innovatrici di certi terapeuti brevi, getta un'ombra "ortodossa" sulla loro teoria, nel senso che, dopo aver colto anche correttamente il significato di determinate risposte transferali, poi però le generalizzano, allo stesso modo con cui una certa psicoanalisi ortodossa ha generalizzato e banalizzato i significati del setting "classico" (per un approfondimento di questa problematica, rimando al mio articolo "Esiste ancora una differenza tra psicoanalisi e psicoterapia psicoanalitica?", Il Ruolo Terapeutico, 59/1992; vedi anche alle rubriche dei numeri 59/1992, 60/1992, 69/1995, 73/1996, 78/1998 e 86/2001). Al contrario, vari autori (Gill, Weiss & Sampson, e tanti altri) concettualizzano una tecnica più aperta e mirata alle dinamiche del singolo paziente, che sono diverse da caso a caso. Viene valorizzata l'importanza della "esperienza emozionale correttiva" di Alexander, con piena consapevolezza però dell'importanza anche della acquisizione dell'insight da parte del paziente, utile per una appropriata elaborazione e maggiore stabilità del cambiamento. Ritengo dunque che, se mi è concessa questa espressione, la teoria "ortodossa" della terapia breve possa servire a scopi difensivi, sia al paziente che al terapeuta, allo stesso modo della teoria "ortodossa" della psicoanalisi a lungo termine. A riprova di una possibile funzione "difensiva" della terapia breve, ho notato, nella mia pratica professionale, che i pazienti che si presentano con una richiesta esplicita (e a volte pressante) di terapia breve spesso sono proprio quelli che poi entrano in una analisi interminabile o fanno molta fatica a terminare la terapia; al contrario, quelli che chiedono senza timore una analisi o esprimono una richiesta di approfondimento e di conoscenza di sé, generalmente terminano in un tempo ragionevole senza eccessivi problemi. In altre parole, possiamo ipotizzare che certi pazienti chiedono una terapia breve (con varie razionalizzazioni come mancanza di tempo, di denaro, sfiducia nella psicoanalisi "freudiana", ecc.) perché inconsciamente sanno che hanno paura di legarsi troppo al terapeuta e che entreranno in una viva conflittualità attorno a problemi di dipendenza. Sta al terapeuta esperto, sempre che voglia lavorare attorno a questi nuclei conflittuali, non cadere nella trappola tesagli da questi pazienti che chiedono un contratto di terapia breve, a meno che ciò non venga fatto come estremo rimedio per coinvolgere il paziente in una terapia, e quindi come vero e proprio "parametro" secondo Eissler (vedi l'articolo di Eissler del 1953 su Psicoterapia e Scienze Umane, 2/1981, anche su Internet al sito http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/eiss53-1.htm), parametro che poi nel corso delle successive sedute viene elaborato ed eventualmente eliminato tornando a un setting senza limite di tempo prestabilito. Considerazioni simili sulla possibile funzione difensiva della terapia breve da parte del paziente possono essere fatte a proposito del terapeuta, che può preferire le terapie brevi a scopo difensivo, temendo di non saper gestire un eccessivo o prolungato coinvolgimento coi pazienti (ovviamente anche la esclusiva preferenza per le terapie lunghe può essere difensiva); le scelte teoriche e tecniche dei terapeuti sono sempre condizionate da precise fantasie inconsce e dinamiche conflittuali (vedi a questo proposito l'interessante articolo di Arlow sulle "teorie della patogenesi", Psicoterapia e Scienze Umane, 1/1987). Tornando alla concezione del time-limit setting "interna alla teoria della tecnica", si può dire che la psicoterapia breve abbia una efficacia limitata, essendo indicata solo per quei pazienti che si suppone abbiano un conflitto "non analizzabile" riguardante la dipendenza o l'attaccamento, per cui si decide a priori di non toccare questo problema in terapia. E' comunque difficile per un terapeuta, anche molto preparato, fare una tale diagnosi all'inizio della terapia, ma anche ammettendo che ciò sia possibile, potremmo dire che i pazienti per i quali la conflittualità è legata alla dipendenza e ad un rapporto a lungo termine (paura e desiderio di un rapporto di accettazione "incondizionato", di una terapia lunga come una delle prove per sentirsi "amati" e non rifiutati, e così via), troverebbero nell'offerta di terapia breve una buona conferma delle proprie credenze patogene inconsce. In questo senso, estremizzando, potremmo dire che questi pazienti chiedono una terapia breve "per non cambiare", e che i terapeuti brevi li accettano in terapia "per non cambiarli", o "per rassicurarli che non cambieranno". In conclusione, si può dire che lo stesso time-limit setting, che è l'aspetto maggiormente caratterizzante le terapie brevi, è proprio l'elemento che rivela la debolezza teorica della tendenza radicale in terapia breve (non potendo qui dilungarmi su questi problemi e sul concetto di "tendenza radicale" in terapia breve, rimando al mio articolo "Le terapie brevi ad orientamento psicoanalitico: origini storiche, principali tecniche attuali, discussione teorico-critica, ricerche sull'efficacia, formazione", Psicoterapia e Scienze Umane, 3/1988; una versione è apparsa anche in Del Corno F. e Lang M., a cura di, Psicologia Clinica. Vol. 4: Trattamenti in setting individuale. Milano: Franco Angeli, 1989, pp. 161-185; un dibattito sulle terapie brevi è al sito http://www.psychomedia.it/pm-lists/debates/ter-brev.htm). Per finire, giova ricordare che anche in psicoanalisi si prevede un periodo per così dire di "terapia breve", e precisamente quella fase finale dell'analisi detta termination. Questa fase, che in genere dura alcuni mesi e che è considerata una delle fasi più importanti dell'analisi, inizia quando paziente e analista si accordano su una data in cui terminare le sedute. In questa tanto delicata quanto importante fase della terapia si sottopone il paziente alla consapevolezza della data del termine, onde osservare configurazioni emotive e movimenti transferali nuovi in genere legati al tema della separazione e alla capacità del paziente di interiorizzare i risultati raggiunti, proprio come accade in terapia breve. Quindi la psicoanalisi, che inizia open ended, cioè senza fissare un data per la fine della terapia, esponendo così il paziente ad una esperienza di accettazione "illimitata" per analizzarne le reazioni transferali, con la inevitabile fase di termination espone il paziente anche allo stimolo opposto, quello della fine del rapporto.
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