Il Ruolo Terapeutico, 1996, 72: 30-32
Paolo Migone
In questa rubrica voglio porre alcune domande sul più recente percorso di ricerca di Giampaolo Lai, come espresso ad esempio dal suo ultimo libro (La conversazione immateriale. Torino: Bollati Boringhieri, 1995). Riporterò in parte un intervento che ho letto ad una tavola rotonda su questo libro, alla quale era presente Lai stesso, tenuta il 18-1-96 al "Teatro al Parco" di Parma in un incontro intitolato "Improbabili serate 1" e organizzato dalla Cooperativa "Da zero all'infinito". Devo dire che non ho seguito con attenzione i lavori di Lai scritti in questi ultimi anni, perché non mi trovavo a mio agio nel comprendere sia i contenuti che i modi del suo percorso. Una decina di anni fa invece mi sentivo molto più vicino a lui: mi era piaciuto ad esempio il suo articolo "In memoria di Heinz Kohut" (Psicoterapia e Scienze Umane, 4/1982), un autore che anche a me aveva dato molte cose, e avevo apprezzato anche alcuni aspetti di provocazione intellettuale contenuti nel libro La conversazione felice (1985), tanto che avevo voluto scrivere un articolo su di esso (Psicoterapia e Scienze Umane, 3/1985). In seguito però i suoi lavori mi facevano sentire sempre più "infelice" (tanto per usare i termini che Lai usava allora), per cui non seguii più il suo lavoro con la stessa attenzione. Ricordo che volli esprimergli apertamente questo mio dissenso, come si fa con le persone che si stima e con le quali si vuole mantenere sempre un rapporto di chiarezza (ed è con questo stesso spirito che ora scrivo queste note). Ricordo che nel maggio 1988 gli scrissi una lettera (in risposta ad una sua richiesta di collaborazione, subito dopo l'uscita del suo libro Disidentità), in cui gli dicevo che per troppi impegni non potevo occuparmi del suo libro, però gli dicevo anche non mi dispiaceva del tutto non avere tempo, in quanto lo avrei criticato e non mi andava di criticarlo: infatti - come gli scrissi - provavo per lui una certa simpatia, dovuta al suo modo sincero e diretto di porsi, al suo non scendere a compromessi, anche a costo di diventare inviso a qualcuno. Lai mi piaceva appunto per questo suo andare controcorrente, fedele alla sua linea di ricerca, la quale sola era quella che veramente motivava la direzione del suo percorso. Se però questo suo coraggio suscitava le mie simpatie, non altrettanto si verificava riguardo al contenuto specifico di alcune scelte che poi ha fatto. Per fare un esempio, non mi è piaciuta la associazione editoriale della sua rivista a Riza Psicosomatica: mi sento lontano dal tipo di cultura espressa da questo gruppo, che percepisco quasi agli antipodi di quello che io intendo per psicoterapia. A proposito della sua rivista mi viene in mente uno scambio di battute tra me e Lai, vari anni fa quando una volta passò da Parma e con alcuni colleghi e andammo a pranzo insieme: io gli facevo notare che il fatto che la sua rivista aveva un certo successo di vendite non significa necessariamente un valore positivo, e lui rispose (se interpretai bene quello che disse) che forse dovremmo provare a cambiare modo di vedere perché poteva anche essere che un alto numero di lettori significava qualcosa. Rimasi perplesso di fronte a queste parole, che a me sembravano una provocazione (infatti a rigor di logica potremmo chiederci - pensai - se anche una rivista di propaganda nazista, se vende molto, può avere ipso facto un valore positivo). Preferii rimanere più o meno zitto per il resto del pranzo, lasciando cadere il discorso, cosa che in genere non mi piace fare. Ma forse, a ben vedere, non è un caso che proprio adesso mi sia tornato in mente questo episodio. Infatti, volendo ora commentare liberamente questa breve interazione di anni fa alla luce dello sviluppo che poi ha avuto il percorso di ricerca di Lai, potremmo scorgervi una anticipazione del delicato problema con cui la ricerca attuale di Lai lo costringe a fare i conti: quello del significato dei "numeri", della quantificazione, del rapporto tra quantità e qualità, tra i dati descrittivi che emergono dalle sue ricerche sul linguaggio registrato e il significato che vogliamo dare a questi dati. Faccio ora un passo indietro. Una decina di anni fa, con la sua tipica ironia, Lai criticò duramente il DSM-III, la cui problematica io e altri discutevamo in alcune riviste. Come alcuni lettori ricorderanno, fui io quello che ebbi il merito (o il demerito, secondo i punti di vista) di introdurre in anteprima in Italia il DSM-III (Psicoterapia e Scienze Umane, 4/1983), il sistema diagnostico americano che innalzava l'attendibilità delle diagnosi descrittive (si ricordi che l'attendibilità non è direttamente legata alla validità, anzi spesso è inversamente proporzionale - rimando alla mia rubrica del numero 70/1995 in cui tra le altre cose spiego il delicato rapporto tra attendibilità e validità della diagnosi). Lai allora in vari articoli aveva ridicolizzato il DSM-III, prendendo a pretesto anche il fatto che le diagnosi del DSM-III erano dotate di un codice numerico, per cui ad esempio aveva parlato di "numerologia" (vedi ad esempio l'articolo "Lambrusco e DSM-III", su Psicoterapia e Scienze Umane, 2/1984: mi fischiarono molto le orecchie per quel titolo, vivendo io in Emilia, terra del Lambrusco, ed essendo io quello che aveva presentato il DSM-III). Sono lontani ora quei tempi, in cui tanti mi erano contro non avendo capito la provocazione intellettuale con la quale io avevo voluto parlare del DSM-III proprio su una rivista di psicoterapia (vedi la mia risposta al dibattito che ne seguì, soprattutto la risposta a Lai, su Psicoterapia e Scienze Umane, 2/1985, pp. 77 e 80-84). Oggi, curiosamente, tanti dei miei detrattori di allora hanno pienamente sposato i DSM, ma a volte ho dei dubbi che abbiano capito, sia allora che adesso, i problemi che io volevo sollevare (rimando qui alla mia rubrica sul numero scorso, 71/1996, dove faccio una breve panoramica sulla storia della psichiatria in Italia in rapporto alla cosiddetta "cultura del DSM-III"). Ma torniamo a Lai, e a una delle domande che vorrei fargli. Nei primi anni '80, quando criticò il DSM-III, lo fece perché, se ho capito bene, giustamente lo trovava riduttivo rispetto alla complessità della psichiatria. E allora vorrei chiedergli un chiarimento sul suo percorso. La ricerca di Lai mi sembra sia basata sulla "analisi del linguaggio", seguendo l'esempio di tanti altri ricercatori che così si muovono da anni all'interno del movimento di ricerca in psicoterapia. Ma come per loro, così anche per Lai, sorge la domanda: cosa centra questo con la psicoterapia? Così come la psichiatria non è riducibile al DSM-III, così la psicoterapia è un fenomeno ben più complesso, non riducibile solo alla analisi del linguaggio. In altre parole, mi chiedo se l'ultima linea di ricerca di Lai, basata sullo studio descrittivo, internamente coerente, di un aspetto molto parziale dell'interazione terapeutica (l'analisi del linguaggio registrato), non abbia qualcosa in comune con l'approccio della psichiatria descrittiva o neo-kraepeliniana, come ad esempio espresso dal DSM-III (e ora DSM-IV). Si tratta di una revisione di precedenti posizioni, e di una rivalutazione della ricerca descrittiva, se non di un approccio - potremmo dire - "comportamentistico"? Il problema del rapporto tra livello fenomenico e significato accomuna tutti coloro che come Lai, e come gli psichiatri che lavorano utilizzando il DSM, fanno ricerca quantitativa, descrittiva, isolando determinate variabili (il dialogo registrato, oppure i sintomi descritti da un osservatore secondo certi criteri, e così via) per sottoporle a studio. Il rapporto tra "senso" e "numeri" rimane comunque un problema centrale, e sembra che Lai lo risolva a favore dei numeri (in un lavoro recente, ad esempio, avanza "l'ipotesi che la relazione di sopravvenienza tra senso e numeri segue solo il verso dal numero al senso e non viceversa"). Vengo ora ad un'altra domanda. Ricordo che uno dei punti caratterizzanti, e anche forse più controversi, del pensiero di Lai, almeno fino a una decina di anni fa (quando pubblicò La conversazione felice, 1985) era la sua enfasi sulla "felicità del terapeuta" indipendentemente dall'effetto che questa poteva avere sul paziente (a molti questa sembrò una provocazione, anche per i suoi ovvi aspetti paradossali, ma Lai ci teneva a dire che non era affatto una provocazione). Negli ultimi anni invece Lai ha dato sempre più enfasi al problema dei "risultati", quindi a un cambiamento "del paziente", non solo del terapeuta. E' questa una inversione di tendenza, una autocritica o comunque un cambiamento di posizione? Se sì, perché? Infine, alcune domande su una concettualizzazione che ho visto fare da Lai, negli ultimi scritti, quella della divisione nei tre livelli: corpo mortale, soggetto mentale, soggetto grammaticale. Mi piacerebbe capire meglio in che modo questi tre livelli si rapportano tra loro. Infatti, di fronte a questa suddivisione tripartita, la prima cosa che mi è venuta in mente è la suddivisione nei "tre mondi" di Popper [K.R. Popper & J.C. Eccles (1977), L'Io e il suo cervello. Roma: Armando, 1981]: mondo 1 (mondo fisico), mondo 2 (mente), mondo 3 (produzioni culturali dell'uomo). Vi sono delle somiglianze con la concettualizzazione di Lai? La concezione dei tre mondi di Popper, come è noto, non fu esente da critiche: vi fu chi mosse delle obiezioni a questa concezione di un "interazionismo" fra tre mondi relativamente autonomi tra loro, nel senso che, per esempio, presupponendo una cessazione dell'esistenza dei mondi 1 e 2 (a causa di una guerra nucleare, o di un enorme cataclisma che sconvolgesse il mondo senza far rimanere in vita nessuno), coerentemente alla teoria di Popper dovrebbe continuare ad esistere il mondo 3 (le produzioni culturali), il che è abbastanza problematico. Esiste la possibilità di contraddizioni simili anche nella concezione di Lai? Oggi un argomento molto dibattuto è il rapporto corpo-mente, e nella complessità filosofica di questo problema uno dei pochi punti sui quali concordano quasi tutti gli epistemologi è il superamento del dualismo: in che modo Lai evita di caderci? Infatti (e con questo pongo l'ultima domanda) sarebbe interessante capire meglio come si collegano tra loro questi diversi livelli o mondi, al di là delle battute o delle provocazioni verbali da sempre amate da Lai ("parola divina", ecc. - sono sempre stato convinto che la frequente ironia, i giochi di parole, i neologismi, ecc., possono indebolire la forza del proprio discorso, anziché valorizzarlo; se la forza delle proprie idee è nel contenuto, deve bastare quello [vedi Psicoterapia e Scienze Umane, 2/1985, p. 77]). Ho letto in un brano di Lai che il soggetto mentale è quello che "dà l'attribuzione di senso". Ma il soggetto mentale attribuisce senso anche agli altri due livelli, cioè al corpo mortale e/o al soggetto grammaticale? Nel qual caso, i vari livelli non sarebbero affatto separati tra loro, e mi chiedo se possa presentarsi una confusione tra livelli (se è il soggetto mentale che attribuisce senso al soggetto grammaticale - e non potrebbe essere altrimenti - ecco che non è poi così facile parlare di due mondi separati, l'uno "divino" e l'altro "mortale", e neanche dire che prima vengono i numeri e poi il senso). In un altro passaggio ho letto anche che il corpo mortale è pubblico, mentre il soggetto mentale è privato. Ma il pubblico diventa sempre privato nel momento in cui viene interpretato dal soggetto mentale, cioè quando acquista senso. Ho cercato di porre alcune domande riguardanti le ultime ricerche di Lai, più o meno così come le porsi a quella tavola rotonda del 18 gennaio scorso, domande che potrebbero essere poste a tutti i ricercatori in psicoterapia. Si potrebbe continuare con simili domande. Allora non vi fu tempo di rispondere; Lai si limitò a dire che vi era una diversità di opinioni, e forse non era neanche la situazione adatta per entrare nel merito di questi problemi. Ad ogni buon conto, mi fa piacere che Lai si dedichi ora ai risultati e alla ricerca empirica in psicoterapia (campo che mi ha sempre interessato), anche se in Italia si è arrivati tardi a fare quello che viene fatto da molti anni in altri paesi da tanti ricercatori che, con metodi più o meno diversi, elaborano i dialoghi registrati delle sedute (tra i tanti, si pensi a Kächele, che alla sua banca dati di Ulm ha già raccolto più di 4000 sedute registrate - e questo dato risale già a vari anni fa). Ho appena finito di scrivere un lungo articolo in cui faccio il punto sullo stato dell'arte della ricerca in psicoterapia, sia nel campo del risultato che del processo (per chi fosse interessato, appare sulla Rivista Sperimentale di Freniatria, 1996, CXX, 2: 182-238, ed è anche su Internet al sito http://www.psychomedia.it/spr-it/artdoc/migone96.htm; vedi anche la mia rubrica sul n. 66/1994 del Ruolo Terapeutico): ne emerge che il campo della ricerca in psicoterapia è difficile, contraddittorio, irto di insidie metodologiche, faticoso, e occorre molta passione per praticarlo. Non è un caso che sia proprio Lai uno dei pochi ad avventurarsi in questa terra straniera senza scoraggiarsi d'animo. Spero vivamente che Lai presenti un suo contributo alla "5th European Conference on Psychotherapy Research", il 4-7 settembre 1996 a Villa Erba a Cernobbio, sul Lago di Como. Sarà un convegno importante, il primo in Italia della "Società per la Ricerca in Psicoterapia" (Society for Psychotherapy Research, SPR), che ora ha un sito Internet della SPR-Italia. A questo convegno parteciperanno anche varie figure storiche della ricerca in psicoterapia (psicoanalisti e non), provenienti anche dagli Stati Uniti. Chi fosse interessato a partecipare a questo convegno, può chiedere il programma al Prof. Salvatore Freni, Clinica Psichiatrica, Università di Milano, Via Francesco Sforza 35, 20122 Milano, tel./fax 02-48004495, E-Mail Salvatore.Freni@unimi.it.
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