Il Ruolo Terapeutico, 1997, 76: 31-34
Paolo Migone
Riporterò alcuni appunti sulla autorevolezza dell'analista che scrissi tempo fa, quando due colleghe di Roma (Marisa Malagoli Togliatti e Anna Cotugno) mi chiesero di collaborare a un libro sulla esperienza analitica vista "dall'altra parte", cioè dai pazienti [Scrittori e psicoterapia. La creatività della relazione terapeutica. Roma: Moltemi, 1998]. In particolare, mi veniva chiesto di commentare alcuni versi di Raymond Queneau (tratti dal suo romanzo in versi del 1937 intitolato Quercia e cane [Genova: Il Melangolo, 1995]) in cui parla della sua esperienza analitica prendendosela polemicamente col supposto sapere dell'analista. Sono partito da questo punto per fare alcune riflessioni sulla asimmetria della relazione analitica (per poi toccare vari altri temi), chiedendomi se si potesse parlare invece di simmetria tra paziente e analista. Infatti, se è ovvio che l'analisi è asimmetrica per il fatto che è il paziente a rivolgersi all'analista e quindi lo ritiene una figura autorevole, mi sembrava che la questione non andasse liquidata così facilmente, per cui ho provato a vedere, in un certo senso provocatoriamente, se reggeva un discorso in favore di una posizione "simmetrica". Ecco dunque le mie riflessioni esposte qui in modo discorsivo (nel novembre 1996 ho discusso queste idee anche nel mio gruppo di studio di Bologna, e ringrazio in particolare Wilfredo Galliano, Daniela Iotti e Angela Peduto per i loro commenti critici). L'analista è simmetrico rispetto al paziente nel senso che non sa necessariamente più cose di quante ne sappia il paziente: dice solo la sua, così come il paziente dice la sua. Se un analista, in un modo o nell'altro, trasmette che si sente in diritto di sapere più del paziente per il solo fatto di essere l'analista, commette un errore teorico, oltre che un possibile e inconsapevole errore controtransferale (paura di non sapere proprio niente, di non essere bravo, atteggiamento di superiorità dovuto a insicurezza, ecc.): questo atteggiamento di supposta superiorità dell'analista (forse razionalizzata come maggiore obiettività, esperienza, o qualifica professionale), nel momento in cui viene utilizzato nella relazione ha effetti manipolatori e quindi antipsicoanalitici, facendo scivolare la psicoanalisi sul versante delle psicoterapie suggestive. L'atteggiamento di superiorità presuppone che il paziente non debba apprezzare i commenti dell'analista per la loro intrinseca logica o "verità", ma solo in quanto autorevoli (ovviamente l'analista non conosce in senso filosofico la verità, ma formula - al pari del paziente - delle ipotesi che possono toccare un aspetto della realtà psichica del paziente, provocando così delle reazioni in linea di principio distinguibili da quelle provocate solo dalla sua "autorevolezza"). Quando un paziente (nel caso, Queneau) se la prende col proprio analista contestandogli il suo supposto sapere, non è detto che si tratti di "transfert", ma di una naturale reazione all'atteggiamento di un analista che si crede depositario della verità. Certi analisti lacaniani, ad esempio, possono stimolare questa reazione. Anche certi analisti "ortodossi" possono ritenersi infallibili, avendo ereditato quelli che a me sembrano fraintendimenti della teoria della tecnica (per un approfondimento, vedi pp. 70-75 del mio libro Terapia psicoanalitica, Milano: Franco Angeli, 1995). Certo, l'irritazione del paziente potrebbe essere difensiva, derivata ad esempio dal fatto che l'analista in qualche modo ha toccato il vero che c'era già in lui e che appunto per questo doveva essere difensivamente negato in vari modi, ad esempio svalutandolo. Nei versi di Queneau vi poteva essere un indizio in questo senso, perché, dopo una iniziale irritazione per dover pagare l'analista (definito "psicoanalisto", "psicanagliesco", "avido", "rapace", "manigoldo", ecc. [pp. 123-125]), Queneau si decide poi a pagarlo (p. 125), ammettendo quindi - seppur con la solita ironia (difensiva?) - che ha fatto il suo lavoro. Questo tipo di analisi sui significati delle reazioni "transferali" del paziente fa parte della routine del lavoro analitico. Se il paziente non è d'accordo con l'analista, le sue critiche saranno le benvenute. E se poi, nonostante un tranquillo confronto delle rispettive posizioni, il paziente continua a pensare che l'analista ha torto, vi sono due possibilità: o l'analista ha veramente torto, o il paziente si difende. Occorre molto lavoro analitico per arrivare ad una formulazione convincente a questo riguardo, e in ogni caso non siamo mai sicuri al cento per cento. Ma questo non è mai un problema, perché la psicoanalisi non consiste nell'arrivare a "formulazioni sicure al cento per cento" (questa non sarebbe psicoanalisi, e neppure scienza): la psicoanalisi è l'esercizio critico che va in quella direzione, e se l'obiettivo si dichiara raggiunto muore la psicoanalisi (l'analista cioè cadrebbe nel noto autoinganno di ritenersi "padrone in casa propria" [S. Freud, Una difficoltà della psicoanalisi (1916). Opere, 8: p. 663]). Dicevo che le prospettive del paziente e dell'analista sono uguali perché entrambi hanno una visione plausibile della realtà, dal loro punto di vista e secondo il loro transfert, o - per usare un termine tratto dalla tradizione cognitivista - secondo il loro schema cognitivo che sempre distorce la realtà alla luce del passato. Ma, a voler essere precisi, il termine "distorsione" non è corretto, in quanto presuppone che da qualche parte possa esistere una "non distorsione" della realtà. Non occorre aver letto Kant, e neanche Piaget, per sapere che la realtà è sempre "creata", cioè filtrata dagli schemi correggibili interni, i quali, tramite accomodamento o assimilazione, producono "la realtà", l'unica che possiamo conoscere, la nostra (che ci può sembrare uguale o diversa da quella percepita dagli altri, coi quali ci possiamo accordare chiamando "oggettiva" o "scientifica" la realtà condivisa da più persone o da un determinato establishment scientifico). Si sarà notato che finora ho evitato di pronunciare la parola "costruttivismo": ho preferito evitarla per una questione di gusto, in quanto di questa parola oggi si riempiono tanti la bocca nel mondo della psicoterapia, che trovo imbarazzante unirmi al coro di quelli che solo adesso si sono improvvisamente accorti del costruttivismo, senza neanche chiedersi come mai solo pochi anni fa non sentivano il bisogno di ricorrere a questo vecchio concetto della psicologia (uno degli interrogativi più inquietanti della storia della psicoanalisi è capire come mai certe problematiche epistemologiche siano riprese così in ritardo da vari autori). Questi colleghi che tutto a un tratto oggi hanno "scoperto" il costruttivismo probabilmente fino a poco tempo fa credevano che la percezione della realtà da parte dell'analista fosse sempre fedele, e che solo i pazienti erano quelli che distorcevano perché erano soggetti al transfert. Certo, ammettevano che anche l'analista poteva soffrire di controtransfert, ma solo a volte, quando era in crisi, e poi lo poteva correggere facendo un'altra tranche di analisi o una supervisione ortodossa e purificatrice che avrebbe permesso di eliminarlo e di tornare felicemente al precedente "atteggiamento analitico", garante di obiettività e neutralità. E' possibile che questi analisti siano tutti come l'analista di Queneau, di cui lui giustamente dice "Non posso sopportare la turlupinatura / di quella che lei spaccia per una psicoanalisi" (p. 115). Ma - si potrà chiedere - se analista e paziente sono uguali, chi dei due è l'analista? E perché uno paga l'altro? L'analista è solo colui che fa questo mestiere: il suo ruolo si connota dal fatto che si offre sul mercato per fare questo lavoro, lavoro che come tutti i lavori sottostà alle regole della domanda e dell'offerta. Se è il paziente che offre denaro, è anche vero che l'analista offre il suo tempo, per cui vi è uno scambio. Può darsi benissimo che in un determinato caso sia il paziente a fungere da analista, nel senso che in certe aree capisce le cose prima del suo analista, o lo aiuta a capirle: questo non è affatto un problema, anzi, è proprio quello che si spera che avvenga in tutte le analisi. Per usare un termine della terapia familiare, starà al "paziente designato", cioè quello che per primo ha chiesto aiuto all'altro, decidere quando terminare la terapia, cosa peraltro difficilissima da analizzarsi approfonditamente; ovviamente il terapeuta può non essere d'accordo. La fase della termination è una delle più complesse e più belle fasi di ogni analisi, ricca di mille implicazioni e risvolti, ricettacolo di opportunità difensive da parte di entrambi i partners. Non voglio qui soffermarmi sulla tematica della termination (per alcune riflessioni teoriche ed esempi clinici, vedi pp. 58-62 del mio libro citato prima, e anche la mia rubrica del n. 68/1995 del Ruolo Terapeutico), né sul tema del paziente come "terapeuta", "supervisore" o "interprete" del proprio analista, perché esiste una abbondante letteratura al riguardo [H.F. Searles, The patient as therapist to his analyst. In: P.L. Giovacchini, editor, Tactics and techniques in psychoanalytic therapy. Vol. II: Countertransference. New York: Aronson, 1975; R. Langs, A model of supervision: the patient as unconscious supervisor. In: Technique in Transition. New York. Aronson, 1978, pp. 587-625; I.Z. Hoffman, Il paziente come interprete dell'esperienza dell'analista (1983). Psicoterapia e Scienze Umane, 1995, 1: 5-39; ecc.] Quello che voglio sottolineare è che l'affermazione secondo la quale i due partners analitici sono uguali non presenta alcun problema teorico o pratico, anzi aiuta a non scivolare nella suggestione. Certamente, paziente ed analista possono essere molto diversi: uno dei due può sentirsi superiore o inferiore all'altro (ottima occasione di analisi!), o, se è per questo, uno può avere gli occhi azzurri e l'altro può averli castani, uno può essere alto 1,75 cm. e l'altro 1,55 cm., e così via, e questi attributi possono essere vissuti in svariati modi da entrambi. In determinati aspetti della relazione un paziente può dipendere dall'analista ritenendo (difensivamente?) che solo lui può aiutarlo, mentre in altri contesti storico-sociali o psicologici può essere l'analista che dipende dal paziente: i motivi possono essere la penuria di pazienti (che può indurre alcuni analisti a farsi pubblicità), l'insicurezza professionale (magari fomentata da una identificazione proiettiva del paziente), il piacere di fare questo mestiere o di seguire un determinato caso clinico, oppure la particolare intelligenza o sofisticazione di un paziente - poco "nevrotico", appunto - che non ha problemi nel cambiare analista o nell'interrompere la terapia se non si ritiene soddisfatto. Possiamo etichettare certi comportamenti come forme di transfert, e anche di "transfert positivo irreprensibile" [S. Freud (1912), Dinamica della traslazione. Opere, 6, p. 529] e di "transfert negativo irreprensibile" [N. Guidi (1993), Psicoterapia e Scienze Umane, 4/1994] - o, se è per questo, di controtransfert positivo o negativo irreprensibili [M.M. Gill (1984), Psicoanalisi e psicoterapia: una revisione, al sito Internet: http://www.publinet.it/pol/ital/10a-Gill.htm (dibattito: http://www.psychomedia.it/pm-lists/debates/gill-dib-1.htm; M.M. Gill (1994), Psicoanalisi in transizione. Milano: Cortina, 1995, p. 37]. Quello che è importante è non concepire l'analisi come una relazione asimmetrica nella quale l'analista necessariamente ha una autorevolezza che gli deriva dal suo ruolo e che il paziente non può che subire: vedere le cose in questo modo statico può impedirci di capire quanto dietro a ciò possa nascondersi un sintomo da analizzare (ad esempio il transfert di un paziente umiliato dal padre, o un "attaccamento insicuro"), e può indurci a considerare "nevrotico" (o affetto da un certo tipo di transfert) un paziente che, invece di mostrare dipendenza dal suo analista, mostra - volendo usare i termini usati da certi cognitivisti contemporanei - una sana attivazione del sistema motivazionale della "cooperazione paritetica per uno scopo condiviso" [G. Liotti, La dimensione interpersonale della coscienza. Roma: NIS, 1994]. Non solo, ma la concezione dell'analisi come relazione inevitabilmente asimmetrica (nel senso che, ad esempio, la "dipendenza" debba provarla il paziente verso l'analista e mai viceversa) porta a un blocco del processo analitico, cioè alla attribuzione di significati a priori, dati per scontati, senza chiedersi se potrebbe non essere così (cosa questa appunto non "dialettica", per usare le parole di alcuni recenti lavori di Hoffman). Rischiamo di giudicare "strano" o "nevrotico" un paziente che non rientra nelle nostre aspettative; viceversa, se un paziente si sente asimmetrico (rientrando così nelle nostre aspettative), rischiamo di non chiederci perché è così (prendendolo per "vero" e non per "falso", usando le categorie di E. Codignola [Il vero e il falso. Torino: Boringhieri, 1977]). Questo materiale sfugge all'analisi, come una sorta di "sequestro analitico" [fu Eissler (1953), in un altro contesto, ad usare questo termine: vedi Psicoterapia e Scienze Umane, 1981/2, p. 65]. Si potrebbe sostenere, per evidenziare meglio quello che voglio dire, che andare dall'analista è come andare dall'avvocato, dal pollivendolo, ecc. Quando vado da questi professionisti io non mi sento "dipendente" se non per il consiglio che uno mi può dare o il pollo che voglio che l'altro mi venda (così come il professionista non è dipendente dal cliente se non per i soldi che vuole ricevere per il servizio dato). Dall'analista la cosa è più complicata - si potrebbe obiettare - perché sono i significati del nostro Sé che sono in ballo. Ma è appunto per questo che potrebbe essere più corretta una posizione simmetrica: io mi pongo come se i problemi del paziente fossero "solo dei polli", operando quindi subito una salutare separazione tra il Sé e il sintomo, tra l'autostima e la nevrosi, come dovrebbe essere sempre (non solo come frutto del nostro lavoro). Di fatto, vi sono dei pazienti che vanno dall'analista come se il loro sintomo fosse un pollo (e mi ha sempre incuriosito constatare che spesso questi pazienti sono o molto nevrotici o molto poco nevrotici). Vorrei precisare che io non dico che un paziente obbligatoriamente deve essere visto come simmetrico rispetto a noi, dico solo che non deve essere obbligatoriamente visto come asimmetrico. E' liberissimo di porsi in modo asimmetrico, e non solo come forma di transfert, di nevrosi, di "complesso di inferiorità", ecc., ma anche perché supportato da tutta una cultura stereotipata - sia psicoanalitica che dei mass media (quel tipo di cultura per esempio che fa credere che sempre il paziente "debba innamorarsi dell'analista", oppure che "in analisi si soffre", "si regredisce", ecc.). Io mi limiterò a chiedermi (e a chiedergli) perché preferisce vivermi così. Analiticamente parlando, non è quello che fa che mi interessa, ma i motivi per cui lo fa. In altre parole (e in modo volutamente provocatorio, ma con una astrazione concettuale), non è certo un problema che un paziente abbia i capelli biondi. Il problema sorge invece quando il terapeuta ritiene che tutti i pazienti debbano avere i capelli neri. All'analista non interessa sapere chi "abbia ragione" (uno può avere determinati motivi per sentirsi asimmetrico, un altro per sentirsi simmetrico), interessa che la cosa possa essere discussa, non data per scontata. Alcuni potrebbero argomentare che la simmetria certo non può darsi all'inizio dell'analisi, ma eventualmente dopo, durante il successivo processo analitico che ne pone le basi. Ma perché non potrebbe essere presente anche prima? Di nuovo, in questo modo si esclude pregiudizialmente la possibilità che non sia così. E' scontato che è il paziente che chiede aiuto e che quindi si pone in modo asimmetrico, ma il pericolo è quello di dare un significato univoco alla asimmetria legata alla sua richiesta. Si fa la operazione arbitraria di assumere che chiedere aiuto (come un qualunque altro comportamento) voglia sempre dire la stessa cosa per tutti, mentre invece, come dicevo prima, un paziente può voler confrontarsi su qualcosa, un altro magari provare il gusto di "lavorare pariteticamente per uno scopo condiviso" (come si esprimono certi cognitivisti a cui ho accennato prima), un altro prova sì dipendenza, ma in modo diverso - o di più o di meno - di un altro ancora, e così via. Non solo, ma si scorda che anche l'analista può dipendere dal paziente (nei tanti modi a cui ho accennato prima). Se dunque si ritiene che la simmetria non possa darsi all'inizio ma eventualmente durante il successivo processo analitico, aprioristicamente si esclude la possibilità che il paziente possa essere, con noi e come noi, "analizzante" fin dall'inizio; un paziente invece (con una autoriflessione o una autoanalisi) può risolvere da solo la sua asimmetria (o dipendenza) e poi può aver bisogno di lavorare ugualmente con l'analista per questioni che non hanno a che fare con essa. E' vero, rimane asimmetrico relativamente al fatto che ritiene di aver bisogno di fare una analisi; ma - e questo sembra un paradosso - l'analisi ha inizio solo se essa si pone nella prospettiva di interrogarsi anche su questa dipendenza, e non di escluderla dall'analisi come "legittima". In altre parole, l'analisi ha inizio solo se pone le premesse della sua fine, lo psicoanalista è tale solo se si chiede perché lo è; oppure, usando una espressione più forte, siamo veramente psicoanalisti solo se... non sappiamo chi siamo (se invece aderiamo alla concezione asimmetrica non ci poniamo mai questo problema e non lo analizziamo). Hoffman, ad esempio, in un articolo recente (non ancora pubblicato) dice che non possiamo escludere che gli psicoanalisti siano solo una classe privilegiata che vive sfruttando le emozioni dei pazienti e convincendoli a porsi in modo asimmetrico per sottrarre loro denaro: fare analisi vuole dire anche non escludere a priori questa possibilità. In conclusione, il problema della asimmetria tra analista e paziente potrebbe essere una questione di etica di base, di valori assunti aprioristicamente, dei quali non possiamo fare a meno; se si adotta una concezione asimmetrica dell'analisi, si rischia, senza rendersene conto, di scivolare in una morale secondo la quale il paziente è sempre "inferiore" al terapeuta, una morale, se vogliamo, priva di rispetto per il paziente. E questa morale assunta a priori può non essere irrilevante rispetto a tutta la conduzione della psicoterapia. Non mi interessa qui tanto criticarla (in certe psicoterapie supponiamo possa essere indicata questa concezione), quanto semplicemente interrogarsi sui motivi per quali viene adottata. Non ritengo neppure corretto giustificarla sulla base dell'esperienza, come tendono a fare alcuni (ad esempio come fece Gino Zucchini ad un convegno sulla valutazione della psicoterapia tenuto al Dipartimento di Psicologia di Bologna il 22-23 novembre 1996) quando sostengono di non aver mai incontrato un paziente che non si sentisse dipendente dall'analista, perché ciò significherebbe (come disse Francesco Campione ribattendo a Zucchini) adottare una morale a posteriori, che non è neanche una morale (trattare da inferiori quelli che non hanno il coraggio di sentirsi alla pari). Il discorso sarebbe lungo, e lo continuerò nella prossima rubrica.
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