PSYCHOMEDIA
Telematic Review

Dalle Rubriche di Paolo Migone
"Problemi di Psicoterapia
Alla ricerca del 'vero meccanismo d'azione' della psicoterapia"
pubblicate sulla rivista

 

Il Ruolo Terapeutico, 2001, 87: 93-101

L'approccio narrativo in psicoterapia
 

Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane

 

Al 42° Congresso Nazionale della Società Italiana di Psichiatria (SIP), tenuto a Torino-Lingotto il 16-21 ottobre 2000, sono stato invitato a partecipare ad un Simposio dal titolo "La psichiatria tra narrazione ed approccio evidence-based", assieme a Giovanni Federspil, Giovanni de Girolamo, e Marco Trabucchi. Qui riassumerò la relazione che lessi in quel Simposio, alla quale ho dato il titolo "L'approccio narrativo in psicoterapia: il dibattito contemporaneo".

Come premessa a questa mia relazione, voglio fare un breve commento al titolo di quel simposio, in quanto sembra che alluda ad una alternativa tra "narrazione" e "approccio evidence-based". Questa alternativa dà già un significato preciso all'approccio narrativo, connotandolo come contrario a un approccio scientifico basato sulle evidenze (l'approccio basato sulle evidenze è quello della Evidence-Based Medicine [EBM], di cui oggi si parla tanto; vedi de Girolamo [1997] e la nostra nota introduttiva a Chambless et al. [1998], nonché il recente documento ufficiale dell'American Psychological Association di Chambless & Ollendick [2001], tradotto anche in italiano [Gli interventi psicologici validati empiricamente: controversie ed evidenze empiriche. Psicoterapia e Scienze Umane, 2001, XXXV, 3: 5-46], dove viene presentata in dettaglio la metodologia utilizzata per definire gli "interventi psicologici validati empiricamente" - vedi però anche la dura e importante critica di Westen sul n. 1/2005, pp. 7-90, da me riassunta nella rubrica del n. 98/2005 dal titolo "Sono veramente efficaci le psicoterapie evidence-based?"). Se, come vedremo meglio dopo, si può essere d'accordo sul fatto che è proprio questa la accezione che in genere viene data all'approccio narrativo, in questo mio intervento mi propongo di approfondire altri possibili significati di questo approccio e di tracciarne brevemente lo sviluppo del dibattito in psicoterapia.

Il motivo per cui ho voluto sollevare la questione del preciso significato dell'approccio narrativo è legato al fatto che mi è venuto in mente un articolo che lessi tempo fa, in cui l'autore si proponeva di spiegare nel dettaglio il suo modo di lavorare in psicoterapia e anche il suo modo di insegnarla agli studenti. Questo autore diceva che mentre lavorava coi pazienti aveva un unico modello in mente: quello di prestare attenzione alle storie che i pazienti gli raccontavano, e di vedere quali trame di film che aveva visto o di libri che aveva letto gli venissero i mente. Notava poi le somiglianze tra le diverse narrazioni, e a volte comunicava ai pazienti i film o i libri che i loro racconti gli evocavano, chiedendo se anch'essi li conoscevano e se anche a loro erano venuti in mente, si chiedeva se potevano esservi altri possibili sviluppi delle storie, e così via. Poteva anche evocare storie di vita prese dal proprio passato, e discuterle coi pazienti.

Di fronte a questo peculiare modo di lavorare, molti di noi potranno storcere il naso, chiedersi chi potrà mai essere questo bizzarro terapeuta, in quale scuola potrà essersi formato, e magari preoccuparci della sorte dei suoi pazienti. Ma saremo sorpresi nell'apprendere che l'autore di questo articolo era nientemeno che Marshall Edelson (1992, 1993), uno psicoanalista molto autorevole, laureato sia in medicina che in psicologia, autore di saggi importanti sulla epistemologia della psicoanalisi (tra i vari suoi libri, basti ricordare Hypothesis and Evidence in Psychoanalysis, del 1984 [tradotto in italiano col titolo Ipotesi e prova in psicoanalisi], in cui, cosa rara tra gli psicoanalisti, mostra di conoscere a fondo il dibattito epistemologico e affronta i filosofi critici della psicoanalisi sul loro stesso terreno). Questo autore dunque, così sensibile alle questioni dello statuto scientifico della psicoanalisi, delle evidenze empiriche e del risultato dei trattamenti, mostrava di adottare un approccio che possiamo chiamare narrativo, e pare che non si sentisse affatto in antitesi a un approccio evidence-based, tutt'altro: secondo Edelson è proprio grazie anche a questo approccio narrativo che la psicoanalisi può avvicinarsi a un confronto con le altre discipline. Infatti, l'approccio narrativo utilizza concetti vicini all'esperienza, e non i concetti astratti della metapsicologia freudiana (Io, Es, Super-Io, libido, ecc.) che hanno reso tanto difficile il rapporto tra la psicoanalisi e le altre discipline scientifiche (i concetti della metapsicologia infatti sono stati spesso usati in modo poco rigoroso, per cui non era facile farli accettare dagli altri ricercatori). Inoltre i concetti vicini all'esperienza dell'approccio narrativo oggi vengono usati anche da psicologi cognitivi (si pensi a concetti quali scritto, schema, scenario, copione, ecc.), studiosi dell'informatica e dell'intelligenza artificiale (Schank, 1982, 1990; Schank & Abelson, 1977), neuroscienziati, psicologi dello sviluppo, filosofi della mente, e studiosi di discipline letterarie. Non solo, ma concetti narrativi vengono utilizzati dai ricercatori in psicoterapia, si pensi solo a quello che è uno degli strumenti più usati nella ricerca empirica, il "Tema Relazionale Conflittuale Centrale" (Core Conflictual Relationship Theme [CCRT]) di Luborsky (1984; Luborsky & Crits-Christoph, 1990), che non è altro che una raffigurazione narrativa del concetto di transfert soggetta a un sistema di codificazione e misurazione, oppure ai concetti di altri importanti ricercatori, quali quelli di "piano" e di "test" nella control-mastery theory del San Francisco Psychotherapy Research Group di Weiss & Samspon (Weiss, Sampson & the Mount Zion Psychotherapy Research Group, 1986; Weiss, 1993; Migone, 1993a, 1993b, 1995c; Weiss & Sampson, 1999; vedi anche le mie rubriche dei numeri 62/1993 e 68/1995 del Ruolo Terapeutico), e così via.

In fondo, sosteneva Edelson, in psicoterapia il paziente non fa altro che raccontare o agire delle storie. Le storie raccontate riguardano le cose dette dal paziente. Le storie agite sono storie che non sono raccontate verbalmente, ma sono drammatizzate con il terapeuta e il paziente come attori (col linguaggio psicoanalitico, queste narrazioni agite possono essere chiamate transfert nella misura in cui si ipotizza che siano nuove edizioni di comportamenti passati, e se non vengono ricordate ma solo agite si può parlare del transfert come resistenza al ricordo). Il terapeuta allora può renderle esplicite, cioè raccontarle al paziente mettendone insieme i pezzi e individuando storie principali o una storia che si ripete più spesso di altre (concetto di master story), sottolineare le somiglianze tra le varie storie e suggerire che diverse narrazioni o segmenti di esse potrebbero essere dei derivati di una stessa storia che riguarda il rapporto coi genitori o importanti esperienze passate. In ogni caso, il terapeuta deve sempre utilizzare attentamente il materiale che emerge in seduta, raccontato o agito dal paziente, affinché quest'ultimo non lo percepisca come una invenzione o costruzione arbitraria del terapeuta. Inoltre il terapeuta può anche raccogliere le cose dette dal paziente che non contengono alcun aspetto narrativo (es. stati mentali, sintomi, ecc.) e collegarle alle parti narrative, unendole in un'unica storia in cui le varie componenti ritrovino un senso unitario. Quando il terapeuta fa una interpretazione, non fa altro che raccontare al paziente la storia in un modo più completo e coerente. Le storie possono svolgersi anche nei sogni. Come la psicoanalisi ci ha insegnato, può essere utile al paziente "rendere conscio l'inconscio", cioè divenire maggiormente consapevole delle storie che a sua insaputa costituiscono la vera trama delle sue azioni e che lo motivano a ripetere comportamenti disadattivi o sintomatici. Conoscere meglio le proprie vere storie, i propri copioni, canovacci o schemi inconsci, può servire ad aumentare la nostra padronanza su di essi e modificarli, grazie a una maggiore comprensione della psicodinamica del proprio passato. Anche i terapeuti cognitivi concordano sulla utilità di rendere esplicite le idee spesso irrazionali o frutto di esperienze patogene passate, perché queste idee hanno un ruolo importante nel guidare le emozioni e il comportamento.

Per tornare al titolo del simposio ("La psichiatria tra narrazione ed approccio evidence-based"), rimane ora da spiegare in che senso, come dicevo prima, l'approccio narrativo ha acquisito un significato contrario ad un approccio scientifico basato sulle evidenze. La risposta è molto semplice: secondo la corrente cosiddetta ermeneutica, che è una corrente influente in psicoterapia, le narrazioni che emergono in seduta non hanno e non possono avere alcuna pretesa di verità, cioè di corrispondenza con qualcosa di realmente accaduto o di "vero" all'interno o all'esterno del paziente o precedente all'incontro col terapeuta (cioè nella realtà "extraclinica"), ma sono delle invenzioni, delle nuove storie, se vogliamo dei "romanzi psicoanalitici", che hanno solo il merito di essere dotati di coerenza interna, di valore estetico e di potere di convincimento (il termine "narrativa", che è entrato nel linguaggio psicoanalitico per connotare la posizione ermeneutica, è in realtà un inglesismo derivato dalla parola inglese narrative, che in italiano sarebbe più appropriato tradurre "narrazione"). Nelle parole del famoso scritto di Freud del 1937 Costruzioni nell'analisi, le narrative sarebbero delle "costruzioni", e non delle "ricostruzioni" di qualcosa che c'era già prima. Queste narrazioni, nelle migliori delle ipotesi, possono facilitare il cambiamento di quel singolo paziente, ma non sono generalizzabili ad altri casi, non portano alla costruzione di leggi generali, il loro valore rimane all'interno di quella coppia terapeutica, cioè sono idiografiche (per un panorama critico del dibattito storico tra approccio idiografico e approccio nomotetico, che si rifà alla dicotomia tra scienze umane e scienze naturali che è rilevante per l'ermeneutica, vedi Holt, 1962; vedi anche Eagle, 1984, cap. 14 [cap. 15 ed. or.]).

Occorrerebbe a questo punto approfondire il discorso e spiegare in dettaglio la posizione ermeneutica, comprendere i motivi del suo sviluppo e del suo porsi, secondo alcuni, come "tentativo di salvazione" della psicoanalisi dopo la crisi in cui si era venuta a trovare a seguito delle critiche degli epistemologi neopositivisti. Ma per motivi di spazio, devo saltare qui la parte della mia relazione che tocca questi temi. Mi limito ad alcuni commenti conclusivi a proposito della questione del recupero dei ricordi in analisi e della possibilità di ricostruire storie "vere" del proprio passato (per un approfondimento sull'ermeneutica, rimando comunque alla mia rubrica del n. 50/1989 del Ruolo Terapeutico, e al cap. 11 del mio libro Terapia psicoanalitica, Milano: Franco Angeli, 1995 - qui di seguito, tra le due linee orizzontali e in carattere minore, riporto alcuni brani, lievemente modificati, tratti da questi miei lavori precedenti, allo scopo di migliorare la comprensione di questo scritto).


Uno dei modi con cui si può comprendere lo sviluppo della corrente ermeneutica in psicoanalisi è quello di concepirla come una reazione allo stato di crisi epistemologica in cui versava la psicoanalisi attorno alla metà del secolo, tanto che alcuni hanno sostenuto che la proposta ermeneutica non è altro che da iscriversi all'interno dei "tentativi di salvazione" della psicoanalisi. Verso la metà del secolo infatti le principali posizioni filosofiche nei confronti della psicoanalisi erano decisamente negative: da una parte il neopositivismo e dall'altra Popper, congiuntamente anche se in modo diverso (i primi per mancanza di validazione, e il secondo per mancanza di falsificazione), avevano decretato che la psicoanalisi non poteva essere una scienza. Molto sinteticamente, i neopositivisti sostenevano che la psicoanalisi non può essere una disciplina scientifica perché i suoi assunti teorici non possono essere "operazionalizzabili", cioè non è possibile correlare concetti teorici con materiali osservabili e chiaramente specificati; essendo possibile offrire diverse interpretazioni per le stesse situazioni cliniche, non è facile trovare un criterio univoco che stabilisca la correttezza di una interpretazione tra le varie possibili. Popper, d'altro lato, riteneva che non vi è neanche bisogno che un enunciato per essere scientifico debba essere confermato dai dati empirici, ma gli bastava una verifica "interna", precedente a quella esterna coi dati empirici: era convinto che gli enunciati scientifici devono essere precisi, discreti, limitati, in modo tale che possano essere falsificabili, cioè contraddetti; se gli enunciati invece sono vaghi, essi possono spiegare tante cose, ma non possono essere contraddetti appunto per la loro genericità. La vaghezza di questi enunciati permetterebbe loro di spiegare tutto e nulla, mentre un enunciato scientifico paradossalmente quanto più vieta, tanto più dice. E dato che per Popper gli enunciati della metapsicologia psicoanalitica sono talmente elastici che permettono di spiegare svariate attività umane, la psicoanalisi non sarebbe una scienza, ma una pseudoscienza.

Che tipo di risposte sono giunte da parte degli psicoanalisti a queste dure critiche allo statuto scientifico della loro disciplina? La risposta più naturale sarebbe stata quella di rispondere ai neopositivisti e a Popper entrando nel merito delle loro argomentazioni critiche, e dimostrando che la psicoanalisi di fatto è una scienza. La risposta ai neopositivisti avrebbe dovuto essere quella di dimostrare - nello spirito di Freud che di fatto era un positivista - che la psicoanalisi è capace di produrre ipotesi in una certa misura operazionalizzabili e testabili empiricamente (va ricordato comunque che in seguito il neopositivismo si trovò in difficoltà per conto suo, a causa del carattere troppo restrittivo dei criteri adottati per stabilire se un enunciato corrisponde o meno al mondo reale). E la risposta a Popper avrebbe dovuto essere quella di dimostrare che non è assolutamente vero che la psicoanalisi non può produrre ipotesi precise e falsificabili, anzi, che molte delle sue ipotesi di fatto lo sono state (come sappiamo, anni dopo sarà Grünbaum [1984], un filosofo e non uno psicoanalista, a dimostrare egregiamente la completa infondatezza delle tesi di Popper sulla psicoanalisi [vedi Migone, 1995b, e la rubrica del n. 50/1989]). Gli psicoanalisti, per la verità, fecero del loro meglio per far fronte alle critiche dei filosofi (gli autorevoli psicoanalisti Hartmann [1959], Arlow [1959] e altri, ad esempio, avevano cercato di ribattere alle tesi dei neopositivisti al convegno di New York del 1958 [Hook, 1959]), ma nel complesso il loro tentativo di instaurare un dialogo fallì, e in generale rimase diffusa la convinzione che la psicoanalisi non poteva essere considerata una scienza. La situazione era quindi imbarazzante, proprio in un momento in cui la psicoanalisi in alcuni paesi (soprattutto in America dove era praticata dai medici e dominava la cultura psichiatrica universitaria) era al massimo della sua espansione, come immagine sociale e come istituzione di professionisti, e nel pieno della sua ricerca teorica (si pensi che nel 1959 appare l'importante lavoro di Rapaport Struttura della teoria psicoanalitica, che era un tentativo di sistematizzazione dei punti di vista della teoria).

E' in questo clima culturale che si può inserire la risposta ermeneutica, una risposta che in effetti era una delle più ovvie da intraprendere per uscire dall'impasse che si era creato. In breve, l'escamotage degli ermeneuti fu di non rispondere alle obiezioni dei filosofi della scienza, ma di evitarle, affermando che la psicoanalisi non era tenuta comunque a rispondere in quanto vi sarebbe un equivoco a monte: la psicoanalisi non doveva essere concepita come una scienza naturale, ma una scienza umana. In altre parole, fu ripresa la dicotomia di Dilthey tra scienze naturali e scienze dello spirito, e si collocò la psicoanalisi all'interno delle seconde, cioè delle scienze umane. La psicoanalisi cioè fu considerata un altro tipo di scienza, dotata di criteri suoi propri, diversi da quelli delle scienze naturali ai quali si appellavano i filosofi della scienza (prova, replicazione, confutazione, ecc.). Ma, secondo alcuni (ad esempio Blight, 1981), la proposta ermeneutica fu di una "fuga", una "ritirata" (retreat), un modo cioè per non rispondere ai problemi sollevati dai neopositivisti e da Popper, e in un certo senso un modo implicito di dare ragione agli avversari. Grünbaum arriverà addirittura a dire che l'ermeneutica, più che un tentativo di salvazione della psicoanalisi, dà ad essa un "abbraccio mortale" (kiss of death). Vari autori (ad esempio Holt [1962], che ho ricordato prima) inoltre misero in dubbio anche la legittimità di un rigido spartiacque tra scienze naturali e scienze umane, affermando che tra le due vi sono molte più somiglianze di quanto si creda; si pensi soltanto al problema della efficacia della terapia psicoanalitica (che strumenti scientifici usare, ad esempio, per verificare la maggiore efficacia di una narrativa rispetto a un'altra?), problema questo non a caso trascurato dagli ermeneuti (vedi anche Eagle, 1984, cap. 15 [cap. 14 trad. it.]). Questa potrebbe quindi essere una strada molto pericolosa per ogni tentativo futuro di confronto con le critiche dei filosofi della scienza. La questione infatti è semplicemente se la psicoanalisi può o non può essere una scienza, ed è ovvio che qui per scienza si intende scienza naturale. Se la risposta è che la psicoanalisi non può rientrare nelle scienze naturali, ma è pur sempre una "scienza ermeneutica", si usa il termine scienza con un'accezione diversa, perché la caratteristica essenziale dell'ermeneutica è appunto quella di non rispondere ai requisiti delle scienze naturali (predizione, replicabilità, ecc.).

La posizione ermeneutica, prima di essere esportata in America dove fu ripresa da alcuni psicoanalisti quali Sherwood (1969), George Klein (1976), Schafer (1976, 1980, 1983, 1992), Steele (1979), Spence (1982, 1987) ecc., fu delineata in Europa negli anni '60, soprattutto dai filosofi Habermas (1967, 1968) della scuola di Francoforte e dal francese Ricoeur (1965, 1969, 1981, 1989). Come si è detto, gli psicoanalisti ermeneuti americani ripresero la distinzione fatta da Dilthey tra scienze naturali e scienze dello spirito (dette anche scienze umane, sociali o storiche), e collocarono la psicoanalisi all'interno di queste ultime. La psicoanalisi infatti, che in modo specifico fa appello alla "autoriflessione", a causa del positivismo avrebbe commesso l'errore di volersi assimilare alle scienze naturali, commettendo - come si espresse Habermas (1968, cap. 10) - un "autofraintendimento scientistico". Infatti la psicoanalisi, come scienza umana, non obbedirebbe ai metodi obiettivi di prova, replicazione, confutazione, ecc., ma, in quanto "scienza ermeneutica", avrebbe come concetto fondamentale quello di costruzione di "significato". Nella elaborazione degli ermeneuti si fecero strada dicotomie quali quella tra "causa" di un comportamento (propria delle scienze naturali) e "ragione" di un comportamento (propria delle scienze umane), tra realtà "fisica" e realtà "psicologica", e soprattutto - come recita il titolo del famoso libro di Spence del 1982 - tra "verità storica" e "verità narrativa". Una operazione fatta dagli psicoanalisti ermeneuti per "salvare" la psicoanalisi è stata anche quella di separare la pratica terapeutica dalla teoria psicologica, difendendo l'una a scapito dell'altra, e di sconfessare la metapsicologia, cioè una teoria generale, in favore della teoria clinica, come se quest'ultima potesse reggersi da sola senza una teoria generale alle spalle (vedi ad esempio George Klein, 1976).

Tante sono le critiche che si potrebbero muovere all'ermeneutica. Grünbaum, nel suo libro del 1984, ne muove parecchie, in quella che secondo alcuni è la più radicale e definitiva confutazione delle tesi ermeneutiche. Tra le tante critiche ne cito una (riporto un brano della mia rubrica del n. 50/1989 del Ruolo Terapeutico). Habermas sosteneva che l'analizzando è l'unico giudice della validità delle interpretazioni, per cui non sarebbero possibili in psicoanalisi valutazioni indipendenti o esterne alla situazione clinica così come avviene per qualunque scienza naturale, cioè non sarebbero possibili verifiche cosiddette "extracliniche". Ma, come giustamente osserva Grünbaum (1984), i pazienti sono altamente suggestionabili, e l'analista stesso, anche se non consapevolmente, dirige il flusso delle loro associazioni e li influenza in vario modo, per cui la situazione clinica per sua natura è una fonte di dati altamente inquinata. I ricordi dell'infanzia poi, così importanti per la psicoanalisi, non sono attendibili, perché la memoria nel tempo fisiologicamente li modifica. Non solo, ma a riprova del fatto che non è vero che l'analizzando è l'unico giudice della validità delle interpretazioni, quando il paziente non è d'accordo su una interpretazione l'analista in determinati casi può anche ritenerla vera. Determinate ipotesi cliniche poi hanno una portata più vasta e possono benissimo essere testate in modo extraclinico, ad esempio epidemiolgicamente: Freud infatti aveva avanzato l'ipotesi che la paranoia derivasse da una omosessualità rimossa, per cui una diminuzione delle sanzioni sociali contro la omosessualità potrebbe portare a una diminuzione di sindromi paranoidi in una determinata società, cosa questa perfettamente verificabile con strumenti epidemiologici.


Uno dei punti centrali della critica ermeneutica è che - per riprendere il titolo del noto libro, già citato, di Spence del 1982 (Verità narrativa e verità storica) che è divenuto un po' il manifesto dell'ermeneutica in psicoanalisi - la "verità narrativa" è preferibile alla "verità storica" poiché quest'ultima non è comunque conoscibile in quanto tale, venendo continuamente rielaborata e manipolata dal soggetto. Ma mi sembra che gli ermeneuti dimentichino che già Freud era ben consapevole del fatto che i ricordi che emergono in analisi non sono attendibili. Una realtà psichica inconscia, nel momento in cui diventa conscia, è subito in un qualche modo trasformata alla luce del presente (non fosse altro che per l'uso del linguaggio, per il nominarla - vedi le acute riflessioni di Lowenstein [1956] sul ruolo del linguaggio nella tecnica psicoanalitica). Quando guardiamo al nostro passato, quando recuperiamo un ricordo anche conscio (o preconscio), esso viene sempre modificato, nel senso che così come il passato influenza il presente, anche il presente influenza il passato. Questa circolarità, che sembra essere stata improvvisamente riscoperta dagli psicoanalisti ermeneuti negli anni '70, non solo era ben nota a Freud, ma è sostanziata anche da molte ricerche neurobiologiche (tra le tante, si pensi al concetto di "rientro" di Edelman, 1989, 1992).

Da questo punto di vista, sembrerebbe quindi che le argomentazioni dell'ermeneutica non siano veri progressi, ma semplicemente un ritorno a Freud (1914, p. 575), che col concetto di Nachträglichkeit disse esattamente la stessa cosa. L'importante concetto di Nachträglichkeit (termine tradotto in italiano, e anche in francese da Laplanche & Pontalis [1967], con "posteriorità", mentre Strachey nella traduzione inglese della Standard Edition ne travisò il significato chiamandola "deferred action", cioè "azione differita") si riferisce alla "attribuzione retrospettiva" di significato nel senso del guardare indietro a posteriori come momento di riorganizzazione dei significati personali (Thomä & Kächele, 1988 p. 119 nota 1, pp. 122-124; Thomä & Cheshire, 1991). La fuorviante traduzione inglese di Nachträglichkeit in deferred action può aver in parte ritardato la comprensione di questo concetto nel mondo anglosassone, e dato fiato alla critica ermeneutica di certi analisti nordamericani. Una maggiore attenzione al concetto di Nachträglichkeit avrebbe forse ridimensionato il carattere di novità da alcuni attribuito al dibattito sull'ermeneutica; questo dibattito (in cui per la verità il "circolo ermeneutico" sembra assomigliare più a un "circolo vizioso") è continuato insoluto per anni, con i rispettivi esponenti fermi sulle proprie posizioni (ne è una testimonianza il confronto che assieme ad alcuni colleghi abbiamo voluto organizzare nel 1994 a Bologna tra Gianni Vattimo, uno dei più noti filosofi ermeneuti, e Robert Holt, un convinto anti-ermeneuta, e con Horst Kächele, che è un ricercatore in psicoterapia e un esperto nell'analisi del linguaggio; il filosofo e psicologo Mauro Fornaro fungeva da moderatore: Holt, Kächele & Vattimo, 1994). In realtà il circolo ermeneutico non è affatto un circolo vizioso: se è vero che il passato in quanto tale non è ricuperabile ma viene sempre modificato alla luce del presente, è anche vero che la mente non funziona come una tabula rasa, nel senso che gli schemi mnestici del passato hanno una potente influenza nel modificare la percezione attuale (Migone & Liotti, 1998), e quindi non tutte le (ri)costruzioni del passato sono uguali o solo in funzione della autorevolezza dell'analista o del suo potere di convincimento (e neppure della loro coerenza interna o del loro appeal estetico - bisognerebbe poi chiedersi rispetto a che cosa si misura la coerenza o il valore estetico, nel senso che si rischia di spostare il problema senza risolverlo; vedi qui la mia rubrica del n. 77/1998 del Ruolo Terapeutico). Esistono modalità per verificare la misura con cui una informazione (o una interpretazione) sia nuova o invece in un qualche modo già "conosciuta" (si pensi alle improvvise reazioni emotive che seguono ad una determinata interpretazione, alla rapida comparsa di nuovi ricordi, o alla soggettiva sensazione di essere toccati dentro, che ci fa dire ad esempio "questa cosa è come se l'avessi sempre saputa"). In questo senso l'insistenza di Freud su quello che Grünbaum (1984, pp. 139-140) chiamerà Tally Argument non è affatto in contraddizione col concetto di Nachträglichkeit (il Tally Argument o "Argomento della Concordanza" [Grünbaum, 1984, pp. 139-140; Freud, 1915-17, p. 601], su cui ruota tutta la problematica dell'approccio narrativo, presuppone che l'interpretazione del terapeuta debba concordare, collimare, o corrispondere, con quello che vi è di "vero" [tally with what is real] nella realtà psichica del paziente; per un approfondimento, vedi la mia rubrica del n. 50/1989, che ho già citato, e Migone, 1995a, pp. 184-186).

Se, come asseriscono gli ermeneuti, non è possibile stabilire con esattezza i criteri per valutare la correttezza delle interpretazioni o delle narrazioni raccontate in analisi, tanto vale rinunciare alla pretesa dell'affidabilità e accontentarsi di fornire diverse "prospettive" sulla realtà. Queste prospettive, secondo un principio pragmatico, possono essere utili al paziente. In effetti è noto che diversi schemi di significato possono essere tutti utili, forse perché servono a dare comunque la sensazione di capire qualcosa, di trovare un senso che prima non c'era, o la speranza di una via d'uscita (ma va ricordato - come ci insegna la esperienza psicoanalitica - che certe narrazioni possono avere un ruolo difensivo, autorassicuratorio, per evitare di prendere coscienza di altre narrazioni più dolorose ma più "vere" [si veda a questo proposito il concetto di "psychodynamic life narrative" di Viederman, 1986], ed è scontato che eliminando la tematica della verità non ha più senso ragionare i termini difensivi, con la perdita che ciò può comportare in termini di arricchimento per il paziente e di migliore adattamento a lungo termine). E' anche possibile che le diverse narrative, tutte apparentemente efficaci, servano da veicolo di altri fattori terapeutici, quelli detti "comuni" o "aspecifici", cioè legati al rapporto col terapeuta, che sarebbero i veri fattori curativi (infondere speranza, ad esempio - vedi le posizioni antesignane di Frank, 1961). Ma anche secondo questa ottica, rimangono non risolti i problemi legati alla validità e all'efficacia. Se infatti si sostiene che queste nuove prospettive illuminano tutte in qualche modo una verità "più ampia", rientra dalla finestra la questione della verità che si era cacciata dalla porta: una verità è più ampia rispetto a che cosa? E come si fa a stabilire se una determinata narrativa è più efficace di un'altra? Non vi è altro modo che stabilirlo con i metodi delle scienze naturali, per i quali le argomentazioni dell'ermeneutica in quanto tali non hanno nulla da offrire. Nelle misura in cui abbiamo due o più narrative possibili, con che criterio ne scegliamo una? Se si risponde che i soli criteri sono la coerenza interna, l'estetica, ecc., l'operazione che qui verrebbe fatta è quella di ridurre la psicoterapia a una disciplina non terapeutica. Infatti, se un criterio è anche l'utilità (cioè l'efficacia terapeutica), allora siamo al punto di partenza, e tutta la questione posta dell'ermeneutica, pur nel rispetto e nell'interesse delle sue argomentazioni, in quanto tale diventa irrilevante.

Sembrerebbe quindi che se l'approccio narrativo non viene concepito come un tipo di terapia (se ad esempio rientra nell'arte o nella letteratura) allora è pienamente legittimo. Ma se invece è una forma di psicoterapia, cioè se si pone la questione della efficacia, allora si tratta pur sempre di individuare dei criteri per valutare la efficacia di una narrativa rispetto ad un'altra. Ad esempio, si può argomentare, sulla base di evidenze empiriche, che così come una terapia antitumorale che garantisce un maggiore successo contro la proliferazione delle metastasi è preferibile a una terapia che infonde solo speranza (a parità di capacità di relazione, di tatto e di supporto emotivo da parte dei medici curanti), in psicoterapia è altrettanto vero che una narrativa dotata solo di valore estetico (ad esempio: "la depressione mi viene ogni volta che Giove si allinea con Marte", oppure "il mio erborista mi ha detto che mi ha fatto male mangiare il cavolfiore ieri sera") sia preferibile a una narrativa che in un qualche modo "corrisponde" maggiormente a una realtà dimostrabile (ad esempio: "la depressione mi viene ogni volta che mi sento non capita da mio marito", oppure "ogni volta che mi sento sola e che intravedo la possibilità che il mio matrimonio fallisca", oppure "ogni volta che non prendo le medicine da una o due settimane", e così via). L'ipotesi, che peraltro è oggetto di studio da parte di infinite ricerche sulla psicoterapia, è che tra diverse narrazioni - tutte, se è per questo, appetibili o esteticamente belle - la più efficace sia quella che corrisponde a una qualche forma di "realtà" o di costrutto "vero" sottostante (le parole "verità", "vero" ecc. qui non a caso vengono messe tra virgolette per connotare il fatto che non si riferiscono alla verità in senso filosofico, la quale come è noto non è mai interessata alla scienza; alla scienza, in modo molto più modesto e relativo, interessa soltanto l'effetto di certi comportamenti o azioni una volta che siano note determinate variabili. Per narrativa più "vera" qui si vuole intendere una narrativa che funzioni meglio di un'altra rispetto al cambiamento terapeutico).

L'assunzione di base è che una narrativa abbia effetti motivanti e di guida per il comportamento. Se ad esempio una paziente (come in una occasione mi è capitato di osservare) viene convinta dallo psicoanalista che il suo disturbo bipolare dipende solo dal fatto che la madre nutriva sentimenti ambivalenti verso di lei quando la portava ancora in grembo, potrà essere meno motivata ad assumere un farmaco come il Litio che invece - come è ben dimostrato - può diminuire in una certa misura la intensità delle sue oscillazioni dell'umore, permettendole eventualmente di evitare ripetuti ricoveri o anche tentativi di suicidio (ciò non toglie che la fantasiosa narrativa psicoanalitica la renda soggettivamente più "felice", ma a noi quello che interessa è la misura in cui questa "felicità" influisce sull'andamento dei ricoveri, ammesso che sia questa e non un'altra la variabile che noi legittimamente vogliamo controllare in un determinato esperimento - se volessimo controllare altre variabili, il discorso sarebbe diverso). Viceversa, se un paziente crede (o viene convinto dal terapeuta) che il suo benessere dipende soltanto dall'assunzione quotidiana del Prozac, farà soprattutto attenzione a non scordarsi di prenderlo, e presterà meno attenzione ad eventuali dinamiche interpersonali che invece, ad un esame più attento, possono essere la causa principale della sua depressione, col possibile risultato di una cronicizzazione depressiva o di un aumento di ricadute (come peraltro è ben argomentato, tra gli altri, da Fava [1994, 1995]; Wexler & Nelson [1993], dal canto loro, in una review meta-analitica hanno dimostrato che la psicoterapia in media risulta essere nettamente superiore ai farmaci nella terapia ambulatoriale della depressione maggiore, e che la superiorità della psicoterapia aumenta ulteriormente se si considera il numero dei drop-out, che nei pazienti trattati solo con farmaci è più alto; anche l'autorevole review di Lambert & Bergin [1994, p. 145] conferma la superiorità della psicoterapia rispetto ai farmaci nella depressione maggiore). Le "narrative farmacologiche" sono estremamente diffuse oggi, fungendo da guida a molti pazienti; in quei casi in cui i pazienti assumono complicati cocktail di farmaci a ciascuno dei quali, preso ritualmente in diverse ore della giornata, attribuiscono precisi effetti psicologici, più che di narrativa farmacologica si può parlare, con una battuta, di una sorta di "delirio psicofarmacologico" di natura iatrogena, una complessa narrativa che fa compagnia al paziente per anni ma che di fatto può impoverirgli la vita. Una narrativa più vera dunque può essere definita come una narrativa che, in modo evidence-based, funziona meglio per gli scopi che ci prefiggiamo.

Naturalmente vi sono casi in cui narrative palesemente "false" (ad esempio basate sulla superstizione) funzionano meglio di una narrativa "vera". Questi casi sono molto interessanti e richiedono la formulazione di precise ipotesi esplicative. Una possibilità è che in questi casi la forza motivazionale derivata da quella narrativa, magari estremamente radicata culturalmente, ha un potere talmente grande da modificare un determinato comportamento, cioè da trascinare l'intero equilibrio psicofisico dell'individuo. Questo non stupisce, perché da sempre sappiamo che certe idee possono, per così dire, "smuovere le montagne", e i sistemi di credenze di ogni cultura o sottocultura vanno compresi e rispettati nel loro importantissimo valore per la coerenza interna dei significati e il funzionamento globale dell'individuo. Rimane il fatto che questo può essere meno vero per disturbi più gravi, e che comunque si tratta di conflitti o di contraddizioni - eventualmente sanabili all'interno del dialogo psicoterapeutico - tra narrative che corrispondono a diversi modi di leggere la realtà, e che comunque il miglioramento va valutato a medio-lungo periodo e nei termini di migliore adattamento all'ambiente (è anche in questo senso evoluzionistico o darwiniano che una narrativa è "vera" se corrisponde alla "realtà"). Non va dimenticato infine che l'approccio scientifico evidence-based non può che basarsi sulla statistica per poter fare delle previsioni, nel senso che la narrativa più vera è quella che garantisce un maggior tasso di successi, a parità di variabili indipendenti.


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Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane
Via Palestro 14, 43100 Parma, tel./fax 0521-960595, E-Mail <migone@unipr.it>

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