Il Ruolo Terapeutico, 2005, 98: 103-114
Paolo Migone
Sappiamo che negli ultimi tempi si parla sempre più della necessità di verificare empiricamente l 'efficacia della psicoterapia, cioè di differenziare il più possibile le terapie che "funzionano" da quelle che "non funzionano" (o la cui efficacia non è ancora stata dimostrata - cosa, tra l'altro, ben diversa dalla dimostrata inefficacia). Una delle conseguenze di questi sviluppi è la compilazione degli elenchi dei cosiddetti Empirically Supported Treatments (EST), cioè dei trattamenti supportati empiricamente o evidence-based (basati sulle evidenze), che sarebbero le uniche terapie che funzionano mentre tutte le altre non dovrebbero più essere praticate (inutile dire che tra queste terapie dichiarate "inutili" vi sarebbero quasi tutte le terapie psicoanalitiche). Vorrei discutere qui questa problematica, della quale mi sono sempre interessato, e riporterò parti di relazioni che ho tenuti a vari convegni o corsi su questo argomento (ad esempio al XI Congresso Nazionale della Società Italiana di Terapia Cognitiva e Comportamentale [SITCC] tenuto a Bologna il 19-22 settembre 2002, al convegno "Una svolta nella validazione dei risultati e dei processi delle psicoterapie" organizzato dal Dipartimento di Psicologia dell'Università di Firenze il 17 maggio 2003, a un corso di formazione organizzato dal CEFPAS della Regione Sicilia a Caltanissetta il 16-18 marzo 2004, alla IX Riunione Scientifica Annuale della Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica [SIEP] a Nocera Inferiore il 28-29 ottobre 2004, e così via).La mia posizione è che occorre molta cautela nell'aderire alla logica della Evidence-Based Medicine (EBM) trasferita troppo acriticamente o frettolosamente ad una "psicoterapia basata sulle evidenze", in quanto è alto il rischio che si trascurino alcuni importanti problemi che possono generare fraintendimenti e ricadute pericolose per la pratica della psicoterapia. Gli EST infatti stanno diffondendosi sempre di più tra gli operatori e amministratori della salute mentale, come uno dei tentativi di risposta al comprensibile bisogno di accountability, di maggiore cost-effectiveness e di altre importanti esigenze etiche e scientifiche. Tra gli autori che hanno maggiormente approfondito questa problematica vi è Drew Westen, un ricercatore estremamente attento sia alle questioni metodologiche e statistiche delle ricerche sperimentali che alle nuances della clinica (si veda ad esempio il suo articolo del 1999 sullo statuto scientifico dei processi inconsci, dal titolo "Freud è davvero morto?", uscito nel n. 4/2001 di Psicoterapia e Scienze Umane). In un recente lavoro pubblicato su una rivista molto autorevole [Westen D. & Morrison K., A multidimensional meta-analysis of treatments for depression, panic, and generalized anxiety disorder: An empirical examination of the status of empirically supported therapies, Journal of Consulting and Clinical Psychology, 2001, 69, 6: 875-899] ha preso in considerazione gli studi sperimentali sulla psicoterapia della depressione, del panico e dell'ansia generalizzata ed ha riesaminato la base empirica delle psicoterapie brevi manualizzate, distinguendo la risposta iniziale dalla genuina efficacia, e la terapia degli "stati" psicologici dalla terapia dei disturbi o delle diatesi. La sua conclusione è che questi trattamenti brevi manualizzati tendono a produrre una notevole risposta positiva iniziale di indubbia significatività clinica, ma che la maggior parte dei pazienti rimangono subclinicamente sintomatici, hanno ricadute o richiedono un ulteriore trattamento entro due anni. Inoltre è dimostrato che i tipici studi di efficacia escludono ben i 2/3 dei pazienti che nella pratica clinica reale si presentano per richiedere una terapia, a causa della comorbilità (cioè della presenza simultanea di più diagnosi) che peraltro è molto frequente e che inevitabilmente porta a terapie più lunghe. Io prenderò in esame non solo questo articolo di Westen, ma anche alcune parti di un altro suo lavoro di natura più concettuale che è uscito pochi mesi fa [Westen D., Morrison K. & Thompson-Brenner H., The empirical status of empirically supported psychotherapies: assumptions, findings, and reporting in controlled clinical trials. Psychological Bulletin, 2004, 130: 631-663]. Come scrivevo a p. 8 del mio editoriale del n. 1/2004 di Psicoterapia e Scienze Umane, l'aspetto interessante è che "Westen non si pone contro gli EST o contro la psicoterapia basata sulle prove di efficacia, anzi, si muove all'interno della stessa cornice scientifica. Ed è proprio con la rigorosa logica della ricerca empirica che Westen dimostra la fallacia di molte conclusioni a cui il movimento della psicoterapia evidence-based rischia di arrivare. Westen cioè non si pone scioccamente contro l'esigenza di ricerca empirica sull'efficacia della psicoterapia, anzi, ne è uno dei più accesi sostenitori, e muove la sua critica proprio allo scopo di perfezionare questo campo di ricerca, per arrivare ad individuare psicoterapie che siano ancor più efficaci, 'veramente efficaci', se così si può dire". Conoscendo Westen, ho seguito la stesura di questo secondo articolo avvenuta nel corso degli ultimi cinque anni (tanto ci è voluto per scrivere questo lungo articolo), e, come avevo preannunciato nel mio editoriale del n. 1/2004 prima citato, abbiamo deciso di farlo uscire in italiano sul n. 1/2005 di Psicoterapia e Scienze Umane. Questo articolo di Westen serve anche da discussione critica del documento ufficiale dell'American Psychological Association (APA) in cui sono stati pubblicati appunto gli elenchi degli EST, documento che avevo tradotto in italiano e fatto uscire nel n. 3/2001 [Chambless D.L. & Ollendick T.H., Gli interventi psicologici validati empiricamente: controversie ed evidenze empiriche. Psicoterapia e scienze umane, 2001, XXXV, 3: 5-46 - una sintesi di questo lavoro è su Internet]. Si voleva cioè far conoscere al lettore italiano questa problematica nel modo più completo possibile, per poi facilitare un dibattito approfondito (la stessa operazione fu fatta una ventina di anni fa per un altro importante fenomeno che allora irrompeva nel mondo della psichiatria, il DSM-III, che fu presentato in anteprima nel n. 4/1983 e poi discusso criticamente nei numeri successivi della rivista). Va ricordato che l'esigenza di compilare e diffondere elenchi di tecniche psicoterapeutiche supportate empiricamente è nata in realtà da esigenze comprensibili e ammirevoli, soprattutto dalla realistica preoccupazione che, anche a causa della managed care, per la terapia di disturbi come la depressione e l'ansia venissero utilizzate linee guida che prediligevano solo trattamenti farmacologici, mentre esistevano prove documentate in favore delle psicoterapie. Fu così che nel 1995 l'APA pubblicò due controversi rapporti di una Task Force che separavano gli EST dalle terapie a lungo termine e meno strutturate, praticate in genere dai clinici nella pratica reale, e da allora vari autori raccomandarono che i clinici dovessero ricevere un training primariamente in questi trattamenti di breve durata e supportati empiricamente, dato che le altre forme di terapia erano "meno essenziali e superate". Sempre in questo contesto, Seligman, analizzando il famoso "Progetto del Consumer Report sulla psicoterapia" del 1995 [tradotto in italiano in Integrazione nelle psicoterapie e nel counseling, 1997, I, 1/2 - vedi segnalazione su Psicoterapia e Scienze Umane, n. 2/1998, pp. 171-172], portò alla attenzione della comunità psicoterapeutica la distinzione tra "efficacia" ed "efficienza". Come è noto, gli studi sulla efficacia (efficacy) misurano il risultato di una terapia sotto condizioni strettamente controllate, come in laboratorio, usando gruppi di controllo, distribuzione randomizzata dei pazienti nei gruppi, accurato training dei terapeuti secondo un manuale psicoterapeutico, durata standardizzata della terapia, ecc. Gli studi sulla efficienza (effectiveness) invece misurano il risultato di una terapia sotto le condizioni meno controllate della pratica clinica reale di tutti i giorni, non nel laboratorio. Mentre gli studi sulla efficacia enfatizzano la validità "interna", gli studi sulla efficienza enfatizzano la validità "esterna" o ecologica, cioè la generalizzabilità dei risultati alla popolazione generale, nella pratica clinica reale. Uno dei più grossi problemi incontrati dai ricercatori in psicoterapia infatti è quello di mantenere alta non solo la efficacia ma anche la efficienza, poiché una terapia che risulta efficace solo in laboratorio ma non nella pratica clinica reale è inutile, dato che lo scopo della ricerca empirica non è certo quello di pubblicare articoli su riviste scientifiche ma di contribuire, tramite questi, alla disseminazione di tecniche efficaci nella pratica clinica quotidiana, con beneficio di tutti i potenziali pazienti e non solo di quelli inclusi negli studi sperimentali. Vediamo ora in che cosa consiste la metodologia degli EST. Gli EST condividono le seguenti caratteristiche: 1) i pazienti vengono scelti per l'inclusione nello studio allo scopo di massimizzare la omogeneità e minimizzare la presenza di condizioni concomitanti che potrebbero aumentare la variabilità della risposta terapeutica; 2) le tecniche terapeutiche vengono designate tipicamente per disturbi in Asse I (cioè per sindromi cliniche e non per disturbi di personalità - per chi non avesse familiarità con il DSM-III e il DSM-IV, nell'Asse I sono elencate le sindromi cliniche, ad esempio la depressione, l'ansia ecc., mentre nell'Asse II vi sono i disturbi di personalità); 3) le valutazioni del risultato mettono a fuoco soprattutto il sintomo che è al centro di interesse della rispettiva ricerca; 4) le terapie sono di durata breve e prefissata; 5) vengono seguiti fedelmente manuali di psicoterapia. In genere si dice che queste caratteristiche rendono lo studio "pulito", che questa è "buona scienza", e che l'esperimento è neutrale rispetto alla teoria di ogni singolo approccio terapeutico. Ma in realtà, sostiene Westen, gli assunti su cui poggia la ricerca sugli EST non sono teoricamente neutri e, paradossalmente, alcuni di essi non solo non sono supportati empiricamente, ma anche sono stati dimostrati falsi proprio sulla base della stessa ricerca empirica. Vediamo quindi come Westen argomenta questa sua tesi, discutendo uno per uno quelli che lui ritiene essere gli assunti di base impliciti nella metodologia degli EST. Questi assunti sono i seguenti: 1) I processi psicologici sono altamente malleabili (mentre è dimostrato che non lo sono, nel senso che occorre molto tempo per modificarli) Se i disturbi psicologici non fossero modificabili facilmente essi non sarebbero candidati per una terapia breve. I dati raccolti dalla meta-analisi condotta da Westen sugli EST per i disturbi depressivi e l'ansia generalizzata suggeriscono che gran parte delle vulnerabilità psicologiche è resistente al cambiamento. Inoltre, mentre fino a tempi relativamente recenti vi erano ancora dati equivoci sulla differenza tra terapie lunghe e brevi, ora è dimostrato che più lungo è il trattamento (due anni o più), più esso è efficace, cioè più i risultati si consolidano. 2) La maggior parte dei pazienti hanno un solo sintomo o possono essere trattati come se lo avessero (mentre presentano sintomi plurimi e comorbilità) Il fatto che i pazienti possano avere un solo sintomo è un assunto fondamentale della metodologia degli EST. Non solo non è vero che la maggior parte dei pazienti hanno solo un sintomo, ma è vero il contrario, cioè che la maggior parte dei pazienti che vediamo presentano comorbilità. La comorbilità Asse I-Asse II (cioè la compresenza di sindromi cliniche e disturbi di personalità) varia dal 50% al 90% a seconda gli studi, per la maggior parte dei disturbi. Questo fatto è inquietante anche alla luce del fatto che la metodologia degli EST implicitamente adotta un modello della comorbilità che quasi tutti i ricercatori in psicoterapia e psicopatologia di fatto rinnegherebbero, e precisamente che la maggior parte dei pazienti presentano disturbi multipli a caso, non correlati l'uno con l'altro. Può ben essere che, come molti difensori della metodologia degli EST sostengono, il miglior modo di trattare la comorbilità sia quello di affrontare un disturbo per volta usando manuali in sequenza, uno dopo l'altro fino a che vengono "estirpati" tutti i sintomi (ad esempio uno per la depressione, uno per l'ansia, uno per il disturbo da stress post-traumatico [PTSD], e così via). Ma questa può non essere la strategia migliore nelle seguenti condizioni: a) nel caso che disturbi in Asse I apparentemente diversi siano il riflesso di una sottostante causa comune, come ad esempio nel caso di depressione o ansia entrambe originate da vulnerabilità al rifiuto interpersonale o dalla tendenza a provare umore negativo; b) nel caso che disturbi in Asse I sorgano da tratti di personalità in Asse II che creano vulnerabilità alle ricadute; c) nel caso che la compresenza di sintomi multipli possa generare proprietà emergenti non riducibili alla somma delle caratteristiche dei singoli sintomi. I dati raccolti da Westen suggeriscono che queste condizioni sono molto frequenti. Un altro fattore problematico è il fatto che condizioni subcliniche sono altrettanto frequenti delle condizioni cliniche in Asse I per le quali sono stati formulati i manuali, e non è ancora chiaro in che misura condizioni cliniche e subcliniche rispondono agli stessi interventi. La presenza di condizioni subcliniche rende indispensabile che il ricercatore osservi non solo le diagnosi categoriali in Asse I (ad esempio una depressione) ma anche la varietà di condizioni subcliniche che permangono dopo il trattamento. Queste condizioni subcliniche non solo sono variabili importanti per il risultato, ma la loro conoscenza permette di capire meglio se il trattamento ha inciso sulla diatesi (cioè la predisposizione) che rende il paziente vulnerabile alle ricadute. Per esempio, se si studia l'efficacia della terapia della anoressia nervosa bisognerebbe anche osservare il comportamento della paziente in generale, dato che, ad esempio, pazienti "guarite" dall'anoressia possono continuare a mostrare peculiarità nello stile alimentare (spezzettare il cibo in piccoli pezzi, mangiare solo certi alimenti, ecc.), nella dieta (monitorare eccessivamente le calorie della dieta), nell'immagine corporea, e così via. In conclusione, occorrerebbe conoscere meglio i reali problemi che hanno i pazienti e che li motivano a chiedere aiuto, e questa relativa assenza di informazioni è un problema per la ricerca in psicoterapia. Di fatto, la tendenza a focalizzare la ricerca solo su disturbi definiti dal DSM-IV ha virtualmente eliminato tutta quella ricerca in psicoterapia su problemi minori come l'ansia di parlare in pubblico o l'assertività che una volta dominavano praticamente tutta la ricerca in psicoterapia. 3) I sintomi psicologici possono essere trattati a prescindere dalla personalità di chi li presenta (mentre è dimostrato che la personalità gioca un ruolo rilevante) Anche questo assunto, come il precedente, è essenziale per la metodologia degli EST, soprattutto a causa della manualizzazione (che, tranne eccezioni, non permette un trattamento dei problemi della personalità) e della brevità del trattamento (che è indispensabile per esigenze di ricerca) [per un approfondimento sui manuali di psicoterapia, vedi la mia rubrica del n. 51/1989 del Ruolo Terapeutico]. Ma, come ben sappiamo, non esiste alcuna teoria della personalità che suggerisca che importanti tratti della personalità possano essere modificati in una terapia che dura poche sedute (ad esempio da 6 a 20) di 45 minuti l'una. Si prenda ad esempio l'unica terapia per i disturbi di personalità che rientra negli EST, la Dialectical Behavior Therapy (DBT) della Linehan per i borderline: questa tecnica dura un anno, ma in questo anno si riesce soprattutto a ridurre i sintomi parasuicidari (ad esempio le automutilazioni), mentre la depressione, l'angoscia e i sentimenti di vuoto non diminuiscono in un anno, e non vi sono dati che dimostrino l'efficacia a lungo termine della DBT (per ammissione della stessa Linehan, la DBT dovrebbe durare almeno un altro anno - per un approfondimento sulla DBT della Linehan, vedi il mio articolo sul n. 3/2004 di Psicoterapia e Scienze Umane). Se l'assunto quindi è che un disturbo in Asse I può essere trattato indipendentemente dalla personalità sottostante, abbiamo dati che dimostrano il contrario: i disturbi d'ansia e dell'umore sono correlati a variabili che da sempre vengono considerate variabili di personalità (come ad esempio l'umore negativo), e diverse diatesi di personalità (come vulnerabilità alla perdita e all'insuccesso) predispongono alla depressione. Non solo, ma vi sono indicazioni secondo cui la presenza di comorbilità in Asse I è un indicatore della presenza di patologia in Asse II, nel senso che più vi sono disturbi multipli in Asse I più aumenta la probabilità che siano presenti disturbi in Asse II. Inoltre, il significato dei sintomi in Asse I varia considerevolmente a seconda del tipo di disturbo di personalità sottostante. Ad esempio, la depressione in un borderline è diversa non solo quantitativamente, ma anche qualitativamente dalla depressione in un paziente non borderline. Riguardo al trattamento, come è noto i pazienti trattati per un disturbo in Asse I migliorano meno se hanno un disturbo in Asse II, soprattutto borderline. Questo problema spesso è stato concettualizzato in termini di comorbilità in Asse II che funge da variabile moderatrice, ma il concetto di comorbilità qui può essere fuorviante perché implica che le variabili di personalità siano una aggiunta ai sintomi di Asse I che sono essenzialmente distinti da esse. Sarebbe come studiare l'effetto della aspirina come terapia della febbre e considerare "comorbide" la meningite, l'influenza o l'appendicite, che verrebbero concepite come variabili che moderano il rapporto tra la terapia (l'aspirina) e il risultato (l'abbassamento della febbre). Più corretto invece è considerare la depressione e l'ansia come segnali che qualcosa non va, a causa ad esempio di life events (come una perdita), o variabili temperamentali o di personalità di lunga durata (come l'attivazione di vulnerabilità caratterologiche). 4) I pazienti sono capaci e disponibili a riferire all'inizio della terapia quale è il loro problema (mentre spesso il problema responsabile del disturbo viene compreso a trattamento avanzato) Questo aspetto è essenziale per la metodologia degli EST, che prevede che i pazienti si presentino con un insieme di sintomi identificabili (che tipicamente soddisfano i criteri di una diagnosi in Asse I). In realtà i pazienti spesso presentano quadri sfumati, che richiedono una formulazione diagnostica più approfondita che non semplicemente contare un numero minimo di criteri diagnostici. In un tipico studio di EST, il paziente viene valutato due volte, una prima volta brevemente al telefono quando vi è il primo contatto dove si valuta la sua appropriatezza per lo studio in questione, e una seconda volta in modo più esteso per la valutazione pre-trattamento. Poi il paziente va nello studio del terapeuta assegnatogli che inizia a trattarlo convinto che la diagnosi sia corretta e primaria. Nella realtà clinica invece le cose vanno in modo abbastanza diverso. Se il paziente ha più di un sintomo, e se i sintomi sono collegati a un problema di personalità, il clinico deve cominciare con una valutazione approfondita non solo dei sintomi e della loro storia, ma del paziente e della sua storia. Il sintomo o i sintomi che il paziente identifica inizialmente possono non diventare affatto il focus del trattamento nel tempo. Tanto per fare un esempio, molti giovani omosessuali che non hanno ancora accettato o riconosciuto la loro omosessualità soffrono di depressione, ansia o idee suicidarie, e questi sintomi possono sembrare i sintomi bersaglio. In questi casi, possono passare settimane o mesi prima che il paziente sia capace di riconoscere o accettare la fonte stressante sottostante (la non accettazione della propria omosessualità e i relativi conflitti con le pressioni ambientali). Tutti abbiamo visto giovani omosessuali trattati da medici generici o psichiatri che cercavano di curare la loro depressione con dei farmaci, come pure abbiamo visto tanti pazienti che si lamentavano di depressione o ansia per poi scoprire, solo in seguito, che essi non avevano mai elaborato la perdita di un importante rapporto affettivo. Non sappiamo in che misura situazioni come queste sono responsabili di gran parte della sintomatologia manifesta incontrata nella pratica clinica quotidiana, ma la metodologia degli EST non prevede la loro esistenza o le ritiene irrilevanti per due motivi: 1) limitare il numero di sedute (ad esempio a un numero che va da 6 a 16) e prescrivere quel numero in anticipo è utile per standardizzare la terapia e poter quindi fare ricerca, ma rende molto difficile una esplorazione approfondita e una flessibilità nell'approccio terapeutico e quindi anche una sua maggiore efficacia; 2) la manualizzazione presuppone che la stessa tecnica (ad esempio identificare e combattere le credenze patogene) funzionerà indipendentemente dalla specificità del caso. Sebbene questo possa funzionare per certi sintomi e terapie (soprattutto in trattamenti basati sulla esposizione comportamentale per sintomi d'ansia), è difficile immaginare che le stesse tecniche utili per aiutare una persona con sentimenti cronici di inadeguatezza sarà sempre ottimale per un paziente che lotta con una omosessualità non accettata, che è stato abbandonato dalla moglie, che soffre per le sequele di un abuso sessuale, che lotta contro i significati dell'invecchiamento nel contesto di una personalità narcisistica e così via, anche se tutti condividono la diagnosi di "Depressione maggiore". Un corollario dell'assunto che i pazienti possano effettivamente conoscere e riferire cosa li faccia soffrire è che i sintomi devono essere compresi letteralmente, cioè che il focus della terapia deve essere sulla sintomatologia manifesta. Secondo questa concezione, un disturbo alimentare è un problema col cibo e non con il controllo egli impulsi o con la regolazione affettiva, un disturbo depressivo è un problema con l'umore e con una cognitività depressiva e non un problema con un lutto non risolto o con il mantenimento di una relazione significativa, e così via. Questo assunto, come si può ben vedere, non è teoricamente neutrale ma deriva dalla teoria della terapia comportamentale. 5) Gli elementi di una terapia efficace sono separabili gli uni dagli altri e possono essere sommati (mentre è dimostrato che una psicoterapia non può essere "smantellata", nel senso che il suo significato è diverso dalla semplice somma delle sue parti) L'assunto secondo cui gli ingredienti di una terapia possano essere separati gli uni dagli altri permette ad esempio che i ricercatori paragonino un approccio strettamente comportamentale per curare il panico ad un approccio combinato cognitivo-comportamentale. Questo assunto può anche andare bene per certi disturbi ma non per altri. Meno la terapia è strutturata (come ad esempio una terapia dinamica a lungo termine), e meno utile può essere la strategia dello smantellamento perché il corso della terapia non può essere prescritto così facilmente. Il problema è che più un manuale diventa una guida generale e non un insieme di prescrizioni "passo dopo passo" che insegna "cosa fare" in ogni momento quasi in modo algoritmico, meno i ricercatori possono trarre inferenze utili dai dati. Le cose si complicano ulteriormente se in una terapia riuscita sono implicate le variabili relazionali tra paziente e terapeuta, cosa peraltro dimostrata da tutte le ricerche sul processo di cui si è a conoscenza. Per esempio, i ricercatori non possono misurare facilmente quanto i pazienti si sentono capiti, contenuti, criticati ecc., perché queste variabili interazionali dipendono dalle interpretazioni del comportamento del terapeuta da parte del paziente. 6) Gli elementi efficaci di una terapia possono essere manualizzati e gli interventi specificati nel manuale sono causalmente correlati al risultato (mentre alcuni studi, utilizzando il Psychotherapy Process Q-set [PQS], hanno dimostrato non solo che vengono usati interventi appartenenti a manuali diversi, ma anche che spesso non vi è correlazione tra il risultato e gli interventi prescritti dal manuale) La manualizzazione è indispensabile nella metodologia degli EST, perché permette la standardizzazione del trattamento e il controllo delle variabili potenzialmente confondenti. Ma sappiamo che la manualizzazione può rendere gli interventi del terapeuta rigidi e difficili da correggere. Alcune ricerche recenti, per esempio, utilizzando il PQS hanno misurato alcune variabili del processo dalle trascrizioni di terapie brevi sia psicodinamiche che cognitive. Uno dei meriti del PQS è quello di misurare quanto una terapia aderisce in realtà all'approccio psicodinamico, cognitivo-comportamentale o altro, correlando il processo terapeutico osservato con quello di sedute prototipiche, ideali, come descritte da esperti di ciascun approccio. Alcuni autori, ad esempio, hanno trovato non solo che terapeuti di entrambi gli approcci usano tecniche dell'altro approccio, ma che in entrambi i tipi di terapia il risultato positivo era associato all'uso di tecniche proprie del prototipo empirico della psicoterapia psicodinamica. In questo studio cioè l'uso da parte di terapeuti cognitivi di tecniche cognitive non era correlato col risultato. Le conclusioni di Westen: gli assunti di base degli EST non sono teoricamente neutrali e non sono stati testati o sono stati testati ma dimostrati falsi Dopo aver preso in rassegna la discussione critica di questi assunti impliciti della metodologia degli EST, colpiscono due fatti, dice Westen: 1) essi non sono teoricamente neutrali, ma rispecchiano gli assunti fondamentali della terapia cognitivo-comportamentale, per lo meno della terapia cognitivo-comportamentale degli anni 1960-70 quando questi assunti cominciarono a definire cosa poteva essere considerato un valido studio sul risultato e quindi a influenzare le decisioni per la pubblicazione e il finanziamento delle ricerche (e questi assunti oggi non sono più accettati, anche in modo esplicito, da molti esponenti stessi del movimento di terapia cognitivo-comportamentale); 2) gran parte di questi assunti sono empiricamente testabili, ma molti di essi non sono stati mai testati o sono stati testati e in un modo o nell'altro sono stati dimostrati falsi. Dopo aver discusso gli assunti di base impliciti nella metodologia degli EST, vediamo ora i risultati empirici di questi studi, e prendiamo come esempio paradigmatico uno studio sulla psicoterapia della depressione ben progettato, condotto con la metodologia degli EST. Riesame di un tipico studio su un EST per la depressione I ricercatori di questo studio condotto con la metodologia degli EST [Thase et al., Relapse after cognitive behavior therapy of depression: Potential implications for longer courses of treatment. American Journal of Psychiatry, 1992, 149: 1046-1052] hanno valutato 130 pazienti depressi, dei quali 54 sono stati scartati e 76 sono stati considerati adatti allo studio e inclusi nella ricerca. Il tasso di inclusione in questo caso quindi è stato del 58%, che, come sanno bene i ricercatori, è abbastanza alto perché è circa il doppio di quello tipico di questo ricerche controllate. Tra i pazienti inclusi, 64 (81%) hanno completato lo studio. Di questi 64, alla fine della terapia 23 sono stati considerati "totalmente guariti" e 27 "parzialmente guariti", raggiungendo un tasso di guarigione completa di circa il 36% e un tasso di guarigione parziale leggermente maggiore, del 42% (mentre gli insuccessi erano il 22%). Leggendo i dati in un altro modo, si può dire che circa il 18% dei pazienti depressi inizialmente valutati (che erano 130) hanno completato la terapia e sono guariti completamente, e che il 21% hanno completato la terapia e sono guariti parzialmente (i pazienti guariti, totalmente [23] o parzialmente [27], sono stati 50, il 38,5% dei 130 iniziali, e gli insuccessi il 61,5%). A un anno di follw-up, 16 dei 50 pazienti totalmente o parzialmente guariti hanno avuto una ricaduta di depressione maggiore, riducendo quindi a 34 i pazienti guariti almeno parzialmente dopo un anno. Questi sono il 26% del campione iniziale dei 130 esaminati, e il 45% di quelli che sono stati inclusi nello studio (dopo averne escluso cioè circa la metà a causa di condizioni concomitanti sfavorevoli che li rendevano candidati non adatti). Se poi si allarga la definizione di ricaduta, e la si intende non solo come una ricaduta di depressione maggiore, ma anche come un disturbo dell'umore diagnosticabile che comunque necessita di ulteriore trattamento, il numero dei pazienti che rimanevano guariti totalmente o parzialmente cade a 29, cioè il 38% di quelli che iniziarono la terapia e il 22% di quelli inizialmente valutati (ma andrebbe qui visto attentamente anche come reagirono al placebo i pazienti del gruppo di controllo dopo un anno, cosa accadde ai pazienti dopo due anni, cosa accadde ai pazienti non trattati neanche col placebo cioè esclusi dallo studio, come era il funzionamento sociale e lavorativo di questi pazienti dopo la terapia, e così via). Potremmo chiederci come reagirebbe un consumatore della psicoterapia se sapesse che ha solo il 22% di probabilità di migliorare dalla depressione dopo un anno dalla fine della terapia. Eppure questo reperto non è raro, e questo è un esempio di uno studio tra i meglio progettati. E' un prototipo di tutti gli studi di questo tipo, ma differisce solo in un aspetto dagli altri studi: il tasso di successo qui trovato è circa il doppio di quello trovato in un normale studio ben progettato per l'efficacia della terapia manualizzata a breve termine per la depressione. Conclusioni Come accennavo all'inizio, è consigliabile molta prudenza nell'usare il termine di psicoterapie "validate" o "supportate empiricamente", in quanto questo termine si riferisce solo a un determinato tipo di terapie studiate in laboratorio, per disturbi spesso monosintomatici o senza la comorbilità tipica di gran parte dei pazienti che si incontrano nella pratica reale, quindi la loro generalizzabilità è dubbia [vedi anche il libro di Roth & Fonagy del 1996 Psicoterapie a prova di efficacia (Roma: Il Pensiero Scientifico, 1997) e il mio editoriale del n. 4/1999 della Rivista Sperimentale di Freniatria, intitolato "Psicoterapia e servizi di salute mentale"]. Ironicamente, si può dire che i pazienti che vediamo nella nostra pratica clinica quotidiana assomigliano molto di più ai pazienti che vengono esclusi dagli studi sugli EST che a quelli che vengono inclusi. La metodologia degli EST (sperimentazioni randomizzate e controllate, utilizzo di campioni omogenei, standardizzazione della tecnica tramite manuali, e verifica delle ipotesi causali tramite strategie di "smantellamento") ha costituito il gold standard della ricerca in psicoterapia per un paio di decenni, ma questa metodologia riflette un misto di buona scienza (applicazione sofisticata del disegno sperimentale) e di una serie di assunti empiricamente non corretti per molti disturbi e tipi di terapie. Non è un caso che molti di questi studi ci hanno ripetutamente messo di fronte al "verdetto di Dodo" (da Alice nel paese delle meraviglie) di cui ci ha parlato Luborsky - "Tutti hanno vinto e ognuno deve ricevere un premio" - cioè al paradosso della equivalenza tra tutte le psicoterapie [per un approfondimento, rimando alla mia rubrica del n. 66/1994 del Ruolo Terapeutico, e a una mia review sulla ricerca in psicoterapia, che è anche su Internet al sito http://www.psychomedia.it/spr-it/artdoc/migone96.htm]. La meta-analisi di Westen sugli studi sperimentali sulla psicoterapia della depressione, del panico e dell'ansia generalizzata ha mostrato che se è vero che vi è una iniziale risposta positiva, i pazienti rimangono subclinicamente sintomatici e hanno ricadute entro due anni di follw-up, per cui richiedono ulteriore trattamento. Vi è ragione di ritenere quindi che questi pazienti abbiano bisogno di terapie più prolungate di quelle accettabili dalla metodologia degli EST, e del resto chi ha esperienza clinica sa che tratti di personalità e stati affettivi generalizzati (come la depressione e l'ansia) non possono essere modificati nel giro di poche ore. Una ricerca del gruppo di Maj, pubblicata nel 1992 sull'American Journal of Psychiatry, ha rilevato che il tasso di ricadute oltre i 5 anni nei pazienti con depressione maggiore è ben superiore del 50%, e colpisce a questo riguardo come siano pochi gli studi di follw-up che vadano oltre i 5 anni, in modo da poter capire le reale efficacia di un trattamento. In certe aree della medicina la risposta terapeutica a breve termine viene chiamata "risposta iniziale", e occorrono ulteriori ricerche per stabilire la effettiva guarigione, mentre nella ricerca in psicoterapia una buona risposta iniziale è stata spesso confusa con una genuina efficacia. Nessun ricercatore sul cancro ad esempio oserebbe dire che una terapia è efficace senza un follow-up di almeno 5-10 anni. Questa analogia tra la ricerca sul cancro e sulla psicoterapia qui non viene fatta in modo casuale, perché alcuni sostenitori degli EST hanno affermato che nessuno avrebbe dubbi se scegliere tra un oncologo che segue la letteratura sulla Evidence-Based Medicine e un altro che invece si basa solo sulla propria esperienza clinica. Ma, se si guarda bene a questa analogia, è anche vero che una terapia contro il cancro che non garantisce risultati oltre i due anni viene subito scartata, cosa che non avviene in psicoterapia. Quale può essere dunque una possibile soluzione ai problemi qui discussi, in che modo può essere migliorato il campo della ricerca in psicoterapia? Una possibilità, suggerisce Westen, è di implementare anche studi di tipo diverso da quelli tipici degli EST. Una volta Cronbach, in un articolo del 1957 su American Psychologist, disse che vi sono due discipline di psicologia scientifica, una di ricerca "sperimentale" e una di ricerca "correlazionale". La prima metodologia, sperimentale, che si può definire "dal basso all'alto" (bottom-up), è quella propria degli EST e di gran parte della ricerca in psicoterapia degli ultimi due decenni. La seconda metodologia prevede invece un approccio alternativo, "dall'alto al basso" (top-down), secondo il quale si osservano le strategie terapeutiche usate da clinici esperti nella loro pratica clinica quotidiana, e tramite strumenti sofisticati e ben validati le si correlano con specifiche variabili del risultato. Si possono poi esaminare variabili potenzialmente moderatrici come la comorbilità o i tratti di personalità, e solo in un secondo momento studiare sperimentalmente, uno per uno, con la metodologia tradizionale, quegli interventi che sembrano correlati con un risultato positivo. Questa metodologia implicherebbe quindi l'utilizzo della pratica clinica reale come laboratorio iniziale da cui partire, e poi in un secondo momento il ricorso a ricerche più sofisticate per affinare le indagini e verificare singole ipotesi [sul rapporto tra clinica e ricerca, vedi anche la mia rubrica del n. 88/2001 del Ruolo Terapeutico, dal titolo "La dicotomia tra clinica e ricerca in psicoterapia: due scienze separate?"]. La proposta di Westen quindi è di percorrere entrambe le strade della ricerca in psicoterapia, in modo sinergico e dialettico, perché entrambe possono essere portatrici di dati utili: a volte la ricerca dovrebbe guidare la pratica clinica, e altre volte la pratica clinica dovrebbe guidare la ricerca, avendo entrambe limiti e pregi.
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