PSYCHOMEDIA
Telematic Review

Dalle Rubriche di Paolo Migone
"Problemi di Psicoterapia
Alla ricerca del 'vero meccanismo d'azione' della psicoterapia"
pubblicate sulla rivista

 

Il Ruolo Terapeutico, 2001, 88: 57-64

La dicotomia tra clinica e ricerca in psicoterapia: due scienze separate?
 

Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane

 

La questione della dicotomia tra le cosiddette "due scienze" in psicoterapia, quella della clinica e quella della ricerca, è sempre stata aperta ed oggetto di infiniti dibattiti. Che utilità pratica hanno i risultati delle ricerche empiriche e statistico-quantitative per il lavoro quotidiano del clinico, e viceversa, che valore scientifico e di generalizzazione hanno le osservazioni cliniche fatte sul caso singolo? Vi è un divario impossibile da colmare, oppure questi due saperi, costruiti con metodologie a volte molto diverse, possono in un qualche modo interfacciarsi, se non addirittura contribuire a costruire una scienza unitaria? Voglio qui esporre alcune mie riflessioni su questo argomento, o almeno suggerire come potrebbe essere impostato il problema, ovviamente senza la pretesa di risolverlo. Queste mie riflessioni in parte sono tratte da un editoriale, intitolato "Quale modello di scienza per la ricerca in psicoterapia?", che scrissi alcuni anni fa per la rivista Psichiatria e Psicoterapia Analitica (1998, XVII, 2: 113-119), pubblicata dall'editore Giovanni Fioriti di Roma. Incomincio col raccontare un aneddoto che al riguardo mi è venuto in mente.

Il 5-6 aprile 1991 fu tenuta a Londra la First IPA Conference on Psychoanalytic Research, il primo convegno ufficiale dell'International Psychoanalytic Association (IPA) dedicato alla ricerca empirica in psicoanalisi. Questo convegno, che da allora si è ripetuto ogni anno, era un modo con cui l'IPA cercava di rispondere alla crescente esigenza di ricerca presente nella disciplina (risposta che è avvenuta con ritardo e più che altro costretta dalla crescente crisi della immagine sociale della psicoanalisi e dai dubbi sui suoi risultati terapeutici). Ebbene, ricordo che in quella occasione una nota analista (Pearl King), membro della vecchia guardia dell'establishment psicoanalitico londinese, dall'uditorio intervenne per dire che lei non riusciva a capire come mai vi fosse improvvisamente bisogno di parlare di ricerca in psicoanalisi. La sua obiezione era che l'analista fa sempre ricerca durante il suo lavoro clinico; come più volte disse Freud, lo stesso atteggiamento analitico è quello della ricerca, la quale è ipso facto collegata alla terapia (il famoso junktim freudiano, il "legame molto stretto fra terapia e ricerca" [Freud, 1927, p. 422]).

Ho voluto iniziare con questo aneddoto per accennare subito a un noto equivoco riguardo al significato di ricerca in psicoterapia, equivoco che, come vedremo, è direttamente collegato ad un altro annoso problema, quello del dibattito sul modello di scienza utilizzato in questo campo.

Per ricerca in psicoterapia non si intende "ricerca clinica". In genere la "ricerca clinica" si riferisce a un tipo di osservazioni soggettive e di ipotesi fatte dal terapeuta all'interno della situazione clinica. Il terapeuta può condividere queste sue "ricerche" con colleghi o in gruppi di studio, può anche fare previsioni e attendere quelle che lui ritiene possibili conferme. Può scrivere articoli su queste osservazioni, e alcune delle sue ipotesi, sia dedotte da studi su un caso singolo che da più casi, potranno poi essere sottoposte a verifica sperimentale in studi condotti con altre metodologie, diverse da quelle della ricerca clinica. Queste altre metodologie appartengono appunto a quella che viene ormai comunemente chiamata "ricerca in psicoterapia". Alcune delle sue caratteristiche sono le seguenti.

Innanzitutto, per utilizzare un termine che negli ambienti psicoanalitici è divenuto di uso corrente soprattutto dopo la critica filosofica di Grünbaum alla psicoanalisi (esposta nel suo libro del 1984 I fondamenti della psicoanalisi [Milano: Il saggiatore, 1988] - vedi, per brevità, la mia rubrica sul n. 50/1989 del Ruolo Terapeutico), queste metodologie di ricerca non sono solo "cliniche", ma anche "extra-cliniche". Ciò significa che esse poggiano su un armamentario tecnico e una serie di osservazioni che non si limitano alla situazione clinica. Ad esempio, si basano sull'uso di osservatori (o giudici) indipendenti, esterni e a volte "ciechi" rispetto alla terapia studiata, i quali possono compilare scale di misurazione standardizzate basandosi sulla osservazione del videoregistrato di una seduta scelta a caso. Queste rating scales, che necessariamente sono standardizzate altrimenti non avrebbe senso usarle per questo tipo di ricerca, possono riguardare vari aspetti: la diagnosi (che non è altro che un modo di fare osservazioni utilizzando un determinato sistema che va specificato, per cui esistono diversi tipi di metodi diagnostici), la dimensione del cambiamento rispetto a uno stato precedente, il grado di adeguamento del comportamento del terapeuta ad un determinato manuale di psicoterapia che eventualmente si era impegnato a seguire (questo gradiente di "aderenza" al manuale può essere proficuamente correlato ad altri aspetti del processo della terapia, oppure al risultato - per un approfondimento sui manuali, rimando alla mia rubrica del n. 51/1989 del Ruolo Terapeutico), e così via. Non solo, ma questi ricercatori esterni possono anche fare studi epidemiologici su casi o situazioni diverse da quelle studiate, ma in qualche modo paragonabili ad esse, per cercare conferme indirette di determinate ipotesi (tipico a questo riguardo è l'esempio del rapporto tra paranoia e omosessualità postulato da Freud a partire dalle sue ricerche cliniche, rapporto che secondo Grünbaum può essere indagato anche con ricerche epidemiologiche, cioè extra-cliniche). Infine, e quest'ultimo è uno degli aspetti più significativi, i dati raccolti con questo tipo di ricerca in psicoterapia devono essere sempre sottoposti ad una rigorosa indagine di significatività statistica.

Come si vede da questi esempi, la ricerca che abbiamo chiamato "extra-clinica" è dunque ben diversa da quella clinica, e non solo per il fatto di implicare osservazioni fatte anche all'esterno della situazione clinica, ma anche per il fatto di usare tecnologie che il clinico in genere non usa, e per il fatto di compiere valutazioni quantitative, in genere su campioni di molti soggetti o su un alto numero di osservazioni. Queste valutazioni appaiono a prima vista di natura diversa, poco intuitiva o "soggettiva" ma, come si suol dire, "oggettiva" (termine che a rigore è improprio, perché non si riferisce ad una supposta "verità" o a una maggiore aderenza alla realtà, quanto solamente al grado di maggiore concordanza tra più osservatori - come più volte disse lo stesso Freud, la realtà come tale è e sarà sempre inconoscibile, noi vediamo solo quello che ci è consentito dai nostri più o meno limitati strumenti di osservazione).

Chiarito dunque come sono diversi questi due tipi di ricerca, ci illuderemmo grandemente se pensassimo di aver risolto tutti i problemi. Anzi, si può dire che i veri problemi incomincino proprio adesso. Infatti potremmo chiederci: come si rapportano tra loro questi due tipi di ricerca? Sono due livelli di investigazione scientifica che si collocano su piani diversi, inconciliabili tra loro, oppure sono inseriti all'interno di un unico sistema gerarchico? E inoltre: come mai vi è l'esigenza di fare ricerca cosiddetta extra-clinica o empirico-quantitativa? Non potrebbe bastare la tradizionale ricerca clinica per guidare il terapeuta nelle sue scelte, soprattutto in un campo così complesso e poco "obiettivabile" come quello della psicoterapia?

Dietro a queste domande si nascondono annosi problemi dibattuti ampiamente in questo secolo e sui quali non vi è ancora un consenso unanime. Non ho certo la pretesa qui di risolvere questi problemi sui quali schiere di filosofi ed epistemologi in parte ancora si confrontano. Mi limito ad alcune brevi riflessioni.

Si può dire che gli annosi problemi che stanno dietro alla dicotomia tra i due tipi di ricerca prima accennati sono, in misura più o meno diversa, riflessi anche in altre ben note dicotomie. Innanzitutto vi è la dicotomia, attribuita a Dilthey, delle "due scienze", le scienze naturali (Naturwissenschaften) e le scienze dello spirito (Geisteswissenschaften), queste ultime dette anche umane o storiche (Rickert le ha chiamate Kulturwissenschaften, e Windelband Geschichte). Parallela a questa dicotomia vi è quella tra "spiegare" (Erklären) e "comprendere" (Verstehen), e anche tra "cause" e "ragioni" di un comportamento. Questa problematica è stata ripresa dall'ermeneutica, che si è affacciata nel dibattito psicoanalitico negli anni '70 negli Stati Uniti (gli psicoanalisti ermeneuti più noti a questo riguardo sono Schafer, 1976; Spence, 1982; ecc.), sulla scia di alcuni filosofi europei (Ricoeur, 1965; Habermas, 1968). Un'altra dicotomia che per certi versi ricalca le precedenti è quella tra ricerca "quantitativa" e ricerca "qualitativa", e un'altra ancora, forse ancor più nota, è quella tra scienze "nomotetiche" e scienze "idiografiche", proposta da Windelband. Le scienze nomotetiche mirerebbero a costruire leggi astratte generalizzabili (nomos significa "legge"), e quindi a rendere possibile prevedere il manifestarsi di certi fenomeni (tipicamente, nomotetiche sarebbero le scienze naturali), mentre le scienze idiografiche studierebbero quei fenomeni unici (idios significa "particolare"), irripetibili (un tipico esempio è lo studio della personalità, o, appunto, della psicoterapia), per i quali i metodi delle scienze nomotetiche non troverebbero facile applicazione.

Ma la complessa questione che sta dietro a queste dicotomie riguarda la stessa concezione di scienza, ed è precisamente la seguente: la scienza deve caratterizzarsi per il suo metodo, oppure per il suo campo di applicazione?

Nel primo caso, esisterebbe un metodo (detto appunto scientifico) col quale cerchiamo di avvicinarci ai vari oggetti di studio. Dato che il metodo rimane sempre lo stesso, esso potrebbe adattarsi meglio a certi campi piuttosto che ad altri. Come sostengono alcuni critici di questa concezione di scienza, il metodo scientifico classico (caratterizzato da sperimentazione, predizione, replicabilità, ecc.) si presterebbe meglio allo studio dei fenomeni "naturali" (ad esempio fisici) che allo studio della soggettività. Qui le troppe e complesse variabili in gioco rendono difficile utilizzare il rigoroso metodo scientifico; inoltre le scienze del comportamento a volte impiegano modalità di indagine non facilmente scomponibili, come ad esempio la introspezione, l'intuizione, l'empatia, ecc. Se - continuano i critici di questo metodo - si forza l'osservazione dei dati delle scienze umane attraverso le lenti di questo metodo, si rischia di snaturarli, o di perdere qualcosa che forse costituisce l'essenza stessa del fenomeno che vogliamo studiare (un esempio tipico può essere rappresentato dal comportamentismo, che infatti, secondo molti di quelli che erano i suoi stessi sostenitori, ha mostrato i suoi limiti come forma di psicoterapia). Ne risulterebbe una immagine riduttiva della realtà, distorta o addirittura sbagliata.

Nel secondo caso, cioè nel caso che adottiamo una concezione di scienza secondo la quale è il metodo che deve adattarsi al campo di osservazione e non viceversa, avremmo molti metodi "scientifici", più "scienze", col risultato che si riproporrebbero le dicotomie di cui si parlava, e si creerebbe una frammentazione della conoscenza, con complesse implicazioni.

Dicevo prima che non mi propongo certo di dirimere queste questioni, ma solamente di fornire alcuni spunti di riflessione. Ritengo che si possa dire che negli ultimi decenni, grazie anche ad una maggiore conoscenza delle caratteristiche stesse del metodo scientifico (anche da parte di molti filosofi, che ne avevano mantenuto una concezione astratta, poco aggiornata e non calata nella pratica della ricerca scientifica concreta), sia avvenuta una sorta di rimescolamento di carte rispetto a queste dicotomie, nel senso che esse non sono più nette e chiare come una volta. E' sempre più diffusa la convinzione che la contrapposizione nomotetico/idiografico sia una falsa dicotomia, originata da una reazione romantica nei confronti di una concezione di scienza ottocentesca ormai superata. E' questa ad esempio la posizione presa da Holt, uno psicoanalista ricercatore, poi successore di Rapaport, in un lavoro da lui scritto già nel 1962 in cui criticava fortemente la legittimità del metodo idiografico, giudicandolo inconsistente (questo classico di Holt, dal titolo "Individualità e generalizzazione nella psicologia della personalità", è anche su Internet: http://www.publinet.it/pol/ital/documig6.htm, con una nuova prefazione di Holt del 1998). Allora Holt era reduce da anni di stretta collaborazione con Gordon Allport, che era uno dei suoi maestri, e che era un forte sostenitore del metodo idiografico in personologia. Holt, scontrandosi col suo maestro, era giunto alla conclusione che appena solamente osserviamo e descriviamo idiograficamente un fenomeno, subito automaticamente utilizziamo (anche preconsciamente) determinate categorie logiche e concettuali che già non appartengono più a questo metodo. Senza queste categorie non potremmo neppure comunicare ad altri le nostre impressioni. Il metodo idiografico avrebbe dunque secondo Holt finalità solo artistiche, non scientifiche, in quanto si limita alla comprensione e non alla predizione e al controllo (per un approfondimento, vedi i capitoli 12 e 13 del libro di R.R. Holt del 1989 Ripensare Freud [Torino: Bollati Boringhieri, 1994]; vedi anche R.R. Holt, H. Kächele & G. Vattimo, Psicoanalisi ed ermeneutica, a cura di Paolo Migone, Chieti: Métis, 1994).

Per tornare ora alla ricerca in psicoterapia, dire che vi è stato un rimescolamento di carte tra alcune delle dicotomie prima citate non vuol dire assolutamente che la differenza tra ricerca clinica ed extra-clinica scompaia, o che la ricerca clinica vada abbandonata in favore solo di una ricerca empirico-quantitativa. Tutt'altro: sarebbe un enorme errore trascurare, come purtroppo fanno molti programmi di ricerca e riviste scientifiche, gli studi clinici sul caso singolo. Essi hanno una enorme importanza euristica, e in alcuni casi anche hanno il potere di falsificare determinate ipotesi. Non dimentichiamo che buona parte di tutte le ipotesi psichiatriche di questo secolo sono originate da un numero di casi clinici che si contano con le dita di una mano, studiati approfonditamente da Freud, Binswanger e altri. Le conclusioni tratte dallo studio del caso singolo non vanno comunque generalizzate impropriamente. Osserva infatti polemicamente Paul Meehl, che è uno dei più acuti metodologi che ha la fortuna di avere anche una ricca esperienza di pratica clinica in psicoanalisi:

"Dobbiamo con tutta onestà renderci conto che il "metodo di studio sul caso singolo" e la "esperienza clinica" sono semplicemente delle etichette onorifiche per quello che nel campo della psicologia comparata è stato denigrato come "metodo aneddotico". La "esperienza clinica" è una frase applicata allo screditato metodo aneddotico quando è praticato da una persona laureata in medicina o in psicologia" (P.E. Meehl, "Commentary on Shevrin's target paper", J. Am. Psychoanal. Ass., 1995, 43, 4: 1015-1023 [p. 1017]; corsivi nell'originale).

La storia sia della medicina che della psichiatria presenta innumerevoli esempi di quanto il metodo basato sulla "esperienza clinica" e sul caso singolo abbia portato a una serie di errori a volte fatali. Sappiamo dalla storia della medicina che, ad esempio, alla fine dell'Ottocento quasi ogni intervento dei medici del tempo era inutile se non addirittura dannoso, e nonostante ciò continuava ad essere praticato con una ricca serie di autoconferme e nel rispetto della comunità "scientifica" del tempo (si veda qui anche la mia rubrica del n. 44/1987 del Ruolo Terapeutico). In determinati paesi e culture, metodi dannosi o inutili hanno continuato ad essere usati per secoli o millenni. Non si capisce perché questo non possa accadere anche per la psicoterapia. E' stato solamente con la generalizzazione delle conquiste della rivoluzione scientifica che si è fatto un drastico salto di qualità nella individuazione delle terapie più efficaci, portando ad un debellamento di molte malattie e salvando intere popolazioni da terribili epidemie. Il metodo scientifico, basato su studi controllati, sulla indagine statistica e su precise metodologie extra-cliniche, permette quindi di avanzare nelle conoscenze, di rompere l'autoinganno quotidiano che è sempre in agguato di fronte al clinico. E paradossalmente, nella misura in cui il metodo statistico e sperimentale ci permette di aggirare, almeno parzialmente, questo autoinganno costante favorito dalle nostre aspettative inconsce, in questo aspetto esso ricorda, per così dire, il metodo psicoanalitico, perché aiuta a combattere la nostra falsa coscienza, a vedere quello che difensivamente non vogliamo o non possiamo vedere. Sotto questa luce, stupisce l'affermazione di Freud in uno dei suoi pochi riferimenti al problema della ricerca in psicoterapia, contenuta in una lettera del 1934 allo psicologo Saul Rosenzweig che gli aveva mandato i risultati dei suoi studi sperimentali in favore della teoria della rimozione:

"Caro Dottor Rosenzweig, ho esaminato con interesse i suoi studi sperimentali sulla validità scientifica delle affermazioni psicoanalitiche. Non posso dare un gran valore a queste conferme perché l'abbondanza di osservazioni attendibili sulle quali queste affermazioni riposano le rende indipendenti dalla verifica empirica. Tuttavia, esse non possono fare alcun male" (Freud, 1934, citato da MacKinnon & Dukes, 1964, p. 703).

Freud qui, anche se non si oppone pregiudizialmente alla ricerca empirica, si dice convinto di una "abbondanza" di osservazioni cliniche attendibili, per cui esse risulterebbero "indipendenti" dalla verifica empirica (in un'altra occasione, come ci ricorda Jacoby [1983], ha affermato con un malcelato sarcasmo: "Questi critici che limitano i loro studi a delle investigazioni metodologiche mi ricordano quelli che passano il loro tempo a pulire gli occhiali piuttosto che a portarli per guardare"). Ma a mio parere sottovaluta gli autoinganni a cui si accennava prima, come peraltro è dimostrato anche dalla storia dei suoi stessi modelli teorici, che coerentemente ha sempre modificato nel corso della sua vita ogni volta che si accorgeva che non erano più adeguati.

Per tornare alla questione delle due scienze, ritengo che vadano utilizzati entrambi i metodi di ricerca, perché, in modo complementare, contribuiscono al progresso della conoscenza. Essi corrispondono anche a due diverse modalità di funzionamento cognitivo, diversi modi con cui la nostra mente funziona nell'elaborare le informazioni, e in quanto tali vanno altamente valorizzati. Il metodo clinico può corrispondere ad una prima fase della ricerca, in cui ad esempio è indispensabile formulare ipotesi che poi possono essere testate col metodo sperimentale e statistico. Lungi da noi comunque l'idea che il metodo sperimentale rappresenti la "verità", la quale per definizione non appartiene mai alla scienza (casomai il problema della verità riguarda la filosofia, la scienza è caratterizzata da una grande modestia e consapevolezza della propria ignoranza, e questa è sempre stata la sua forza). Vi sono esempi in cui anche il metodo sperimentale conduce a grossi errori, perché vi sono vari modi di impostare una ricerca e di analizzarne le implicazioni dei risultati. Non solo, ma ritengo che una pratica psicoterapeutica guidata unicamente dai dati di ricerca disponibili oggi sia prematura, in quanto ho l'impressione che, per la complessità dei fenomeni studiati, troppi siano i dati che ancora sfuggono alla maggioranza delle ricerche in psicoterapia. Il fatto che qualcosa non sia stato ancora dimostrato non significa che esso non esista (per un approfondimento degli Empirically Supported Treatments [EST], la cui logica è derivata dalla Evidence Based Medicine [EBM] che peraltro merita il massimo interesse, rimando all'articolo di Chambless & Ollendick appena uscito sul n. 3/2001 di Psicoterapia e Scienze Umane dal titolo "Gli interventi psicologici validati empiricamente: controversie ed evidenze empiriche", e alla presentazione della loro metodologia, scritta da me e Giovanni de Girolamo, al sito Internet http://www.psychomedia.it/spr-it/artdoc/chambl98.htm).

Vorrei concludere suggerendo la lettura di altri lavori a coloro che fossero interessati ad un approfondimento di quelle tematiche che qui sono state solo accennate. Riguardo ad un panorama generale della ricerca in psicoterapia e a quello che essa ci può insegnare per la pratica clinica, rimando ad un mio lavoro più approfondito ("La ricerca in psicoterapia: storia, principali gruppi di lavoro, stato attuale degli studi sul risultato e sul processo". Rivista Sperimentale di Freniatria, 1996, CXX, 2: 182-238, pubblicato anche su Internet al sito http://www.psychomedia.it/spr-it/artdoc/migone96.htm). Riguardo invece alle tematiche più specifiche della ricerca in psicoanalisi, vorrei ricordare la critica alle posizioni ermeneutiche in psicoanalisi fatta da Blight (Psychoanal. Contemp. Thought, 1981, 4: 147-206), Holzman (J. Am. Psychoanal. Ass., 1985, 33: 725-770), Eagle (1980; 1984 cap. 15 [cap. 14 nella trad. it.]), e soprattutto la parte introduttiva (un centinaio di pagine) del libro di Grünbaum del 1984 I fondamenti della psicoanalisi (Milano: Il Saggiatore, 1988), a mio parere dirimente sia nella critica a Popper, sia nel dimostrare come la posizione dell'ermeneutica si basi sulla accettazione di una anacronistica concezione di scienza.

Vorrei segnalare inoltre alcuni lavori usciti recentemente che mostrano il crescente interesse per la ricerca anche da parte delle associazioni psicoanalitiche, ad esempio l'editoriale di Emde & Fonagy sul n. 4/1997 dell'International Journal of Psychoanalysis, e soprattutto due target papers, usciti sul Journal of the American Psychoanalytic Association, che hanno suscitato interessanti dibattiti critici: quello di Shevrin (4/1995) sullo statuto scientifico della psicoanalisi (discusso da Lawrence Friedman, Wilma Bucci, Arnold Goldberg, William I. Grossman, Paul E. Meehl, Robert Michels, Richard C. Simons, e Mark Solms), e quello di Wolff (2/1996) sul rapporto tra infant research e psicoanalisi (discusso da Phyllis Tyson, Barnaby B. Barrat, Peter Fonagy, Joy D. Osofsky, Stephen Seligman, Theodore Shapiro, e Arnold Wilson).

Infine, tra i pionieri che hanno lavorato, secondo le linee qui da me brevemente tracciate, spesso in solitudine e andando controcorrente rispetto ai tempi, vorrei ricordare, oltre a Holt (1962, 1989) che ho già citato, Bowlby (1969), Peterfreund (1971), Rosenblatt & Thickstun (1977), e soprattutto Rubinstein (1997), di cui è stata finalmente pubblicata la raccolta dei suoi scritti; Ben Rubinstein, un membro del gruppo di Rapaport che ebbe la grande fortuna di essere molto preparato sia in filosofia della scienza che nella pratica psicoanalitica, a mio parere è quello che meglio e più di ogni altro lavorò al difficile compito di costruire una teoria scientifica testabile della psicoanalisi.


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Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane
Via Palestro 14, 43100 Parma, tel./fax 0521-960595, E-Mail <migone@unipr.it>

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