Il Ruolo Terapeutico, 2004, 95: 87-92
Paolo Migone
Vorrei discutere questa volta alcune idee di Fred Pine sulle cosiddette "quattro psicologie", cioè sulla proposta, avanzata in vari suoi lavori degli anni 1980, di utilizzare, quando si lavora coi pazienti, quattro teorie psicoanalitiche simultaneamente: la teoria delle pulsioni, la Psicologia dell'Io, la teoria delle relazioni oggettuali, e la Psicologia del Sé (come recita il titolo di un suo libro del 1990, Drive, Ego, Object, and Self). Queste quattro psicologie non sono altro che alcune tra le principali teorie che hanno caratterizzato il dibattito psicoanalitico nella seconda metà del 1900, ed il problema, come è facilmente intuibile, è il rapporto che esse devono avere tra di loro. Sono incompatibili l'una con l'altra? Sono in qualche modo integrabili? Una di esse, magari la più recente e se ben articolata e ampliata, può sostituire tutte le altre e porsi come la "vera" o la "migliore", la teoria che dovremmo entusiasticamente sposare e utilizzare sempre coi nostri pazienti? Fred Pine è uno psicologo di New York abbastanza noto per alcuni suoi contributi alla psicoanalisi (tra quelli più conosciuti al lettore italiano si può ricordare la sua collaborazione alla ricerca di Margaret Mahler, essendo coautore del noto libro del 1975 sulla simbiosi e individuazione nello sviluppo infantile [Margaret S. Mahler, Fred Pine & Anni Bergman, La nascita psicologica del bambino. Torino: Boringhieri, 1978]). Il problema che Pine si propose di affrontare in questa ricerca sulle "quattro psicologie" non è certo piccolo, interessa da vicino tutti i clinici, perché riguarda problemi quali l'impianto generale della psicoanalisi, la sua identità di fronte alla frammentazione teorica, il rapporto tra teoria e clinica, e così via. Non dimentichiamo poi il contesto culturale in cui espose queste riflessioni, penso ad esempio che non sia irrilevante il fatto che quegli anni furono caratterizzati, tra le altre cose, dall'attacco portato avanti dall'ermeneutica in psicoanalisi [per brevità, rimando alla mia rubrica del n. 50/1989 del Ruolo Terapeutico]. Tra gli scritti di Fred Pine che qui ci possono interessare vi sono innanzitutto alcuni libri, ad esempio nel 1985 uscì Teoria evolutiva e processo clinico [Torino: Bollati Boringhieri, 1995], e nel 1990 il più importante, Drive, Ego, Object, and Self [New York: Basic Books], di cui fu programmata la edizione italiana, sempre presso Bollati Boringhieri, ma per vari motivi non si realizzò. In Italiano è uscito però un suo articolo del 1988 in cui espone più compiutamente quelle sue idee, "Le quattro psicologie della psicoanalisi e la loro importanza nel lavoro clinico" [Gli argonauti, 1990, 45: 95-114; questo articolo è uscito anche sul n. 1/1999 di Psicoanalisi, la rivista della Associazione Italiana di Psicoanalisi (AIPsi)]. Ma le idee di Fred Pine che qui io voglio presentare sono quelle contenute in un articolo più recente, dal titolo "Listening and speaking psychoanalytically - with what in mind?" ["Ascoltare e parlare psicoanaliticamente - con in mente che cosa?"], uscito sull'International Journal of Psychoanaysis, 2001, 82, 5: 901-916, e tratto dalla sua Heinz Hartmann Honorary Lecture tenuta al New York Psychoanalytic Institute il 28-11-2000. Questo articolo mi ha particolarmente interessato anche perché ha il vantaggio di essere più recente e quindi di esporre maggiormente le conclusioni a cui è giunto l'autore. Il fatto che io qui esponga le idee di Pine non significa affatto che io le condivida, anzi, chi legge le cose che scrivo sa benissimo che io la penso in modo molto diverso. Tuttavia il pensiero di Fred Pine è interessante perché ha il merito di affrontare temi cruciali e importanti per tutti noi, quelli ad esempio della più o meno possibile "integrazione" di approcci diversi in psicoterapia. Infatti ho esposto per la prima volta questi miei commenti, anche se in forma abbreviata, per e-mail il 7-12-2001 ad alcuni colleghi interessati alla integrazione in psicoterapia (Giorgio G. Alberti, Sergio Benvenuto, Tullio Carere-Comes, Salvatore Freni, Giovanni Liotti, Diego Napolitani, Mario Rossi Monti, e Fausto Petrella) in una lista privata di discussone all'interno del dibattito precongressuale del primo convegno della sezione italiana della Society for the Exploration of Psychotherapy Integration (SEPI), dibattito che è pubblicato integralmente su Internet al sito http://www.psychomedia.it/pm-lists/debates/sepi.htm, dove vi è anche una dettagliata bibliografia. In realtà avevo mandato quella e-mail pochi giorni prima, il 3-12-2001, anche alla lista "Psicoterapia" di Psychomedia [PM-PT], dove fu seguita da commenti da parte di Pietro Spagnulo, Licia Filingeri, e Tullio Carere-Comes, riportati anche nel sito Internet prima citato - anche quel dibattito, intitolato "Come usiamo le (quattro) psicologie? Considerazioni sulla integrazione psicoterapeutica", fu poi pubblicato integralmente su Internet: http://www.psychomedia.it/pm-lists/debates/dibinteg.htm. Ma vediamo ora che tipo di ragionamenti fa Fred Pine. Ascoltare e parlare psicoanaliticamente, ma con in mente che cosa? A me sembra che la proposta di Fred Pine implichi innanzitutto due ordini di problemi. Il primo riguarda la sua scelta delle "quattro" psicologie (quali sono, perché ha scelto quelle e non altre, e poi perché quattro e non cinque, o sei, o quindici, ecc.). Il secondo prescinde da ciò e riguarda un discorso più generale, cioè il fatto che vi sono modi diversi di vedere le stesse cose, varie teorie, diverse scuole di psicoterapia, in ultima analisi il problema di come si può parlare di integrazione in psicoterapia (qui Pine avrebbe potuto scegliere due psicologie o quindici, il problema non cambierebbe). A me sembra che il primo ordine di problemi sia molto diverso, e io qui non lo affronterò (le teorie tra l'altro cambiano sempre, anche a seconda dei periodi storici, per cui tanto vale non soffermarsi su questo problema, almeno in questa sede). Mi sembra invece che il modo con cui Pine ci fa riflettere sul secondo problema, cioè sul modo con cui tenere in considerazione più modelli o punti di vista contemporaneamente, sia qui più interessante. Fred Pine dice in sostanza che tutte le psicologie, le varie teorie, sono state inventate da qualcuno perché in un qualche modo gli servivano, sembrava che lo aiutassero a capire meglio il paziente. Quindi possono avere tutte una certa utilità nella misura in cui sono servite a chi le ha inventate, a seconda del paziente che aveva di fronte, del suo sviluppo o maturazione, della sua età, della sua diagnosi, del problema specifico che presentava, e così via. A volte queste belle metafore che vari autori ci propongono per capire e aiutare i nostri pazienti ci tornano in mente, ci sembra che "funzionino", e allora le usiamo o almeno ci proviamo. Hanno quindi un valore d'uso, tutto qui. Pine non pare affatto interessato né al valore di "verità" di ciascuna di queste teorie, né alla questione della integrazione teorica dei vari modelli, perché sa che questo è un discorso ben più complesso e ambizioso. Gli basta, per portare avanti il suo discorso, una approssimativa integrazione clinica, una sorta di eclettismo, se vogliamo chiamarlo così. Ma perché Pine insiste su questo? Dove vuole arrivare? Io devo confessare che non avevo mai capito bene il suo discorso, ora invece con la lettura di questo suo articolo del 2001 mi sembra di capire meglio cosa vuole dire con l'utilizzo simultaneo di diversi modelli psicologici. Pine rifugge dalle "grandi teorie" che possano spiegare tutto, per lui sono pericolose e forse fuorvianti. Riporta un esempio che può essere illustrativo, che riguarda i tentativi di spiegazione dell'Olocausto nazista. Come sappiamo, l'Olocausto rimane un po' un inquietante mistero, e tanti storici hanno provato a spiegarlo, chi in un modo, chi in un altro, ma tutti miravano a trovare la "vera" spiegazione di come mai sia potuta accadere una cosa del genere (motivi sociali, economici, psicologici, ecc.). Inutile a dirsi, ancora non siamo riusciti a comprendere del tutto come mai sia potuta accadere, e per di più solo pochi decenni fa, una tragedia così immensa e impressionante. Una autrice [I. Clendinnen, Reading the Holocaust, Cambridge University Press, 1999] ha scritto un libro sull'Olocausto rinunciando volutamente fin dall'inizio alla pretesa di spiegarlo definitivamente, convinta che le "grandi teorie" possano ingannare, avere uno scopo difensivo distogliendoci da altre possibili spiegazioni, più limitate ma forse per questo più vere. Lei allora ha raccolto una serie di micro-spiegazioni basandosi sui dati obiettivi, cioè interrogando i documenti disponibili (diari, discorsi, interviste, autobiografie, ecc.) e specifici gruppi di persone coinvolte (carnefici, vittime, membri della polizia, gerarchi vicini a Hitler, soldati impegnati nel lavoro di bassa manovalanza nello sterminio, SS, parenti di ebrei uccisi, sopravvissuti, ecc.), per capire quali erano le precise ragioni secondo ciascuno. In questo modo ha cercato di ricostruire piccoli pezzi di significato nel tentativo di rintracciare diverse strade che possono aver portato al risultato finale. Questo esempio così lontano secondo Pine può essere collegato a quello che ci interessa, il lavoro analitico. Anche col paziente noi cerchiamo di avere una teoria generale onnicomprensiva che spieghi tutti i dati clinici di cui disponiamo, ma può accadere che una teoria generale non ci faccia più vedere i singoli, piccoli (e quindi forse più veri) pezzi di significato. In un passaggio successivo, Pine ci dice che di fatto l'analista lavora già su più livelli, soprattutto perché ciò avviene senza che lui se ne accorga. Ad esempio segue un certo modello tecnico, ma il paziente lo percepisce in un altro modo. In genere, il modo con cui gli analisti riescono a far passare un viraggio di modello, pur mantenendo l'apparenza di essere legati a uno solo, è nascosto nella universalmente riconosciuta importanza di tre fattori: il tatto, il timing, e il tono di voce. Con questi tre trucchetti, come un vero e proprio prestigiatore, l'analista riesce a virare di modello senza che nessuno se ne accorga a livello conscio, né lui, né il paziente, né la comunità dei colleghi. Il più rigido freudiano ortodosso, che lavora sempre e solo sulla interpretazione neutrale del conflitto a livello della costellazione impulso-difesa, con un semplice trucco, con un gioco di prestigio - sembra che dica Pine - di soppiatto può diventare ad esempio un perfetto kohutiano. Non solo, ma - continua Pine - tante volte ci è sembrato di aver detto la "cosa giusta" a un certo paziente, di aver fatto "proprio quello che andava fatto" e di essere molto soddisfatti di noi. Ma anni dopo, ripensando a quella situazione clinica o rileggendo le nostre note su quel caso, alla luce di nuovi modelli teorici che nel frattempo abbiamo imparato ci accorgiamo che quella "cosa giusta" era avvenuta solo grazie a qualcosa di completamente diverso da quello che avevamo creduto, cioè "malgrado noi", per così dire. Quindi le cose potevano essere molto meglio spiegate con una teoria che a quei tempi noi ancora non conoscevamo (a questo riguardo è molto esemplificativo il caso clinico raccontato nella mia rubrica del n. 62/1993 del Ruolo Terapeutico, dove un terapeuta aiuta un paziente potremmo dire malgré lui, cioè con una teoria diversa da quella che invece potrebbe effettivamente spiegare il miglioramento). La realtà, insomma, è per sua natura sempre molto più complessa di quanto noi crediamo di capirla (essa "supera sempre la fantasia", potremmo dire). Qui Pine anche cita vari esempi per dimostrare come certi analisti senza saperlo implicitamente includevano nella loro teoria già cose che molti anni dopo avrebbero più compiutamente teorizzato altri autori che fonderanno scuole di pensiero diverse (cita ad esempio la questione del transfert in Greenson e poi in Gill, che qui non posso approfondire). Inoltre, nell'area del non verbale e dell'hic et nunc tante cose accadono che noi non conosciamo, cioè esistono molteplici codici cognitivi e canali di comunicazione, e noi ne siamo coscienti solo di uno alla volta, e magari le cose più importanti accadono in livelli che al memento non consideriamo affatto. Ed ecco quindi che qui Pine collega questo discorso alle quattro psicologie, cioè alla importanza per l'analista di tenerle in considerazione tutte senza sposarne una sola. Più precisamente, Pine si serve di questo discorso per fornire un ampliamento teorico del concetto di "attenzione liberamente fluttuante" dell'analista nell'ascolto del paziente ("evenly suspended attention" o "evenly hoovering attention"), nel senso che se è pur vero che la importanza della attenzione liberamente fluttuante dell'analista (complementare alla regola aurea, quella delle "associazioni libere" del paziente) è ben sottolineata da tutti, non viene in genere teorizzata in questo modo come fa Pine. La attenzione liberamente fluttuante dell'analista cioè per Fred Pine dovrebbe riguardare anche le teorie che si hanno in mente. L'analista dovrebbe oscillare, fluttuare da un modello all'altro a seconda dei vari momenti e situazioni cliniche. In che modo infatti si può spiegare come mai vi siano diverse teorie, diversi modi di ascoltare il paziente? E' molto facile qui rispondere: la variabile fondamentale è costituita dalle caratteristiche del paziente, quelle che citavo prima (sviluppo o maturazione, età, diagnosi, problema specifico che presenta in un momento della seduta, ecc.). In altre parole, sono gli specifici problemi che il paziente presenta in un determinato momento quelli che ci fanno pensare a una teoria invece che a un'altra, e queste teorie (o spezzoni di teorie) possono ben esserci utili a risolvere un determinato problema o impasse del momento. Emerge quindi una grande modestia nella proposta teorica di Fred Pine, direi una umiltà di fronte alla complessità della realtà clinica, per sua natura inconoscibile ma avvicinabile solo attraverso i tanti occhiali delle nostre teorie a disposizione. Adottare solo una "grand theory" (dove "grand" qui sta a significare anche "grandiosa") può appiattire troppo i dati e non farci vedere qualcosa di importante. Naturalmente, come ho detto prima, non sono assolutamente d'accordo con questa impostazione (e non solo per le indubbie influenze che l'ermeneutica, e anche il costruttivismo radicale, sembrano aver esercitato sull'autore). Se infatti posso simpatizzare con l'umiltà che Fred Pine suggerisce di adottare di fronte alla complessità della clinica, rimane aperta la questione di come possono essere integrate teorie contraddittorie tra loro. Il problema sollevato da Pine, quello della coesistenza di più modelli teorici e tecnici, è certamente importante, ma non va dimenticato che vi sono altri modi per affrontarlo. Tra i tanti, voglio qui ricordare un autore che ho sempre molto stimato e del quale mi sono tanto occupato anni fa, John Gedo. Già fin dagli inizi degli anni 1970 Gedo fece una proposta molto interessante di un sistema "gerarchico" di cinque interventi tecnici, ciascuno collegato a altrettanti modelli teorici tra loro integrati, che potessero rispondere a cinque diverse situazioni cliniche, da quelle più gravi a quelle più lievi o mature (è curioso qui notare che Pine parla di quattro modelli, e Gedo di cinque). Non posso entrare qui nel dettaglio della proposta di Gedo, per cui rimando ai suoi lavori [vedi anche una mia monografia su Gedo pubblicata su Psicoterapia e Scienze Umane, 1985, 4: 89-102]: il suo primo libro, scritto con Goldberg nel 1973, è Modelli della mente [Roma: Astrolabio, 1975], a cui seguì nel 1979 la sua opera più completa, Al di là dell'interpretazione [Roma: Astrolabio, 1986]. Inoltre la rivista monografica diretta da Lichtenberg, Psychoanalytic Inquiry, gli dedicò il n. 1/1981, con contributi di Appelbaum, Dewald, Gill, Meissner, Rangell, Segal & Britton, Gunther, e Gedo, e il n. 2/1994 è stato dedicato all'"uso clinico di modelli multipli", in particolare quelli appunto di Pine e di Gedo, con contributi di Hill, Hanly, Kaplan, Modell, Pine, Rodgers, Druck, Moraitis, E. Shane & M. Shane, e Gedo. John Gedo è sempre stato orgoglioso delle sue origini ungheresi per il debito di riconoscenza che ha avuto con Ferenczi, e divenne poi una figura di punta della scuola di Chicago (dove emigrò attratto dagli insegnamenti di Alexander, un altro ungherese) e lavorò come stretto collaboratore di Kohut (fu lui ad esempio a suggerire a Kohut di usare il termine "Sé" per il nuovo sistema teorico che andava costruendo). Non a caso Gedo, come Ferenczi, Balint (un altro ungherese) e Kohut, sottolineano l'importanza anche di tutti quegli interventi non interpretativi ("al di là dell'interpretazione") che mirano a rinforzare il legame affettivo col paziente. Mi fa piacere ricordare in questa occasione che questo importante autore il 7 marzo 1994 tenne un seminario proprio al Ruolo Terapeutico di Milano (la sua relazione è stata pubblicata sul n. 67/1994 della rivista).
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