Il Ruolo Terapeutico, 2004, 97: 83-88
Paolo Migone
Come alcuni sanno già, da quest'anno sono diventato condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane, che è una delle più antiche e prestigiose riviste italiane di psicoterapia. Per me è un grande onore, anche perché questa rivista, le sue idee e il gruppo di colleghi che ruotano attorno ad essa sono sempre stati il mio punto di riferimento professionale. Psicoterapia e Scienze Umane fu fondata nel 1967 da Pier Francesco Galli, che è tutt'ora nella direzione, all'interno delle attività iniziate nel 1960 dal Gruppo milanese per lo sviluppo della psicoterapia - Centro Studi di Psicoterapia Clinica di Milano. Questo gruppo, da cui nacquero per gemmazione vari gruppi e scuole di psicoterapia di Milano (tra cui lo stesso Ruolo Terapeutico), giocò un ruolo chiave nello sviluppo della psicoterapia in Italia, quando ancora la società psicoanalitica in termini numerici era pressoché inesistente e una cultura psicoterapeutica e psicoanalitica doveva ancora formarsi. Il gruppo di Psicoterapia e Scienze Umane ad esempio contribuì, e contribuisce tutt'ora, a grosse iniziative di formazione soprattutto per i servizi di psichiatria pubblica, e si può dire che abbia guidato la crescita culturale di più di una generazione di operatori della salute mentale rendendo disponibili i principali testi di psicologia, psichiatria, psicoanalisi e psicoterapia a livello internazionale: si pensi ad esempio alla collana "Biblioteca di Psichiatria e di Psicologia Clinica" dell'editore Feltrinelli di Milano, fondata alla fine degli anni 1950 e diretta da Gaetano Benedetti e Pier Francesco Galli (87 volumi), alle collane "Programma di Psicologia Psichiatria Psicoterapia" (circa 200 volumi) e "L'osservazione psicoanalitica" (24 volumi) dell'editore Bollati Boringhieri di Torino, entrambe fondate da Pier Francesco Galli rispettivamente nel 1964 e nel 1992, alla serie "Tracce dalla Psicoanalisi" dell'editore Einaudi di Torino, e così via. Ma non è certo questa la sede per raccontare la storia del gruppo di Psicoterapia e Scienze Umane, poiché occorrerebbe troppo spazio, e preferisco rimandare ad altre pubblicazioni, ad esempio ad una intervista di Galli che uscì nel 1984 ("La psicoanalisi e l'istituzione psicoanalitica in Italia"), che è su Internet all'indirizzo http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/galli84.htm, oppure l'articolo di Galli "Conversazione su ĞLa tecnica psicoanalitica e il problema delle psicoterapieğ" sul n. 38/1984 del Ruolo Terapeutico; ma soprattutto rimando al sito Internet di Psicoterapia e Scienze Umane (http://www.psicoterapiaescienzeumane.it), dove sono linkati tutti questi documenti e dove vi è una breve storia del gruppo e altro materiale ancora. Quello che voglio pubblicare qui, condividendolo con i lettori della mia rubrica, è l'editoriale che ho scritto per il n. 2/2004 di Psicoterapia e Scienze Umane, dove si vede il taglio critico, anche dal punto di vista teorico, che la rivista ha e vuole continuare ad avere. Tratto temi peraltro già noti ai lettori delle mie rubriche del Ruolo Terapeutico (si pensi ad esempio a quella del n. 92/2003), per cui in un certo senso continuo un discorso da me fatto più volte in passato (per i riferimenti bibliografici delle citazioni che faccio, che qui mancano, rimando alle mie rubriche, che sono tutte pubblicate integralmente su Internet nella pagina riportata sotto al titolo della mia rubrica). L'editoriale Non c'è dubbio che una tendenza della psicoanalisi contemporanea sia quella di diventare sempre di più una fenomenologia. Con questo non si vuole esprimere una valutazione pro o contro una determinata opzione. Il problema è che Freud vide la psicoanalisi nettamente in opposizione alle idee portanti della fenomenologia. Rimane quindi da spiegare come mai questo viraggio non venga maggiormente sottolineato, non ci si chieda cosa significhi per il destino della psicoanalisi, e soprattutto perché non si debbano chiamare le cose col loro nome. Ma vediamo meglio in che senso si può affermare che la psicoanalisi si sia trasformata in fenomenologia. Non si tratta tanto del filone kohutiano o dei cosiddetti intersoggettivisti, quanto di sviluppi le cui prime avvisaglie si possono scorgere già con l'evoluzione del pensiero kleiniano. In origine il kleinismo clinico si caratterizzava per l'utilizzo della interpretazione come strumento terapeutico par excellence, interpretazione che doveva essere profonda e "vera", utilizzata persino con bambini e psicotici. Quindi si caratterizzava in un modo psicoanalitico per così dire "forte", differenziandosi dalla tecnica insegnata da Anna Freud che invece privilegiava una attenta valutazione delle difese, cioè dell'Io, e quindi una attenzione per il livello di sviluppo (questa tendenza sarà formalizzata dalla fine degli anni 1930 da Hartmann e dagli psicologi dell'Io che caratterizzeranno l'identità della psicoanalisi nordamericana, oggi criticati da più parti negli stessi Stati Uniti). In seguito, con gli sviluppi post-kleiniani, soprattutto grazie a Bion, si assiste a una decisa inversione di tendenza. Non solo non si privilegia lo strumento della interpretazione, ma anzi si dice espressamente che non è indicata con determinati pazienti, privilegiando tecniche quali il "contenimento" delle parti scisse e proiettate del paziente e così via. Una volta che determinate modifiche vengono proposte per circoscritte aree diagnostiche, gradualmente prendono piede e vengono applicate a tutti i pazienti, con un fenomeno di generalizzazione che è stato ben decritto come uno dei modi con cui si affermano modificazioni nella teoria della tecnica. Questi sviluppi si notano inizialmente presso certi allievi californiani di Bion quando soggiornò a Los Angeles. Già negli anni 1970, ad esempio, un Ogden, elaborando il concetto bioniano di identificazione proiettiva, predicava di astenersi dalla interpretazione e di privilegiare invece la "metabolizzazione" silente, da parte del terapeuta, delle parti del Sé scisse, dolorose e per questo proiettate; la interpretazione poteva servire a ributtare addosso al paziente quello che quest'ultimo faticosamente aveva cercato di far contenere al terapeuta (quella "patata bollente" che doveva essere tenuta e "raffreddata" prima di essere restituita attraverso la terza fase della identificazione proiettiva, la reinternalizzazione). Vi sono alcuni passaggi di Ogden in un lavoro del 1979 sull'International Journal (che verrà poi incluso nel suo libro del 1982) in cui, come indicazioni cliniche, usa le stesse parole usate da Binswanger più di mezzo secolo prima: il terapeuta sostanzialmente non deve interpretare ma "vivere con" il paziente, "essere con" lui e vibrare delle sue emozioni, "stare con" i sentimenti che gli evoca, eventualmente parlarne (disvelarsi) e così via. Se certe parole di Ogden sono identiche a quelle di Binswanger, ciò non significa affatto che "copiò" da lui, fu solo una coincidenza (come peraltro potei capire anche da una corrispondenza che ebbi con lui in quegli anni proprio su questi aspetti). Gli analisti nordamericani, quasi tutti medici, per la gran parte nel loro training non erano mai stati esposti alla fenomenologia. Si trattò di intuizioni motivate dalla clinica, e a questo proposito non è un caso che sia i fenomenologi europei che questi post-kleiniani lavorassero su un materiale clinico simile, cioè con psicotici e con gravi disturbi di personalità. Da questi sviluppi (che - verrebbe da dire - vengono chiamati "post-kleiniani" più che altro per mascherare il fatto che sono semplicemente "non-kleiniani", dove cioè il vantato progresso consiste semplicemente nella correzione di un precedente errore non riconosciuto come tale) emerge con forza l'importanza assegnata al ruolo della "esperienza" come fattore curativo. E' la relazione terapeutica che cura, la convivenza col paziente (Ogden parla esplicitamente di cura attraverso la "nuova esperienza" e la "interazione"). Ci si scorda però, e qui vediamo un altro esempio di "ritorno del rimosso", che posizioni molto simili furono espresse negli anni 1930-40 dalla scuola di Chicago, cioè da Alexander che propose la "esperienza emozionale correttiva" e che per questo fu criticato come "non psicoanalista" (sia il contributo di Alexander del 1946 che la critica di Eissler del 1950 sono stati pubblicati su Psicoterapia e Scienze Umane, rispettivamente nel 1993 e 1984). Ritengo che le posizioni di Alexander, ungherese come Ferenczi di cui continuò la tradizione, abbiano ancora rilevanza per il dibattito psicoanalitico contemporaneo. E' vero che la esperienza cura ma, come fece notare Eissler nella critica ad Alexander, questa non è una novità (la cura "magica" che Eissler contrappose alla cura "razionale"). Il fatto è che Freud - a torto o a ragione - si proponeva un altro tipo di cura, basata sulla "comprensione" dei motivi per cui si guarisce o ci si ammala, su una interiorizzazione di componenti cognitive, intellettuali, e non solo affettive o - come si suole dire oggi - "implicite" o "procedurali". Senza questa componente difficilmente si può ancora parlare di psicoanalisi, anche se essa consiste in una sofisticatissima analisi della cura attraverso la interazione o la relazione (si veda a questo proposito anche la critica di Eagle a Mitchell e Renik nel n. 4/2000 di Psicoterapia e Scienze Umane). La vera domanda è cosa sceglieremmo di conservare se la psicoanalisi dovesse scomparire e noi dovessimo conservarne solo un aspetto, quello più importante o caratterizzante. Oggi assistiamo alla moda dell'approccio relazionale. Molti psicoanalisti sembrano ormai orientati in questo senso. Può trattarsi di una oscillazione del pendolo della storia della psicoterapia, allo stesso modo con cui si può dire la Psicologia del Sé di Kohut rappresentò anche una reazione ai danni iatrogeni di una tecnica psicoanalitica stereotipata (ortodossa ma non "freudiana") con cui in certi settori - soprattutto nordamericani - essa era stata appresa e praticata (anonimità, astinenza, neutralità, ecc., insomma la "personectomia" dell'analista). Non è un caso che molte analisi di Kohut fossero seconde analisi di pazienti le cui precedenti analisi "ortodosse" avevano rappresentato una ferita narcisistica prolungata. La Psicologia del Sé di Kohut è stata un importante affluente dell'approccio relazionale contemporaneo, gli altri essendo, rispettivamente nel vecchio e nel nuovo continente, la scuola inglese delle relazioni oggettuali e il movimento post-sullivaniano - movimenti che avevano in comune la rivalutazione della "realtà reale" nei confronti del cosiddetto "intrapsichico", cioè in sostanza una rivalutazione della teoria della seduzione (il cui abbandono, per inciso, segnò la nascita della psicoanalisi vera e propria; va detto però che furono soprattutto i sullivaniani a reagire contro l'enfasi all'"intrapsichico", e non la scuola inglese che agli inizi fu da loro criticata appunto per non rinunciare a questa enfasi - sarà Mitchell a tentare una integrazione). Quello che andrebbe compreso è se le attuali mode relazionali e intersoggettive sono effettivamente una oscillazione del pendolo o una vera e propria evoluzione, il segno di una rimozione di precedenti idee della psicoanalisi. Per fare un esempio, non è affatto chiaro quanto il concetto di "adattamento" di Hartmann non possa già includere le implicazioni teoriche sottostanti alle tematiche del rapporto tra l'Io e l'ambiente. Questo è solo un esempio, ovviamente. Non solo, ma alla luce del recente viraggio kleiniano in favore del rispetto dei bisogni specifici del paziente non è chiaro come si riesca ancora a criticare Hartmann. Oggi, anche per la crisi del concetto di verità dopo la critica ermeneutica degli anni 1960, la interpretazione viene relativizzata se non addirittura dichiarata inutile, proprio come fece Alexander il quale già nel 1930 intuì che l'insight non è la causa del miglioramento, ma che, al contrario, è il miglioramento che permette l'insight, il quale ne è la conseguenza (vedi a questo proposito uno scambio di lettere tra me e Fonagy sul n. 2/2000 dell'International Journal). Anche Alexander reagiva contro un tipo di psicoanalisi sbilanciata verso i fattori cognitivi. Oggi nella "nuova" psicoanalisi relazionale il cambiamento viene concepito come un evento intersoggettivo interno alla diade terapeuta-paziente, in termini esperienziali e spontanei, un evento a cui il terapeuta sembra più che altro assistere e non provocare. Autori come Irwin Hoffman e Daniel Stern, ad esempio, in modo molto simile si rifanno a concetti quali, rispettivamente, "spontaneità" e "sloppyness", un qualcosa che in seduta spezzi la ritualità o la ripetizione e da cui possa emergere la sorpresa, il nuovo, il cambiamento non previsto da entrambi i partners analitici (rimando qui alla mia rubrica del n. 92/2003 del Ruolo Terapeutico). Si scorda però che Freud introdusse le associazioni libere e l'attenzione liberamente fluttuante proprio per gli stessi scopi (sul concetto di "sorpresa" si veda anche il classico di Theodor Reik del 1935 pubblicato sul n. 2/1999 di Psicoterapia e Scienze Umane). Oggi inoltre la nuova parola d'ordine è enactment, senza considerare che l'enactment ha la stessa struttura del sintomo. Ma a parte questo, da dove viene la spinta, la motivazione al cambiamento? Non certo dal terapeuta, poiché, ad esempio, i now moments di Stern per definizione sono imprevedibili e quindi non si possono promuovere (a proposito di Stern, ad un recente suo seminario a Milano mi ha colpito sentirlo parlare a lungo di Husserl, di Heidegger e del concetto di tempo - prova questa che la impronta fenomenologica di certa psicoanalisi contemporanea a volte è esplicita). Dato che, alla ricerca del nuovo, si deve rifiutare la "vecchia" psicoanalisi con tutto il suo retroterra "positivistico" e "ottocentesco", si ricorre alla teoria della complessità, alla chaos theory, alla fuzzy logic o alla fuzzy physics, alla causalità circolare piuttosto che lineare, alla teoria dei sistemi dinamici viventi, e così via. Vi sarebbe insomma all'interno dell'individuo una spinta propulsiva autonoma che conduce al cambiamento in modi imprevedibili. Ma per quanto riguarda questa imprevedibilità, è chiaro che nella misura in cui non si costruisce una teoria che permetta previsioni e di conseguenza anche interventi (replicabili e insegnabili) che portino a un certo tipo di "controllo" della imprevedibilità, siamo semplicemente fuori da un discorso scientifico. E per quanto riguarda l'idea che la spinta al cambiamento sia interna al soggetto, andrebbe chiarito in che modo questa idea si differenzia ad esempio dalla self-actualization di un Rogers e dell'approccio umanistico (detto anche, non a caso, "esperienziale"), concetto questo non nuovo. Rogers sentiva l'esigenza di proporre questo concetto perché anche lui reagiva contro un tipo di psicoanalisi allora praticata. I primi due articoli di questo numero 2/2004 vogliono far riflettere su questi temi, e toccano alcuni aspetti della psicoanalisi contemporanea nella tradizione critica che è sempre stata di Psicoterapia e Scienze Umane: Bohleber, direttore della rivista tedesca Psyche, si domanda come mai determinate idee nella storia della psicoanalisi vengono ignorate o dimenticate; Eagle, membro del comitato editoriale e ben conosciuto dai lettori - e una delle rare voci critiche di quello che, con una ironia della sorte, è quasi diventato il nuovo mainstream della psicoanalisi nordamericana - in modo divertente punta il dito su alcuni tabù e autocontraddizioni di questa "nuova" psicoanalisi.
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