PSYCHOMEDIA
Telematic Review

Dalle Rubriche di Paolo Migone
"Problemi di Psicoterapia
Alla ricerca del 'vero meccanismo d'azione' della psicoterapia"
pubblicate sulla rivista

 

Il Ruolo Terapeutico, 2003, 92: 54-62

Riflessioni sulla linea di ricerca di Daniel Stern
(con interventi di Sergio Benvenuto, Tullio Carere-Comes, Gianni Liotti e Paolo Migone)

Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane

 

Vorrei fare alcune riflessioni sulla recente linea di ricerca di Daniel N. Stern, almeno così come io l'ho capita ascoltandolo a un suo seminario dal titolo "L'interpretazione non basta", organizzato dalla Associazione di Studi Psicoanalitici (ASP) di Milano il 13 aprile 2002 al Palazzo delle Stelline. Daniel Stern, tra le altre cose autore del noto libro del 1985 Il mondo interpersonale del bambino [Torino: Bollati Boringhieri, 1987], è tra i più conosciuti esponenti della cosiddetta infant research in psicoanalisi (altri autori sono Lichtenberg, Emde, Greenspan, Beebe, Lachmann, ecc., in genere tutti nordamericani), che utilizza metodi sperimentali, cioè di laboratorio, per studiare lo sviluppo precoce del bambino e quindi per revisionare la teoria psicoanalitica dello sviluppo e della motivazione. Stern ad esempio ha dimostrato che esiste una precocissima capacità del bambino a relazionarsi con la madre, invalidando quindi la precedente concezione della Mahler [M. Mahler, F. Pine & A. Bergman, La nascita psicologica del bambino (1975), Torino: Boringhieri, 1978] secondo la quale nel bambino vi era una prima fase autistica, di non relazione (coerente col concetto freudiano di "narcisismo primario"), prima di entrare in rapporto con il mondo oggettuale attraverso le successive fasi della separazione-individuazione. Il bambino che emerge dalle ricerche sperimentali di Stern invece si può dire che abbia un compito opposto nella vita, non tanto quello di riuscire a separarsi dalla madre, dall'oggetto, quanto quello imparare ad "unirsi" ad esso, ad "amare" nella età adulta, se così si può dire.

Ma a parte queste considerazioni che sono ormai note a tutti, quello che qui mi interessa discutere, come dicevo, è la linea di ricerca più recente di Stern e del suo gruppo di lavoro, il noto "Boston Group for the Study of Change Process", che firma sempre gli articoli collettivamente e di cui fanno parte anche L.W. Sander, J.P. Nahum, A.M. Harrison, K. Lyons-Ruth, A.C. Morgan, N. Bruschweiler-Stern, e E.Z. Tronick. Questo gruppo aveva pubblicato un articolo sul n. 5/1998 dell'International Journal of Psychoanalysis dal titolo "Non-interpretive mechanisms in psychoanalytic therapy: The 'something more' than interpretation" ("Meccanismi non interpretativi nella terapia psicoanalitica: il 'qualcosa in più' dell'interpretazione"), che era uscito come lead-article (cioè come primo articolo del fascicolo) ed era stato sottoposto alla discussione generale nella mailing list elettronica dell'International Journal, il cui riassunto è stato poi pubblicato nel n. 1/1999 (questo articolo del gruppo di Boston, tra l'altro, era uscito proprio nel numero precedente a quello in cui uscì, sempre come lead-article, l'articolo mio e di Giovanni Liotti dal titolo "Psychoanalysis and cognitive-evolutionary psychology: an attempt at integration" ["Psicoanalisi e psicologia cognitivo-evoluzionistica: un tentativo di integrazione"], in cui io come psicoanalista e Liotti come cognitivista ci eravamo messi insieme per tentare una sintesi di determinate teorie della cura a partire dai rispettivi punti di vista - sia il nostro articolo che quello del gruppo di Boston, con le discussioni, erano pubblicati integralmente anche sul sito Internet dell'International Journal of Psychoanalysis).

Ebbene, è proprio a quell'articolo sul "qualcosa in più" dell'interpretazione che Stern fece riferimento nel suo seminario di Milano, elaborandolo in riflessioni molto libere, a volte anche estemporanee, e sono queste le posizioni che vorrei discutere qui. Anch'io in queste mie riflessioni procederò liberamente, ed è scontato che quello che dirò non è "quello che ha veramente detto Stern", ma quello che io ho capito di quello che lui ha detto. Ho condiviso queste mie riflessioni, tra l'altro, in una e-mail del 21-4-2002 con alcuni colleghi di orientamenti diversi (Giorgio G. Alberti, Tullio Carere-Comes, Giovanni Liotti, Sergio Benvenuto, Diego Napolitani, Mario Rossi Monti, Fausto Petrella e Salvatore Freni) all'interno di una lista di discussione del dibattito post-congressuale del primo congresso italiano della SEPI-Italia (la sezione italiana della Society for the Exploration of Psycotherapy Integration, di cui Tullio Carere-Comes è il coordinatore italiano) che si è tenuto a Milano il 16-3-2002, i cui atti a cura di Alberti e Carere-Comes sono stati pubblicati nel 2003 presso l'editore Franco Angeli di Milano col titolo Il futuro della psicoterapia: tra integrità e integrazione (tutto il dibattito pre- e post-congressuale, che è molto lungo, è pubblicato integralmente su Internet, linkato al sito del congresso: http://www.psychomedia.it/pm-cong/2002/sepi02mi.htm) (a proposito del dibattito sulle posizioni di Stern, può essere utile leggere anche la critica a Stern fatta da Anthony Ryle sul n. 1/2003 dell'International Journal of Psychoanalysis, pp. 109-118; Ryle, tra le altre cose, è noto per aver proposto una Cognitive Analytic Therapy [CAT], cioè una tecnica che tenta di integrare la psicoanalisi con la terapia cognitiva, dotata anche di un manuale [A. Ryle & I.B. Kerr, Introducing Cognitive Analytic Therapy: Principles and Pratice. Chicester: Wiley, 2002]). 

Ma vediamo ora cosa disse Stern a Milano, come insomma lui pensa che avvenga la terapia psicoanalitica. Non dimentichiamo infatti che lo sforzo di Stern (così come quello di Lightenberg, Lachmann ecc.) è quello di applicare le acquisizioni della infant research in psicoanalisi alla terapia degli adulti, come ben spiegò in quell'articolo sul "something more" than interpretation.

La posizione di Daniel Stern

Stern dice che il problema della scientificità della psicoanalisi a lui non interessa, in quanto per "scienza" oggi si possono intendere tante cose, troppe. A lui preme se una cosa può essere interessante o meno. E, a questo riguardo, la psicoanalisi tradizionale (la questione dell'inconscio dinamico, la teoria tradizionale della cura, ecc.) si può dire non sia più interessante quasi per nessuno. E' interessante invece fare altri discorsi in psicoanalisi, ad esempio come quelli che lui e il suo gruppo di Boston hanno fatto nell'articolo su quel "qualcosa in più" dell'interpretazione sul n. 5/1998 dell'International Journal a cui si accennava prima. In quell'articolo Stern e collaboratori avevano parlato di quelli che loro chiamano "present moment" e "now moment", momenti critici della seduta, importanti per il cambiamento. Questi momenti vogliono essere "esterni al transfert", cioè "reali", ricchi di esperienza affettiva, di scambio intersoggettivo e di riconoscimento reciproco. Viene subito da chiedersi cosa si intenda qui per "realtà" e "relazione reale" (infatti è ovvio che non ha senso dire che il transfert non è "reale", anzi, casomai per il paziente lo è ancor di più della cosiddetta "realtà"), e Stern ha detto che lui e il suo gruppo hanno provato a lavorarci su, e più volte - mi sembra abbia detto tre volte - si sono riuniti per affrontare il problema di cosa significhi per loro "realtà", ma tutte le volte alla fine rinunciandoci per dichiararsi sconfitti (sic); ha detto che "ci riproveranno in futuro" (ha anche precisato che il loro modo di lavorare è di riunirsi alla sera a casa di qualcuno, in salotto, di fronte a del buon vino rosso e del formaggio francese, e di parlare liberamente - chissà, forse per ricreare, verrebbe da dire, questi "momenti adesso"). Sono questi "now moments" quelli che con tutta probabilità inducono cambiamenti nella "memoria procedurale" del paziente, che per Stern è la cosa che più conta. Il seminario infatti era iniziato con una trattazione dettagliata del funzionamento neurobiologico della memoria a lungo termine, tramite anche diapositive (per mancanza di spazio, non posso qui spiegare cosa sia la "memoria procedurale", e mi vedo costretto a rimandare alla letteratura specializzata - si veda ad esempio D.J. Siegel, La mente relazionale. Neurobiologia dell'esperienza interpersonale [1999]. Milano: Cortina, 2001; vedi anche la mia rubrica del n. 105/2007 dal titolo "L'inconscio psicoanalitico e l'inconscio cognitivo"). Ma a questo punto sorge subito un'altra domanda: i now moments, questi momenti magici, sono la causa o la conseguenza del cambiamento strutturale? Problema vecchio quanto il mondo, sollevato bene da Alexander già nel 1946 [F. Alexander, T.M. French et al., La esperienza emozionale correttiva (1946), Psicoterapia e Scienze Umane, 2/1993; edizione su Internet: http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/alexan-1.htm], che disse che non è l'insight che causa il cambiamento (come voleva la tradizione psicoanalitica, la stessa che ora anche Stern critica), ma che l'insight invece avviene "dopo" che è avvenuto qualcosa, la "esperienza emozionale correttiva", dopo cioè che il cambiamento è già avvenuto.

Per tornare alla memoria procedurale, essa, nel bambino come nell'adulto, è quella che regola quasi tutti i comportamenti importanti (dal camminare al relazionarsi con gli altri in modi anche complessi), ed è strettamente collegata anche alla capacità di comprendere i comportamenti intenzionali degli altri. A questo riguardo Stern ha accennato alla scoperta, fatta all'Istituto di Fisiologia dell'Università di Parma da Gallese, Rizzolatti e altri, dei "neuroni specchio" (mirror neurons), che si attivano non solo quando il soggetto compie un determinato movimento, ma anche quando il soggetto vede in un altro quello stesso movimento intenzionale (sono amico di Vittorio Gallese, essendo anch'io di Parma, e tempo fa parali con Fonagy di queste scoperte, che in parte conosceva già, e che hanno importanti implicazioni per la sua teoria della metacognizione, detta anche funzione riflessiva, e per la questione dell'empatia, come lo stesso Gallese cerca di dimostrare - si veda anche un suo recente contributo sulla rivista Neuropsychoanalysis). Soprattutto la questione dell'intersoggettività per Stern è importante, cioè il fatto che determinati comportamenti hanno una natura "duale", come se fossero una musica suonata con due strumenti, come un coro di due persone. Ha fatto l'esempio del bacio: quando baciamo una donna ci romperemmo i denti incisivi se non avessimo una idea precisa di come lei si muove e di come noi ci muoviamo sapendo nel contempo come si muove lei (mi viene in mente infatti un paziente che regolarmente cozzava contro i denti della donna che cercava di baciare, e un altro che nell'intimità non sapeva mai come muoversi, e che mi chiedeva in seduta, gridando e al colmo della disperazione: "Ma dottore, mi spieghi, dove metto la mano? Dove metto la mano?", senza rendersi conto della straordinaria comicità che produceva, seppure afflitto dal dolore di uno che non capiva cosa provavano gli altri, e quindi cosa doveva fare per funzionare adeguatamente in quella situazione sociale).

Ma cosa sono esattamente i "present moment", e, all'interno di questa categoria, i "now moment"? Ci sarebbe qui molto da dire e da discutere, compreso il bisogno di Stern, per me antipatico, di coniare nuove parole. Fatto sta che, cosa rara (e pregevole) per un americano, si è dilungato molto a parlare di Husserl e Heidegger e del concetto di tempo, anche se, a mio parere, è legittimo essere sospettosi di questi psicoanalisti americani (anche se Stern è in parte svizzero) che solo ora scoprono improvvisamente la fenomenologia europea. Purtroppo la mia impreparazione filosofica non mi permette di valutare appieno i suoi commenti sulla fenomenologia. Una cosa comunque l'ho capita bene: i "now moment" sono imprevedibili, accadono e basta. Possiamo solo essere grati alla divina provvidenza - si potrebbe dire - se accadono questi momenti di autentico "incontro" tra paziente e analista. Non ci avviciniamo ad essi tramite le libere associazioni, ad esempio, né con l'atteggiamento analitico standard, qualunque esso sia, casomai di più col nostro atteggiamento umano, personale, non stereotipato, non con quello ritualizzato dello psicoanalista nel suo ruolo di professionista. Pare dunque che lo scopo sia quello di destrutturare il paziente, di aprirlo a esperienze, vissuti e "momenti" nuovi (mistici, direbbe qualcuno?), onde condurlo verso strade che aprano nuove possibilità comportamentali ed affettive.

A questo riguardo, Stern ha fatto una sorta di elogio della stupidità, cioè di quell'atteggiamento del paziente non finalizzato, non facilmente comprensibile, "stupido", in cui non capiamo niente e non sappiamo dove sta andando. Magari sono questi i momenti più importanti. Stern chiama questa stupidità "sloppyness", cioè trasandatezza, confusione, trascuratezza. Naturalmente non ho saputo trattenermi dal fargli una domanda, e chiedergli di spiegare esattamente come lui vede la differenza tra la sua sloppyness e le associazioni libere, dato che noi sappiamo che Freud e la tradizione psicoanalitica avevano appunto visto nelle associazioni libere (la "regola aurea") questo modo per destrutturare il paziente, per spezzare il ciclo della ripetizione, scoprire cose nuove e impreviste (si pensi al concetto di "sorpresa" nel Muraro di Sorpresa ed enigma [Milano: Franco Angeli, 1994], derivato da Theodor Reik [Der überraschte Psychologe ("Lo psicologo sorpreso"), Leida: A.W. Sijthoff's Uitgeversmij N.V., 1935]). Da questa destrutturazione, recita sempre la psicoanalisi, si può passare a una ristrutturazione dei significati del paziente secondo nuove configurazioni e più in generale a una maggiore integrazione psichica in cui determinati contenuti non siano più difesi dalla rimozione. Stern mi ha risposto qui con facilità, dicendomi che le associazioni libere si basavano sul concetto di "determinismo psichico", cioè per Freud esse non erano affatto stupide, ma intelligentissime, andavano da qualche parte, erano guidate da una ben precisa causalità (ed era proprio per questo che Freud le utilizzava - ma allora io mi chiedo: se sono "guidate", perché Freud le chiamava "libere"?). Ma, dice Stern, noi ora non aderiamo più a questo tipo di scienza, la nostra scienza è quella del XX (o XXI) secolo, dove non a caso si parla di fuzzy logic, di fuzzy physics, di chaos theory, di causalità circolare invece che lineare, e così via. Era il concetto di causalità lineare che, a parer suo, stava dietro alle associazioni libere di Freud (io qui dissento nettamente, si pensi solo ai concetti freudiani di "sovradeterminazione del sintomo", di "interpretazione parziale", ecc., tutti esempi dell'uso freudiano della causalità circolare - rimando qui al mio articolo sul Il Ruolo Terapeutico, 1987/88, 46/47, pp. 50-54). Sono rimasto perplesso, e non sono riuscito dal trattenermi dal fargli una seconda domanda, ben consapevole di rubare spazio alle poche domande concesse all'immenso uditorio (la sala delle Stelline era piena e molti non hanno potuto iscriversi per mancanza di spazio). Gli ho chiesto: se un fenomeno non è prevedibile, come facciamo a riprodurlo? Come facciamo a insegnare la psicoterapia, la psicoanalisi? Che tipo di scienza è questa, se esula dai concetti di controllo e predizione? Stern si è limitato a rispondere "Well, that's the real problem, that's a very good question. We have to work on it" ("Beh, questo è un vero problema, è una ottima domanda. Ci stiamo lavorando"). Trattenendo a malapena la mia aggressività, ho preferito non dire altro.

Un'altra cosa che ha raccontato Stern, divertente, è quella dei WFM. Questo acronimo viene usato dai poliziotti americani come esclamazione (vi sono anche altri acronimi simili usati in USA, si pensi al noto SOB - Son of a Bitch - che viene esclamato senza rischiare di dire una parolaccia perché si dicono solo le iniziali). Ma per tornare al nostro WFM, vi sono dei momenti in cui veramente possono avvenire dei punti di svolta o di non ritorno, in cui si possono decidere le sorti della nostra intera vita. Ad esempio nella vita di un poliziotto può capitare - si spera poche volte - di trovarsi faccia a faccia con un delinquente con le pistole puntate. Entrambi si guardano negli occhi per pochi attimi, devono decidere cosa fare, e dalla loro decisione può dipendere anche la vita o la morte di uno dei due, o di tutti e due. Se uno decide di sparare, le conseguenze possono essere imprevedibili. Se invece uno decide di abbassare la pistola, l'altro può scappare, o, se le aveva abbassate il delinquente, per quest'ultimo possono profilarsi anni di galera. Comunque vadano le cose, quando il poliziotto (se è sopravvissuto) rientra nel suo Police Precinct, si toglie il cappello, lo posa sul tavolo e si asciuga la fronte, esclama, "Oh, God, what a WFM I had today!" ("Oh, mio Dio, che WFM ho avuto oggi!"). WFM significa "Weird Fucking Moment", cioè, depurata questa espressione dalla parolaccia, vuol dire "bizzarro momentaccio", "terribile dannato momento", ecc. ("Oh, mio Dio, che dannato momento ho avuto oggi!"). Ebbene, per Stern sono questi i momenti importanti in psicoanalisi, gli WFM. E' proprio in questi momenti imprevedibili e bizzarri, magari carichi di disagio o tensione da parte di entrambi paziente e terapeuta, che possono accadere le cose più importanti e che costituiscono dei punti di svolta per la terapia. Sono questi momenti quelli che possono essere alla base di importanti passi in avanti anche nello sviluppo infantile, dove nell'interazione madre-bambino - immagino adesso io - possono essere messi in atto importanti test "alla Weiss & Sampson" (per capire cosa sia un test secondo la control-mastery theory del San Francisco Psychotherapy Research Group guidato da Weiss & Sampson, rimando alle mie rubriche nei numeri 62/1993 e 68/1995 del Ruolo Terapeutico, oltre che al libro di Weiss del 1993 Come funziona la psicoterapia, che ha una presentazione mia e di Liotti [Torino: Bollati Boringhieri, 1999]). Si può dire che dei bei WFM, ben gestiti, siano auspicabili in analisi. Ecco un tipico WFM in psicoanalisi: ad un certo punto il paziente, in una determinata seduta, chissà perché dice a se stesso: "Oggi ho proprio voglia di non coricarmi sul lettino, ma di guardare in faccia il mio analista". Detto fatto, lo comunica al suo analista, e si siede sul lettino puntando dritto gli occhi su di lui. I due si guardano un po' sbigottiti, in un certo senso come il poliziotto e il delinquente in quel WFM di prima, senza saper bene cosa dire o fare. Qui ci sono però mille modi con cui l'analista può uscirne, può non esserne a disagio, o può dire ad esempio "Salve", oppure "Come si sente", o non dire niente, e così via. Secondo Stern sono questi now moments, come dicevo, i momenti più utili, anche perché carichi di tensione emotiva nell'hic et nunc, pregni di implicazioni per la ristrutturazione profonda del paziente (ma - osserverei io ancora - il problema non è tanto il modo con cui si reagisce a questi importanti momenti che piovono dal cielo, quanto il lavoro preparatorio, spesso inconsapevole ad entrambi, avvenuto nei mesi o anni precedenti che ha portato il paziente a fare quel determinato passo, a osare un comportamento nuovo e creativo, e su questo Weiss e Sampson - peraltro mai citati da Stern - hanno detto e scritto molto [su Weiss e Sampson, vedi le mie rubriche nei numeri 62/1993 e 68/1995 del Ruolo Terapeutico]).

E a questo punto Stern si è messo a parlare - seguendo un percorso secondo me obbligato - della ben nota questione del rapporto tra ritualità e spontaneità in analisi, dell'intergioco dialettico tra questi due momenti dal cui equilibrio dipenderebbe gran parte del potere terapeutico di quello che facciamo. Ma quello che mi ha fatto arrabbiare è che Stern non ha assolutamente citato Irwin Hoffman, che, come è noto, ha fatto di questo aspetto il fulcro della sua ricerca teorica e clinica degli ultimi 10-20 anni. Nell'intervallo non sono riuscito a trattenermi di chiedere personalmente a Stern come mai non avesse citato Hoffman, dato che aveva parlato dello stesso problema e per di più con le stesse identiche sue parole e riflessioni. Stern mi ha risposto ancora laconicamente "Sì, avrei dovuto citarlo, è vero", ma non sono riuscito a strappargli i motivi di questa sua "dimenticanza", peraltro ripetuta dopo l'intervallo quando ha ripreso il discorso a fondo e ancora con le stesse parole e teorizzazioni di Hoffman. Sappiamo che buona parte dei "nuovi" discorsi psicoanalitici si basano semplicemente sull'ignoranza, ma c'è un limite a tutto, considerato anche che a quanto pare Stern conosce bene Hoffman, e che Hoffman è venuto più volte in Italia a tenere seminari, i suoi articoli e il suo libro sono stati tradotti ecc. [Il paziente come interprete dell'esperienza dell'analista (1983), Psicoterapia e Scienze Umane, 1/1995; Ritualità e spontaneità nel processo psicoanalitico (1995), Ricerca psicoanalitica, 2/2000; Ritualità e spontaneità nella situazione psicoanalitica (1998), Roma: Astrolabio, 2000; ecc.]. Intendiamoci, non è che io vada matto per Hoffman, anzi, ho tante critiche da fare anche a Hoffman, che fui io a invitare per primo in Italia, a farlo conoscere, a organizzare col mio gruppo di Bologna un convegno su di lui il 17-10-1998, ecc.

Hoffman, che fu lo stretto collaboratore di Gill negli ultimi vent'anni della sua vita, pur divergendo molto dalle sue idee ma a lui legato da continue discussioni (ed è stato questo il motivo del mio interesse per il suo pensiero, quello di cercare di capire che direzione prendeva dopo la morte di Gill [Su Gill, si veda il suo classico articolo del 1984 e il dibattito in rete che ne è seguito]), era del parere, come peraltro Stern, che la psicoanalisi così come veniva teorizzata in senso classico era ben poco interessante. Si può dire che l'operazione fatta da Hoffman sia quella di invertire il classico rapporto tra psicoanalisi e antropologia, nel senso che egli non fa una "psicoanalisi dell'antropologia" (come in genere si è fatto), ma una "antropologia della psicoanalisi", in cui la psicoanalisi viene analizzata come uno dei rituali di guarigione della civiltà occidentale. Della psicoanalisi Hoffman guarda la cornice, la struttura, le sue regole, lo spazio in cui viene praticata, e cerca di capire come questo momento terapeutico si rapporta con gli altri momenti non terapeutici, sia all'esterno della seduta che soprattutto all'interno di essa, cioè tutte quelle volte in cui l'analista non si muove nel suo ruolo di professionista ma è "spontaneo", viene colto da quei momenti imprevisti, frequenti e inevitabili (ad esempio quando il paziente fa delle domande personali all'analista, o quando, mentre esce, sulla porta, gli fa determinate domande del tipo "Mi presta l'ombrello che piove?", "Mi dica, dove ha comprato quella bella maglietta?" ecc.). Sono questi i momenti che Hoffman chiama "liminali", riferendosi allo "spazio liminale" di cui parlano gli antropologi, quello spazio che è al limite (limen) tra il rituale e il non rituale, tra la struttura e l'antistruttura, tra la "communitas" e lo spazio dedicato al rituale di passaggio o alla cerimonia sacra (è Victor Turner l'antropologo cattolico a cui Hoffman qui fa riferimento: vedi Il processo rituale: struttura e antistruttura [1969], Brescia: Morcelliana, 1972; Antropologia della performance [1986], Bologna: Il Mulino, 1993). Hoffman, proprio come ha sottolineato Stern, dice che ovviamente non è la spontaneità in quanto tale che conta, ma il suo potere deriva dal fatto che è inserita all'interno di un rituale (cioè di qualcosa di non spontaneo), altrimenti non sarebbe più "spontanea", ma un comportamento come un altro. E' il saper vedere in modo dialettico l'antitesi tra spontaneità e ritualità l'aspetto magico della psicoanalisi, nel senso che è la corretta gestione di questa dialettica quella che è maggiormente pregna di implicazioni terapeutiche. Anche Hoffman, come Stern, svalorizza la utilità della interpretazione (anzi, a volte dice che è il saper non dire la verità ai pazienti quello che è più terapeutico). Inoltre anche Hoffman (anzi, soprattutto lui, oltre che Stern) sostiene che il valore mutativo delle interpretazioni, o in genere degli interventi dell'analista, sta non tanto nel loro valore di verità ma nella loro capacità di imprimere nel paziente una direzione futura piuttosto che un'altra, anche per il solo fatto di come sono pronunciate tra i mille modi possibili di dire una stessa cosa (mille modi che però non sono infiniti - e questo è uno dei tentativi con cui Hoffman cerca di collocarsi rispetto alla questione dell'ermeneutica e del post-moderno, nel senso che lui ovviamente non crede che via sia una verità da scoprire, ma una nuova realtà da costruire insieme, anche se comunque vi sono dei "vincoli" della realtà, dei limiti all'interpretazione).

Non posso qui di dilungarmi a parlare di Hoffman, un autore che, come ho detto, invitai col mio gruppo di Bologna a un convegno del 17-10-1998 con Jervis, Fossi, Casonato, Beneduce, De Matteis, ecc. La rivista Ricerca Psicoanalitica, organo della Società Italiana di Psicoanalisi della Relazione (SIPRe), vi dedicò un numero, il 2/2000, con la relazione anche di alcuni membri del mio gruppo (Wilfredo Galliano, Daniela Iotti, Cristiano Martello, Angela Peduto) e commenti di Franco Borgogno e Carlo Rodini; invece la relazione individuale di Cristiano Martello ("Il rituale della psicoanalisi"), che fa l'antropologo, uscì sul n. 14/15, 1998, della rivista di Casonato, Psicoterapia. Io sono abbastanza critico di Hoffman (e anche di Stern, a questo punto), perché ho l'impressione che non siano riusciti a fornire contributi veramente nuovi ai problemi dibattuti dalla psicoanalisi da un secolo a questa parte (se si esclude ovviamente la ricerca empirica di Stern sul bambino, ma questo è più che altro merito del suo laboratorio sperimentale). Se posso esprimere un giudizio a rischio di essere affrettato (dovrei infatti far passare più tempo e prendere maggiore distacco dalle impressioni di questo seminario, prima di fare affermazioni di questo tipo), mi sembra che la importanza di queste posizioni sia più che altro sociologica, nel senso che è tra i tanti indicatori della crisi della psicoanalisi classica, dove molti autorevoli esponenti tutt'a un tratto scoprono che l'interpretazione non funziona più, che l'atteggiamento psicoanalitico classico così come loro l'avevano imparato (o che era stato loro erroneamente insegnato) non è del tutto terapeutico, e così via. Sono insomma fenomeni che ci indicano non tanto come curare meglio i pazienti, quanto come è stata tramandata la psicoanalisi in buona parte di questo secolo. Questa almeno è la mia sensazione (per un approfondimento, rimando ai capitoli 1 e 4 del mio libro Terapia psicoanalitica). Per ora mi fermo, ho già fin troppo approfittato della vostra attenzione. Non ho certo fornito un resoconto fedele del seminario di Daniel Stern, ma alcune mie riflessioni critiche, scritte di getto, che spero però stimolino il vostro interesse (si possono anche andare a leggere le reazioni a queste mie riflessioni da parte di Liotti e di Carere-Comes nel dibattito a cui ho accennato prima, che è al sito Internet http://www.psychomedia.it/pm-lists/debates/sepi3.htm).

Infine, sempre a proposito di una critica a Stern, vorrei ricordare l'importante articolo di Jeanine Vivona sul ruolo del linguaggio in terapia, che ho fatto uscire sul n. 4/2007 di Psicoterapia e Scienze Umane.

Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane
Via Palestro 14, 43100 Parma, tel./fax 0521-960595, E-Mail <migone@unipr.it>

Commenti di Giovanni Liotti e Tullio Carere-Comes a una e-mail di Paolo Migone del 21 aprile 2002:

 

Da Giovanni Liotti, 22 aprile 2002:

Caro Paolo, grazie per il resoconto delle tue impressioni sull'incontro con Stern. Per esprimere la mia gratitudine, butto giù alcune delle riflessioni fatto leggendole (e ovviamente avendo in mente il nostro discorso a quattro).

1. Penso che le interazioni che Stern chiama "now moments" siano fra quelle che possiamo ritenere importanti per il cambiamento in psicoterapia, ma non credo che sia necessario immaginarli come momenti di "destrutturazione", a meno che con questo termine non si intenda quel tipo di cambiamento cognitivo che viene a volte colto con il concetto piagetiano di "accomodation", con quello che giustamente citi di "esperienza correttiva", o similari.

2. Tendo ad assimilare le interazioni in cui si producono "now moments" al superamento di un test (nel senso di Weiss), cioè alla confutazione di una credenza patogena implicita (cioè connessa alla conoscenza procedurale) del paziente, ottenuta attraverso una congettura del terapeuta pure prodottasi nella conoscenza implicita (del terapeuta) che si è riflessa nel suo agire. Se ho capito bene, anche Stern si è soffermato sul rapporto fra WFM e now moments.

3. Non credo che, perché si producano "now moments", il terapeuta debba trovarsi in un stato mentale privo di memoria e desiderio (il famoso stato che dovrebbe essere determinato dalla bioniana faith in O, e che mi appare un concetto fuorviante). Al contrario, credo che lo stato mentale del terapeuta, capace di facilitare il prodursi di "now moments" innescanti un cambiamento terapeutico, sia caratterizzato dal tentativo cosciente (desiderio esplicito) di offrire al paziente una "base sicura" rispetto ai suoi bisogni di attaccamento, oppure di trovare un piano di cooperazione paritetica nel lavoro terapeutico, o ancora semplicemente di sottrarsi ad una interazione sgradevole (esempio: i test che Weiss chiama "da passivo in attivo").

4. Se è così, allora il cambiamento che si produce dopo un "now moment" è simile nella sua struttura a quello che si ottiene quando il terapeuta concepisce in piena coscienza una formulazione del problema del paziente, capace di fornirgli la base per una interpretazione o per un altro intervento, che confuti la credenza patogena. Niente di straordinario, insomma: solo un'ennesima prova della possibilità umana di elaborare conoscenza e formulare congetture tanto sul piano esplicito della più chiara coscienza quanto su quello implicito-procedurale, quanto ancora nei numerosi livelli mentali intermedi fra i primi due (ad esempio: pensiero metaforico della veglia, pensiero onirico come quando "comprendiamo" un problema del paziente attraverso un sogno che lo riguarda, pensiero "musicale" come quello di un mio collega molto dotato nella musica, a cui vengono in mente melodie connesse a emozioni che prova nella relazione col paziente, a cui lui dà molta importanza nei suoi processi di comprensione del caso, etc.).

5. Il punto, dunque, non è secondo me da dove emergano le nostre congetture (dall'elaborazione implicita o da quella esplicita o da quella metaforica della conoscenza), ma se poi le rendiamo esplicite e le vagliamo criticamente (oppure no). E soprattutto, è importante che tentiamo di formularle in modo che si possa immaginare un "esperimento", o una procedura controllata e pubblica, capace di confutarle. Non è invece tanto importante che il tentativo di confutazione avvenga attraverso ricerche su larga scala condotte da grandi gruppi di ricercatori, o in modi più modesti, ovvero addirittura se l'esperimento sia solo immaginario (Einstein, come si sa, procedeva proprio così: formulando le sue ipotesi e poi sottoponendole a esperimenti immaginari: dopo, e da altri, sono stati condotti esperimenti pubblici e non immaginari). Ciò che non apprezzo, insomma, è lo sfuggire al compito di definire le proprie congetture in modo tale che si possa immaginare un esperimento (o una raccolta pubblica e sistematica di dati epidemiologici, etc.) capace di confutarle. Le congetture formulate in modo tale che non sia possibile immaginare un modo di confutarle pubblicamente, possono essere di grande valore estetico o spirituale per chi le formula e per chi le intrattiene, ma non fanno crescere la conoscenza comune e condivisibile. Persino in alcuni ambiti religiosi, basati su una grande congettura inconfutabile (e che infatti non muta, non cresce, resta fissa nel tempo ed anzi è considerata dai credenti relativa a ciò che è fuori del tempo), viene riconosciuta, per tutte le altre congetture, l'importanza della confutazione razionale e sperimentale. Pensate al detto evangelico "Dai loro frutti li riconoscerete", con cui si indica come distinguere le false congetture da quelle migliori. Per me, quelle della psicoterapia rientrano nelle congetture (e nelle conseguenti procedure) comuni a molti membri di una società (condivisibili, pubbliche): quindi è di assoluta importanza formularle in modo che sia possibile sottoporle al vaglio del metodo scientifico.

6. Tornando ai "now moments": la congettura che siano importanti nel determinare il cambiamento terapeutico, è confutabile in linea di principio? Io credo di sì, se è possibile identificarli, da parte di terzi che non siano quel paziente e quel terapeuta, nel trascritto di una qualsiasi terapia di un qualsiasi paziente. Basta allora vedere se i casi di trattamenti in cui ci sono meno "now moments", o non ce ne sono affatto, portano a remissioni di sintomi e disturbi vari meno spesso di quelli in cui ce ne sono tanti. Inoltre si potrebbero immaginare altri esperimenti, in cui ad esempio, terapie senza now moments ma con confutazioni deliberate delle credenze patogene siano messe a confronto con terapie in cui le confutazioni delle credenze patogene avvengono attraverso now moments.

7. Si potrebbe inoltre determinare se i now moments emergono più spesso (o addirittura, come credo, soltanto) durante interazioni terapeuta-paziente coordinate da precisi sistemi motivazionali interpersonali. Io credo che non emergano mai quando la interazione terapeutica è coordinata dal sistema agonistico (dominanza-subordinazione) che a sua volta è tipicamente implicato in molte operazioni terapeutiche basate sull'interpretazione psicoanalitica classica (ovviamente diverso è l'uso dell'interpretazione nella psicoanalisi relazionale), e in tutte le terapie "psicopedagogiche". Credo che invece emergano più facilmente quando l'interazione, non solo nella seduta in cui li si cerca ma anche in almeno un piccolo gruppo di sedute precedenti, è coordinata: [a] dal sistema motivazionale cooperativo, o [b] dal sistema di accudimento nel terapeuta e dal sistema di attaccamento del paziente, ma solo qualora il terapeuta tenti di indurre nel paziente un'esperienza di attaccamento sicuro al posto di quelle insicure contenute nella sua memoria. (Il terapeuta può far ciò anche facendo notare, senza giudizio, al paziente una sua contraddizione, e non solo con atteggiamenti "supportivi": l'accudimento può essere tanto "paterno" quanto "materno" ed ecco un'altra ragione per cui non mi riconosco negli assi di Tullio [cioè padre/madre etc.]).

8. Questa mia congettura su quando si producono i now moments può essere vagliata sperimentalmente (è confutabile). Per farlo, bisogna solo mettere a punto scale di valutazione delle sedute (o tecniche di neuroimaging in un futuro non troppo fantascientifico) che permettano di evidenziare se lo scambio clinico è, in un dato momento, agonistico, cooperativo, di attaccamento-accudimento, o sessuale. Di mettere a punto tali scale alcuni colleghi a Roma, a Torino e a Vicenza cominciano ad occuparsi. Secondo me in quattro o cinque anni ce la fanno [il libro I sistemi motivazionali nel dialogo clinico. Il manuale AIMIT, a cura di Giovanni Liotti e Fabio Monticelli, è usicto con Raffaello Cortina nel 2008] (per mettere a punto l'Adult Attachment Interview nella sua forma preliminare ci sono voluti cinque anni, e per la sua forma attuale, non ancora del tutto soddisfacente, oltre venti).

9. Avanzare queste congetture mira, da parte mia, a dimostrare che esistono alternative all'altra congettura, quella secondo la quale, per citare le parole di Paolo: "Possiamo solo essere grati alla divina provvidenza se accadono questi momenti di autentico incontro tra paziente e analista". Forse possiamo individuare modi per dare una mano alla "divina provvidenza", e per di più vagliare scientificamente se questi modi funzionano bene o no. Se così fosse, potremmo diminuire l'imprevedibilità del fenomeno di cui Stern e il suo gruppo si occupano. E naturalmente potremmo insegnarli, questi modi. Per il momento, pur non sapendo se conducono a maggiore prevedibilità dei now moments, io certamente insegno ai miei allievi come identificare quando si trovano in stati mentali coordinati dal loro sistema mentale cooperativo, o come identificare la sicurezza nell'attaccamento durante interazioni con un paziente adulto, e a privilegiare questi stati, e a cercarli attivamente. Potrei continuare, ma il tempo stringe. Un saluto affettuoso, Gianni

P.S.: Se mai Tullio proponesse una maniera per identificare quando il terapeuta "lavora in O" nel trascritto o nel videotape di una seduta, naturalmente potremmo immaginare esperimenti che vaglino se lavorare in O sia terapeuticamente vantaggioso (e ciò darebbe un dolore a chi come me non sa come liberarsi da memoria e desiderio, ma giuro che mi piegherei al verdetto della ricerca empiricamente controllata). Inoltre, qualcuno potrebbe progettare uno studio per decidere se "lavorare in O" equivalga a una pausa in cui il terapeuta cerca, magari tacendo e cercando un assetto mentale cooperativo ed empatico, di sospendere interazioni agonistiche o di accudimento-attaccamento insicuro. Propendo a immaginare, dal mio punto di vista cognitivo-evoluzionista, che sia questo ciò che Tullio fa nella relazione terapeutica quando afferma di lavorare in O: in tal caso, se anche l'immaginata ricerca dimostrasse che lavorare in O è terapeuticamente giovevole, non ne sarei addolorato, perché di sospendere interazioni agonistiche e di attaccamento insicuro, in terapia, sia pure a volte con grandissima fatica sono capace. Ma temo che Tullio affermi che in O bisogna avere solo fede, che non è definibile, e che non solo non è definibile (anche i qualia della coscienza non lo sono), ma neppure sono indagabili i suoi correlati comportamentali (quelli della coscienza lo sono: vedi Edelman, Damasio, etc.). E allora...

 

Da Tullio Carere-Comes, 23 aprile 2002:

Caro Gianni, ho letto con molto interesse il tuo commento al resoconto di Paolo. Ecco qualche mia riflessione al riguardo.

1. Mi è piaciuta la tua osservazione che i "now moments" emergano più facilmente quando l'interazione è coordinata dal sistema motivazionale cooperativo, o da esperienze riparative di attaccamento sicuro. Mi è piaciuta perché in precedenza, soprattutto nel tuo libro La dimensione interpersonale della coscienza (Roma: La Nuova Italia Scientifica, 1994), mi era parso che tu privilegiassi la cooperazione rispetto alla dipendenza, mentre qui mi sembra che tu metta alla pari i due tipi di interazione. Se è così, viene meno l'obiezione che ti ho fatto in precedenza: non c'è pericolo di adultizzazione se tu tieni presenti, senza preferenze aprioristiche, sia il bisogno del paziente di un'esperienza di attaccamento sicuro, prolungata per tutto il tempo necessario, sia quella di cooperazione paritetica.

2. La relazione tra le due modalità interattive [a] e [b] (cooperazione e attaccamento sicuro) è già di tipo dialettico (me ne compiaccio), anche se solo tra due vertici del campo, invece che tra due assi. La descrizione che dai di queste modalità corrisponde esattamente ai miei vertici K e M, che però io colloco sui due assi che congiungono rispettivamente M a P e K a O, come sai [M è Maternal-reassuring, l'asse materno; P è Paternal-confronting, l'asse paterno; K è Knowledge, la conoscenza; O è l'O di Bion, la cosa in sé]. Le interazioni di vertice P corrispondono a quella modalità che Larry Friedman chiama "adversarial attitude", e che forse tu collegheresti al sistema motivazionale antagonistico. Ma l'atteggiamento oppositivo non nasce dal desiderio del terapeuta di entrare in competizione, bensì da quello di mettere il paziente di fronte a una realtà spiacevole che questi cerca di evitare: è un fattore comune fondamentale, nel senso che nessun terapeuta può sottrarsi a questa funzione, quale che sia il metodo che dichiara di applicare, e che è evidentemente diverso dai primi due. I caregiver (non importa chi siano) debbono svolgere entrambe queste funzioni fondamentali: offrire un'esperienza di base sicura, e spingere gradualmente il bambino fuori da questa base, per confrontarsi con le mille contrarietà del mondo o i mille conflitti tra desiderio e realtà. Entrambe queste funzioni debbono trovare espressione nel campo della terapia: di qualsiasi terapia.

Quanto al vertice O, corrisponde a un'altra funzione fondamentale in qualsiasi terapia, quella cui Hoffman si riferisce con il termine "spontaneità". F in O significa semplicemente affidamento all'ignoto, al non sapere, ed è quello che facciamo tutti quando ci affidiamo all'intuizione del momento, o all'ispirazione, e compiamo un gesto spontaneo, non ragionato, non calcolato, ma sentito come "la cosa giusta" da fare in un momento determinato. Mettere tra parentesi la memoria e il desiderio vuol dire essere completamente presenti alla situazione, non seguire la teoria, non fare o vagliare ipotesi, non essere condizionati da aspettative, nemmeno quella di risanare. Non dico che sia una condizione facile da raggiungere, dico solo che è fondamentale. Tutta la cultura orientale ruota intorno a questo "vuoto mentale", alla semplicità e spontaneità della "non-mente": tutte le tecniche di meditazione puntano a questo. Non è necessario che il terapeuta sia un maestro di meditazione, ma una certa capacità di stare nel non sapere, nel vuoto mentale deve averla: se non ce l'ha, non è un uomo libero, è un uomo affetto da epistemofilia, uno che è perduto se non può aggrapparsi a qualche teoria o a qualche ipotesi, confutabile o meno. Solo il terapeuta capace di sospendere teorie, ipotesi e ogni sapere è un terapeuta libero di applicare ogni teoria e formulare qualsiasi ipotesi senza esserne condizionato.

3. Sono d'accordo con te che i "now moments", se li intendiamo genericamente come momenti di cambiamento e di svolta (ma forse Stern non sarebbe del tutto d'accordo), possono derivare dai tuoi [a] e [b]. Aggiungo solo che possono derivare anche dai miei [c] e [d]. Ma soprattutto dalla capacità del terapeuta di fornire una delle quattro risposte, o una qualsiasi combinazione di due o più risposte, precisamente quando il paziente ne ha bisogno. Spero che quando avrai un po' di tempo leggerai il mio breve articolo "The logic of the psychotherapeutic relationship" (www.cyberpsych.org/sepi/logic.htm), in cui commento la posizione di Friedman che ha molte analogie con la tua. Anche lui vede la terapia come generata da due posizioni base, solo che per lui sono P e K, mentre per te sono M e K. La posizione O non è considerata da nessuno dei due, forse perché non è facilmente codificabile. Tuttavia, non solo è empiricamente constatabile (qualsiasi terapeuta non stereotipato usa una certa dose di spontaneità o creatività), ma è anche logicamente necessaria, per quanto detto sopra: chi non può affidarsi al vuoto ha paura del vuoto, e se consideriamo che la paura del vuoto (o della mancanza) è il tema centrale dell'esistenza umana (come ci ricordava Diego Napolitani: ognuno di noi deve fare i conti col suo taglio di Fontana), come può aiutare il suo paziente a liberarsi di questa paura un terapeuta che non l'ha affrontata, e non avendola affrontata è costretto ad aggrapparsi a qualcosa per salvarsi? (I terapeuti si aggrappano alle loro credenze, le loro teorie, i loro metodi, e nella misura in cui si aggrappano non sono liberi, e nella misura in cui non sono liberi non possono liberare il paziente).

4. Il mio modello a due assi e quattro vertici è il prodotto di una ricerca. Non una ricerca sperimentale, naturalmente: una ricerca euristica. Non ho fatto esperimenti, ma mi baso su evidenze che sono sotto gli occhi di tutti e su argomentazioni che mi sembrano difficilmente oppugnabili. Naturalmente mi si può obiettare che ciò che per me è evidente per altri non lo è (per es. il vertice O a molti non è affatto evidente), e che le mie argomentazioni sono oppugnabilissime. Certo, la ricerca procede precisamente così: continuo a presentare le mie evidenze, e riformulo continuamente le mie argomentazioni, proprio per confrontare le une e le altre, in modo che da questo confronto altri vedano quello che vedo io, o io veda quello che vedono loro, o io o loro vediamo che ciò che credevamo di vedere invece non esiste. La ricerca è sempre stata questa, fondamentalmente. Certamente in alcuni casi la ricerca, oltre che di questo confronto di evidenze e argomentazioni, si può giovare anche di esperimenti (come quando Socrate fece dimostrare il teorema di Pitagora a uno schiavo). Ma bisogna vedere se ne vale la pena.

Per cominciare, l'esperimento può essere immaginato, per seguire l'iter suggerito da te. Una seduta può essere siglata, come ho già detto in un messaggio precedente, per esempio M3, P2, K1, O2, misurando la presenza relativa del terapeuta nei diversi vertici. Anzi, non l'ho solo immaginato, ho fatto anche delle prove preliminari, e ho persino iniziato a testare con un collaboratore il grado di concordanza delle rispettive siglature (abbastanza buono, come prima impressione). Analogamente è possibile misurare la presenza del paziente negli stessi vertici (cioè il bisogno del paziente di trovare una base sicura, eccetera). E quindi la concordanza tra bisogno del paziente e risposta del terapeuta. E infine la correlazione tra il grado di questa concordanza e qualità della seduta (buona, sufficiente, scarsa) - l'ipotesi (confutabile) è che ci sia una buona correlazione tra grado di concordanza paziente/terapeuta, così misurato, e qualità dell'esito della seduta (la "buona seduta").

Tutto questo è senz'altro fattibile. Ma, a parte il fatto che non ho i mezzi per andare oltre una fase preliminare (chi mi paga i tre ricercatori a tempo pieno, eccetera?), anche se li avessi non avrei molta voglia di impiegare il mio tempo in un lavoro del genere. Sarebbe molto trendy, di sicuro. Ma mi distoglierebbe dal lavoro che a me sembra più significativo, che è quello di cogliere e mostrare le evidenze, e argomentare su queste. Ed è precisamente quello che facciamo sulla nostra barca, troppo piccola per impiantarci un laboratorio per fare esperimenti ma sufficientemente spaziosa per mostrarci l'un l'altro le rispettive evidenze, e esporre le rispettive argomentazioni. Questo è ciò che chiamo ricerca euristica, e che mi sembra molto più importante di qualsiasi esperimento. Gli esperimenti sono importanti in altre scienze, in cui i dati sono più facilmente oggettivabili senza eccessive forzature, ma a me (come alla maggior parte degli psicoterapeuti) non sembra che abbiano un'importanza più che marginale in una disciplina che ha che fare con dati eminentemente soggettivi come la nostra. Ma anche questa è un'argomentazione: sono pronto a cambiare idea, se mi presenterete evidenze e argomenti che mi indurranno a farlo. Tullio


Il Ruolo Terapeutico, 2003, 93: 50-55

Uno scambio di lettere su Stern (Tullio Carere-Comes, Bergamo, e Paolo Migone, Parma)

Da Tullio Carere-Comes, 19 aprile 2003:

Caro Paolo, ti mando alcune riflessioni, stimolato dalla rilettura della tua rubrica su Stern nell'ultimo numero del Ruolo Terapeutico, 92/2003. Svolgi come sempre in modo eccezionale la tua funzione di "storico della psicoanalisi", attentissimo a tutto quello che succede nel campo, e preziosissimo per tutti i riferimenti bibliografici e in rete. Sei una vera miniera. Però non ho trovato nel tuo commento nessuna apertura nei confronti dei fermenti di vera novità offerti da Stern (che giustamente ricolleghi al lavoro di Hoffman). Penso che Stern e Hoffman si sentirebbero piuttosto frustrati con te (come mi sento io), che non riesci a vedere niente di veramente nuovo nel loro lavoro, liquidato come semplice "indicatore della crisi della psicoanalisi classica".

In sostanza, sia Stern che Hoffman sottolineano la necessità di inserire il momento della spontaneità e dell'imprevisto come parte integrante ed essenziale della relazione terapeutica (quel momento che io ho inserito nel mio modello [vedi il sito Internet http://www.psychomedia.it/pm/modther/modndx1.htm] come "vertice O" [mutuato da Bion], il luogo in cui il terapeuta si muove come un mistico o un artista). Naturalmente qualsiasi terapeuta di qualsiasi scuola ammetterebbe che in ogni terapia ci sono questi momenti, ma quello che di solito ne fa è lasciarli ai margini come irrilevanti, o non degni di considerazione teorica, o (sotto l'influsso del giustificazionismo popperiano) come nient'altro che fonti di ipotesi da sottoporre a test. La differenza, in Stern e Hoffman (aggiungerei anche la Bucci), è che in questi autori i now moments non sono eventi irrilevanti, o rilevanti solo nella misura in cui possono essere (riduttivamente, popperianamente) trasformati in ipotesi da sottoporre a test empirico. Sono momenti che hanno valore terapeutico di per sé, in their own right: forse il valore terapeutico più alto in assoluto.

Il punto essenziale è che nessuno di loro in questo studio si pone al di fuori della scienza (superfluo ricordare che Stern e Bucci sono ricercatori rinomati). Rifiutano il riduzionismo scientifico di marca popperiana, ma rivendicano una visione allargata dell'impresa scientifica. Come hai giustamente osservato, "Hoffman, proprio come Stern, dice che ovviamente non è la spontaneità in quanto tale che conta, ma il suo potere deriva dal fatto che è inserita all'interno di un rituale... è il saper vedere in modo dialettico l'antitesi tra spontaneità e ritualità l'aspetto magico della psicoanalisi, nel senso che è la corretta gestione di questa dialettica quella che è maggiormente pregna di implicazioni terapeutiche". Io ho detto le stesse cose nei termini del mio modello: quello che fa la differenza è l'articolazione dialettica tra K e O (termini sempre di Bion), tra conoscenza e spontaneità, tra scienza e mistica. Ma per la "corretta gestione di questa dialettica" occorre vedere la relativa autonomia dei due poli. Non c'è dialettica se il mistico è solo un fornitore di ipotesi, e il momento cruciale e qualificante resta la verifica empirica delle ipotesi. C'è vera dialettica (e vero dialogo) solo se lo scienziato non prevale sul mistico, né il mistico sullo scienziato. In una prospettiva dialettica il mistico è anche un fornitore di ipotesi per lo scienziato, e reciprocamente lo scienziato è anche uno studioso di procedure atte a favorire i now moments (per esempio, tecniche meditative).

Analogamente, per la Bucci non si tratta di "far venire l'Io dov'era l'Es", come voleva Freud, cioè di far prevalere l'ordine simbolico su quello presimbolico: anche qui l'obiettivo è di stabilire un movimento bidirezionale tra simbolico e presimbolico - una dialettica tra O e K, come avevano anticipato Bion e Loewald. Questo inquadramento dialettico cambia radicalmente il modo di intendere l'impresa scientifica rispetto al riduzionismo scientistico. Il terapeuta-scienziato (il terapeuta nel vertice scientifico della terapia) che ha riguadagnato la prospettiva dialettica non privilegia i dati rispetto all'argomentazione o viceversa, né la falsificazione rispetto alla verifica o viceversa, né la deduzione rispetto all'induzione o viceversa, né la ricerca euristica rispetto a quella empirica o viceversa. Il terapeuta che lavora a tutto campo non privilegia la scienza rispetto all'ermeneutica o viceversa, l'approccio object-oriented rispetto a quello subject-oriented o viceversa, ma di volta in volta cerca il punto di equilibrio più appropriato all'interno di ognuna di queste polarità (punto che può trovarsi, nel caso specifico o per un terapeuta specifico, più vicino all'uno piuttosto che all'altro polo).

In questa visione puoi capire gente come Bion e Loewald, come Stern e Hoffman, e come (nel mio piccolo) me stesso. Altrimenti ti fanno (ti facciamo, vi facciamo) arrabbiare e basta, e ci prendi (ci prendete), nella migliore delle ipotesi, come sintomi della crisi della psicoanalisi.

Da Paolo Migone, 20 Aprile 2003:

Caro Tullio, mi ha fatto piacere che hai letto la mia critica a Stern, che poi non è altro che la e-mail che mandai tempo fa alla nostra minilista della sezione italiana della Society for the Exploration of Psychotherapy Integration (SEPI-Italia), e-mail che fu commentata da te e da Gianni Liotti. In sintesi, riassumo il motivo per cui non sono d'accordo nel trovare un aspetto di novità nelle posizioni di Stern e Hoffman, come spiegai in quella e-mail. Quello che Stern e Hoffman oggi hanno "scoperto" non è altro che l'aspetto che circa un secolo fa ha caratterizzato la nascita della psicoanalisi come disciplina, cioè la possibilità che analista e paziente possano essere sorpresi dalla scoperta, dall'emergere di qualcosa di ignoto, di imprevisto, e tutto questo è catturato dalla tecnica (complessa e paradossale) delle associazioni libere. Tutte le altre osservazioni di Stern e Hoffman su questo punto a me sembrano fronzoli (e come ho detto nella mia letter to the editor pubblicata nel n. 5/2001 dell'International Journal of Psychonalysis, che è anche al sito Internet http://ijpa.org/letter2oct01.htm, a me sembra che questa sia l'unica vera differenza che rimane tra la tecnica della psicoanalisi e quella della terapia cognitiva, e non è escluso che anch'essa un giorno sparisca).

Sulle altre questioni, mi sembra che riemergano le nostre divergenze, molto profonde, sulla cornice teorica generale adottata, cioè sulla dialettica tra scienza e mistica come sovraordinata a tutto il resto (cioè, in sostanza, sulla concezione della dialettica come fu criticata da Gianni Liotti tempo fa). Questa è una grossa differenza di prospettiva, perché, a differenza di te, io (e penso anche Gianni Liotti e Giorgio G. Alberti) mi colloco all'interno dell'ottica scientifica per vedere le cose, non all'esterno (altrimenti semplicemente la scienza non esisterebbe più). E' vero che aspetti cosiddetti mistici esistono per così dire "in natura", ma nella misura in cui li osservi e li studi ricadi all'interno di un vertice, non fuori da esso, altrimenti si fa una operazione scorretta e incoerente. Questa è anche la grossa differenza tra te e Westen, mi sembra (e anche tra te e la Bucci, ovviamente). E' sicuramente una grossa differenza, che definirei filosofica, sulla quale peraltro abbiamo discusso ad nauseam nei mesi scorsi, per cui qui non ci ritorno e ti risparmio.

Da Tullio Carere-Comes, 24 Aprile 2003:

Caro Paolo, la tua riduzione delle scoperte di Stern e Hoffman a "nient'altro che" la vecchia tecnica delle associazioni libere (l'ennesima scoperta dell'acqua calda) non mi sembra cogliere la sostanza della questione. Ammettiamo pure che la tecnica delle associazioni libere sia estesa fino a includere non solo le associazioni mentali vere e proprie, ma anche eventi e comportamenti; ammettiamo anche che sia utilizzabile in perfetta reciprocità dal terapeuta come dal paziente (per quanto nel setting psicoanalitico alle libere associazioni del paziente si contrapponga l'attenzione liberamente fluttuante dell'analista, non un analista anche lui liberamente associante). Consideriamo dunque questo analista che si muove in modo libero e spontaneo sulla scena analitica, con un interpretazione un po' disinvolta della regola delle libere associazioni. Anche volendo stiracchiare la regola fino a includere tutto questo, non siamo ancora al punto essenziale delle posizioni di Stern e Hoffman.

La tecnica delle libere associazioni, anche nella tua versione così generosamente estesa, è sempre e comunque una tecnica che rimane all'interno dell'orizzonte psicoanalitico classico nella misura in cui si propone di far emergere contenuti del processo primario da catturare con le reti del processo secondario - o contenuti inconsci da trattare con l'interpretazione. Si tratta sempre di una logica lineare (come ti ha fatto notare Stern a Milano), una logica che va da A a B, dal primario al secondario, dall'inconscio alla coscienza. Ma non è questa la logica di Stern e Hoffman (o, prima di loro, di Bion e Loewald). Come giustamente hai notato, la loro è una logica dialettica. La differenza sostanziale è che qui il movimento è bidirezionale: dal presimbolico al simbolico e viceversa, da O a K e viceversa, dalla mistica alla scienza e viceversa, eccetera. Stern ha cercato di farti notare che in questa logica circolare siamo su tutt'altro piano rispetto a quello delle libere associazioni e della psicoanalisi classica, ma tu ancora una volta hai liquidato la sua osservazione citando degli esempi di "uso freudiano della causalità circolare" ("sovradeterminazione del sintomo", "interpretazione parziale"). La tua obiezione è quella classica: Freud non è mai superato, perché Freud aveva già visto e capito tutto.

Senza entrare nel merito dei tuoi esempi, non voglio negare che sia possibile, spulciando l'opera omnia di Freud, trovare qualche passo che dimostri che Freud non era all'oscuro della logica circolare. Ma questo non toglie il fatto che basilarmente tanto la psicoanalisi classica, quanto quel connubio di psicoanalisi e cognitivismo che si va affermando oggi all'insegna dell'"approccio scientifico", quanto in particolare la tua personale posizione e quella degli amici Gianni Liotti e Giorgio G. Alberti con cui ci siamo tanto intensamente confrontati negli ultimi due anni, sono agli antipodi della logica dialettica. Come scrivevi per esempio il 22 aprile nel nostro minigruppo di discussione: "...non è possibile un accordo tra noi, perché si scontrano due modi di vedere inconciliabili, dato che la caratterizzazione centrale della nostra posizione consiste proprio nella negazione della caratterizzazione centrale della tua (la cosiddetta dialettica)". Come dire: a quel poco che la dialettica può avere di valido, Freud era già arrivato. Per il resto, o è un "modo di vedere inconciliabile" (col tuo, col vostro, con la scienza, con la mainstream psychoanalysis), o semplicemente non esiste (l'aggettivo "cosiddetta" riferito alla dialettica sembra suggerire che la dialettica non sia altro che un malinteso, un'accozzaglia di posizioni confuse e insostenibili, in quanto "non scientifiche").

Lo stesso artificio retorico è stato largamente usato nel dibattito in rete che ha preceduto e seguito il Primo Congresso SEPI-Italia. Da una parte i "moderni" object-oriented (psicoanalisi, comportamentismo, cognitivismo che si ispirano al modello classico delle scienze naturali), dall'altra i "postmoderni" subject-oriented (ermeneutica, costruttivismo, contestualismo). Io in mezzo, a cercare di mediare - e bersagliato dalle rampogne dell'una e dell'altra parte, come è normale e giusto che accada ai mediatori non richiesti. Infatti le due parti non erano affatto interessate a mediare, ma solo a negare l'esistenza o la consistenza della controparte. La tecnica che hai usato per liquidare Stern è stata usata a man bassa nel dibattito: se la controparte ha eventualmente detto qualcosa di valido, l'abbiamo detto anche noi (e l'abbiamo detto meglio); il resto sono fronzoli.

Il pensiero dialettico meriterebbe un po' più di attenzione - e, forse, di rispetto - se non altro perché sa accogliere la contraddizione che oggi spacca il nostro campo, senza bisogno di negare l'uno o l'altro termine con operazioni riduttive, per le quali le tesi della controparte "non sono altro che"…

Da Paolo Migone, 29 aprile 2003:

Caro Tullio, mi inviti a ritornare, questa volta per i lettori del Ruolo Terapeutico, su alcuni dei temi che per due lunghi anni ci hanno coinvolto nella nostro minigruppo della SEPI-Italia. Qui non abbiamo tutto lo spazio che avevamo nei nostri dibattiti, per cui dovrò essere stringato. Come puoi ben immaginare, ancora una volta non sono d'accordo con te. Qui comunque a me sembra che non entri nel cuore dei problemi, ma fai delle osservazioni generali in cui ribadisci che preferisci la "dialettica" perché media tra le diverse posizioni, come se tutte fossero sbagliate solo perché ce ne sono altre opposte. Io ritengo invece che vi siano posizioni giuste e altre sbagliate (o meno giuste, il concetto è lo stesso), e non penso che due posizioni opposte debbano per forza essere viste come poli di una dialettica, cioè messe sullo stesso piano. A questo proposito tu in passato hai risposto dicendo che vi sono contraddizioni dialettiche e altre che non lo sono, ma dato che non siamo assolutamente d'accordo su quali rientrino nell'una o nell'altra categoria, siamo da capo e il nostro disaccordo rimane tale e quale. Ho cercato più volte, nel nostro dibattito, di farti notare quella che a me sembra una contraddizione interna alla tua argomentazione quando ti chiedevo, ad esempio, come risolvi "la dialettica tra una posizione dialettica e una posizione non dialettica", nel senso che mi sembra che ci sia un errore a monte nei livelli di astrazione concettuale (sulla concezione dialettica, e su Popper, rimando comunque alle critiche che ti fece Gianni Liotti, che conosce questi argomenti più di me).

Ma non voglio tediare i lettori con argomentazioni che possono essere meglio comprese solo alla luce del nostro lungo dibattito interno, e preferisco accennare alla questione da te sollevata in merito alle associazioni libere. Ribadisco la mia convinzione, e cioè che la tecnica delle associazioni libere, che differenzia meglio la psicoanalisi da altri approcci, contiene in nuce la possibilità di essere sorpresi dall'emergere di contenuti imprevisti, e non mi sembra che Stern qui scopra cose nuove (in realtà la ricerca di Stern verte più sul tentativo di vedere le implicazioni dell'importante ruolo della memoria implicita, procedurale, per quanto riguarda i fattori curativi nella terapia degli adulti, e questo è un problema un po' diverso). Le altre questioni, quelle della causalità lineare, o di un nuovo tipo di scienza (che comunque ha le sue regole "scientifiche", qualunque esse siano), o del rapporto tra (le cosiddette) scienza e mistica, e così via, a mio parere non c'entrano con questa problematica (e, se c'entrano, risentono della errata impostazione dei problemi a monte a cui accennavo prima).

Mi scuso se per mancanza di spazio qui non riesco a rispondere in modo più approfondito a tutte le tue obiezioni, né posso sensatamente entrare nel merito dei grossi temi che tu menzioni, quali ermeneutica, costruttivismo, contestualismo, moderni object-oriented, post-moderni subject-oriented, o circolarità tra simbolico e sub-simbolico nella Bucci (la quale, peraltro, è radicalmente anti-ermeneuta e anti-postmoderna - e questo è un esempio di quelli che secondo me sono confusioni nei livelli di astrazione). Rimanderei al nostro lungo dibattito pre- e post-congressuale SEPI-Italia che è su Internet, linkato al sito del congresso: www.psychomedia.it/pm-cong/2002/sepi02mi.htm (si faccia attenzione, però, perché è molto lungo, anche se diviso in parti, e prima di stamparlo - e quindi di consumare tanta carta e inchiostro - consiglierei di salvarlo su disco). Ti saluto quindi, caro Tullio, con affetto e in modo rigorosamente... non dialettico.


Il seguente dibattito doveva uscire sul Il Ruolo Terapeutico, 2003, 94, ma non fu pubblicato:

 

Commento al dibattito tra Tullio Carere-Comes e Paolo Migone

Sergio Benvenuto, Roma

Allo strascico di dibattito tra Carere-Comes e Migone (Il Ruolo Terapeutico, 2003, 93: 50-55) posso solo aggiungere quel che ho ripetuto nel corso di qualche anno nella nostra palestra SEPI - con effetti di convinzione, devo riconoscerlo, quasi nulli. Nel corso di questi anni ho detto che la discussione SEPI rischiava di infognarsi attorno ad una dicotomia che considero fuorviante: se psicoanalisi e/o psicoterapia devono basarsi sulla conoscenza scientifica (seguendo quindi i criteri oggi condivisi nella comunità scientifica) oppure se è possibile per loro sviluppare un sapere ermeneutico, mistico, post-moderno, o comunque lo si voglia chiamare, diverso da quello della scienza. Per usare i termini di Carere, la scelta sarebbe tra i "moderni" object-oriented e i "postmoderni" subject-oriented.

Né credo che una terza via consista nel "dialettizzare" questi opposti - come vorrebbe fare Carere - per la semplice ragione che per me si tratta di falsi opposti. La "sintesi dialettica" resta in fondo sempre concettualmente dipendente dalla contraddizione che pretende di superare. E' da notare che anche i grandi hegeliani della teoria della scienza - come Kuhn, Lakatos e Feyerabend - non si dicono affatto "dialettici": in un confronto tra paradigmi scientifici non vince quello che sintetizza una contraddizione, ma direi, piuttosto, un paradigma che vanifica la contraddizione, ai cui occhi insomma la contraddizione appare falsa. Il che è ben diverso. Mi pare che Carere resti fedele a una vecchia concezione della dialettica come sintesi degli opposti, a cui oggi è difficile credere. Le dialettiche moderne non sono "sintetiche".

Quanto all'idea secondo cui la specificità della psicoterapia sarebbe nel momento della spontaneità e dell'imprevisto - il tema di Stern e Hoffman - mi pare che Migone abbia ragione nel considerarla irrilevante. Infatti, anche nelle scienze dure la funzione della serendipity - come la si preferisce chiamare oggi - è stata più volte messa in evidenza come essenziale. La serendipity funziona in tutti i campi, non certo solo nella psicoterapia.

Credo che una delle frasi più illuminanti che Freud abbia mai pronunciato è quella in cui ha detto: "tre sono i mestieri impossibili: educare, governare, psicoanalizzare".  L'analista viene qui equiparato non a figure "scientifiche" - come il fisico, il sociologo, il matematico - ma a figure "pratiche", come l'educatore e l'amministratore politico. Ma perché governare ed educare sarebbero mestieri impossibili?

Di fatto, è inevitabile che si educhi e si governi. Chiunque abbia figli o allievi è ipso facto un educatore - ed educhiamo anche, senza volerlo, nostra moglie, nostro marito, i nostri genitori, certi nostri amici... Educare è impossibile proprio perché, nella vita, è impossibile non educare. Quanto a governare, nessuno sa bene che cosa sia un buon governante, eppure occorre che qualcuno governi. Governare è impossibile perché è impossibile che non ci sia un governo.

Ma psicoanalizzare non è invece un optional? Mi chiedo se oggi questo sia poi così vero. Nella nostra società una serie di persone si rivolgono ad altre persone sedicenti specialisti perché ad un certo punto sentono che è impossibile non farlo. Ovviamente, come nessuno sa cosa dovrebbe essere un buon educatore e un buon governante, analogamente nessuno sa precisamente che cosa dovrebbe essere un buon shrink, come lo chiamano gli americani. A un certo punto, certe persone devono vedere uno strizzacervelli. E un certo numero di nostri concittadini si presta a questo incontro, i cui effetti non sono dovuti, secondo me, al sapere scientifico o preteso tale di questi specialisti più o meno autorizzati. Tutti conosciamo degli autentici ignoranti che hanno una folta e soddisfatta clientela, mentre veri scienziati della psicoterapia  prendono una serie di granchi.

Il sapere psicoanalitico è quindi paragonabile a quello dell'educatore e del politico. Ora, chi mai direbbe che Berlusconi ha vinto le elezioni perché è uno "scienziato della politica"? Oppure che don Milani ha lasciato un segno nel mondo educativo perché era uno "scienziato dell'educazione"? Il successo in politica, educazione, e psicoterapia è di tipo pratico, non scientifico - occorre un sapere pratico (quella che io chiamo "psicoprudenza"), che non è estraneo alla conoscenza scientifica ma che è ad essa incommensurabile.

Si dirà: ma non esistono scienziati della politica e scienziati dell'educazione? Machiavelli non è celebrato come iniziatore della scienza politica? Ma sarebbe assurdo identificare gli scienziati della politica con i politici veri: di solito i primi sono professori universitari, i secondi sono persone come D'Alema, che non ha perso tempo nemmeno a prendersi una laurea (tralascerò l'esempio dell'educazione per non complicare il quadro). Ora, con questo non voglio dire che i leader politici siano privi di sapere oggettivo - o almeno, lo spero. Immagino che Berlusconi o D'Alema sappiano qualcosa dell'economia italiana, della composizione sociale del paese, che leggano statistiche, ricostruzioni storiche e sondaggi. Ma quando Bush decide di attaccare l'Iraq e Berlusconi decide di schierarsi con lui, ha senso chiedersi "lo fa scientificamente oppure no?". Si tratta solo di scelte politiche, in quanto tali rischiose. Ma lo psicoanalista che cosa fa di così diverso?

Anche lo psicoanalista dovrebbe essere una persona colta - ahimè, non sempre lo è! - dovrebbe conoscere le scienze e i fatti connessi alla sua pratica. Ad esempio, è importante secondo me che conosca bene la psichiatria del proprio tempo. Inoltre sarebbe bene che leggesse la parte più importante della letteratura psicoanalitica. Ma un analista è bravo non perché elabora teorie scientifiche - come non le elaborano Berlusconi o D'Alema. Certo, molti sperano che un giorno l'azione politica possa essere illuminata da una Scienza Politica rigorosa (questo era il sogno - illusorio - dei leader marxisti), che le decisioni politiche insomma assomiglino a quelle dell'ingegnere, il quale sa a quali precise condizioni il ponte non cadrà. Ma nella cura degli esseri umani - come nel governarli e nell'educarli - questo non è possibile per una ragione molto semplice: che il mondo umano è quel che la scienza di punta oggi chiama sistemi complessi o caotici. Si tratta di sistemi che evolvono in modo imprevedibile e poco controllabile. Nessun biologo sa quali saranno le specie animali che la Natura avrà deciso di far esistere tra un milione di anni; nessun politico sa quale sarà l'assetto politico del pianeta tra un secolo; e nessun educatore, foss'anche Aristotele o Einstein, sa se il bambino di tre anni che sta tirando su diventerà un genio matematico, un artista alcolizzato, un business man o un fannullone. Il buon curatore, politico o educatore, obbedisce a criteri che non sono quelli della predicibilità scientifica, proprio perché non opera con sistemi lineari.

Il sogno di "popperianizzare" la psicoterapia deriva da una svista: credere che il mondo dei soggetti umani sia simile al "Dio che non gioca a dadi" di Einstein (per Dio Einstein intendeva la natura), riducibile cioè a processi deterministici e sostanzialmente lineari come descritti dalla fisica classica. Quel che mi lascia perplesso in molte teorie psicoterapiche di tipo cognitivista non è il fatto che si vogliano scientifiche - credo che si possa e si debba fare scienza di tutto, anche delle sofferenze spirituali - è piuttosto la discrasia tra metodo utilizzato (di solito alquanto semplicistico) e oggetto considerato (molto complesso). Per spiegarmi, porterò un esempio tratto dalla fisica.

Galileo provò a calcolare la velocità della luce con un esperimento semplice: da una torre uno accendeva una luce di notte ad un'ora precisa, da un'altra torre, visibile dalla prima ma lontana, un altro registrava l'ora precisa. Questo esperimento non portò a nulla perché Galileo, sebbene fosse un genio, non sapeva che la velocità della luce era tale (300.0000 km al secondo) che la sua scala di osservazione era troppo grossolana. E' solo con il sistema della ruota dentata che gira a grande velocità - inventato, se non ricordo male, da Fresnel - che fu possibile calcolare precisamente la velocità della luce. Ecco, mi pare che gran parte delle teorie psicoterapiche siano come la luce tra le due torri di Galileo: del tutto inadeguate - in questo caso non alla velocità ma alla complessità del loro oggetto. Tutto qui.

Come gli esseri umani hanno fatto politica ed hanno educato da quando esistono, molto prima che fossero inventate la "scienza" politica e la "scienza" pedagogica, analogamente si sono curate psicologicamente le persone da sempre, molto prima che la psicoterapia scimmiottasse (sic) le scienze moderne. (Ripeto: questo non esime lo psicoterapeuta dal conoscere il sapere fattuale nel frattempo accumulatosi nel campo "psic"). Certo, come la politica può essere oggetto di indagine scientifica, anche la psicoanalisi può esserlo - gli studi di Kächele, ad esempio, vanno visti come una sorta di meta-psicoanalisi, ovvero, un'indagine scientifica sulla pratica analitica. Ma è un errore pensare che politica e psicoanalisi siano esse stesse scienze.

Ma proprio come la politica e l'educazione, la cura psicoterapica o analitica non può sfuggire alla dimensione etica. I problemi politici non sono solo problemi di ingegneria sociale: un problema socio-economico può oggettivamente essere risolto sterminando una minoranza etnica, ad esempio, ma una scelta politica consisterà proprio nel fatto di rifiutare questa soluzione. Analogamente, diffido della psicoterapia tecnocratica in quanto essa rimuove completamente la dimensione etica: come se si trattasse solo di curare sintomi sgradevoli così come si cura una polmonite. Di fatto, l'analista o psicoterapeuta fa delle scelte etiche, non solo tecniche - non diversamente dal politico o dall'educatore. E così come Churchill offrì ai suoi concittadini sudore, lacrime e sangue, analogamente un analista può offrire, ad un certo punto, più angoscia e depressione ad un soggetto, se il fine è lungimirante. Ad esempio, si rifiuterebbe di curare un depresso spingendolo verso una setta buddista magari superstiziosa, anche se fosse dimostrato (come alcuni stanno cercando di dimostrare) che nelle sette buddiste gli adepti in media sono più felici della media della popolazione. Non perché ci sia in sé qualcosa di male nel buddismo, ma perché lo psicoanalista (parlo ora solo per lui) non accetta eticamente questo tipo di "cura". Se si scotomizza la fondamentale posizione etica, ci si infognerà sempre più nelle false diatribe tra metodo scientifico versus approccio post-moderno. Questo dilemma è più un artefatto giornalistico che un modo di porre correttamente i problemi reali.

Benché io sia persuaso che questo mio ragionamento è corretto, non spero di avervi convinto. Perché so che le menti umane - anche le vostre - sono troppo complesse per lasciarsi convincere da argomenti semplici come i miei.

 

Risposta a Sergio Benvenuto

Tullio Carere-Comes, Bergamo

Il secondo convegno SEPI-Italia avrà per tema "Curing patients, caring for subjects" [Nota: in realtà il secondo congresso della SEPI-Italia avrà un altro titolo: Tullio Carere-Comes, Patrizia Adami Rook & Luca Panseri, a cura di, Che cosa unisce gli psicoterapeuti (e che cosa li separa). La pratica dell'integrazione in psicoterapia. Atti del 2° Congresso SEPI-Italia, Firenze, 24-26 Marzo 2006. Firenze: Vertici, 2007]. Il titolo, proposto da Benvenuto, allude alla dicotomia fra trattamenti "object-oriented" e "subject-oriented" emersa nel dibattito che ha preceduto e seguito il primo convegno. Benvenuto ha proposto questo titolo perché riflette la spaccatura di fatto esistente nel nostro campo, nonostante la dicotomia o contraddizione che indica gli sembri fuorviante. Ma perché questa contraddizione è ritenuta fuorviante o falsa?

In primo luogo perché, osserva Benvenuto nel suo intervento, il momento della spontaneità e dell'imprevisto non è specifico della psicoterapia, ma "funziona in tutti i campi" (d'accordo, ma chi ha mai detto il contrario?). In secondo luogo perché l'operazione psicoterapeutica "è di tipo pratico, non scientifico". La psicoterapia è un "mestiere impossibile" come la politica, in cui hanno successo i D'Alema e i Berlusconi che non si possono certo definire scienziati. Pretendere di sottoporre la nostra disciplina ai procedimenti "popperiani" è una "svista", perché "il mondo umano è quel che la scienza di punta oggi chiama sistemi complessi o caotici. Si tratta di sistemi che evolvono in modo imprevedibile e poco controllabile". La psicoterapia è pertanto una disciplina apparentata con l'etica, molto più che con la scienza: "Se si scotomizza la fondamentale posizione etica, ci si infognerà sempre più nelle false diatribe tra metodo scientifico versus approccio post-moderno". Ecco quindi da dove nasce la falsa diatriba: dall'aver perso di vista la posizione fondamentalmente etica della psicoterapia.

Dal punto di vista di Benvenuto, l'approccio scientifico (sperimentale, popperiano) alla psicoterapia è una svista. Equivale a pretendere di cogliere con le categorie della regolarità e prevedibilità il mondo umano che essenzialmente è "imprevedibile e poco controllabile". Se il fondamento della psicoterapia non è scientifico ma etico (e quindi essenzialmente soggettivo), anche il tentativo di porre in relazione dialettica approccio oggettivo e approccio soggettivo, o (se si preferisce) fede nella prevedibilità (K) e fede nell'imprevedibilità (O), è fuorviante. Non si tratterà di trovare una sintesi tra due falsi opposti, ma piuttosto di "vanificare la contraddizione", cioè mostrare che è falsa.

Dal punto di vista opposto, rappresentato nel dibattito SEPI da Liotti, Migone e Alberti, il fondamento di una psicoterapia che voglia emanciparsi dall'arbitrio delle pratiche (allo stesso modo in cui la medicina moderna si è emancipata dalla pseudomedicina medioevale) non può essere che quello della ricerca scientifica di base "che applica gli stessi principi fondamentali nei campi della neuroscienza, della psicologia sperimentale, della psicologia dello sviluppo, della ricerca sul processo e sui risultati della psicoterapia". Come Benvenuto mette l'accento sulla pratica e sull'etica, altrettanto perentoriamente Liotti enfatizza la validazione scientifica delle teorie. Nessuno dei due sente il bisogno di trovare un punto d'incontro con la posizione dell'altro.  Ciascuno se ne sta ben fermo sulla propria posizione, ignorando o squalificando quella dell'altro.

Perché invece io penso che entrambe le posizioni sono valide e legittime? Perché la relazione psicoterapeutica, come del resto ogni altra, è tanto prevedibile quanto imprevedibile. Il terapeuta è tenuto a prevedere tutto ciò che è possibile prevedere, formulando ipotesi e mettendole alla prova nel laboratorio della terapia, tenendo conto delle teorie meglio comprovate nella ricerca clinica ed empirica (in questo vertice il terapeuta lavora "secondo scienza"). Ma poi deve anche sapersi arrestare davanti a ciò che non è prevedibile né conoscibile, interagendo in qualsiasi modo gli sembri utile in un momento dato con un dato paziente (qui il terapeuta lavora "secondo coscienza"). Una terapia genuina (cioè non manipolativa) dovrebbe muoversi continuamente tra i domini del prevedibile e dell'imprevedibile, con un'opportuna dialettica tra scienza e coscienza (tra scienza ed etica, tra scienza ed arte, tra conoscenza e intuizione...). Un atteggiamento dialettico mi sembra necessario perché la scienza non prevalga sull'etica, né l'etica sulla scienza, ma si apra lo spazio in cui di volta in volta cercare la sintesi migliore possibile tra i due momenti. La chiusura di questo spazio ha come conseguenza, mi sembra, l'unilateralità che caratterizza i due grandi schieramenti che si fronteggiano dai due lati del "Great divide", come lo ha felicemente chiamato Migone.

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