In questi tre articoli viene discusso ruolo della "azione" (versus
verbalizzazione) in psicoanalisi e il rapporto tra conoscenza esplicita ed
implicita, o verbale e non verbale: Donnel B. Stern, neoeletto direttore della
rivista, discute l'articolo precedente di Altman, che risponde poi a sua volta a
Donnel B. Stern. Altman fa una rassegna di questa problematica, discutendo non
solo i contributi della psicologia cognitiva ma anche i noti lavori di Daniel N.
Stern (si faccia attenzione a non confondere Daniel
N. Stern con Donnel B. Stern), soprattutto l'articolo di Daniel N.
Stern, tanto discusso, sul "something more than
interpretation" del "Boston Group", da lui guidato,
apparso nel n. 5/1998 dell'International Journal of Psychoanalysis
(pubblicato anche in rete nel sito dell'International Journal, con la
discussione avvenuta in lista: http://ijpa.org/archives1.htm
- per una discussione di alcune idee di Stern, vedi una parte del dibattito
post-congressuale del primo congresso SEPI-Italia, al sito http://www.psychomedia.it/pm-lists/debates/sepi2.htm);
come è noto, le implicazioni del lavoro di Daniel N. Stern vanno nella
direzione di verificare la possibilità di trasferire i dati provenienti dalla infant
research alla terapia degli adulti. Il tema del rapporto tra linguaggio ed
azione, o tra esperienza formulata e "non formulata", è molto caro a
Donnel B. Stern, che l'ha trattato più volte sulle pagine della rivista (ad
esempio nei numeri 3/1987 e 1/1989) e su cui ha scritto un libro (Unformulated
experience: from Dissociation to Imagination in Psychoanalysis.
Hillsdale, NJ: Analytic Press, 1997), recensito da C. Spezzano sul n. 4/1998.
In sintesi, Donnel B. Stern qui sostiene due punti: 1) la differenza tra
esperienza verbale e non verbale, seppure esternamente interessante, è molto
meno importante per il lavoro clinico quotidiano di quanto sembri; 2) né la
esperienza verbale né la esperienza non verbale hanno significato in se stesse,
ma trovano un senso solo nella loro interazione.
Riguardo al primo punto, Donnel B. Stern argomenta molto bene che anche
l'esperienza non verbale si basa su un linguaggio, altrimenti non ne potremmo
parlare e non la potremmo concepire. Nella misura in cui parliamo, in modo
conscio, di un possibile significato di una esperienza o di una comunicazione
non verbale, essa per forza è simbolica. In altre parole, ogni nostra
considerazione passa attraverso il linguaggio, dato che possiamo dare
significato ad una esperienza non verbale solo a partire dallo schema di
riferimento verbale. Con questo Donnel B. Stern non vuole dire che l'esperienza
non verbale, gli agiti, la comunicazione inconscia tramite l'esperienza, la
nostra partecipazione nella interazione analitica ecc. non siano fattori
terapeutici importanti, anzi, tutt'altro, sono di importanza fondamentale, ma o
essi sfuggono al nostro controllo (e alla nostra conoscenza) oppure ci arrivano
tramite il linguaggio. In sostanza, la alternativa tra esperienza verbale e non
verbale è una alternativa che è già stata formulata dal linguaggio, cioè da
uno dei due poli di questa supposta alternativa, quindi di fatto non è una
alternativa: la esperienza non verbale, seppur molto importante, accade
spontaneamente da sola, non possiamo controllarla. Per rendere le cose ancor
più complesse - e anche paradossali - a ciò si aggiunge il fatto che spesso è
proprio nei momenti non programmati, non pianificati, spontanei, quei momenti
che spiazzano paziente e analista, che a volte accadono le cose più importanti
e più mutative di una analisi. Questo aspetto era stato sottolineato, tra gli
altri, da Irwin Hoffman - peraltro non citato qui da Donnel B. Stern - quando
parlava del rapporto dialettico tra ritualità e spontaneità nella situazione
analitica: si veda il suo libro Ritual and Spontaneity in the
Psychoanalytic Process: A Dialectical-Constructivist View. Hillsdale, NJ:
The Analytic Press, 1998 (trad. it.: Ritualità e spontaneità nella
situazione psicoanalitica. Roma: Astrolabio, 2000) - si veda la recensione
di questo libro, scritta da Margulies, nel n. 4/1999 di Contemporary
Psychoanalysis, anche su Psicoterapia e
Scienze Umane, 3/2000, p.
159.
Riguardo al secondo punto, dove Donnel B. Stern sostiene che né la
esperienza verbale né la esperienza non verbale hanno significato in se stesse
ma trovano un senso solo nella loro interazione reciproca, anche qui viene
argomentato molto bene che non è corretto privilegiare, come fanno vari autori,
solo l'uno o l'altro polo di questa dicotomia (ad esempio soprattutto l'aspetto
verbale, come l'interpretazione o l'insight intellettuale secondo una certa
concezione classica, oppure soprattutto i now moments dove Daniel N.
Stern sembrerebbe dare molta importanza all'esperienza in quanto tale,
imprevedibile e non programambile - per la definizione di now moments, si
veda l'articolo di Daniel N. Stern prima citato). E' nello studio
dell'intergioco tra la parte verbale che non verbale dell'esperienza che
possiamo capire qualcosa, anche perché, ad esempio, la comunicazione verbale
acquista significato alla luce della comunicazione non verbale che la
contestualizza, che "le dà vita", e, viceversa, la comunicazione non
verbale acquista significato alla luce della comunicazione verbale. In queste
interessanti considerazioni Donnel B. Stern fa riferimento anche al filosofo C.
Taylor (Phylosophical Arguments. Cambridge, MA: Harvard University Press,
1995). Potremmo aggiungere che privilegiare un solo polo è un errore
innanzitutto in senso filosofico, in quanto non sappiamo dove e quale sia la
"realtà vera", la "verità": sia un aspetto che l'altro
alludono a qualcosa per definizione inconoscibile.
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