Questo articolo tenta di fare un bilancio della
psicoanalisi come professione, per individuare le ragioni della crisi di
credibilità in cui oggi versa. Dopo una discussione del concetto di professione
in termini sociologici (chi e come legittima i "professionisti" in una
determinata società, ecc.), Eisold esamina il significato che Freud nel 1923
diede al termine "psicoanalisi", in cui quello terapeutico, cioè
professionale, era solo uno dei tre poli (gli altri erano un metodo di ricerca e
un corpo di conoscenze). L'aver dato alla psicoanalisi anche un significato
terapeutico ha aperto una serie di problemi riguardo ad esempio alla sua
differenziazione non solo dalla psicoterapia psicoanalitica ma anche da altre
professioni di aiuto, e al suo inserimento all'interno della medicina (come
ö nelle parole di Knight del 1953 ö una "specialità all'interno di una
specialità", cioè come una sottospecialità della psichiatria), problemi che
permangono tutt'ora e forse ancor più che in passato quando la psicoanalisi
godeva di un indiscusso prestigio. Eisold sostiene che la psicoanalisi, per
riuscire nel suo "progetto professionale", dovrebbe risolvere tre problemi:
il primo è quello della frammentazione, cioè il suo non riuscire a
presentarsi agli occhi del pubblico come un corpo unitario e coerente; il
secondo è la sua incapacità a stabilire una autorevolezza professionale
in un modo convincente; il terzo è rappresentato da una persistente ambiguità
sul tipo di servizio fornito al pubblico, cioè sul tipo di lavoro che si
propone di svolgere. Dopo aver discusso in dettaglio il fallimento in queste tre
aree, Eisold denuncia il fatto che i problemi sono innanzitutto a monte, cioè
nella identità teorica della psicoanalisi (nel senso che ad esempio è ben
difficile differenziarla clinicamente dalla psicoterapia psicoanalitica se non
è chiara neppure la sua identità teorica), per cui quando si parla di
"psicoanalisi applicata" ai vari contesti (ad esempio quelli clinici, come
famiglie, gruppi, istituzioni, ecc., e anche all'arte, alla letteratura, e così
via) non si capisce a volte cosa è la caratterizzazione "psicoanalitica" di
tali operazioni. Eisold denuncia anche il fatto che la psicoanalisi, nel suo
complesso, si è ben guardata dal diventare veramente, come auspicava Freud, una
scienza, nel senso che ha tardato e tarda a compiere ricerche empiriche sulle
prove della sua efficacia, col risultato che è rimasta indietro anche
nell'immagine pubblica rispetto ad altre psicoterapie. La mancanza di
chiarezza dell'identità inoltre si ripercuote a vari livelli, si pensi solo
al training (che criteri standard adottare, con quale giustificazione "scientifica", ecc.), col risultato che di fatto nei sistemi di valutazione
dei candidati si adottano criteri intuitivi, non standardizzati, e le promozioni
o i passaggi di carriera degli analisti non avvengono utilizzando criteri
scientifici condivisi ma "per unzione", esattamente come avviene nelle
organizzazioni religiose, e tutto questo gioca in favore della conservazione e
dell'immobilismo, fattori notoriamente nemici del progresso e della scienza.
Ma fatta questa analisi, che peraltro è ben nota a
chiunque abbia una minima conoscenza di questo campo, quali sono le proposte che
Eisold avanza per risolvere i tre problemi prima citati? E' possibile, dice
Eisold, è che sia stata prematura la decisione di Freud di assegnare alla
psicoanalisi un compito terapeutico, e forse fece questo passo sotto la
pressione del movimento psicoanalitico e dei suoi seguaci che in fondo si
guadagnavano da vivere con questo lavoro, e anche per dare un maggiore
riconoscimento pubblico alla psicoanalisi in una fase iniziale di crescita in
cui ne aveva tanto bisogno. Se Freud non avesse incluso nella sua definizione
triadica della psicoanalisi l'aspetto terapeutico, e forse non avesse incluso
neppure l'accumulo di un corpo di conoscenze, sarebbe rimasto quello che di
fatto possiamo considerare tuttora un aspetto caratterizzante della
psicoanalisi: un metodo di investigazione, di ricerca sui processi mentali, il
disvelare parti rimosse o rinnegate di sé, un tipo di ricerca radicale, di
esercizio critico, un andare eventualmente controcorrente rispetto a credenze
consolidate (si pensi ad esempio alla critica di Freud verso la morale sessuale
borghese),
Inoltre, sostiene sempre Eisold, l'avere incluso nella
definizione di psicoanalisi le altre due componenti (una terapia e un corpo di
conoscenze) ha creato problemi e conflitti con altre professioni e discipline.
Non è un mistero che la psicoanalisi ha avuto l'ambizione di ergersi a
psicologia generale, come anche Hartmann dichiarò esplicitamente nel 1959, e
questo significava, volenti o nolenti, farlo a scapito di tutte le altre
discipline le quali invece avevano e hanno un contributo importante e specifico
da dare. Questa posizione "arrogante", dice Eisold, di fatto ha contribuito
ad isolare al psicoanalisi da tutta la psicologia, mentre invece, se abbandona
le sue velleità egemonizzanti, Çpuò legittimamente aspirare ad assumere un
suo ruolo tra le "psicologie"È (p. 573). C'è da dire che nei tempi
recenti, comunque, il muro tra la psicoanalisi e le altre psicologie è stato
eroso, nel senso che in diverse aree (si pensi solo alla psicologia dello
sviluppo e alla teoria dell'attaccamento) le ricerche di psicoanalisti e di
studiosi accademici si sono intrecciate, col risultato anche di una maggiore
credibilità di certi assunti psicoanalitici nel mondo accademico (si veda a
questo proposito il lavoro di Westen pubblicato sul n. 4/2001di
Psicoterapia e Scienze Umane, dal
titolo "Freud
è davvero morto?").
Per riassumere fin qui le posizioni di Eisold, se la
psicoanalisi include nella sua definizione la terapia ö essendo di fatto oggi
la psicoanalisi conosciuta a livello dei mass media e di rappresentazione
sociale essenzialmente come una forma di terapia ö erode gli altri due poli
della sua definizione (un metodo di ricerca e una teoria psicologica), nella
misura in cui da una parte è indebolita dalla pressione esercitata dalle tante
altre terapie apparentemente più brevi e più basate sulle "prove di
efficacia", e dall'altra fa sempre più fatica a definire la sua differenza
dalla psicoterapia, cercando affannosamente (e forse inutilmente) un suo posto
privilegiato come terapia diversa e distinta da tutte le altre. E la inclusione
del "corpo di conoscenze" nella triade di significati di psicoanalisi ha
portato a una infelice e improduttiva separazione dalle altre psicologie.
Ma ö si chiede a questo punto Eisold ö se accettiamo
l'ipotesi di definire la psicoanalisi non come terapia né come teoria
psicologica, ma solo come metodo di ricerca, cosa significherebbe questo per il "progetto professionale"? Cosa diventerebbe allora la psicoanalisi?
Per prima cosa, la psicoanalisi dovrebbe abbandonare sia il
suo splendido isolamento sia la sua pretesa di godere di una posizione
privilegiata in mezzo a tutte le altre discipline, e piuttosto dovrebbe
collaborare alla pari con esse, intrecciando legami ed essere capace di farlo.
Ma come si confronterebbe con le psicoterapie, come utilizzerebbe "l'oro
puro" del metodo di ricerca psicoanalitico? Vi sono due possibilità, dice
Eisold. La prima è quella di assumere un ruolo critico, ed autocritico,
all'interno di tutte le professioni di aiuto, dalla medicina alla
psicoterapia. La seconda è quella di dissociarsi dalla medicina e dalla
psicoterapia così come essa viene tradizionalmente concepita.
Vediamo meglio la prima possibilità. Trent'anni fa tre
sociologi (W.E. Henry, J.H. Sims & S.L. Spray, The Fifth Profession,
San Francisco, CA: Jossey-Bass, 1971) sostennero che le quattro professioni di
assistente sociale, psicologo, psichiatra e psicoanalista potevano considerarsi
ormai l'inizio di una nuova, "quinta professione", quella di "psicoterapeuta", nel senso che ormai quelle quattro professioni si
sovrapponevano non solo come tipo di lavoro, ma anche come condivisione di
valori, atteggiamenti e background socioeconomico. Questo, secondo Eisold,
significa anche che nell'immaginario collettivo la psicoanalisi di fatto ormai
si identifica con una psicoterapia. E allora che ruolo può avere lo
psicoanalista, se ancora può averne uno, di fronte alla psicoterapia? Dato il
training che lo psicoanalista ha ricevuto nella riflessione sistematica, nell'autoriflessione,
nell'esercizio critico, nella costruzione e decostruzione di narrative, nella
complessità del comportamento umano, nei limiti della osservazione, ecc., non
potrebbe essere un esperto della tecnica psicoterapeutica in generale, non
potrebbe proporsi come manager o consulente verso la professione della
psicoterapia? Si pensi ad esempio alla cosiddetta psicoterapia "integrata",
cioè a quei disturbi che richiedono livelli multipli di intervento: data
l'abitudine dello psicoanalista a gestire l'ambiguità e la pluralità di
informazioni, non potrebbe la psicoanalisi essere l'unica disciplina della
salute mentale capace di assumere il delicato ruolo di gestire e comprendere il
significato di queste complesse interazioni? In questo caso, naturalmente, gli
psicoanalisti dovrebbero essere molto più aggiornati e preparati in tutte le
forme di terapia esistenti. Nel campo della psicoanalisi applicata, poi, lo
psicoanalista potrebbe offrire in questo modo prospettive non in competizione ma
supplementari, grazie al suo bagaglio di conoscenze ad esempio riguardo al
funzionamento inconscio, ai conflitti, alla influenza dello strumento di
osservazione, al ruolo dell'ansia, delle difese, dei vantaggi secondari della
malattia, e così via.
Vediamo ora
meglio la seconda possibilità suggerita da Eisold, quella di dissociarsi dalla
medicina e da tutta la psicoterapia tradizionalmente intesa. Già Mitchell nel
1993 si era dichiarato convinto che la psicoanalisi contemporanea non ha più a
che fare con la cura di precise sindromi cliniche così come ai tempi di Freud,
ma con la esplorazione dei falsi adattamenti dell'individuo alla sua cultura,
per una "rivitalizzazione ed espansione della sua capacità di generare
esperienza percepita come vivida, significativa e di valore" (Steve Mitchell, Hope
and Dread in Psychoanalysis, New York: Basic Books, 1993, p. 24; trad. it.: Speranza
e timore in psicoanalisi, Torino: Bollati Boringhieri, 1995). E a supporto
di questa sua tesi, che definisce uno sviluppo della psicoanalisi e "parte di
una ricerca di un nuovo contesto di significati del processo psicoanalitico"
(p. 24), Mitchell cita Winnicott, Kohut, Bion, Bollas e la Benjamin. Questa
posizione può essere interessante (si veda però a questo proposito la serrata
critica di Eagle a questa concezione, nell'articolo pubblicato su Psicoterapia
e Scienze Umane, 4/2000,
dal titolo "La
svolta post-moderna in psicoanalisi"), e può essere indubbiamente vero
che gli psicoanalisti non trattano distinte categorie nosologiche, resta il
fatto però che questa posizione avvicina in modo impressionante la psicoanalisi
alla religione (che appunto persegue gli stessi scopi), con tutte le
implicazioni che ciò comporta tra cui in primis una grossa difficoltà a
definire il rapporto col sistema sanitario nazionale (e questo è sicuramente un
problema per quanto riguarda la psicoanalisi come professione).
In conclusione, le soluzioni che Eisold suggerisce sono
due, o meglio tre: 1) la psicoanalisi diventa "partner" delle psicoterapie,
offrendo i suoi insight e capacità investigative per la terapia dei disturbi
psichiatrici; 2) la psicoanalisi diventa "partner" di altre discipline e
professioni di aiuto in quella che è stata chiamata "psicoanalisi
applicata", cioè nel lavoro con organizzazioni, famiglie, gruppi, ecc.
(questa seconda soluzione è logicamente simile alla prima); 3) la psicoanalisi
studia falsi adattamenti e identità sociali che bloccano una piena ed autentica
espressione della esperienza umana (quest'ultima strada, indiscutibilmente da
iscriversi all'interno della prospettiva post-moderna, implicherebbe perdere i
benefici della medicalizzazione, ma avrebbe il vantaggio di non dover fare i
conti con la ricerca empirica sulla efficacia).
Qualunque strada si scelga per il "progetto
professionale" della psicoanalisi, dice Eisold, saranno necessari profondi
cambiamenti a più livelli, nella struttura del training, nella struttura
organizzativa, e nella cultura della professione.
L'articolo di Eisold viene commentato, nelle pagine
seguenti della rivista, da cinque colleghi, Joerg Bose, Arnold
Cooper, Marylou Lionellis, Jon Meyer, e Joseph Newirth, a cui poi Eisold
risponde.
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