Il Ruolo Terapeutico, 1988, 48: 30-33
Paolo Migone
Negli anni recenti sono state fatte importanti ricerche internazionali sulla psicoterapia della schizofrenia, le quali hanno prodotto dei risultati che meritano di essere analizzati e discussi, per tentare di vedere che significato essi possono avere all'interno dello sviluppo della psicoterapia e che tipo di insegnamento possiamo trarne per quanto riguarda anche la nostra pratica quotidiana con i pazienti schizofrenici. Quello che mi propongo di fare qui è di prendere in esame due tra le ricerche recenti più significative, descrivendo brevemente i presupposti, la metodologia e i risultati di ciascuna. Queste due ricerche sono rispettivamente quella fatta a Boston da Gunderson e collaboratori sugli effetti della psicoterapia psicoanalitica della schizofrenia, e quel gruppo di lavori fatti da Leff e altri sull'effetto della "emotività espressa" dei familiari sul paziente schizofrenico. Nel fare questo mi avvarrò anche di informazioni dirette da parte degli stessi Gunderson e Leff, che sono venuti recentemente in Italia invitati al Convegno Internazionale New Trends in Schizophrenia (Bologna, 14-17 aprile 1988), al quale ho lavorato avendo fatto parte della segreteria scientifica [vedi Migone P., Martini G. & Volterra V., a cura di, New Trends in Schizophrenia: nuovi orientamenti conoscitivi e comprensivi e prospettive terapeutiche e riabilitative in tema di schizofrenia. S. Maria a Vico (Caserta): Fondazione Centro Praxis, 1988, 4 volumi]. Il bisogno di ricerca in questo campo e l'esigenza di conoscere e discutere i risultati ottenuti sono molto sentiti. Infatti, il problema della efficacia della psicoterapia per la cura della schizofrenia è sempre stato un tema controverso, e spesso utilizzato come motivo di divisione tra scuole opposte. Uno dei motivi principali di questa difficoltà a trovare un accordo, sia all'interno della psichiatria che all'interno della psicoanalisi, è costituito dalle particolari caratteristiche di questo campo di indagine, così irto di ostacoli concettuali e metodologici i quali hanno ritardato la progettazione e l'utilizzo di strumenti di ricerca adeguati. A questo riguardo esiste necessariamente un ritardo di vari decenni tra la psicoterapia e altre discipline, più adatte all'investigazione scientifica tradizionale, il che ha fatto affermare ad alcuni che nel campo della psicoterapia siamo ancora in uno stadio prescientifico, o che solo in questi ultimi anni si stanno facendo i primi passi concreti verso la possibilità effettiva di replicare determinati interventi psicoterapeutici. Tutto ciò contrasta con l'enorme bisogno di conoscenze e di interventi efficaci in questo settore. La schizofrenia, ad esempio, è una delle più comuni e invalidanti malattie sociali, ed è preoccupante il fatto che ancora vi siano grossi interrogativi su alcuni strumenti terapeutici largamente praticati. In Italia inoltre, come sappiamo, dopo la "legge 180" si è venuta a creare una situazione particolare per la quale al tradizionale e superato strumento del ricovero psichiatrico, visto come mero "custodialismo", si è sostituita una assistenza più capillare nel territorio tesa a mantenere i pazienti fuori dall'ospedale. Attualmente nel nostro paese vengono fatti grossi sforzi da parte di molti operatori psichiatrici per progettare interventi di terapia psicosociale che permettano di evitare le ricadute dei pazienti schizofrenici, interventi che tendenzialmente sono volti anche a superare il tradizionale armamentario terapeutico, basato sulla terapia di mantenimento con farmaci neurolettici, che come è noto presenta il grave rischio del danno neurologico permanente costituito dalla discinesia tardiva. Ma vediamo come sono state fatte e che risultati hanno dato queste due importanti ricerche. Lo studio di Boston John Gunderson, uno psicoanalista americano, è il principale autore di una ormai famosa ricerca sull'efficacia della psicoterapia agli schizofrenici, chiamata "Boston Psychotherapy Study", fatta al McLean Hospital di Belmont, Massachusset (vicino a Boston, Harvard University), e pubblicata in dettaglio nel n. 4, 1984, di Schizophrenia Bulletin. Ricordo che una volta Kernberg mi disse che questa ricerca (allora non ancora completata), assieme a quella fatta da Kernberg stesso e collaboratori alla Menninger Foundation di Topeka e pubblicata nel 1972 sul Bulletin of the Menninger Clinic, rappresentavano le uniche ricerche serie sull'efficacia della psicoterapia "a lungo termine per pazienti gravi". Il retroterra culturale e la filosofia a monte di questa ricerca vanno ricercati nella tradizione americana degli psichiatri influenzati dal pensiero di Harry Stack Sullivan, ovvero nel poter dimostrare che è possibile influenzare il decorso della schizofrenia anche tramite un intervento psicoterapico, e non solo con farmaci (non si dimentichi che il principale ideatore di questa ricerca fu, assieme a Gunderson e altri, Alfred Stanton, poco prima che morisse). Ebbene, negli anni 1960 furono fatte 5 importanti ricerche per dimostrare questo, e tutte praticamente fallirono. Le principali critiche mosse contro queste ricerche da coloro che ancora credevano nell'efficacia della psicoterapia agli schizofrenici erano essenzialmente di quattro tipi. La prima (e più importante) era che non venivano mai usati terapeuti esperti e motivati, ma solo giovani specializzandi in psichiatria. La seconda era che le psicoterapie non erano abbastanza lunghe da essere efficaci (ad esempio duravano solo 6 mesi). La terza era che venivano scelti pazienti troppo gravi, praticamente inguaribili. La quarta era che gli strumenti di misurazione dei risultati non erano abbastanza sensibili alle modificazioni "psicodinamiche" o "intrapsichiche" della psicoterapia. La ricerca fatta a Boston fu ideata nel 1972 e completata nel 1984. Fu posta una particolare enfasi sulla scelta dei terapeuti, che erano tutti "esperti", retribuiti, e motivati a fare quello che facevano. I pazienti non erano né troppo gravi né troppo lievi, ovvero né troppo cronici né troppo acuti, e tutti diagnosticabili con quelli che dovevano poi diventare i criteri di schizofrenia del DSM-III. Furono paragonate due tecniche psicoterapiche (e quindi due gruppi di terapeuti), definite EIO e RAS: EIO: Exploratory, Insight-Oriented (cioè potremmo dire una tecnica più strettamente "psicoanalitica"); RAS: Reality-Adaptive, Supportive (cioè potremmo dire una tecnica più strettamente "psicoterapeutica di supporto"). I terapeuti-EIO erano psicoanalisti esperti, vedevano i pazienti 3 volte alla settimana (in rari casi 2), credevano nelle cause psicologiche della malattia e nell'utilità di capire e conoscere il passato, i conflitti, l'inconscio, il transfert, ecc. I terapeuti-RAS erano prevalentemente psicofarmacologi, vedevano i pazienti 1 volta alla settimana (in alcuni casi meno), credevano nelle cause biologiche della malattia, cercavano di adattare il paziente alla realtà di tutti i giorni, ecc. Fu possibile dimostrare sperimentalmente, tramite giudici indipendenti, che i due gruppi di terapeuti erano diversi di fatto e non solo di nome, anche se si trovò che certe funzioni erano svolte da tutti (un certo supporto ed esame di realtà, attenzione ai problemi interpersonali, ecc.). Furono trovati 164 pazienti adatti, di cui solo 60% resistettero oltre i 6 mesi (minimo utile per la ricerca), e 30% oltre i due anni di follow-up. Quindi 95 pazienti, di cui 51 (28 RAS e 23 EIO) per 2 anni. Tutti i pazienti ricevettero, a seconda del bisogno, anche regolare terapia farmacologica e di milieu. I risultati furono i seguenti. I pazienti che resistettero nel tempo nella RAS risultarono diversi da quelli che resistettero nel tempo nella EIO: i primi avevano soprattutto i sintomi positivi della schizofrenia (deliri e allucinazioni) e un maggiore ottimismo nel miglioramento, mentre i secondi avevano soprattutto sintomi negativi (isolamento sociale, rallentamento, apatia), un maggior pessimismo nel miglioramento, una maggiore istruzione e una storia di precedenti esperienze psicoterapeutiche. In entrambi i casi, comunque, chi rimase in terapia non fu lo stereotipo del "buon paziente" (acuto, intelligente, dotato di insight, affettivamente disponibile). Tutti i pazienti migliorarono, anche se non nel nucleo della schizofrenia, ma i pazienti RAS migliorarono di più nel funzionamento lavorativo, nel numero di ospedalizzazioni e in misura minore anche nell'adattamento sociale, mentre i pazienti EIO migliorarono di più, anche se in modo modesto, nelle funzioni cognitive e dell'Io (ad esempio nella disorganizzazione del pensiero). Il risultato principale quindi sembra essere che la psicoterapia psicoanalitica non è consigliabile nella schizofrenia. Una delle più grosse implicazioni di questa ricerca è che per molti pazienti schizofrenici una psicoterapia intensiva può essere "nella migliore delle ipotesi, una perdita di tempo", e che è più consigliabile un intervento socioterapico (social skills training, ecc.) e un atteggiamento supportivo, direttivo e rassicurante, come ad esempio quello "autorevole tipico del medico di famiglia", che diminuisce le paure e dà speranza, e volge la sua attenzione alle cose pratiche della vita quotidiana. Klerman (un altro ricercatore americano) in un articolo di commento sul n. 4/1984 di Schizophrenia Bulletin, arrivò addirittura ad affermare che dopo questa ricerca sappiamo che "non è più etico continuare a fare ricerche sull'efficacia della psicoterapia psicoanalitica della schizofrenia". La psicoterapia esploratoria intensiva dovrebbe essere limitata a rari casi in cui prevalgono i sintomi negativi (che tra l'altro non vengono di solito modificati dai farmaci e dalle socioterapie), e in ogni caso non dovrebbe mai essere considerata come un intervento di prima scelta, e forse neanche di seconda scelta. Un'altra implicazione di questa ricerca è che non è vero che i terapeuti cosiddetti "più dotati" riescono a produrre migliori risultati nella schizofrenia, ma che i risultati migliori si ottengono solo con un buon accoppiamento (match) tra paziente e analista; in altre parole, anche terapeuti meno dotati riescono a produrre buoni risultati se sono accoppiati bene coi loro pazienti. In conclusione, secondo Gunderson, per la stragrande maggioranza degli schizofrenici l'intervento di prima scelta dovrebbe essere quello farmacologico, quello di seconda scelta l'intervento socioterapico, e, se entrambi falliscono, l'intervento di terza scelta dovrebbe essere quello psicoterapeutico, soprattutto con quei pazienti in cui prevalgono i sintomi negativi. Le ricerche sulla "Emotività Espressa" Julian Leff, uno psichiatra della Social Psychiatry Unit della Università di Londra, è stato tra coloro che hanno maggiormente studiato il ruolo della cosiddetta "emotività espressa" nei membri della famiglia dei pazienti schizofrenici, contribuendo a fare una delle scoperte forse più importanti della psichiatria di questi ultimi anni. Questi studi, iniziati da Brown in Inghilterra a cavallo tra gli anni 1950 e 1960, sono poi stati continuati da altri ricercatori anche americani, tra cui Vaughn, Hogarty, Anderson, Goldstein, Falloon, Tarrier, ecc. In breve, quello che è stato scoperto è che i pazienti che dopo le dimissioni presentavano un più alto numero di ricadute della malattia schizofrenica vivevano in famiglie con un alto tasso di "emotività espressa", vale a dire in famiglie caratterizzate da una atmosfera carica di alta tensione emotiva, ipercoinvolgimento col paziente, presenza di critiche e ostilità nei suoi confronti, eccessiva vicinanza fisica (anche misurabile con un alto numero di ore settimanali passate dal paziente "faccia a faccia" con i familiari critici o ipercoinvolti), e così via. Con una convenzione, questa modalità di comportamento emotivo dei familiari fu chiamata "Emotività Espressa" (Expressed Emotion), o "fattore EE", e furono anche formulate delle sofisticate rating scales per la sua misurazione. Ovviamente, questa correlazione tra un alto fattore EE nella famiglia e un maggior numero di ricadute dei pazienti schizofrenici non implicava affatto una precisa direzione della causalità, nel senso che poteva essere ugualmente vero che fosse la gravità di quei particolari pazienti all'origine della reazione emotiva della famiglia, quanto che determinate famiglie ansiogene o patogene determinassero in qualche modo il peggioramento del paziente e le sue ricadute schizofreniche (per una interpretazione della EE basata sul concetto di indetnitifcazione proiettiva, vedi Migone P., Expressed Emotion and Projective Identification: A bridge between psychiatric and psychoanalytic concepts? Contemporary Psychonalysis, 1995, 31, 4: 617-640; vedi anche il mio articolo sul Ruolo Terapeutico, 49/1988). Coerentemente però alla logica della teoria dei sistemi, secondo la quale modificando uno solo dei due elementi costituenti il sistema si può ottenere un cambiamento anche nell'altro, si cercò di dimostrare, con ricerche controllate, che riuscendo ad abbassare il tasso di EE nelle famiglie dei pazienti schizofrenici era possibile diminuire anche le ricadute, e quindi i ricoveri psichiatrici. E in effetti questo fu dimostrato molto chiaramente, tramite ricerche attuate coi più rigorosi metodi sperimentali, e replicate in diversi paesi (recentemente è stato iniziato anche a Milano uno studio teso a verificare la replicabilità questi risultati, e i primi dati sono positivi). Le implicazioni di questa scoperta sono state molto grosse, poiché, come è facile immaginare, è stato possibile formalizzare una particolare tecnica psicoterapeutica di tipo familiare tesa a prevenire le ricadute dei pazienti schizofrenici. Questa tecnica è stata chiamata da alcuni "psicoeducazionale", in quanto è diversa dalle tradizionali tecniche psicoterapeutiche, nel senso che è volta soprattutto ad abbassare il tasso di EE nei familiari tramite una rassicurazione e una chiarificazione riguardo ai sintomi del familiare ammalato di schizofrenia, a informarli ed "educarli" riguardo alle cause e al decorso della schizofrenia, ecc. L'aspetto più importante comunque è che questa tecnica è stata formalizzata attraverso un manuale e un particolare training, il che la rende riproducibile e quindi sperimentabile in studi controllati. I risultati delle ricerche in corso in vari paesi sono estremamente promettenti: mediamente, le ricadute dei pazienti schizofrenici a circa un anno dalle dimissioni scendono da circa il 50% nel gruppo di controllo a una percentuale nel gruppo trattato che va dallo 0% al 12%, a seconda degli studi. Appunti di discussione Che significato possiamo dare ai risultati di queste ricerche? Come possiamo spiegare il fatto che nella ricerca di Gunderson una psicoterapia di supporto non intensiva, fatta da terapeuti non esperti in psicoanalisi, si è rivelata più efficace di una psicoterapia psicoanalitica intensiva? A prima vista inoltre queste due ricerche sembrano contraddirsi l'una con l'altra: dai terapeuti familiari viene la sensazionale validazione della efficacia di una tecnica di psicoterapia per gli schizofrenici, mentre la ricerca di Gunderson conclude che una psicoterapia formalizzata non è indicata per la maggioranza degli schizofrenici. In realtà si tratta di una contraddizione solo apparente: il comune denominatore delle due ricerche è che si è dimostrato che per la maggioranza degli schizofrenici è più indicato un approccio di supporto e rassicuratorio (il quale forse permette una massiccia identificazione con un terapeuta forte), piuttosto che un atteggiamento interpretativo, introspettivo, teso a comprendere e a disvelare i contenuti latenti o disturbanti. Questa non è una novità, si potrà obiettare; ed infatti questo è quello che rispose Gaetano Benedetti a Gunderson nel suo intervento critico al Convegno di Bologna. In psicoanalisi si alterna sempre comprensione a supporto, disse Benedetti, a seconda del momento e dei bisogni del paziente schizofrenico. Il fatto è che vi sono grosse differenze nel modo di praticare la psicoanalisi tra gli Stati Uniti e l'Europa; Benedetti è più eclettico e come europeo è stato esposto alla fenomenologia, alla cultura junghiana, e a varie altre influenze. Rimane il fatto comunque che la ricerca di Gunderson è un importante test sull'efficacia della terapia psicoanalitica agli schizofrenici, almeno sul modo come viene praticata da analisi esperti americani, la cui tecnica sembra sottovalutare il forte bisogno di rassicurazione da parte del paziente schizofrenico e la sua non disponibilità ad approfondire o conoscere i contenuti del suo mondo interiore. Come dicevo, anche il contributo di Leff porta a simili conclusioni. La tecnica di terapia familiare "psicoeducazionale" di Leff e altri, che si è rivelata così efficace, ha caratteristiche estremamente supportive, se non addirittura manipolatorie, tese a reprimere i contenuti disturbanti dei familiari tramite difese a volte ancora maggiori. In questo senso essa è una tecnica che rinforza le difese, anziché analizzarle, cioè è una tecnica psicoterapeutica di supporto in senso stretto. Per fare alcuni esempi, sono stato colpito da due interventi fatti da Leff durante la simulata di una seduta di terapia familiare che abbiamo fatto insieme, interventi di cui ha anche spiegato l'importanza nel suo intervento al Convegno. Leff dice con molta chiarezza ai genitori del paziente schizofrenico che la schizofrenia è una "malattia biologica". Questo viene fatto intenzionalmente per sollevarli dagli atroci sensi di colpa dei quali essi, quasi sempre inconsciamente, sono vittima, sentimenti che li portano inconsapevolmente a tormentarsi, o a negare la malattia reale del figlio, o a spingerlo a cambiare quando lui non può, ecc., insomma ad innalzare la propria EE alle spese del paziente. Inoltre, quando i genitori falliscono un compito loro assegnato in terapia, viene loro detto da parte dei terapeuti: "E' stata colpa nostra, ci siamo sbagliati, vi abbiamo assegnato un compito impossibile da eseguirsi, cercheremo di migliorare la prossima volta". Anche questo intervento è volto a diminuire il senso di colpa di questi poveri genitori, già fin troppo pressante. Come Gunderson giustamente mi fece notare, questi sono interventi manipolatori: "Leff dice delle bugie ai genitori, anche quando dice che la schizofrenia è biologica. I suoi interventi si limitano a rinforzare le difese, non sono psicoanalitici. Solo il fatto che abbassando l'EE dei genitori si migliora la malattia, che è proprio quello che cerca di fare Leff, è una prova del fatto che essa non è interamente una malattia biologica", mi disse Gunderson. Discussi allora questa cosa con Leff, in presenza di Gunderson, e Leff ammise che in una fase iniziale è necessario agire in questo modo, ma nulla toglie che eventualmente in seguito si riesca a dire ai familiari le cose come stanno, ovvero a fare delle vere e proprie interpretazioni "psicoanalitiche" e a tentare di operare una modificazione strutturale. Fui colpito molto favorevolmente dalla sensibilità clinica di Leff (e le sue ricerche ne sono una prova), secondo me invidiabile da parte di tanti psicoanalisi nostrani. Leff tra l'altro possiede una ottima cultura psicodinamica (mi ha anche detto che suole discutere a lungo le implicazioni delle sue scoperte cliniche con la moglie, che è una psicoanalista appartenente al middle group londinese). Queste ultime cose ci portano a fare alcune considerazioni che sono forse le più importanti di questi brevi appunti di discussione. Cosa è dunque la psicoanalisi? Solamente interpretare i contenuti latenti, senza riguardo per la struttura psichica nella sua globalità? [per la differenza tra psicoanalisi e psicoterapia, vedi le mie rubriche sui numeri 59/1992, 60/1992, 69/1995, 78/1998, e 86/2001]. Come riaffermò giustamente Galli al Convegno mentre ribatteva a Gunderson, è ora di finirla con questo stereotipo della psicoanalisi classica, la quale non è proprio mai esistita, se non nella letteratura psicoanalitica ufficiale (e, aggiungerei io, nella tradizione della pratica cosiddetta "ortodossa", che storicamente però ha avuto anche la funzione di testare determinate ipotesi di teoria della tecnica). Solo oggi, e non a caso in piena crisi della psicoanalisi, l'establishment psicoanalitico internazionale decide di allargare le maglie della censura e di farci sapere, attraverso il disvelamento di documenti prima "segreti", che Freud era "molto umano" coi suoi pazienti. E i teorici della psicoanalisi hanno improvvisamente scoperto il ruolo dell'analista come "contenitore", come partner in un rapporto emotivo col paziente, insomma l'importanza del setting in psicoanalisi, innalzando il valore di questo concetto al ruolo di vero e proprio fattore curativo accanto a quello dell'interpretazione. Non intendo dilungarmi su queste considerazioni, anche perché sono già state toccate in numeri precedenti (si vedano per esempio anche gli articoli di Galli sui n. 38/1984 e 40/1985 de Il Ruolo Terapeutico).
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