Il Ruolo Terapeutico, 1992, 60: 44-47
Paolo Migone
Negli ultimi numeri del Ruolo Terapeutico sono comparsi alcuni contributi che hanno avviato un dibattito interessante su temi di fondo sia della pratica terapeutica che della formazione, due aspetti che, come è stato più volte sottolineato, hanno implicazioni l'uno nei confronti dell'altro. Tra questi contributi vi è l'articolo di Erba nel n. 56/1991 "Il mestiere del terapeuta e il (appunti sulla formazione)", ripreso nella mia rubrica del numero seguente (57/1991), poi quello di Erba & Merlini nel n. 58/1991 da titolo "Vengo anch'io! (sulla formazione psicoterapeutica degli )", e nell'ultimo numero (59/1992) l'intervento critico di Cofano intitolato "Dove?", seguito dalla risposta di Erba, e suppongo che vi sarà un seguito di questo contradditorio nel numero attuale. Si potrebbero citare altri interventi stimolati da questi articoli. Con una fortunata coincidenza, sempre nell'ultimo numero (59/1992) vi è il mio articolo "Esiste ancora una differenza tra psicoanalisi e psicoterapia psicoanalitica?", tratto dalla conferenza tenuta al Ruolo Terapeutico il 21-3-91; questo articolo, anche se non direttamente legato al dibattito tra Erba, Cofano e altri docenti e lettori della rivista, tratta a mio parere alcuni aspetti teorici di fondo toccati dagli altri interventi, per cui può servire come un utile punto di riferimento (per una trattazione più approfondita della differenza tra psicoanalisi e psicoterapia, vedi il cap. 4 del mio libro Terapia psicoanalitica, Milano: Franco Angeli, 1995). Nel mio articolo infatti all'inizio mi richiamo alla tradizione di questa rivista, che da sempre, anche in tempi in cui erano in pochi a sostenerlo, ha proposto l'utilizzo dei principi psicoanalitici nei servizi psichiatrici pubblici e nei setting diversi da quello "classico", cioè nelle relazioni terapeutiche degli "esclusi", come dicono Erba & Merlini nel loro articolo. In questo numero, il n. 60 del Ruolo Terapeutico, la rivista compie venti anni, e mi fa piacere vedere che uno dei modi di festeggiare questo importante compleanno è lo scontro teorico, con la passione di sempre, tra due "figure storiche" del Ruolo Terapeutico (Erba e Cofano) proprio attorno al tema della identità della psicoanalisi e della sua applicazione nelle situazioni cliniche più difficili. Probabilmente questo dibattito rimarrà vivo per molti anni; anzi, come ho detto il 15-3-92 nella riunione con i docenti dove dovevamo discutere anche questo problema, ho l'impressione che, utilizzando il linguaggio della gruppoanalisi, Erba e Cofano inconsciamente si siano offerti (o siano stati utilizzati) come "emergenti" di due diverse opzioni teoriche per tener vivo il dibattito, per non liquidare troppo facilmente questo problema aderendo ad una posizione senza averla veramente assimilata in tutte le sue implicazioni. Dico questo perché io, che originariamente mi sentivo più vicino alla posizione di Erba, ho poi notato che le critiche di Cofano facevano leva in realtà su dubbi che potevano sussistere in tutti noi, dimostrando quindi la possibilità di una dinamica di gruppo; inoltre mi trovavo in parte d'accordo con entrambe le posizioni, e a tratti non riuscivo bene a capire i punti di disaccordo. Voglio ora anch'io continuare questo dibattito, così importante per questa scuola, non tanto riprendendo gli argomenti dei colleghi, quanto ampliando alcuni temi già trattati nel mio articolo nel n. 59/1992 sulla differenza tra psicoanalisi e psicoterapia; a questo proposito, voglio sottolineare che questo articolo, nel quale esponevo prevalentemente le posizioni di Gill (1984), non va visto come la risposta finale al complesso problema della identità della psicoanalisi, ma anch'esso come uno spunto di riflessione e uno stimolo per il dibattito. Io stesso continuo a riflettere su alcune delle posizioni di Gill, e mi sembra di comprenderle meglio o a volte in parte di criticarle, e tutto ciò è molto positivo, permettendo di non chiudere mai il dibattito. Questo è simile a quello che accade in psicoterapia e nella formazione: allo stesso modo infatti, non si può mai veramente dire che si finisce un processo analitico o una formazione in psicoterapia, si può solo "interrompere" formalmente questi processi, ben sapendo che essi continueranno indefinitivamente dentro di noi (a questo proposito rimando all'articolo di Erba nel n. 56/1991 che approfondisce questi temi mentre espone quella che vuole essere la filosofia del Ruolo Terapeutico). Venendo ora al problema della differenza tra psicoanalisi e psicoterapia psicoanalitica, e per riassumere alcune delle implicazioni del discorso di Gill, in pratica si può dire che questa differenza non ha più senso di esistere. Il motivo è che non è più possibile distinguerle sulla base dei soli criteri estrinseci o formali (tipo di setting, frequenza delle sedute, uso o meno del lettino, ecc.), se non altro poiché questi si sono già modificati nel corso del secolo. Quelli importanti sono i criteri intrinseci, cioè interni alla teoria: l'unica differenza tra psicoanalisi e terapie non psicoanalitiche è che in psicoanalisi ci muoviamo nella prospettiva di compiere, assieme al paziente, una "analisi della relazione" (cioè del transfert, dei vari significati del rapporto), più completa possibile a seconda delle nostre capacità e di quelle del paziente. Se il paziente per vari motivi non è in grado di collaborare a questo scopo (ad esempio per una seria patologia), o deve difendersi dalla consapevolezza di certe dinamiche (ad esempio a causa di difese cosiddette "narcisistiche"), noi possiamo aspettare prima di condividere con lui le nostre ipotesi interpretative, l'importante è che ci muoviamo nella prospettiva di rendere trasparente quello che non lo è, di conoscerlo e comunicarlo al paziente, allo scopo di renderlo autonomo, cioè indipendente dalla figura del terapeuta che in questo modo diventa (come disse una volta Cofano) sempre di più un "supervisore" o uno spettatore, fino a non rendere più indispensabile la sua presenza. Se non rendiamo partecipe il paziente di quello che sappiamo di lui, delle ipotesi sui motivi dei suoi sintomi o del suo cambiamento, ecc. (come si fa in certe terapie direttive), nelle parole di Eissler (1950), citate nel mio articolo, rischiamo di praticare una cura "magica", cioè non psicoanalitica, e il paziente potrà rimanere dipendente dalla figura del terapeuta non avendo interiorizzato una sua "funzione analitica". Come è noto, la tradizione classica individuò nella acquisizione dell'insight, cioè nella comprensione dei motivi per cui il paziente aveva reagito all'ambiente producendo dei sintomi, il processo attraverso il quale poter raggiungere una relativa autonomia dal mondo esterno. Ora, dato che questi princìpi sono comuni sia alla psicoanalisi che alla psicoterapia psicoanalitica, e dato che, come ho detto prima, non è più possibile distinguere queste due terapie sulla base dei criteri estrinseci, ne consegue che possiamo legittimamente utilizzare sempre il termine "psicoanalisi" (o, se vogliamo, "terapia psicoanalitica", "psicoterapia dinamica", o anche "psicoterapia" in senso lato, essendo chiaro però che per noi questi sono tutti sinonimi). "E il concetto tradizionale di psicoterapia, quella che si usava differenzare dalla psicoanalisi, dove va a finire?", qualcuno chiederà a questo punto, un po' sconcertato. Come dice Gill (1984), praticamente la "psicoterapia" in senso stretto scompare, avendo ben poco senso lavorare con un paziente con lo scopo dichiarato di volerlo sempre tenere all'oscuro di quello che comprendiamo della relazione, di renderlo dipendente da noi, di "manipolarlo" consapevolmente. Forse possiamo ancora chiamare "psicoterapeuti" quegli operatori (ammesso che esistano) che non hanno mai sentito parlare della psicoanalisi o della possibilità che esistano le dinamiche latenti, per cui si muovono come se esse non esistessero essendo così condannati ad "agirle"; oppure quei terapeuti che aderiscono ad una teoria veramente diversa, come i comportamentisti (i quali però ormai quasi non esistono più, essendo in gran parte diventati "cognitivisti", i quali ammettono l'esistenza di livelli cognitivi inconsci o "taciti"); o certi fenomenologi (che prescindendo dal concetto di inconscio, dichiaratamente non vanno al di là del "fenomeno"); o forse quei terapeuti che ammettono le dinamiche inconsce, ma ritengono che sia più utile tacere al paziente determinate informazioni o non discuterle con lui. Ma, anche in quest'ultimo caso, non è chiaro il motivo per cui sarebbe sempre pericoloso o inutile dare al paziente tutte le informazioni possibili, condividendo con lui le ipotesi che facciamo, e dovremmo considerare anche i problemi etici qui sollevati. Anche nel caso che l'unica cosa che possiamo fare con un paziente in un determinato momento è dare dei farmaci o contenerlo, noi non ci muoviamo mai nell'ottica di agire così indefinitivamente, ma di superare una fase difficile per arrivare a quello scopo di cui parlavo prima (a "comprendere", cioè "interpretare"), anche se in molti casi esso sarà difficilmente raggiungibile (ma questo solo per motivi estrinseci, cioè "esterni" alla teoria, come il tipo di diagnosi, la mancanza di tempo, ecc.; si ricordi che abbiamo detto che l'unico criterio definitorio accettabile è quello legato a criteri intrinseci). Questo vale anche per quei "nevrotici" che non sono pronti a parlare di certe cose, a veder certi aspetti di sé e della relazione, a meno di non subire una grave ferita dell'autostima. Non occorre qui richiamarci all'etica professionale, bastano le elementari nozioni di teoria della tecnica per sapere che l'aspetto "terapeutico" viene prima di quello "analitico", anzi, per dirla con parole migliori, non esiste una attività "analitica" che prescinde da considerazioni clinico-diagnostiche o terapeutiche, e dal rispetto della persona nel suo funzionamento globale; questi problemi furono già chiariti nei primi decenni del secolo, quando nella storia della psicoanalisi si abbandonò il mito della "Psicologia dell'Es" per fondare la "Psicologia dell'Io", cioè ci si accorse che il problema non era ingenuamente quello di interpretare tutto e sempre, ma quello di lavorare sulle difese dell'Io (si veda qui, tra i tanti, il libro di G. Blanck e R. Blanck del 1974 Teoria e pratica della psicologia dell'Io, Boringhieri, 1978; a proposito degli autori di questo libro, giova ricordare che non è un caso che i coniugi Blanck lavorassero nel settore del social work, cioè con gli assistenti sociali, che prima di altri si confrontavano con i problemi della formazione degli "esclusi" e con la tecnica nei casi difficili). Per ultimo vorrei fare un commento al problema delle "tecniche" (come l'ipnosi, il biofeedback, il decondizionamento in certi casi di fobie o disturbi sessuali, il social skill training nella terapia della schizofrenia, l'uso stesso di psicofarmaci, ecc.). L'utilizzo delle cosiddette tecniche non rappresenta affatto un problema, quando, nei casi in cui l'operatore le ritenga indicate, esso viene inserito all'interno di una concezione dinamica del rapporto terapeutico, cioè quando per esempio si sottopone ad analisi e riflessione l'impatto della proposta e dell'uso di queste tecniche nella persona globale del paziente e nella dinamica transfert-controtransfert (in questo modo le tecniche potrebbero essere rubricate come "parametri" di Eissler [1953]). Del resto, questo è il modo in cui le tecniche vengono di solito impiegate dove la cultura psicodinamica è data per scontata e fa parte del bagaglio di ogni operatore (come in molti centri nordamericani). Diverso invece è il caso in cui le tecniche si identificano, per così dire, con la teoria, come accade con il comportamentismo classico (dove l'obiettivo è solo l'eliminazione del sintomo con una particolare tecnica), ma il comportamentismo, come dicevo prima, è generalmente ritenuto superato. Riguardo comunque al problema delle tecniche, va detto che il discorso è più complesso, e che a ben vedere la dicotomia "tecniche" e "rapporto terapeutico" andrebbe rivista; ad esempio anche l'interpretazione (considerata qui come l'aspetto "tecnologico" del rapporto psicoanalitico) va attentamente analizzata nelle sue ripercussioni sulla globalità del rapporto col paziente, cioè nel modo con cui il paziente la vive e a sua volta la "reinterpreta" alla luce del transfert. Anche di questo ha parlato approfonditamente Gill, come ho cercato di spiegare nel mio articolo. Una ipotesi sociologica radicale Se è vero allora che i terapeuti che praticano la "psicoterapia" (intesa qui come "non psicoanalitica") rappresentano una esigua e trascurabile minoranza, perché mai - qualcuno si può chiedere - si continua ancora a parlare in molti ambienti della differenza tra psicoanalisi e psicoterapia, di diverse categorie di professionisti, di diversi setting, di diversi training, ecc.? Lasciate che proponga una ipotesi sociologica abbastanza radicale che può spiegare, almeno in parte, le difficoltà a fare chiarezza in questo campo. La psicoanalisi rappresenta anche un mercato con potenti motivazioni economiche, le quali (come compresero bene sia Marx che Freud) riescono a volte ad avere una notevole influenza sulla nostra stessa "coscienza", e anche sul nostro modo di teorizzare. La "helping profession" (è questa definizione di psicoterapia, in uso in America, a mio parere una delle più accettabili, quella che implica un aiuto dato professionalmente, cioè per mestiere, e non solo da amici o conoscenti vari, che pure possono fornire una "psicoterapia") risente della spinta interna per differenziare i servizi, stratificare la remunerazione delle prestazioni, e non sempre seguendo dei criteri di merito o efficienza, ma banalmente corporativi, cioè in difesa di una determinata categoria. Il marchio "psicoanalisi" può vendere, ora meno di prima in determinati paesi, ma è un prodotto tuttora acquistabile da un target di persone che soffrono. L'alta frequenza delle sedute e la lunga durata della terapia implicano guadagni molto alti per il singolo professionista. Il problema è quello di tenere i prezzi più alti possibili con la pratica del monopolio. Una prima operazione è stata quella di associare, con varie manovre di propaganda, questo marchio con certe associazioni psicoanalitiche rappresentative, mimando quello che fa lo stato con gli ordini professionali (questa è la stessa operazione tentata dallo stato italiano con la legge 56/1989 per il marchio "psicoterapia", limitandone l'esercizio dal 1994, dopo la sanatoria, solo a medici e psicologi dopo una scuola di quattro anni). Una seconda operazione è stata la selezione delle domande di ammissione a queste associazioni, cioè l'adozione virtuale del numero chiuso per gli "psicoanalisti" tramite per esempio un blocco delle nomine degli analisti didatti, ovvero una loro lentissima crescita. Una terza e molto potente operazione è stata quella accettare solo i medici ed escludere gli psicologi dal training, accampando varie motivazioni pseudoscientifiche (ma in realtà andando contro le stesse direttive di Freud che era favorevole all'analisi laica); colpisce come questa ideologia della psicoanalisi solo medica sia stata accettata per anni in modo passivo da molti psicologi in vari paesi. Come sappiamo (vedi le mie rubriche nei nn. 53 e 54 del Ruolo Terapeutico) finalmente una denuncia di alcuni psicologi americani sulla base della legge anti-trust ha messo fine alla cosa, perlomeno negli Stati Uniti. Sia chiaro però che nulla di sostanziale è cambiato, si tratta solo di un leggero spostamento di equilibri (in fondo, medici e psicologi possono benissimo continuare a mantenere alte le tariffe, basta che siano pochi rispetto agli eventuali clienti): ora entrambi medici e psicologi sono uniti contro altre categorie professionali, come ad esempio gli assistenti sociali, che in America sono un potente esercito di esperti psicoanalisti, ormai con tariffe che si avvicinano a quelle dei colleghi di più "alto rango" di cui rischiano di conquistare sempre più fette di mercato (gli assistenti sociali a Manhattan coi loro studi invadono già le strade un tempo territorio incontrastato degli analisti medici, come la Park Avenue, la tradizionale "via degli analisti"). Ma ecco quale può essere ora un altro modo, forse più subdolo, col quale viene tentata la stessa operazione: oggi forse il campo di battaglia di una certa propaganda ideologica è quello di dividere psicoanalisi da psicoterapia psicoanalitica, e di riuscire a convincere pazienti e terapeuti della legittimità di questa divisione. Del reale dibattito teorico è rimasto ben poco, si tratta solo di una questione di mercato: gli uni devono essere di serie A, gli altri di serie B; le tariffe devono essere diverse, come pure devono essere diversi i risultati terapeutici. Si badi bene che io non dico che non vi siano terapeuti meno esperti di altri e che questi non vadano differenziati, ma siamo sicuri che, anche per rendere chiari i termini di una sana competizione, sia questo il modo migliore per differenziarli? Nota: Il tema della differenza tra psicoanalisi e psicoterapia viene trattato anche nei seguenti lavori: 59/1992, 60/1992, 65/1994, 69/1995, 73/1996 (intervento), 78/1998, 78/1998 (intervento), 86/2001 (intervento). Per una trattazione approfondita dal punto di vista storico, vedi Migone P., Terapia psicoanalitica. Milano: Franco Angeli, 1995, cap. 4. Vedi inoltre l'editoriale del n. 4/2007 di Psicoterapia e Scienze Umane.
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