PSYCHOMEDIA
Telematic Review

Dalle Rubriche di Paolo Migone
"Problemi di Psicoterapia
Alla ricerca del 'vero meccanismo d'azione' della psicoterapia"
pubblicate sulla rivista

 

Il Ruolo Terapeutico, 1988, 49: 13-21

La identificazione proiettiva
 

Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane

 

La identificazione proiettiva è un concetto che negli ultimi anni è sempre più entrato nel linguaggio psicoanalitico. Negli Stati Uniti ad esempio da alcuni viene considerato un concetto "a ponte" tra la psicoanalisi classica e quella interpersonale, in quanto permette di tenere conto della importanza della interazione tra le persone nella genesi della psicopatologia, uscendo così da un'ottica puramente individuale o intrapsichica. Inoltre alcuni (come Ogden) sottolineano la sua pregnanza clinica, definendolo un concetto non tanto metapsicologico, quanto clinico, per il quale cioè si può evitare il ricorso a formulazioni metapsicologiche non da tutti accettate; come vedremo, questo è ancora ben lontano dall'essere vero.

Per semplicità, e per addentrarci subito in questo complesso argomento, affrontando eventualmente i singoli problemi mano a mano che essi si presentano, partirò dalla descrizione che ne fa Thomas Ogden [Projective Identification and Psychotherapeutic Technique. New York: Aronson, 1984; trad. it.: Identificazione proiettiva e tecnica psicoanalitica. Roma: Astrolabio, 1994], il quale è uno degli autori più noti tra coloro che hanno approfondito questo concetto. Forse è più utile procedere in questo modo, anche perché così sarà più chiaro a tutti di cosa stiamo parlando, soprattutto a coloro che non hanno familiarità con questo concetto o che hanno sempre trovato difficoltà a capire come esso si collochi teoricamente o come si manifesti clinicamente (come ad esempio si differenzi dalla proiezione, ecc.).

Ogden, che ha il pregio della chiarezza e della schematizzazione (se vogliamo, però, alle spese di un certo rigore concettuale), dice che per comodità il fenomeno della identificazione proiettiva si può dividere in tre fasi successive. Vediamo quali sono.

Prima fase: la proiezione

In questa prima fase vi sarebbe il desiderio inconscio di sbarazzarsi di una parte di sé e di metterla o proiettarla dentro a qualcun altro. Si tratterebbe quindi, fin qui, della proiezione in senso classico secondo Freud. Ma chi è colui che proietta? Può essere chiunque, una persona verso un'altra, la madre verso il bambino o viceversa, ecc.; tipicamente si parla del paziente che proietta verso il terapeuta, ma può essere benissimo che il terapeuta proietti verso il paziente (per comodità, mi riferirò più avanti al paziente come colui che proietta). E perché questa persona proietta? Classicamente, come anche fece notare la Klein quando per prima nel 1946 formulò questo concetto [Notes on some schizoid mechanisms. Int. J. Psychoanal., 1946, 27: 99-110; una versione del 1952 è stata tradotta negli Scritti, 1921-1950. Torino: Boringhieri, 1978, pp. 409-434], si parla di due motivi fondamentali: innanzitutto la persona sente il bisogno di proiettare una parte fuori di sé poiché teme che questa parte, essendo "cattiva", possa distruggere dal di dentro le altre parti "buone" del sé; ma il bisogno di proiettare una parte di sé può anche nascere da un motivo opposto, cioè può essere la parte buona ad essere proiettata, in quanto vi è il bisogno di proteggerla dagli attacchi aggressivi delle altre parti del sé che in questo caso quindi sarebbero cattive. Inutile dire che qui siamo in piena metapsicologia, nonostante le buone intenzioni di Ogden secondo le quali la identificazione proiettiva può restare un concetto solamente clinico. Ma per chiarire meglio questo passaggio, si può fare un esempio, non tanto del primo meccanismo di proiezione (quello secondo il quale si proietta una parte cattiva) che forse è il più chiaro e che evoca subito in molti di noi vari esempi clinici (proiezioni di sensi di colpa, invidia, angosce varie, idee depressive, ecc.), quanto del secondo meccanismo (quello secondo il quale si proietta una parte buona) che ad alcuni può sembrare ostico. L'esempio è quello del giovane psicotico o borderline che viene in terapia lamentandosi sempre di essere costretto a venire da parte dei genitori o del medico, e dicendo che lui non è matto, che matti saranno gli altri, che lui non ha bisogno di alcuna terapia, ecc. Però, stranamente, questo giovane continua a venire in terapia nonostante nessuno lo obblighi, essendo in regime volontario, o almeno non fa tutto quello che potrebbe fare per interrompere il trattamento, anzi, magari è anche molto puntuale alle sedute. Questa figura di paziente è nota a tutti noi, come pure è ormai un patrimonio comune a molti l'esperienza clinica che ci ha insegnato che sarebbe un grave errore interpretare o confrontare prematuramente questo paziente con le sue contraddizioni cognitive e comportamentali; sappiamo che in questi casi quello che dobbiamo fare, per non farlo scompensare del tutto, è accettare questo paradosso, lasciare che lui disprezzi noi e la terapia magari per lunghi mesi, poiché questo è il solo modo a lui disponibile per farla. Volendo usare il linguaggio caro a Kernberg, potremmo dire che il paziente, non riuscendo a "integrare le parti buone con quelle cattive", utilizza la scissione (splitting) come prevalente meccanismo di difesa, ed è costretto a buttare fuori, cioè a rinnegare, una delle due parti del sé per evitare un lacerante conflitto intrapsichico, per mantenere un minimo di equilibrio psichico e di coesione interna, anche se al prezzo di gravi menomazioni dell'esame di realtà e dell'impiego di ulteriori difese usate "a grappolo", quali soprattutto la negazione della realtà esterna, e varie altre difese primitive tra le quali, appunto, la identificazione proiettiva. Secondo questo concetto, si teorizza in questo caso che il paziente deve espellere questa parte buona del sé, quella appunto che lo fa ritenere bisognoso di aiuto e andare in terapia, quella che è insomma nella direzione del miglioramento e della maturazione, per farla contenere, almeno per un po' di tempo, dal terapeuta, affinché egli la protegga, la mantenga viva e salva dagli attacchi della parte cattiva del sé del paziente. A proposito della non utilità della interpretazione, come vedremo meglio descrivendo la terza fase della identificazione proiettiva, che è la fase più propriamente "terapeutica", viene teorizzato infatti che in molti casi non è tanto indicato che il terapeuta interpreti questo meccanismo, quanto che riesca a tenere dentro di sé, in un certo senso convivendoci, questa parte proiettata del paziente: è solo così che il paziente riesce a stare meglio, mentre l'interpretazione di fatto ha il significato di scarica aggressiva da parte del terapeuta, in cui viene ributtato addosso al paziente quello che lui faticosamente aveva cercato di proiettare fuori, insomma l'interpretazione potrebbe fungere da ulteriore identificazione proiettiva del terapeuta ai danni del paziente che in questo modo quindi viene confermato nella convinzione che è veramente pericoloso tenere dentro quella parte del sé. Ma non voglio anticipare le altre fasi, che vedremo più avanti.

Prima di concludere la descrizione della prima fase, rimane però un ultimo punto: come avviene concretamente la proiezione? O meglio, queste "parti del sé" proiettate come sono fatte concretamente? E ovvio che appare improbabile che si tratti di oggetti fisici, cioè di parti di cervello scagliate contro un altro o messe "dentro" la sua testa. Si dirà, come al solito, che sono metafore. Siccome però si usano certe metafore e non altre, bisogna capire perché gli analisti kleiniani hanno preferito parlare in questi termini, parlando cioè proprio di parti del sé o di oggetti proiettati dentro un altra persona, e non di stimolazione o evocazione di determinati sentimenti in un altro. Quello che è in questione è il termine "proiezione". Perché insomma si parla di proiezione e non per esempio di "evocazione" o "stimolazione"? Personalmente, dopo aver riflettuto su questo problema, mi sono dato questa risposta: nel primo caso, cioè nel caso della proiezione, si tratta di proiettare qualcosa dove questa cosa prima non c'era, mentre nel secondo caso, quando si parla di evocazione o stimolazione, si tratta di evocare qualcosa che prima c'era già, e che viene tuttalpiù aumentato o ingigantito. Ecco quindi che ci troviamo di fronte alle possibili derivazioni cliniche di due diversi paradigmi o modi di concepire la relazione in psicoanalisi: in un caso si ritiene che la persona che riceve la proiezione subisca l'influenza di qualcosa di veramente nuovo o di non precedentemente conosciuto (o forse conosceva quel tipo di sentimento ma non l'aveva mai provato con una simile intensità?), insomma, sarebbe come se dicessimo che quel sentimento "non è mio, ma di qualcun altro", oppure "appartiene al paziente, non a me"; nell'altro caso si concettualizza invece che quel sentimento che il terapeuta si trova addosso (angoscia, paura, ecc.) non è del paziente, o solo del paziente, ma è "controtransferale", cioè dovuto a una riattualizzazione di un conflitto passato del terapeuta, magari "non ben analizzato", e così via. Il problema in altre parole è quello di comprendere come mai in psicoanalisi si è sentito il bisogno da parte di molti analisti di modificare la terminologia, abbandonando quella classica basata sui concetti di transfert/controtransfert, e usare il termine identificazione proiettiva. Come è noto, nella concezione psicoanalitica classica il controtransfert viene visto in senso stretto come "transfert del terapeuta", cioè come una rievocazione, dovuta alla relazione col paziente, di sentimenti già vissuti dal terapeuta nel suo passato. E' una mia impressione che il termine identificazione proiettiva sia stato trovato da molti analisti più utile di quelli precedenti di transfert/controtransfert proprio per questo, perché rendeva bene l'idea dell'aspetto relazionale del problema, laddove l'incontro col paziente portava veramente qualcosa di nuovo al terapeuta, e non si trattava semplicemente di controtransfert. Non si dimentichi che il termine identificazione proiettiva, formulato per la prima volta dalla Klein nella terapia con bambini, ha poi preso piede soprattutto con gli psicotici, dove i sentimenti che i terapeuti erano costretti a vivere nel contatto quotidiano col paziente erano particolarmente violenti, angoscianti, primitivi, relativamente nuovi per loro, ed era difficile ascriverli sempre alla categoria del controtransfert: sempre più terapeuti insomma trovavano comodo, o rassicurante (secondo le opinioni), convincersi che il fatto che stavano così male "non era colpa loro, ma del paziente". Ciò permetteva uno sblocco di difficili situazioni di stallo terapeutico, in cui magari l'analista si sentiva colpevolizzato per quello che provava.

Per ora mi fermo in queste divagazioni, peraltro interessanti, e cerco di continuare nella scaletta che mi ero proposto all'inizio, cioè nella descrizione delle tre fasi della identificazione proiettiva secondo Ogden. Abbiamo visto la prima fase, quella della proiezione, e ora vediamo la seconda.

Seconda fase: la pressione interpersonale

Mentre, coma abbiamo visto, la prima fase in sé e per sé non ha niente di specifico e di diverso dalla proiezione intesa in senso classico, la seconda e terza fase caratterizzano la identificazione proiettiva in modo specifico. In particolare, la seconda fase è caratterizzata da una ben precisa "pressione interpersonale", di tipo quindi non solo psicologico ma anche comportamentale, attuata da colui che proietta su colui che riceve la proiezione, affinché quest'ultimo arrivi veramente a provare quel determinato sentimento che vuole essere proiettato. A questo proposito la Klein parlava di "controllo" da parte di chi proietta su colui che riceve la proiezione. Sembrerebbe quasi che colui che proietta volesse continuamente rassicurarsi che un determinato sentimento sia veramente depositato nell'altro, o che la identificazione proiettiva fosse un po' come una "proiezione mal riuscita". Non a caso Kernberg [Projection and projective identification: developmental and clincial aspects. J. Am. Psychoanal. Ass., 1987, 4: 795-819. Anche in Sandler J., editor, Projection, Identification, Projective Identification. Madison, CT: Int. Univ. Press, 1988. Trad. it.: Proiezione, identificazione, identificazione proiettiva. Torino: Bollati Boringhieri, 1988], in un modo un po' scolastico, sostiene che la proiezione, che è un meccanismo maturo, appartiene ai nevrotici, mentre la identificazione proiettiva, che è una difesa primitiva, appartiene ai borderline e agli psicotici (però a mio parere questa teorizzazione di Kernberg rischia di aprire più problemi di quanti ne risolva, come se nascesse dall'esigenza di far tornare i conti della teoria a tutti i costi. Infatti, se è vero che nei nevrotici i confini interpersonali sono più netti, nel senso che vi è una più chiara differenziazione tra il sé e l'oggetto, non si capisce come essi possano privilegiare la proiezione, dove sono completamente offuscati i confini dell'Io, e che non a caso secondo la teoria classica è presente negli psicotici. Forse qui l'errore è quello di voler continuare ad usare oggi, all'interno di un diverso contesto teorico, termini coniati quasi un secolo fa all'interno di una determinata concezione della psicoanalisi che attribuiva loro significati dipendenti da quel contesto. Ciò può dare la rassicurante idea che la teoria psicoanalitica abbia una identità e una continuità nel tempo, ma porta a confusioni).

Sostenere, come definizione, che la identificazione proiettiva è caratterizzata da una pressione interpersonale è una affermazione densa di implicazioni. Innanzitutto Ogden afferma che non si può parlare di identificazione proiettiva se le due persone non interagiscono concretamente tra di loro, cioè deve esistere un rapporto interpersonale, meglio se stretto, intimo o di dipendenza, come quello tra madre e bambino, tra paziente e terapeuta, ecc. (viene qui in mente, facendo una brevissima escursione in un altro territorio teorico, il concetto di doppio legame, dove anche là, sempre a livello di definizioni, si postulava che affinché si sviluppasse un doppio legame era necessario che il rapporto fosse stretto o di dipendenza, come quello del bambino con la madre, dal quale non è possibile sfuggire...). Le due persone insomma devono avere degli scambi comunicativi, comportamentali, altrimenti non può svilupparsi una identificazione proiettiva. Se le due persone non sono in contatto, allora si parla di semplice proiezione, che, secondo Ogden, è un processo puramente "intrapsichico". Se uno per esempio è convinto che il vicino di casa sia omosessuale (e supponiamo che questa, in senso freudiano classico, sia una difesa proiettiva tesa ad espellere un pensiero disturbante riguardante il sé), e il vicino di casa non sa niente di tutto ciò, è ovvio che egli non è minimamente toccato (a meno che non crediamo nella telepatia, ma su questo interessante argomento, che come vedremo può avere stretti legami col concetto di identificazione proiettiva, torneremo dopo). E se anche una volta il vicino sente dire che l'altro lo crede un omosessuale, egli può sorridere, scrollare le spalle, o dirsi che quello è un po' matto, e tutto può finire qui (a meno che il vicino, oggi felicemente sposato, non abbia un passato omosessuale da nascondere! - può osservare un analista che aderisce alla concezione classica di controtransfert). Se però i due interagiscono a lungo insieme, le cose possono essere molto diverse, specie se i due sono marito e moglie, madre e figlio, terapeuta e paziente, ecc. I sentimenti possono essere evocati (o proiettati, se vogliamo usare questo termine più suggestivo) con molta forza, e la vittima a volte può soccombere, e arrivare a dire "Ebbene, è vero, lo sono!". L'esempio può essere più convincente se consideriamo non tanto l'omosessualità (in realtà l'identità sessuale è molto più forte di quanto si pensi), ma altre qualità, come l'inferiorità, la vergogna, l'impotenza, la depressione, l'invidia, sensi di colpa vari, e così via, insomma gran parte delle cose che provano i nostri pazienti.

Mi sembra quindi che il concreto rapporto interpersonale, al quale Ogden dà molta importanza, sia un carattere definitorio debole, o che comunque non sia specifico di un preciso processo intrapsichico; casomai assume maggiore importanza l'aspetto della attiva pressione interpersonale, che è indicativa di un forte bisogno di proiettare. A questo proposito può avere più ragione Grotstein [Scissione e identificazione proiettiva (1981). Roma: Astrolabio, 1983, p. 133] il quale sostiene che non vi è una reale differenza tra proiezione e identificazione proiettiva: è ovvio che chi interagisce con un altro ed esercita una proiezione farà sempre trasparire nel suo comportamento il vissuto o l'aspettativa che l'altro sia conforme alla proiezione attuata, il che non può non avere ripercussioni sull'altro nell'indurlo a conformarsi ad un certo ruolo. La differenza tra proiezione e identificazione proiettiva casomai sarebbe solo quantitativa, nel senso che quest'ultima possiede molto di più il carattere della violenza, della intrusione, della inevitabilità, o, come dice lo stesso Ogden, quel carattere della minaccia quando aleggia un'atmosfera del tipo "altrimenti guai a te!" (or else!), che nasce da un disperato bisogno che l'altro sia depositario della proiezione, altrimenti ne va della sopravvivenza stessa di colui che proietta. Il riferimento diretto qui è a quelle madri gravemente disturbate e intrusive che nutrono cronicamente i loro figli con morbose identificazione proiettiva cariche della implicita minaccia che se loro non incarnano le paure e i vissuti (da loro stesse identificatoriamente proiettati) essi "cesseranno di esistere" per la loro madre, cioè diventeranno inutili, o ne sarà minacciata la sopravvivenza psichica, e quindi la madre, o loro, o entrambi, moriranno. Citando Ogden, è come se queste madri dicessero a questi bambini: "Io posso vedere in te solo quello che io ci metto dentro. Se non lo vedo, non vedo niente" (allo stesso modo un terapeuta può sentire la paura che ha il paziente di non esistere più se egli cessa di adeguarsi alla sua identificazione proiettiva). I bambini molto acutamente percepiscono questi bisogni della madre, e perfettamente si adeguano al ruolo richiestogli, incamminandosi nella carriera di futuri pazienti psichiatrici, e non tanto per amore verso la madre, quanto per pura sopravvivenza.

Non si dimentichi a questo proposito una cosa molto importante, e che dimenticavo di dire, e cioè che le identificazioni proiettive non sono di per sé sempre patogene, anzi spesso, cambiando contenuto e qualità, sono benigne, e costituiscono l'humus in cui cresce e matura l'io del bambino, il quale, secondo anche una prospettiva psicoanalitica classica, è appunto il "precipitato delle identificazioni". Anche gli adulti nel rapporto con gli altri respirano continuamente l'ossigeno delle identificazioni proiettive di coloro che stanno intorno (è Grotstein che fa molte considerazioni di questo tipo, rischiando però di allargare troppo il concetto, facendogli perdere specificità, arrivando per esempio anche a dire che la identificazione proiettiva è alla base della stessa empatia...). In sostanza, e per riassumere, mi sembra che il problema qui vada visto nei termini di intensità e qualità della relazione, del tipo di contenuti che vengono proiettati, e di fasi dello sviluppo più o meno vulnerabili o sensibili a determinate identificazioni.

La discussione dei vari aspetti critici che si presentano rendono questa esposizione un po' simile ad una corsa ad ostacoli, ma spero che il filo conduttore emerga ugualmente. Dopo aver superato questo ennesimo ostacolo, procediamo dunque nella descrizione della seconda fase, quella della "pressione interpersonale". L'aspetto della "pressione interpersonale" quindi, come dicevo, sottolinea l'aspetto relazionale, interpersonale, della identificazione proiettiva. Dobbiamo però fare attenzione al concetto di "pressione": esso appare molto clinico, o comportamentale, come se fosse necessario che il paziente facesse sempre una pressione comportamentale o verbale, quando invece essa può essere più sottile o subdola, o "psicologica", tale semplicemente da evocare un sentimento nell'altro. In questi casi cosa è allora questa pressione, di nuovo un concetto metapsicologico? Come si è visto prima a proposito della differenza tra identificazione proiettiva e proiezione, forse quindi sarebbe meglio dare enfasi non tanto alla pressione interpersonale (si può concettualizzare che questa può essere più o meno forte a seconda del bisogno patologico di colui che proietta), e neanche al fatto che due persone debbano interagire concretamente tra di loro (perché, come dice Grotstein, è scontato che ciò provochi degli effetti a livello relazionale, cioè nell'altro), quanto all'effetto che questa "pressione" provoca in colui che la riceve. Questo mi sembra l'aspetto più interessante. Come si diceva prima, colui che riceve la identificazione proiettiva si trova ad un certo punto ad avere un sentimento o un'idea che "non sono suoi, ma di qualcun altro, credendo però che siano proprio suoi". Questo è veramente l'aspetto più intrigante. Come si fa a sapere, in via teorica, che una cosa che proviamo noi non è nostra? Ad esempio un autore come Langs, il quale si è molto dedicato allo studio clinico del concetto di identificazione proiettiva, dice che vi sarebbe nel sé dell'analista una "interfaccia me/non me" (me/not me interface), nel senso che bisogna sempre fare attenzione a distinguere, tra i sentimenti che proviamo, quello che è nostro da quello che è del paziente [su Langs, vedi la mia rubrica sul n. 45/1987 del Ruolo Terapeutico]. Sembrerebbe quindi che una regola sempre da ricordare in psicoterapia dovrebbe essere "mai fidarci dei propri sentimenti", perché essi potrebbero essere semplicemente un artefatto, una mimica o una replica di quelli patologici del paziente. E, se riflettiamo, questa cosa la conosciamo bene, poiché una delle caratteristiche della nostra personalità quando funzioniamo come terapeuti è proprio quella di essere non impulsivi o troppo "emotivi", di non scaricare subito sul paziente le nostre emozioni, ma di essere riflessivi, calmi, di dilazionare decisioni o impressioni affrettate. Mi accorgo che sto accennando a concetti che saranno più appropriatamente discussi nella terza fase, ma è veramente difficile separare le tre fasi, in quanto, come dice lo stesso Ogden, la identificazione proiettiva è un unico processo artificiosamente diviso in fasi.

Dicevo dunque che il terapeuta può trovarsi a vivere dei sentimenti che lui crede suoi, ma che in realtà non lo sono, essendo invece del paziente, il quale esercita una potente identificazione proiettiva che prende letteralmente il potere sulla mente di questo terapeuta, ormai vittima dell'interazione. Questa immagine è inquietante, ed evoca fantasie di possessioni demoniache. Ma è proprio così: prima si è parlato tanto dell'uso delle metafore e della difficoltà ad usare un linguaggio non metapsicologico, ed ora risulta che la parola "possessione" è quella che forse rende meglio l'idea di questo affascinante processo interpersonale. Il fatto che oggi a volte si trovino poco chiari alcuni concetti psicoanalitici e si preferisca ritornare ad usare dei termini appartenenti alla tradizione presecientifica e dei secoli bui della magia la dice lunga sul destino di certa metapsicologia psicoanalitica.

La identificazione proiettiva sarebbe quindi un fenomeno di possessione all'interno di un rapporto interpersonale più o meno stretto. Sembrerebbe una riedizione del concetto junghiano di "infezione psichica", o un fenomeno tipo folie à deux. Due colleghi di Bologna (Bolko e Merini), che hanno approfondito negli anni scorsi anche il concetto di identificazione proiettiva, hanno fatto recentemente uno studio sul problema della parapsicologia (tema già da anni dibattuto da molti psicoanalisti a livello internazionale, e in Italia da Servadio e altri) e hanno avanzato, come una delle possibilità esplicative, l'interessante ipotesi che la identificazione proiettiva sia il meccanismo alla base di molti casi di "trasmissione del pensiero". Merini [Il pensiero del paziente schizofrenico alla luce del controtransfert. In Migone P., Martini G. & Volterra V., a cura di, New trends in Schizophrenia, S. Maria a Vico (Caserta): Fondazione Centro Praxis, 1988, Vol. II, pp. 93-101] in un recente convegno ha raccontato una esperienza personale di terapia con un paziente psicotico grave durante la quale si è sentito invaso da sentimenti persecutori, o come se si dovesse difendere dalla "iella" o dal "malocchio" proveniente da lui; contemporaneamente, altri membri dell'équipe che trattavano quello stesso paziente avevano segnalato disagi molto simili e alcuni disturbi psicosomatici. Io stesso ricordo che una volta con una paziente, la quale a causa di una potente identificazione proiettiva da parte di un amico depresso e invidioso era inibita a fare una certa cosa a cui peraltro teneva molto (sarebbe troppo lungo qui esporre il caso in dettaglio), ho trovato molto utile fare il seguente intervento: "Quell'amico le ha fatto una fattura, è come se lei avesse il malocchio, è per questo che lei non può fare questa cosa". La paziente, che tra l'altro faceva anch'essa il nostro mestiere e conosceva bene il concetto di identificazione proiettiva, e alla quale avevo già cercato di interpretare quella sua inibizione usando appunto il concetto di identificazione proiettiva senza ottenere un gran risultato, dopo questo mio intervento si sbloccò completamente e nei giorni seguenti riuscì a portare a termine quel compito, con la sensazione che era stato proprio quel mio commento sulla "fattura" e sul "malocchio" a sbloccarla; da notare che non era affatto superstiziosa. Tra le altre cose, mi disse poco dopo il mio intervento: "E' proprio vero, ora ricordo meglio che l'ultima volta che vidi quel mio amico mi disse, colmo di rabbia verso di me: 'Ti auguro proprio allora che tu non riesca a fare quel lavoro!'. Rimasi molto scossa, ed ebbi la netta sensazione che se fossi riuscita a fare bene quel lavoro avrei fatto del male a lui, ciò mi disturbava perché gli ero affezionata".

Terza fase: la reinternalizzazione

La terza fase è la più misteriosa di tutte, la più affascinante, e quella che apre i più grossi interrogativi sul reale meccanismo della cura in psicoterapia. Questa ultima fase infatti, che è facoltativa in quanto può non essere presente, riguarda l'aspetto terapeutico, cioè è quella che dà la possibilità al terapeuta di agire in senso curativo oppure di far rimanere il paziente (e il terapeuta stesso) fermo alla seconda fase, senza alcun mutamento. In un certo senso quindi la terza fase non riguarda tanto la identificazione proiettiva in senso stretto, quanto il contributo del terapeuta teso a intervenire su di essa in senso curativo. Ma vediamo, prima di discuterla criticamente, come essa viene concettualizzata.

La terza fase viene detta della reinternalizzazione in quanto in essa la parte dapprima proiettata nel terapeuta verrebbe ora reinternalizzata dal paziente. Ciò implica essenzialmente che il paziente non abbia più bisogno di proiettarla fuori, e quindi che egli è "guarito" o che comunque qualcosa è cambiato: o la parte prima proiettata è meno pericolosa di prima, o viene vissuta come meno pericolosa, o il sé del paziente è ora più forte e tale da poterla tener dentro, per così dire assumendosene la responsabilità, oppure tutte queste cose insieme (nel caso in cui la parte proiettata era una parte buona, deve essersi modificato qualcosa nel sé del paziente che ora è capace di tenerla dentro). I nodi teorici che avevamo discusso prima qui ora si ripresentano: cosa si intende per "parte proiettata"? Si può rispondere che è una metafora di una fantasia inconscia, di un sentimento qualunque, ecc. Ma allora perché non parliamo semplicemente di una stato soggettivo evocato nell'altro? Ho ripreso questa osservazione, già fatta prima, perché adesso il problema si ripresenta. Infatti si teorizza che questa fantasia disturbante proiettata, questa "patata bollente", o "palla di fuoco", che nessuno prima voleva, ora scotta meno, e può essere ripresa, segnatamente dal paziente. Ma è questo il punto: il paziente se la riprende solo dopo che ha visto che il terapeuta è stato capace di tenerla. Si parla del fenomeno nei termini seguenti: il terapeuta riceve addosso questa parte proiettata, la fa propria per un po', contenendola, "digerendola" o "metabolizzandola", per poi restituirla al paziente, trasformata e pronta per la reinternalizzazione. La metafora spesso fatta è quella del cibo masticato dalla madre per un po', che trasforma il bolo alimentare con la propria saliva e coi propri denti, e poi restituito al piccolo che così lo può digerire meglio. Fin qui le metafore, ma vediamo ora in quali altri modi possiamo vedere o descrivere questo fenomeno.

Evidentemente, se è vero che un paziente non ha più bisogno di proiettare sul terapeuta qualcosa, o di attribuire ad altri cose sue, qualcosa deve pur essere successo, e deve essere successo a livello dell'interazione, perché si postula che è l'intervento del terapeuta quello che può far prendere al processo una direzione piuttosto che un'altra. Ma che cosa esattamente deve fare il terapeuta per favorire la reinternalizzazione da parte del paziente? Si dice che il terapeuta deve "sentire" questo sentimento, guardarlo, contenerlo, conviverci per un po', eventualmente parlarne col paziente, insomma non trattarlo anche lui come una patata bollente riproiettandolo fuori (eventualmente sul paziente stesso), negandolo, mascherandolo, spostandolo, ecc. Se il terapeuta tratta la parte proiettata esattamente come l'ha trattata il paziente, cioè riproiettandola fuori, il paziente viene riconfermato sulla sua convinzione che quella parte deve essere estromessa, o che lui non può tenerla (tutto accadrebbe in modo inconscio, ovviamente). Il terapeuta insomma deve agire in modo diverso dal paziente. Ma come è possibile, se questa parte proiettata è, supponiamo, veramente pericolosa, orribile, angosciante, ecc.? E' possibile in quanto il terapeuta è in ogni caso una persona diversa dal paziente, e quindi per forza reagirà all'esperienza di entrare in contatto con quella parte in modo un po' diverso. Quindi (e il che sembra un po' paradossale) anche se in un dato momento il terapeuta vive se stesso a contatto con la parte proiettata proprio come si vive il paziente, contemporaneamente (anzi, in un momento successivo) egli fa un'esperienza diversa, perché la parte proiettata, una volta inserita nella più vasta personalità del terapeuta, genera un diverso insieme di sentimenti che nel paziente non erano stati generati (un terapeuta ad esempio può anche arrivare a gioire di un determinato sentimento, o far dell'ironia su di esso). Sono questi nuovi sentimenti quelli che il paziente vede, coi quali entra in contatto, e nei quali può identificarsi "internalizzandoli". Quindi potremmo dire più propriamente che non è la patata bollente che viene reinternalizzata (magari dopo che è stata raffreddata un po'), ma vengono internalizzate le capacità del terapeuta di raffreddare, gestire, trattare, quella patata bollente. Il fulcro del processo terapeutico consisterebbe nel lavoro, a volte lungo e faticoso, da parte del terapeuta a contenere, "macinare" questi sentimenti generati in lui, fino a che egli non riesce a starci un po' meglio, a conviverci, ad avere una "relazione felice" con essi. Ciò può implicare un lavoro da parte del terapeuta per individuare capacità (skills), strategie adattive, cognitive ed emotive, tutte cose preziose per il paziente privo di tali abilità. Per questo motivo ogni terapia è diversa da un'altra, poiché ogni terapeuta è diverso da un altro, e il paziente imparerà le personali strategie adattive che il suo terapeuta è stato capace di mettere in atto. Forse è anche questo processo quello a cui ci si riferisce quando si parla di "arte" della psicoanalisi.

Ecco quindi che questo aspetto misterioso che la fase della "reinternalizzazione" sembrava avere, una volta che la si è scomposta ed analizzata nelle sue componenti, e spogliata dei lati più metapsicologici, appare ridimensionato. L'aspetto centrale della terapia sarebbe dunque l'apprendimento, da parte del paziente, di determinate strategie (affettive, cognitive, ecc.) che il terapeuta mette in atto per far fronte agli stati emotivi che egli vive nell'interazione con lui. Tutto ciò ricorda molto da vicino la teoria della cura formulata da alcuni autori di S. Francisco, Weiss & Sampson, che dirigono il San Francisco Psychotherapy Research Group [The Mount Zion Psychotherapy Research Group, The Psychoanalytic Process: Theory, Clinical Observation, and Empirical Research. New York: Guilford, 1986. Trad. it. del primo capitolo: Introduzione al lavoro del "San Francisco Psychotherapy Research Group". Psicoterapia e Scienze Umane, 1993, XXVII, 2: 47-65; Joseph Weiss (1993), Come funziona la psicoterapia. Torino: Bollati Boringhieri, 1999; Joseph Weiss & Harold Sampson, Convinzioni patogene. La scuola psicoanalitica di San Francisco. Urbino: Edizioni Quattroventi, 1999; Anna Rotondo, a cura di, Joseph Weiss a Milano, in Quaderni di Psicologia Analisi Transazionale e Scienze Umane, 2000; vedi anche il saggio-recensione su Psicoterapia e Scienze Umane, 1993, XXVII, 2: 123-129; sulla scuola di Weiss & Sampson, vedi le mie rubriche n. 62/1993 e 68/1995 del Ruolo Terapeutico], ancora non molto conosciuti in Italia ma abbastanza noti in America, i quali, in sintesi, hanno teorizzato che la psicoterapia psicoanalitica consisterebbe semplicemente nel "sottoporre a test" inconsciamente il terapeuta da parte del paziente nel transfert, cosicché quest'ultimo può più volte verificare se le difese da lui usate sono appropriate, se sarà di nuovo traumatizzato dal terapeuta come lo fu dai genitori, ecc.; se la risposta del terapeuta ai tests è diversa da quella dei genitori, il paziente potrà disconfermare credenze patologiche o irrazionali, cioè non più realistiche ma "transferali", imparare nuove modalità adattive identificandosi col terapeuta, ecc. (anche la teoria di Bowlby, secondo la quale il paziente in terapia utilizza il terapeuta come una base sicura [secure base] per ripercorre determinate fasi dello sviluppo, ricorda questa formulazione). Weiss & Sampson avrebbero fatto uno sforzo per formulare una vera e propria "teoria clinica", priva di elementi metapsicologici: ad esempio la forza motivazionale del paziente non sarebbe tanto la scarica pulsionale o la coazione a ripetere, quanto un desiderio di crescita, che lo spingerebbe a creare e sperimentare delle situazioni di test, e così via.

Oltre alla scuola di Weiss & Sampson, voglio fare anche un altro breve riferimento, quello al fattore della "Emotività Espressa" nei familiari degli schizofrenici, individuato da vari autori [ad esempio si veda Leff J. & Vaughn C., Expressed Emotion in Families: Its Significance for Mental Illness. New York: Guilford, 1985] come avente un ruolo importante nel far precipitare le ricadute della malattia. La tecnica terapeutica individuata come efficace in questi casi, definita "psicoeducazionale", consisterebbe proprio nell'insegnare ai familiari ad abbassare la propria emotività espressa nei confronti del paziente, cioè potremmo dire nell'attutire le proprie emozioni, nell'interrompere quel circolo vizioso di identificazioni proiettive che spesso si instaura quando si interagisce con la schizofrenico; si può dire che ai familiari venga insegnato a non scaricare addosso nuovamente al parente schizofrenico quello che egli aveva proiettato su di loro.

Dopo queste divagazioni, che hanno illustrato possibili meccanismi terapeutici della identificazione proiettiva con riferimenti ad altri modelli teorici, torno a parlare della terza fase sottolineando un aspetto che è centrale, collegato a quanto già detto. Molti autori che hanno approfondito lo studio della identificazione proiettiva, e che hanno acquisito molta esperienza nel lavoro con pazienti gravi, hanno sottolineato come in effetti il fattore curativo è permettere al paziente questa (re)internalizzazione attraverso l'interazione terapeutica in modo praticamente silente, cioè col vissuto, e non tramite la interpretazione. Questa infatti, come si diceva prima, viene percepita spesso e volentieri dal paziente come una "scarica" addosso a lui di quello che egli faticosamente chiedeva al terapeuta di contenere. La intellettualizzazione (attraverso l'interpretazione verbale) verrebbe usata dal terapeuta come difesa per negare il vissuto, cioè per non subire o sentire quel determinato sentimento che il paziente ha bisogno di far provare al terapeuta. Langs con felice intuizione clinica ha chiamato queste interpretazioni dumping interpretations, cioè "interpretazioni-scarica", laddove il vero significato latente trasmesso al paziente è il seguente: "Questo è un problema tuo, non mio". Il terapeuta, interpretando la identificazione proiettiva, ributta addosso al paziente la parte proiettata, trasmettendo il messaggio inconscio che anche lui, come il paziente, ne ha paura, confermandogli la necessità che questo sentimento venga proiettato. Del resto, è risaputo a tutti noi quanto il silenzio in certi casi sia più utile della parola, quando ad esempio cerchiamo di negare la nostra ansietà con delle interpretazioni o delle razionalizzazioni.

Si potrà obiettare che non è l'interpretazione in se stessa che possiede questa qualità che abbiamo chiamato di "scarica", quanto il modo con cui essa viene fatta, il contesto in cui nasce, ecc. Anche se questa obiezione è giusta, la cosa interessante che mi sembra emergere dall'analisi della teoria di questa terza fase della identificazione proiettiva è che di fatto viene assegnato un ruolo molto più importante, come fattore curativo, all'identificazione (qui chiamata reinternalizzazione) che all'interpretazione; in altre parole, nella misura in cui questi autori deenfatizzano il ruolo dell'interpretazione, anzi la considerano non solo inutile ma anche pericolosa in certe fasi della terapia, essi attribuiscono un ruolo determinante al vissuto emozionale, agli aspetti identificatori, o se vogliamo, alla qualità di "esperienza emozionale correttiva" dell'interazione terapeutica.

Un esempio clinico

Un buon modo per comprendere meglio la identificazione proiettiva è quello di mostrare un esempio clinico. Quello che esporrò qui, che ho tratto da Ogden [cit., pp. 18-20; originariamente pubblicato sull'Int. J. Psychoanal., 1979, 60: 357-373], l'ho scelto in quanto mostra abbastanza chiaramente tutte e tre le fasi prima descritte. Più che alle ipotesi psicodinamiche sulla vita del paziente, si presti attenzione all'interazione terapeutica, e a come l'analista riesce a uscire da una pesante fase di stallo.

Il Sig. K era in analisi da circa un anno, e sia al paziente che all'analista la terapia sembrava stagnare. Il paziente si chiedeva ripetutamente se dall'analisi "ci guadagnava qualcosa", diceva "forse è una perdita di tempo, mi sembra inutile", e così via. Aveva sempre pagato le fatture controvoglia, ma ora aveva incominciato a pagarle sempre più in ritardo, fino al punto che l'analista incominciò a chiedersi se il paziente avrebbe potuto interrompere il trattamento lasciando scoperte le fatture di un mese o due. Inoltre, mentre le sedute si trascinavano, l'analista pensava a quei colleghi che facevano sedute di 45 minuti anziché di 50 chiedendo le stesse tariffe che chiedeva lui. Una volta, proprio prima dell'inizio di una seduta, l'analista pensò di accorciare l'ora facendo aspettare il paziente un paio di minuti prima di farlo entrare nello studio. Tutto questo inizialmente accadde senza che nessuno vi prestasse attenzione, né il paziente né l'analista. Gradualmente, l'analista si trovò ad avere difficoltà a finire le sedute in orario a causa di un intenso senso di colpa per il fatto che gli sembrava di non dare al paziente "il valore di quello che lui pagava".

Quando questa difficoltà con gli orari si ripeteva già da alcuni mesi, l'analista gradualmente incominciò a comprendere il suo problema nel mantenere le regole di base del setting: si era sentito avido per il fatto che si aspettava di essere pagato per il suo "inutile" lavoro. Questo sentimento di avidità era talmente forte che se ne vergognava al punto che era stato spinto a difendersene con l'essere eccessivamente generoso con il suo tempo. Con questa comprensione dei sentimenti che erano stati generati in lui dal paziente, l'analista fu capace di guardare ora in modo nuovo al materiale clinico.

Il padre del Sig. K aveva abbandonato lui e la madre quando egli aveva 15 mesi. Senza mai dirlo esplicitamente, la madre aveva dato la colpa di ciò al paziente. Il sentimento implicitamente trasmesso era che l'avidità del paziente per il tempo, l'energia e l'affetto della madre aveva provocato l'abbandono del padre. Di conseguenza il paziente sviluppò un intenso bisogno di sconfessare e negare i sentimenti di avidità. Egli non poteva dire all'analista di desiderare di incontrarlo più frequentemente perché percepiva questo desiderio come avidità la quale avrebbe provocato l'abbandono da parte del padre (transferale) e l'attacco da parte della madre (transferale) che lui vedeva nell'analista. Invece, il paziente insisteva nel considerare l'analista e l'analisi come totalmente indesiderabili e inutili. L'interazione aveva sottilmente generato nell'analista un intenso sentimento di avidità, che veniva percepito come così inaccettabile che all'inizio anch'egli cercò di negarlo e sconfessarlo.

Per l'analista, il primo passo nell'integrare il sentimento di avidità fu quello di percepire se stesso mentre provava il senso di colpa e si difendeva dal sentimento di avidità. Poi poté mobilizzare quell'aspetto di se stesso che era interessato alla comprensione dei suoi sentimenti di avidità e di colpa, piuttosto che cercare di negarli, mascherarli, spostarli o proiettarli. Una parte essenziale di questo lavoro psicologico fu la sensazione dell'analista che egli poteva avere sentimenti di avidità e di colpa senza per questo esserne danneggiato. Non erano i sentimenti di avidità dell'analista che interferivano col suo lavoro terapeutico, ma il bisogno di sconfessare tali sentimenti rinnegandoli e mettendoli in una attività difensiva. Più l'analista diventava consapevole di questo aspetto di se stesso e del paziente, ed era capace di convivere con esso, più diventava capace di far fronte alle regole temporali e finanziarie della terapia. Riuscì infine a non sentire più il bisogno di nascondere il fatto che era contento di ricevere denaro in cambio del suo lavoro.

Dopo un po' di tempo il paziente, mentre porgeva un assegno (questa volta con puntualità), commentò che l'analista sembrava felice di ricevere "quel bel grasso assegno", e che ciò "non si addiceva molto ad uno psichiatra". L'analista sorrise un po', e disse che in effetti faceva piacere ricevere denaro. Durante questa interazione, l'accettazione da parte dell'analista dei suoi sentimenti di fame, avidità e ingordigia, assieme alla sua capacità di integrarli con altri sentimenti di salutare interesse personale e merito, furono resi disponibili per l'internalizzazione da parte del paziente. L'analista a questo scopo scelse di non interpretare al paziente la paura della propria avidità. Invece, la terapia consistette nel digerire la proiezione e nel renderla disponibile per la reinternalizzazione attraverso l'interazione terapeutica.

Come si vede, questo esempio clinico di Ogden illustra, anche se schematicamente, tutte e tre le fasi. In un primo periodo (prima e seconda fase), durato vari mesi, il terapeuta è incastrato, inconsapevole vittima di una identificazione proiettiva del paziente, si sente inutile, avido di denaro per il fatto che vuole essere pagato per questo "inutile" servizio; secondariamente, in colpa per tutto ciò, cerca di tamponare questo senso di colpa regalando qualche minuto in più alla fine della seduta. Siamo in uno stallo, e il paziente, di fronte al goffo comportamento del terapeuta (il quale, come si suol dire, entra in una "controidentificazione proiettiva"), vede così riconfermata la sua patologia, cioè la paura e la vergogna ad ammettere di essere una persona terribilmente colpevole per essere così avida di affetto. Il terapeuta sblocca la situazione dapprima provando a pensare che quello che lui si sente addosso potrebbe anche essere una proiezione del paziente (e già questo probabilmente lo solleva dai sensi di colpa); poi fa un lavoro psicologico di accettazione di questi sentimenti, integrandoli con altri aspetti della sua personalità, e mostrando al paziente che si può anche provare avidità, e parlarne, e non per questo esserne sopraffatti, o andare incontro alle temute conseguenze (abbandono da parte di figure care, ecc.). E' interessante infine notare come il terapeuta ritenga opportuno non usare lo strumento dell'interpretazione, ma semplicemente interagire col paziente mostrando di accettare questi sentimenti proiettati.

 

Considerazioni conclusive

Le intuizioni e le esperienze cliniche che fanno capo al concetto di identificazione proiettiva rappresentano un bagaglio di conoscenze di estremo interesse, e contemporaneamente sollevano importanti interrogativi sul percorso psicoanalitico classico alla ricerca del "vero meccanismo d'azione" della psicoterapia. Come si è visto, uno degli aspetti più interessanti è la rivalutazione della "esperienza emozionale" come fattopre curativo.

Per la verità, singole intuizioni riguardo ad aspetti di questo fenomeno clinico erano già state fatte da vari autori anche di area non kleiniana, tra i quali si possono citare i seguenti: innanzitutto Anna Freud [L'io e i meccanismi di difesa, 1936. Firenze: Martinelli, 1967] col concetto di "identificazione con l'aggressore", Martin Wangh [The "evocation of a proxy": a psychological maneuver, its use as a defense, its purposes and genesis. Psychoanal. Study Child, 1962, 17: 451-472] con quella molto interessante di "evocazione di una procura" (evocation of a proxy), Warren Brodey [On the dynamics of narcissism: I. Externalization and early ego development. Psychoanal. Study Child, 1965, 20: 165-193] con la nozione di "esternalizzazione", e Joseph Sandler [Countertransference and role responsiveness. Int. Rev. Psychoanal., 1976, 3: 43-47; trad. it.: Controtransfert e risonanza di ruolo. In: C. Alberella & M. Donadio, a cura di, Il controtransfert. Napoli: Liguori, 1986, pp. 189-197] con il concetto di "messa in atto di un ruolo" (role actualization) e "risonanza di ruolo" (role responsiveness).

L'osservazione critica che mi preme fare in queste considerazioni conclusive è, in un certo senso, di ordine filosofico. A parte i problemi che si incontrano nel teorizzare che alcuni sentimenti che proviamo possono "non essere nostri", e nel distinguere questi con quelli che invece ci appartengono, mi sembra che una radicalizzazione delle implicazioni insite in un approccio coerentemente relazionale rischi di condurci a una negazione del soggetto, o per lo meno a una difficoltà a costruire una teoria della fondazione del soggetto. Se quello che noi proviamo è potenzialmente una espressione dell'altro, chi siamo noi, e come vengono generati i nostri vissuti? Questa problematica è molto evidente a livello clinico, dove vediamo che una costante utilizzazione del concetto di identificazione proiettiva può portare a negare i reali contributi del terapeuta, riducendo la complessità della interazione, in altre parole portando a un uso difensivo di questo concetto da parte dell'analista. Come non è "sempre" vero che i vissuti del paziente sono transferalmente determinati dal suo passato, così non è "sempre" vero che i nostri vissuti sono proiettati dentro di noi dal paziente. Ma allora, di nuovo, come si fa a distinguere i momenti in cui siamo vittime di una identificazione proiettiva da quelli in cui non lo siamo? Anzi: secondo una prospettiva relazionale è lecito affermare che vi sono momenti in cui siamo soggetti all'influenza dell'altro e momenti in cui non lo siamo affatto?

Note:
    Questo lavoro è l'estratto di una Conferenza tenuta il 25-6-88 all'"incontro d'estate" de Il Ruolo Terapeutico. Questo materiale in parte è stato discusso anche al Primo Corso Sperimentale per Educatori Professionali della USL 9 di Reggio Emilia e in vari altri gruppi di formazione.
    Per una versione ampliata e aggiornata di questo lavoro, vedi Migone P., Terapia psicoanalitica. Milano: Franco Angeli, 1995, cap. 7. Vedi anche: Migone P., Expressed Emotion and Projective Identification: A bridge between psychiatric and psychoanalytic concepts? Contemporary Psychonalysis, 1995, 31, 4: 617-640.
 
Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane
Via Palestro 14, 43100 Parma, tel./fax 0521-960595, E-Mail <migone@unipr.it>

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