Il Ruolo Terapeutico, 1990, 55: 30-34
Paolo Migone
La diagnosi di personalità borderline è ormai diventata di uso comune. Utilizzata alcuni decenni fa solo da una minoranza di ricercatori, oggi viene trovata congeniale per descrivere una vasta gamma di pazienti, tanto che si può discutere quanto ciò dipenda da una modificazione della nosologia o dell'epidemiologia psichiatriche. L'interesse di questa diagnosi sta anche nel fatto che essa, collocandosi nella "terra di nessuno" tra le nevrosi e le psicosi, è stata occasione di scontro, tutt'altro che concluso, per discipline per altri versi lontane, come la psichiatria e la psicoanalisi. Anzi, il confronto clinico e teorico attorno al disturbo borderline ha permesso a schiere di operatori di comunicare tra di loro forse per la prima volta: esistendo purtroppo storicamente una sfortunata "divisione del lavoro" tra gli psicoterapeuti e gli psichiatri (a noi la parola, a voi le medicine; a noi i nevrotici, a voi gli psicotici; e così via), questi strani pazienti che non rispondevano bene né alle psicoterapie né agli psicofarmaci, e che rifuggivano da facili etichette diagnostiche riuscendo spesso a confondere il clinico, hanno sempre di più spinto coraggiosi esploratori a inoltrarsi in questo territorio, appunto ai "bordi" della propria disciplina, dove sono stati bene o male costretti a "confrontare le proprie armi con quelle del nemico". Non solo, ma l'applicazione dello stesso modello per quadri clinici diversi ha permesso (è questo il caso soprattutto della psicoanalisi) di vederne meglio i limiti, di modificare la teoria tradizionale data precedentemente per scontata. Il disturbo borderline si può infatti considerare secondo alcuni il secondo grande paradigma teorico della psicoanalisi, che sembra aver quasi rimpiazzato il primo, quello dell'isteria. Si tratta di cambiamenti complessi, tuttora in corso, e di un campo ancora pieno di incertezze. Sarà questo interessante tema quello che voglio affrontare brevemente in queste pagine. In questo numero del Ruolo Terapeutico intendo presentare sinteticamente solo gli aspetti storici e diagnostici del concetto di borderline, mentre rimando alla rubrica del numero successivo (56/1991) la trattazione della sua psicodinamica e degli aspetti psicoterapeutici. Partirò da una prospettiva storica, ripercorrendo l'evoluzione del concetto di borderline fin dalle origini, e sottolineando le vicissitudini della ricerca psichiatrica, oltre che psicoanalitica, in modo tale da avere una visione più complessiva che ci aiuterà poi a comprendere meglio i problemi clinici che la teoria psicoanalitica ha dovuto affrontare e le modificazioni alle quali è andata incontro. Per economia di spazio, non verrà pubblicata qui per esteso la bibliografia, ma solo tra parentesi gli anni di pubblicazione dei singoli lavori: per i riferimenti completi rimando il lettore ad altri contributi [Gnosis, 1989, 6: 39-50; "Disturbo borderline", in Cassano G.B. & Pancheri P., editors, Trattato Italiano di Psichiatria, Milano, Masson, 1992 (I ed.), 1999 (II ed.), cap. 61; "Il disturbo borderline: secondo paradigma teorico della psicoanalisi", in: Gian Giacomo Rovera, a cura di, Carattere e cambiamento in psicoterapia. Torino: Centro Scientifico Editore, 1992, pp. 47-63 (Atti del XXIV Congresso Nazionale della Società Italiana di Psicoterapia Medica, Lecce, 12-14 ottobre 1990); vedi inoltre la bibliografia alla fine del mio libro Terapia psicoanalitica (Milano: Franco Angeli, 1995) dove nel cap. 8 tratto il disturbo borderline] [qui una bibliografia verrà messa alla fine della rubrica successiva, quella del n. 56/1991, intitolata "Psicodinamica del disturbo borderline"]. Farò riferimento in particolare alla ricostruzione storica che ne ha fatto Michael Stone (1980, 1985, 1986a, 1986b), uno dei principali studiosi in questo campo, mentre nella discussione della psicodinamica presenterò prevalentemente le posizioni di Otto Kernberg (1967, 1975, 1976, 1980, 1984), che con più chiarezza di altri ha proposto una modificazione della teoria psicoanalitica tradizionale. Evoluzione storica Nel periodo prepsicoanalitico, circa un secolo fa, l'interesse dei primi alienisti era rivolto principalmente alle due psicosi maggiori (la schizofrenia, allora chiamata demenza precoce, e la psicosi maniaco-depressiva). Mano a mano però che si andava diffondendo la pratica ambulatoriale, che vedeva ad esempio gli ipnotisti guadagnare una certa popolarità, i clinici incominciarono ad osservare delle forme di comportamento anormale che si potevano situare "a metà strada" tra la normalità e la follia: è proprio a questo periodo quello che si può datare la nascita del concetto di borderline. Tra i primi autori che si avvicinarono ad esso si possono ricordare Hughes (1884) e poi Rosse (1890), il quale parlò esplicitamente di borderline insanity per definire coloro che oscillavano alternativamente tra la ragione e la follia. In seguito i neuropsichiatri incominciarono a notare sempre di più delle forme morbose che si differenziavano dalle psicosi classiche o che sembravano delle forme attenuate di esse. Anche se Kraepelin e Bleuler non usarono mai il termine borderline, il primo parlò di "temperamenti" (depressivo, maniacale, irritabile, e ciclotimico), e il secondo riconobbe che non tutti i pazienti affetti da demenza precoce (che lui ridefinì col termine di schizofrenia) deterioravano così come credeva Kraepelin, ma che mostravano in realtà dei decorsi attenuati e senza deterioramento. Molti di questi pazienti probabilmente erano quelli che dovevano poi essere chiamati borderline, e si faceva strada il concetto che esistevano delle forme morbose che erano appunto al bordo delle psicosi. Con l'entrata in scena della psicoanalisi, il dibattito attorno al quadro clinico che più tardi doveva essere definito borderline si spostò, e incominciò a riferirsi prevalentemente alla analizzabilità o meno dei pazienti, ovvero alla loro capacità di sviluppare un transfert. Come è noto, Freud (1915) originariamente distinse le "nevrosi di transfert" dalle "nevrosi narcisistiche", laddove le prime (isteria e nevrosi ossessiva) erano trattabili col metodo psicoanalitico, mentre le seconde (paranoia e schizofrenia) erano refrattarie, poiché i pazienti secondo lui erano incapaci di sviluppare un transfert sull'analista. Ma presto vari psicoanalisti si resero conto che vi erano molte forme collocabili in un'area intermedia tra le nevrosi e le psicosi, sia nel senso che vi erano delle forme apparentemente nevrotiche ma difficili da trattare, sia nel senso che vi erano dei casi vicini alla psicosi (se non addirittura manifestamente psicotici) che attiravano sempre di più l'interesse di certi analisti nello sperimentare il metodo psicoanalitico, allargando così i confini della psicoanalisi come terapia. Ad esempio già nei primi anni del secolo Maeder (1910) e Bjerre (1912) riportarono coraggiosi tentativi di trattare paranoici e schizofrenici col metodo psicoanalitico; la parola borderline non veniva quasi mai usata, e nei rari casi in cui si usava (vedi ad esempio Moore, 1921) essa si riferiva a forme al bordo delle psicosi, a volte della psicosi maniaco-depressiva. Anche nei tardi anni 1930, quando il termine borderline divenne finalmente familiare (ma solo nella cultura della psichiatria nordamericana, che com'è noto era fortemente influenzata dalla psicoanalisi), esso si riferiva a pazienti scarsamente analizzabili in quanto situati tra le nevrosi e le psicosi. Generalmente in questo periodo la psicosi maggiore al cui bordo si riteneva potesse collocarsi il disturbo borderline era la schizofrenia, più che la psicosi maniaco-depressiva, come era alluso molto esplicitamente dai termini di volta in volta usati. Queste ad esempio sono alcune delle definizioni che si riferiscono più o meno direttamente all'area borderline, elencate cronologicamente secondo l'anno in cui ogni singolo autore le ha coniate: "nevrosi borderline" (Clark, 1919), "paratassie in certi stati mentali borderline" (Moore, 1921), "carattere impulsivo" (W. Reich, 1925), "schizofrenia incipiente" (Glover, 1932), "schizofrenia atipica" o "schizoafettiva" (Kasanin, 1933), "schizofrenia ambulatoriale" (Zilboorg, 1941), "personalità come se" (H. Deutsch, 1942), "psicosi latente" (Federn, 1947), "schizofrenia pseudonevrotica" (Hoch & Polatin, 1949), "schizofrenia latente" (Bychowsky, 1953), "carattere psicotico" (Frosch, 1954, 1960), "schizofrenia attenuata" (Ekstein, 1955), "isteroidi" (Easser & Lesser, 1965), "psicosi atipica" (Mitsuda, 1965), "schizofrenia borderline" (Kety et al., 1968), "disforia isteroide" (D. Klein & Davis, 1969; D. Klein, 1977), "psicosi borderline" (Aarkrog, 1973), "pazienti indiagnosticabili" (Welner et al., 1973), "disturbo subaffettivo" (Akiskal, 1981), e così via. L'uso del termine borderline, che divenne comune verso circa la metà del secolo, veniva usato in genere per connotare due significati diversi: 1) disturbi non manifestamente psicotici e a prima vista analizzabili, ma in seguito trovati refrattari alla psicoanalisi; 2) disturbi in un qualche modo collegati con la schizofrenia. La semplice definizione di "borderline", senza altra specificazione, fu usata da vari autori, tra i quali si possono ricordare i seguenti: Oberndorf, 1930; A. Stern, 1938; Schmideberg, 1947; Knight, 1953; Kernberg, 1967; Grinker et al. 1968; Mahler, 1971; Gunderson & Singer, 1975; Spitzer et al., 1979; e così via. Tra questa ultima schiera di ricercatori vanno segnalati tre pionieri che diedero importanti contributi nel diffondere il termine borderline e nel definirne le caratteristiche: essi furono, nell'ordine cronologico dei loro principali studi, A. Stern (1938), Knight (1953), e Grinker et al. (1968). Adolph Stern (1938), con notevole intuizione clinica, descrisse i borderline come persone ipersensibili, "narcisistiche" (nel senso di idealizzare e svalutare alternativamente il terapeuta), con spiccato senso di inferiorità, propense ad usare meccanismi proiettivi (a volte fin quasi a raggiungere spunti deliranti), ecc. Circa 15 anni dopo Robert Knight (1953) invece sottolineò come questi pazienti nascondessero, dietro un apparente funzionamento tipicamente nevrotico, una "regressione" e una severa debolezza dell'Io; anche se era incline a vederli come all'ombra della schizofrenia, Knight però li concepì come una entità nosografica abbastanza autonoma, inaugurando così una tendenza un questo settore che dura fino ai nostri giorni. Infine, negli anni 1960 Roy Grinker Sr. et al. (1968) in una importante ricerca fecero un ulteriore passo nel sistematizzare la diagnosi di disturbo borderline come entità autonoma. I loro criteri diagnostici, basati prevalentemente su comportamenti osservabili, erano i seguenti: ipersensibilità alle critiche, paura e inadeguatezza nei confronti dei rapporti intimi, disturbi dell'identità, bassa autostima, tendenza alla depressione, difese primitive (negazione e proiezione), sospettosità, presenza di rabbia come emozione prevalente, ecc. L'analisi fattoriale dei loro dati suggerì 4 sottotipi: 1) al bordo della psicosi, con lacune nell'esame di realtà e comportamento inappropriato; 2) borderline veri e propri o "nucleari", con identità diffusa, acting out aggressivi, ecc.; 3) personalità "come se", prive di affettività, apparentemente adattate ma poco genuine o spontanee; 4) al bordo della nevrosi, con depressioni anaclitiche e tratti narcisistici. Siamo così arrivati alla fine degli anni 1960 e ai primi anni 1970. In questo periodo incominciano ad uscire i primi contributi di Kernberg (1967), un autore molto influente che dovrà poi diventare un punto di riferimento non solo per la psicoanalisi ma anche per vasti settori della psichiatria accademica. Anche se essi sono essenzialmente di tipo psicoanalitico, si distinguono per la loro chiarezza e sintesi di filoni diversi di pensiero. Otto Kernberg (1975, 1976, 1980, 1984) infatti si ispira a varie fonti, integrando la tradizione psicoanalitica nordamericana della Psicologia dell'Io con quella inglese legata alla teoria kleiniana e alla scuola delle relazioni oggettuali, nonché derivando concetti da Frosch (1954, 1960), Hoch & Polatin (1949), H. Deutsch (1942), Erikson (1950, 1956, 1959), ecc. La concezione di Kernberg (che verrà meglio illustrata nella mia rubrica del prossimo numero del Ruolo Terapeutico, dedicata alla psicodinamica di questo disturbo) prevede una "organizzazione borderline di personalità", che si colloca tra le nevrosi e le psicosi, che non è però da intendersi come un preciso quadro sintomatologico, ma come una modalità di funzionamento essenzialmente intrapsichica, specifica e stabile nel tempo. Egli prevede tre "criteri diagnostici", di tipo non descrittivo ma psicodinamico, che sono i seguenti: 1) presenza di diffusione di identità, 2) esame di realtà conservato, e 3) meccanismi di difesa primitivi (negazione, scissione, identificazione proiettiva, onnipotenza, svalutazione, idealizzazione primitiva, ecc.). Inoltre considera anche altri criteri meno specifici, non essenziali per fare diagnosi, quali bassa tollerabilità dell'ansia, basso controllo dell'impulsività, limitate capacità sublimatorie, ecc. I tre principali criteri diagnostici (identità, esame di realtà, difese) servono anche per definire le strutture nevrotiche e psicotiche: rispettivamente, nelle nevrosi vi sarebbero identità integrata, presenza di esame di realtà, e difese mature (rimozione, formazione reattiva, isolamento, razionalizzazione, intellettualizzazione, ecc.), mentre nelle psicosi identità diffusa, assenza di esame di realtà, e difese primitive. E' prevista anche una "intervista strutturale" per fare diagnosi (Kernberg, 1981; 1984, cap. 2), basata su un colloquio in cui si osserva l'interazione del paziente con l'intervistatore nel transfert [vedi il numero monografico 4/1983 di Psicoterapia e Scienze Umane, dedicato al problema della diagnosi; inoltre vedi il videotape tratto del corso intensivo di tre giorni "La personalità e i disturbi di personalità" condotto da John F. Clarkin (collaboaratore di Kernberg) organizzato dall'Università di Parma il 14-15-16 aprile 1997; per la tecnica di Kernberg, vedi anche le rubriche dei numeri 81/1999 e 82/1999 del Ruolo Terapeutico, e le pp. 31-39 del recente manuale Psicoterapia delle personalità borderline di Clarkin, Yeomans & Kernberg (1999) pubblicate su Internet al sito http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/clarki99.htm]. Il modello di Kernberg presenta senza dubbio dei vantaggi, quali quello di essere abbastanza preciso se paragonato ad altri approcci psicoanalitici, e di avere una certa utilità nel rapporto psicoterapeutico permettendo di osservare l'evoluzione della struttura psichica nel tempo. Presenta però anche degli svantaggi, quali quello di richiedere un notevole livello di inferenza, rendendolo molto meno attendibile dei sistemi puramente descrittivi, e soprattutto non va dimenticato che la organizzazione borderline di personalità di Kernberg è comune non solo al disturbo di personalità borderline del DSM-III, ma naturalmente anche a tutti gli altri disturbi di personalità e ad ancora altri disturbi del DSM-III, occupando appunto la vasta area nosografica tra le nevrosi e le psicosi. Il lavoro invece iniziato da Grinker e dal suo gruppo, teso a delimitare i bordi del disturbo borderline in senso più strettamente fenomenologico-descrittivo, fu continuato idealmente da John Gunderson, il quale, pur dotato anche di una formazione psicoanalitica, produsse una ricerca descrittiva che tutt'ora viene considerata un importante punto di riferimento e che influì notevolmente negli sviluppi futuri delle ricerche e nella produzione poi anche del DSM-III. Gunderson & Singer (1975) perfezionarono il lavoro di Grinker et al. (1968) nel senso che usarono lo stesso approccio descrittivo, e in più furmularono una "Intervista Diagnostica per i Borderline" (Diagnostic Interview for Borderlines: DIB) volta a mettere in luce i suoi criteri diagnostici. Questi sono sei: 1) basso rendimento lavorativo; 2) impulsività (abuso di sostanze, promiscuità, ecc.); 3) gesti suicidiari di tipo manipolatorio; 4) brevi o lievi episodi psicotici; 5) buon livello di socializzazione, anche se costituito da un superficiale adattamento che nasconde un disturbo dell'identità e identificazioni rapide e fluttuanti con gli altri; 6) disturbo nei rapporti intimi, manifestato da due tipi di comportamenti: a) tendenza alla depressione in presenza della persona amata, e tendenza alla rabbia, ai gesti suicidiari o a reazioni psicotiche se la persona amata minaccia la separazione o se si rimane soli, e b) prevalenza in generale della rabbia piuttosto che del calore emotivo. Si può dare un punteggio da 0 a 2 nelle cinque principali categorie di sintomi (i criteri 2 e 3 sono uniti in una sola categoria ai fini del punteggio), e si deve raggiungere un punteggio uguale o superiore a 7 per fare diagnosi; inoltre bisogna escludere un abuso grave e cronico di sostanze, e una diagnosi di personalità antisociale. Il sistema di Gunderson, se paragonato a quello di Kernberg, ha dei vantaggi, poiché richiede meno inferenze, essendo quindi utilizzabile anche da operatori privi di training psicoanalitico, ed è anche molto più attendibile. Il fatto di essere più ristretto però lo rende meno adatto a diagnosticare tutta quella gamma di pazienti che tradizionalmente venivano considerati come borderline: se infatti si calcola che circa 1/10 della popolazione rientrerebbe nella diagnosi strutturale di Kernberg, solo 1/3 di questi sarebbero diagnosticati borderline secondo i criteri di Gunderson (M. Stone, 1985). Sono così arrivato, in questo breve excursus storico sul concetto di borderline, al DSM-III (American Psychiatric Association, 1980; per alcuni problemi metodologici della diagnosi secondo il DSM-III, vedi la mia rubrica del n. 70/1995 del Ruolo Terapeutico), cioè a quella che forse è la più importante tappa nella storia della nosografia psichiatrica dei disturbi borderline così come dei disturbi mentali in generale. Spitzer e la sua Task Force per costruire il DSM-III fecero un notevole sforzo per offrire ai clinici una diagnosi di borderline che fosse nel contempo precisa, attendibile, valida, e utilizzabile da operatori di tutte le tendenze. Per procedere in questa direzione essi compirono una serie di operazioni. Innanzitutto, come è noto, essi decisero di inserirla all'interno dei disturbi di personalità, cioè nell'asse II del DSM-III. Poi, per cercare di non rompere con una certa tradizione storica che concepiva i disturbi borderline come vicini alla schizofrenia se non addirittura come forme attenuate di essa, essi (Spitzer et al., 1979) iniziarono col raccogliere un insieme di criteri diagnostici che comprendessero sia le caratteristiche cosiddette "schizotipiche" (cioè vicine alla schizofrenia), che i borderline in senso stretto (derivandoli dai criteri di Kernberg e di Gunderson). Ne risultarono un insieme di criteri diagnostici che si riferivano a queste due diverse concezioni del termine borderline: da questi Spitzer isolò due diverse diagnosi, costituite da otto criteri diagnostici ciascuna, e chiamò la prima "borderline schizotipica" (vicina alla schizofrenia), e la seconda "borderline instabile" (i tipici pazienti arrabbiati, impulsivi e depressi descritti da Kernberg e Gunderson). La prima perse la connotazione di "borderline" e nel DSM-III diventò la personalità "schizotipica" (nel DSM-III-R del 1987 a questa fu aggiunto un nono criterio diagnostico), mentre la seconda perse la connotazione di "instabile" e divenne tout court la personalità "borderline" del DSM-III. Come si è detto, i suoi otto criteri diagnostici furono derivati sostanzialmente dai criteri di Kernberg e di Gunderson, e precisamente in questo modo: 1) rapporti interpersonali instabili e intensi (Gunderson), 2) impulsività (sia Kernberg che Gunderson), 3) instabilità dell'umore (Gunderson), 4) rabbia intensa e inappropriata (Gunderson), 5) comportamenti fisicamente autolesivi (Gunderson), 6) disturbo di identità (Kernberg), 7) cronici sentimenti di vuoto e di noia (descritti da Kernberg in molti dei suoi scritti sui borderline, anche se non esplicitamente nei suoi criteri diagnostici), 8) difficoltà a tollerare la solitudine (Gunderson). Il DSM-III-R lasciò invariati questi otto criteri diagnostici, cinque dei quali devono essere presenti per fare diagnosi. Voglio qui ricordarli brevemente in quanto potranno esserci utili come quadro clinico di riferimento nella discussione teorica che farò nel prossimo numero del Ruolo Terapeutico: 1) relazioni interpersonali intense e instabili caratterizzate da alternanti idealizzazioni e svalutazioni; 2) impulsività in almeno due aree potenzialmente pericolose a sé, quali sesso, droghe, piccoli furti, guida pericolosa, ecc.; 3) instabilità dell'umore, caratterizzata da rapidi viraggi verso la depressione, l'irritabilità, o l'ansia, che durano ore o pochi giorni; 4) rabbia intensa e inappropriata; 5) periodici comportamenti suicidiari o autolesivi; 6) marcato disturbo dell'identità in almeno due aree tra le seguenti: immagine di sé, sesso, carriera, scelta di amici, valori; 7) cronici sentimenti di vuoto e noia; 8) frenetici sforzi per evitare la solitudine o l'abbandono. Quindi il tipico quadro clinico dei borderline che emerge dal DSM-III e dal DSM-III-R è quello di un paziente arrabbiato, depresso e impulsivo, il quale, per la sua instabilità dell'umore, può essere considerato non più tanto imparentato con la schizofrenia, quanto forse maggiormente con la psicosi maniaco-depressiva. Le caratteristiche più tipicamente considerate vicine alla schizofrenia (isolamento sociale, sospettosità, idee di riferimento, inappropriatezza, ecc.) vengono infatti assegnate alla diagnosi di personalità schizotipica. Per ulteriori dettagli sull'evoluzione del concetto di borderline, si vedano anche le preziose monografie di Mack (1975), Perry & Klerman (1978), M. Stone (1980, 1986a), Millon (1981), e, in italiano, Lingiardi & Madeddu (1990), Maffei (1993), Paris (1993, 1996), Cotugno & Benedetto (1995), ecc.
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